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Quei giochi di guerra in Centrafrica tra Russia, Cina e Francia (con Trump alla finestra) – seconda parte

Segue dalla Prima parte

Orkhan Dzhemal, Alexander Rastorguyev e Kirill Radchenko, i tre giornalisti russi uccisi in Repubblica Centrafricana a fine luglio, stavano dunque indagando su molte cose che riguardavano in generale la presenza del loro paese nell’area. Ma si può ben dire che, tra tutte queste cose, c’è come un filo conduttore che le ricollega in prima battuta al gruppo armato Wagner, in seconda al magnate oligarca Yevgeny Prigozhin, vicinissimo a Putin, forse attualmente il più vicino a Putin di tutti gli oligarchi del Cremlino. Ma chi è esattamente Prigozhin, e cos’è esattamente il gruppo Wagner?

Prigozhin è un uomo dal passato con molte ombre. È stato detenuto in carcere, dove ha scontato una condanna per appropriazione indebita e per sfruttamento della prostituzione. Doveva quindi vantare discrete aderenze nell’ambito criminale già prima della sua condanna, ma pare che grazie alle conoscenze fatte in carcere sia letteralmente decollata la sua carriera imprenditoriale, tanto che, una volta fuori, comincia subito la sua attività nel settore della ristorazione, alla ricerca degli appalti più ricchi per servizi di catering.

Anche se ormai ha clamorosamente differenziato la sua rete di affari, Prigozhin è rimasto legatissimo al suo primo ramo di impresa: recentemente la sua Concord si è aggiudicata l’appalto per la fornitura di tutti i servizi mensa dell’esercito russo, un affare del valore di 1,6 miliardi di dollari.

Col tempo Prigozhin è entrato anche nel settore della comunicazione e dell’informazione. È proprietario di canali televisivi, e recentemente, con l’inclusione del suo nome in testa alla lista dei tredici cittadini russi indagati per il Russiagate, è venuto fuori il suo ruolo di eminenza grigia della propaganda, della manipolazione della pubblica opinione e del consenso, di quella che, in altri tempi, i russi avrebbero chiamato con fastidio “disinformazione”, attribuendola all’occidente – e che, naturalmente, l’occidente avrebbe con altrettanta facilità attribuito alla Russia -. A Prighozin fa capo l’Internet Research Agency, e faceva capo la Factory troll utilizzata per influenzare le ultime elezioni presidenziali nordamericane, e per inondare il web di commenti favorevoli a Putin.

Opo esser diventato lo stratega della comunicazione del Cremlino i suoi interessi si sono ulteriormente allargati al settore minerario, e, in stretta connessione, alla politica estera di Mosca. E se si hanno interessi nello sfruttamento di risorse, soprattutto all’estero, ed in Paesi assai instabili politicamente, si è inevitabilmente interessati ad avere un braccio armato che li difende.

Qui è verosimilmente intervenuto il gruppo Wagner, conosciuto a partire dalla crisi in Ucraina del 2014. Il gruppo è stato formato da Dmitry Utkin, un ufficiale dell’esercito russo, che fino al 2013 faceva parte dell’agenzia militare per l’intelligence estera, il GRU, in pratica il controspionaggio russo. Si compone soprattutto di veterani ultranazionalisti dell’esercito russo, oltre che di mercenari reclutati in tutto il mondo. Il nome Wagner sembra sia proprio ispirato dal compositore Richard Wagner, preso quale emblema dell’adesione a idee nazionaliste.

l Russian business outlet 2017, una sorta di annuario di tutti gli imprenditori e uomini d’affari russi, registra Utkin come direttore generale della Concord. Utkin è stato fotografato più volte mentre entrava al Cremlino, ed ha ricevuto un premio al valor militare nel 2016, sebbene la versione ufficiale di Putin sulla Wagner sia che essa non esista.

Nell’ottobre 2015 si è avuta per la prima volta notizia di cittadini russi morti combattendo in Siria, a fianco delle forze governative. Inizialmente la Wagner – che vanterebbe circa 3.000 effettivi in Siria – sembrava coinvolta solo nel controllo e nella sicurezza di installazioni russe, ma poi ha avuto un ruolo determinante nella riconquista di Palmira. Più oltre si è saputo che la compagnia petrolifera di stato siriana ha offerto ai combattenti della Wagner una percentuale sui profitti delle raffinerie liberate dall’Isis. Recentemente addirittura l’ambasciatore siriano a Mosca ha ammesso che è stato stipulato con Euro Polis un contratto che prevede la concessione del 25% dei profitti. A chi fa capo Euro Polis? A Yevgeny Prigozhin, manco a dirlo.

È in questo contesto, dunque, che il 7 febbraio di quest’anno si è verificato un episodio molto grave a Deir al Zour, in Siria, dove l’esercito Usa, affiancato da milizie curdo-arabe, e l’esercito siriano, affiancato dall’esercito regolare russo e dagli irregolari della Wagner, stanno conducendo operazioni separate contro l’Isis. Uomini della Wagner hanno improvvisamente attaccato la Conoco, un impianto di estrazione di gas americano in zona. I soldati Usa hanno richiesto la copertura dell’aviazione, e i miliziani della Wagner – che sembra fossero assolutamente fuori dal controllo dell’esercito russo -, nel corso di una battaglia durata più di quattro ore, sono stati letteralmente decimati. Si parla di circa duecento morti, approssimati probabilmente per difetto, non si sa quanti siriani e quanti russi. È stato senz’altro il più grave episodio che abbia coinvolto russi e americani dai tempi della guerra fredda.

Yuri Barmin, uno studioso militare americano di politica estera russa ha suggerito l’idea che anche i miliziani russi possano aver richiesto copertura aerea a Deir al Zour, e che questa sia stata negata per un preciso calcolo politico contro Prigozhin del ministro della difesa Sergej Shoigu. Ora, è senz’altro possibile in uno scenario siffatto che, dietro l’apparenza monolitica del sistema di potere di Putin, covino chissà quali rancori e gelosie tra oligarchi, ma è francamente difficile immaginare che Putin avrebbe mai potuto permettere ad un incidente già increscioso di diventare qualcosa di gigantesco e incontrollabile.

Ci sono già state armate di “contractors” salite agli onori della cronaca in Russia, per il loro coinvolgimento nei teatri di guerra, come il Moran Security Group o come gli Slavonic Corps. Ma molti componenti degli Slavonic Corps sono stati arrestati al loro rientro in patria, per esempio. Il fatto è che, a tutt’oggi, simili compagnie di ventura sono illegali per la legge russa in primis. Al contempo però simili eserciti irregolari offrono il vantaggio di poter negare qualsiasi coinvolgimento, nel caso di fatti imbarazzanti come quelli di Deir al Zour, e di evitare il danno di immagine che ha l’esercito ogni qual volta deve pagare un prezzo troppo alto in vite umane. Questo può spiegare l’atteggiamento di Putin nei confronti del gruppo Wagner.

Dzhemal, Rastorguyev e Radchenko non sono stati i soli giornalisti che si erano occupati della Wagner, a morire in circostanze sospette. Ad aprile 2018, a Yekaterinberg, è morto, apparentemente suicida dal suo appartamento al quinto piano, Taksim Borodin, un giornalista che aveva scritto sui fatti di Deir al Zour, era stato ad Asbest, città da cui proveniva la maggior parte delle vittime, a seguire i funerali dei miliziani, si era occupato del gruppo Wagner per tutto febbraio e marzo.

Pare che, attorno e dentro al palazzo in cui viveva, si siano svolte, per le ventiquattro ore precedenti la morte, inusuali esercitazioni militari, e che il giornalista avesse telefonato ad amici, dicendosi spaventato. Ma la porta del suo appartamento è stata trovata chiusa dall’interno, e questo ha chiuso l’indagine. Suicidio.

Per quello che riguarda la Repubblica Centrafricana invece, probabilmente qualcuno si sta preoccupando che Prigozhin – e dietro di lui il gruppo Wagner, suo braccio armato – possa aver concluso con il governo africano un affare altrettanto vantaggioso che quello in Siria. In ogni caso ciò che appare veramente emblematico di tutta questa faccenda, e del coinvolgimento di una figura come quella di Prigozhin, per come si è venuta sin qui delineando, è la privatizzazione di funzioni che una volta erano rigorosamente prerogativa di uno stato centrale. Prigozhin gestisce in pratica la politica estera, o almeno una parte considerevole di essa, i dispositivi di sicurezza militare che ruotano attorno alcuni interessi strategici per la politica estera russa, gestisce praticamente in toto la propaganda del Cremlino. È come se, oltre a tutti quelli sin qui elencati, si fosse aggiudicato l’appalto per una gran fetta dei servizi d’intelligence. E non è detto che qualcuno non possa pensare che il modello debba essere esportato anche in occidente.

Prosegue nella Terza parte

Il viaggio di Scatola magica Lab dal Novecento a oggi

Dammi del tu, il Novecento è alle porte è il nuovo lavoro di Scatola Magica lab in scena il 15 settembre al Nuovo teatro di San Paolo a Roma. Lo spettacolo nasce dal laboratorio teatrale per non professionisti. «Tengo questo laboratorio da circa 8 anni e effettivamente a questo punto ha raggiunto un livello molto alto in cui la qualità artistica è, secondo me, interessante», racconta l’attrice e regista Valetina Gristina che ne è l’ideatrice e curatrice.
«I saggi finali di questo lavoro laboratoriale sono frutto dell’alchimia di varie professionalità. In questo caso il testo è stato scritto da Giacomo Sette, un autore molto bravo e dalla sensibilità speciale, sulla base di un percorso di ricerca, di improvvisazione e anche in un certo senso autoriale, fatto dagli attori stessi in sala durante tutto l’anno», approfondisce la regista. Questo lavoro è confluito in uno spettacolo diviso in due capitoli con un forte sfondo storico-sociale. C’è una riflessione sulla rivoluzione francese ispirata a Le nozze di Figaro di Beaumarchais. E poi l’avvento del Novecento con attenzione al fenomeno migratorio da sud a nord e alle battaglie per i diritti delle donne. Il secondo capitolo è ispirato liberamente alla novella “Primavera” di Verga.  A fare da filo rosso «è la condizione umana di speranza e aspettative per un futuro ancora sconosciuto nel momento in cui si chiude un’epoca e comincia una nuova fase. E al centro di tutto l’essere umano e i rapporti fra gli esseri umani come unica certezza per un futuro possibile» sottolinea Valentina Gristina, che ha svolto il lavoro insieme Marcela Szurkalo insegnante per il tango e a Rita Abela per il canto.
«La cosa che mi appassiona del lavoro che facciamo alla Scatola Magica – dice Gristina – è che è diventata una piccola officina artistica, in cui collaborano professionisti e allievi che negli anni sono cresciuti insieme. Con gli allievi si porta avanti uno studio che non mira all’intrattenimento di persone che lo fanno per hobby, ma a una ricerca vera e propria di un linguaggio teatrale non convenzionale. Una ricerca sulla parola e, tanto, sul corpo e sul rapporto con la musica. E questa ricerca genera magicamente un grande entusiasmo e una grande passione che secondo me coniuga l’aspetto formativo con la funzione sociale che un’attività di questo genere può avere. In un’epoca in cui il teatro sta attraversando una grossissima crisi, i teatri soffrono di una grave emorragia di pubblico e l’educazione scolastica al teatro è pressocchè nulla, secondo me è sempre più importante fare conoscere e appassionare chi non l’ha scelto per professione. Si crea un circolo virtuoso di educazione al teatro, a farlo ma anche a vederlo e a scoprirne la bellezza e la necessità come forma d’arte di condivisione e riflessione sull’essere umano e sulle sue dinamiche».
D’altro lato chiarisce la regista «mentre gli attori professionisti ormai sempre più sfiancati da condizioni di lavoro inaccettabili, cedono sempre più spesso a frustrazione e demotivazione, la passione e l’entusiasmo di chi si avvicina in questo modo rende ancora vivo e pieno di vitalità lo straordinario contenitore di emozioni che è il teatro».
Accanto a al laboratorio adulti la Scatola Magica Lab, che da poco ha una sua sede, lancerà una serie di laboratori di teatro, circo e discipline artistiche rivolte ai bambini con l’obiettivo, utopistico ma al tempo stesso molto concreto e molto molto appassionato, di promuovere nel nostro piccolo l’educazione alla creatività e all’espressione artistica fin dall’infanzia.

L’appuntamento è per il 15 settembre alle  alle 21,15 e domenica 16 alle 17,30. Per prenotazioni : [email protected]

Pericolo fascismo di ritorno? Decidete voi

Il 22 giugno del 1995 Umberto Eco scrive un articolo per la “New York Review of Books”. Nel suo saggio spiega che il fascismo (che lui chiama Ur-Fascismo) non è morto nel ‘45 ma al contrario, la sua visione del mondo (e la sua psicologia, come pensava Adorno) precedono la forma storica assunta nel ventennio e sono (malauguratamente) più longeve della dittatura mussoliniana. Quell’articolo diventa un libro edito nel 1997, ripubblicato qualche mese fa da La Nave di Teseo con il titolo “Il Fascismo Eterno”.
Secondo Eco esistono segnali inequivocabili che dimostrerebbero la persistenza (la persistenza mica il ritorno) dell’ideologia fascista. Vale la pena rileggerli, con calma e con fermezza.
C’è il culto della tradizione. La convinzione che la verità sia una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. E quando qualcuno fa notare che quei messaggi siano incompatibili tra loro rispondono che è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva. Come conseguenza, per i nuovi fascisti non ci può essere avanzamento del sapere. L’illuminismo, l’eta’ della Ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna.
C’è il culto per l’azione. Che oggi chiameremmo il mito del fare. L’azione è bella di per sé, e dunque deve essere attuata prima di e senza una qualunque riflessione. Pensare è una forma di evirazione. Spiega Eco che il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali erano principalmente impegnati nell’accusare la cultura moderna e l’intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali.
L’odio per la critica e la diversità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. L’Ur-Fascismo è dunque razzista per definizione.
L’utilizzo della frustrazione individuale e sociale. Una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storicità, spiega Eco, è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo, diceva Eco nel 1995, in cui i vecchi “proletari” stanno diventando piccola borghesia, il fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio.
Il nazionalismo come privilegio e i complotti internazionali. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso Paese. gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia.
La lotta ai deboli. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”.
Il populismo. Per l’Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo” è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la “volontà comune”. Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete.
Ognuno tragga le sue conclusioni.

Buon venerdì.

La Bestia di Salvini

Che sia stato lui o che sia merito del suo social manager Luca Morisi poco importa: il ministro dell’inferno Matteo Salvini ci ha messo poco a capire che la democrazia italiana si basa sulla popolarità come unico metro di giudizio e ha messo in campo tutte le armi che servono per raggiungerla il prima possibile.

Il meccanismo a ben vedere non è nemmeno così complesso: si sale alla ribalta nazionale con qualche filotto di sparate che ti rendano riconoscibile (non dimentichiamolo, Salvini divenne famoso a livello nazionale per avere proposto da consigliere comunale a Milano di istituire delle carrozze della metropolitana riservate agli extracomunitari, fu quello il momento in cui l’Italia scoprì Salvini), si sgomita nel proprio partito invocando il cambiamento (o la rottamazione, eh sì), si individua un nemico facile facile da offrire in pasto alla propria comunità per potersi cementare (prima erano i terroni, oggi sono gli extracomunitari, domani sarà l’Europa ma il giochetto è sempre lo stesso), si dipinge la propria crescita elettorale come inarrestabile e tendente alla maggioranza assoluta (anche questa l’avete già sentita, lo so, lo so), si detta l’agenda dei media trovando almeno una provocazione al giorno, si racconta di avere tutti i poteri forti contro risultando un salvatore e infine ci si preoccupa di governare la percezione fingendo di governare il Paese.

Dalla sua Salvini ha una caratteristica in più: ha capito che i social, usati con furbizia, diventano notizia, ancora di più in un Paese in cui i giornali troppo spesso si limitano a essere il megafono di tutto ciò che si è già letto in rete nel giorno prima.

Sulla gestione dei social ha raccontato benissimo la strategia salviniana Alessandro Orlowski, uno dei più influenti hacker italiani che da anni studia campagne virali in rete: «La Lega ha lavorato molto bene – dice in una sua intervista a Rolling stone – durante l’ultima campagna elettorale. Ha creato un sistema che controlla le reti social di Salvini e analizza quali sono i post e i tweet che ottengono i migliori risultati, e che tipo di persone hanno interagito. In questo modo possono modificare la loro strategia attraverso la propaganda. Un esempio: pubblicano un post su Facebook in cui si parla di immigrazione, e il maggior numero di commenti è “i migranti ci tolgono il lavoro”? Il successivo post rafforzerà questa paura. I dirigenti leghisti hanno chiamato questo software La Bestia».

In realtà non c’è nessuna comunicazione: si tratta di cogliere i sentimenti degli elettori (più facilmente i più feroci, i peggiori e meno controllabili) e solleticarli allo sfinimento per spremere voti. Niente di nuovo, verrebbe da dire, se non fosse che ciò che prima era affidato al fiuto dei consulenti oggi può essere perfettamente quantificato da una serie di algoritmi. Così oggi Salvini può prevedere esattamente quale sarà la reazione alla sua prossima dichiarazione semplicemente perché se l’è fatta scrivere direttamente dai suoi seguaci. Se un giorno si spanderà un’incontrollabile paura per i ragni probabilmente vedremo il ministro dell’Interno impugnare una scopa di saggina per spiaccicarne qualcuno sul muro.

Ma c’è un aspetto che forse sfugge: governare sulla popolarità significa avere fondamenta cedevolissime pronte a sbriciolarsi alla prossima percezione più potente o alla prima paura ritenuta vicina al potente di turno. È successo così con Berlusconi prima e con Renzi poi: basta raccontarli vicini (che sia vero o no poco importa) ai prossimi presunti invasori per spostarli dal cassetto degli eroi a quello dei servi.

La picchiata solitamente è veloce e inarrestabile.

L’editoriale di Giulio Cavalli è tratto da Left in edicola dal 14 settembre 2018


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La patria della post-verità

Quanti sono i musulmani residenti in Italia?» Il venti per cento degli abitanti, è la risposta media degli italiani. Ma il dato reale è 3,7%, sei volte meno. «E su cento ospiti delle prigioni italiane, quanti sono gli stranieri?». Quarantotto, siamo soliti credere. Cioè ben quattordici persone in più rispetto alla realtà. Si tratta di due fra le tante percezioni alterate della società in cui viviamo tipiche degli italiani, come rileva il titanico studio – durato 5 anni e condotto in 13 Paesi – firmato dal direttore della sezione inglese dell’istituto Ipsos, Bobby Duffy.

Un’indagine dal titolo The perils of perception, “Il pericolo della percezione”, che ci incorona (purtroppo) vincitori nella gara tra chi ha una percezione dell’ambiente in cui vive più distante dalla realtà – e non solo su immigrazione e criminalità ma anche su cibo, salute, ecc. -, eleggendo il nostro Paese “patria della post-verità”.

Il termine “post-verità”, parola dell’anno per l’Oxford dictionary nel 2016, ha riempito le colonne di quotidiani e periodici per mesi a ridosso dell’elezione di Trump negli Usa e del voto a favore della Brexit. Ora, a distanza di anni, i social media studies cominciano a illuminare i meandri più profondi di questo concetto. Le semplici menzogne, con la post-verità, non c’entrano nulla. Il neologismo si riferisce ad una circostanza in cui l’oggettività dei fatti diventa secondaria fino a scomparire. Essa è determinata da un linguaggio finalizzato a manipolare l’opinione pubblica, attraverso appelli che, sempre più spesso, quando vengono lanciati da politici, si basano su un’analisi avanzata e certosina delle convinzioni e delle credenze diffuse nel pubblico che si intende raggiungere.

Proprio di questo si occupa, quotidianamente…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 14 settembre 2018


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«Non siamo agenti di polizia». Gli assistenti sociali contro gli sgomberi di Salvini

L'ex fabbrica della Penicillina, nella lista dei 15 sgomberi individuati come più urgenti, ora occupata da extracomunitari, Roma, 7 settembre 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«Nonostante gli sforzi profusi da tutte le componenti del sistema, alla luce delle evidenze emerse in questo primo periodo di applicazione del decreto legge n.14/2017, la gestione del tema dell’occupazione arbitraria degli immobili non ha compiuto significativi passi avanti, se non rispetto alle misure di natura preventiva rivolte a evitare nuove occupazioni. (…) Tale risultato deve indurre a tenere sempre alto il livello di attenzione e a promuovere ogni utile iniziativa, anche sul piano info-investigativo, che consente di prevenire possibili invasioni di edifici o di altri immobili». Stando a questo, cioè a quanto si legge nella seconda pagina dell’ultima fatica (in materia di sgomberi) del ministero dell’Interno, la circolare numero 11.001, recante a oggetto “Occupazione arbitraria di immobili. Indirizzi” e diffusa il primo settembre scorso, la prevenzione volta a scoraggiare ogni forma di “indebita intrusione” negli edifici avrebbe funzionato. Quello che resta da fare, dunque, e con la «massima tempestività» è fornire «precisazioni ai fini dell’esecuzione degli sgomberi» delle occupazioni antecedenti. Per contravvenire alle «procedure sovente farraginose, non compatibili con l’esigenza di impedire il perpetuarsi» del fenomeno e per intervenire a ripristinare la sicurezza e la legalità indispensabili per l’ordine pubblico.

Al prefetto, l’onere di individuare una scala di priorità che tenga conto della tutela delle famiglie in situazioni di disagio economico e sociale. Detta (letta) così sembrerebbe un accorgimento meritevole se non fosse che per stilarla si rende necessaria «l’acquisizione di notizie riguardanti le persone presenti all’interno dello stabile». E l’unica soluzione percorribile è «ogni possibile censimento degli occupanti, verificandone la situazione reddituale e la condizione di regolarità di accesso e permanenza sul territorio nazionale, che deve essere condotto anche in forma speditiva, sotto la regìa dei Servizi sociali dei Comuni».

I quali esprimono sconcerto e perplessità (anche per il merito e il metodo con cui è stata resa nota la circolare): «La più evidente fra tutte le criticità – sostiene il presidente del Consiglio nazionale degli assistenti sociali, Gian Mario Gazzi – è quella che, di fatto, assegna ai Servizi sociali dei Comuni e quindi alla figura professionale dell’assistente sociale, un ruolo che molto si avvicina a quello dell’agente di pubblica sicurezza, elemento, questo, del tutto incompatibile con i principi della professione disegnati dalla legge che la regola oltre che dal discendente codice deontologico».

Fermo restando che «non si comprende – prosegue – quali siano le risorse messe a disposizione delle comunità locali per rispondere alle esigenze delle persone vulnerabili e dei minorenni coinvolti in queste situazioni». In effetti, nella circolare si fa riferimento all’attivazione di «specifici interventi (…) o all’assunzione di forme più generali di assistenza» e, nella fase successiva allo sgombero a «complessive strategie di intervento condivise con le Regioni» per sostenere percorsi di inclusione sociale.

Ma se le premesse per la presa in carico dei soggetti fragili sono che: il diritto di proprietà «precede limitatamente ed esclusivamente a fronte di quelle situazioni che possono pregiudicare l’esercizio da parte degli occupanti degli impellenti e irrinunciabili bisogni primari per la loro esistenza», e la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica hanno un profilo di rilievo determinante tale da rinviare alla fase successiva (agli sgomberi) ogni valutazione in merito alla tutela delle altre istanze, va da sé che l’epilogo a cui portano le suddette indicazioni non possa che essere di stampo meramente securitario.

«Ribadiamo, infine, che la soluzione del problema – che va contemplato, da un lato, con il dovere di pensare interventi pubblici a favore dei soggetti più fragili e in condizioni di disagio e, dall’altro, con il rispetto del principio del diritto di proprietà – non può passare tramite la sola e mera stesura di una circolare che, a nostro avviso, sposta solo il problema. Non si affronterà nulla senza un piano credibile e forme di sviluppo di politiche abitative e di contrasto dell’esclusione sociale dei soggetti fragili», chiosa Gazzi. E nemmeno con riferimenti che non sono puramente casuali.

Sono i padroni “della domenica”, il problema

Primo giorno di saldi invernali al centro commerciale Porta di Roma, 5 gennaio 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Si è aperto un interessante dibattito sul lavoro domenicale, domenica sì e domenica no, conservatori che ripropongono le domeniche che passavano da bambini come se non fossero passati gli ultimi quarant’anni con tutti i quarant’anni di trasformazioni economiche e sociali, liberisti sfrenati che si inalberano ogni volta che si mette in discussione la politica del lasciare andare, lasciare decidere al mercato come se la politica debba essere solo la cameriera dell’economia e quelli che fanno parecchia confusione prendendo la propria vita come paradigma totale: se fanno la spesa la domenica pretendono di trovare tutto aperto, nessuna discussione, se hanno un figlio o una madre che invece vorrebbero a casa con loro allora augurano fallimento a tutti gli esercizi commerciali domenicali. E così il dibattito, al solito, diventa scontro. Qualcuno sommessamente prova a fare notare che il problema non è la domenica ma le regole e la dignità, inascoltato.

Se c’è comunque un lavoro della domenica da cancellare comincerei con il convocare al ministero Alessandra De Sole. Alessandra ha 43 anni e per 45 giorni ha lavorato in un residence a Grosseto. Facciamo una settimana di prova, massimo dieci giorni, le avevano assicurato, e invece come spesso succede alla fine i giorni sono stati 45, come al solito stirati dalla promessa ripetuta e addirittura dal simulato interesse di chiederle i documenti utili per l’assunzione. Quando ha capito che di lavoro non ce n’era ma si trattava del solito lavoretto sottopagato, al limite dello sfruttamento, che di questi tempi alcuni addirittura vorrebbero fare apparire come un privilegio, alla fine ha deciso di andarsene chiedendo ovviamente il suo compenso: 450 euro. Per 45 giorni. 10 euro al giorno. Ovviamente in nero. Il nero di cui avere paura e occuparsi davvero.

«Con me, in nero, c’erano altri dipendenti – spiega intervistata da Il Tirreno -. Una ragazza moldava che lavorava come cameriera ed era pagata appena 250 euro ma non diceva niente perché aveva paura di perdere il posto. Poi un pizzaiolo e una ragazza che aiutava le camere. Tutti irregolari». Decide di denunciare. Con lei denuncia anche una lavoratrice rumena. Tutto il personale era irregolare, clandestino (forse così lo capite meglio). Una donna delle pulizie era stata nascosta dentro un armadio, per dire.

Ecco, forse al ministero qualcuno potrebbe spiegare a Alessandra che il problema del lavoro, qui dalle nostre parti, è che continua ad essere un privilegio che viene concesso in cambio del proprio sfruttamento e i padroni vorrebbero anche della gratitudine indietro. O forse potrebbe spiegarlo Alessandra, proprio lei, meglio di molti altri. E sarebbe utile per riportare nei giusti binari il chiasso di questi giorni: che poi i binari sono i diritti. Sempre quelli. Sempre loro.

Buon giovedì.

«Con Allende la democrazia era malata». Lo schiaffo presidenziale al Cile a 45 anni dal golpe di Pinochet

epa07012973 Dozens of people march in homage to the late President Salvador Allende (1970-1973), around the Palace of La Moneda, Santiago, Chile, 11 September 2018. On 11 September 1973, Chilean socialist president Salvador Allende was overthrown by the armed forces and police. EPA/Alberto Valdés

«Con Allende la democrazia era malata». Quarantacinque anni dopo il golpe, parole scioccanti del presidente cileno Sebastián Piñera contro Salvador Allende che, giusto l’11 settembre del 1973, fu ucciso nel golpe militare pilotato dagli Usa per distruggere il governo di Unidad popular. In occasione della ricorrenza il presidente cileno, un milionario della destra “per bene”, ha voluto rivolgere un appello ad «evitare le divisioni» che questa data è solita provocare fra i cileni, chiedendo unione e riflessione per ricordare le lezioni che hanno dato l’intervento militare di quell’epoca. In un articolo a sua firma pubblicato dal quotidiano El Mercurio, Piñera ha sostenuto che «è bene e necessario ricordare che la nostra democrazia non è finita all’improvviso l’11 settembre 1973. Essa era gravemente malata da molto prima e per diverse ragioni».

Al riguardo il capo dello Stato si è riferito al governo di Allende come un percorso a cui era contraria la maggioranza dei cileni dell’epoca e che portò ad una crisi politica e sociale. D’altro canto Piñera ha nuovamente condannato le violazioni dei diritti umani commesse negli anni della dittatura ed ha assicurato che sia la sinistra sia la destra hanno appreso la lezione offerta da quella tragica vicenda. «La prima – ha spiegato – ha appreso a condannare ogni violenza politica ed a rispettare la democrazia», mentre la seconda «ha appreso a condannare qualsiasi attentato ai diritti umani e a rispettare anch’essa la nostra democrazia». Allontanandosi dalla tradizione del precedente governo di celebrare la data con un atto politico, Piñera ha tenuto solo una cerimonia ecumenica nel cortile Las Camelias del palazzo della Moneda, a cui non sono state invitate né le forze politiche, né la famiglia Allende.

Fonti del governo in carica hanno reso noto che a questa decisione il capo dello Stato è giunto dopo che il presidente del Senato, il socialista Carlos Montes, ha annunciato di voler realizzare una commemorazione, come negli anni scorsi, della figura di Allende. Un gesto che la coalizione governativa di centro-destra Chile Vamos ha stigmatizzato come «atto politico e partitista». I partiti della coalizione di opposizione di centro-sinistra Nueva mayora insieme alla Fondazione Salvador Allende, si sono recati prima davanti all’ingresso della Moneda per depositare fiori, ripetendo il gesto anche presso la statua dell’ex capo dello Stato suicidatosi negli sviluppi del golpe orchestrato dal generale Augusto Pinochet. Da lì si recheranno in corteo fino alla sede dell’ex-Congresso, che ospitò fino al 1973 Camera e Senato.

Due giorni prima, molte migliaia di persone hanno partecipato a Santiago a una marcia in memoria delle vittime sfilando dietro gli striscioni portati dai familiari dei desaparecidos con la foto in bianco e nero, sul petto, e la scritta: «Dove sono?». Con tamburi e slogan, hanno protestato per l’alleggerimento delle pene concesso dalla Corte Suprema ai condannati per crimini contro l’umanità. Di fronte ad un pubblico superiore a quello che aveva sfilato lo scorso anno, e con qualche incidente di minore importanza a margine della marcia, la presidentessa della Associazione dei famigliari dei giustiziati politici, Alicia Lira, ha detto che «abbiamo fatto un lungo cammino alla ricerca della verità e della giustizia», criticando Piñera per avere guidato una «campagna di impunità riunendosi la scorsa settimana con alcuni giudici della Corte Suprema» che poi hanno accolto le richieste di sgravi delle pene delle persone condannate per reati contro l’umanità.

Piñera, figlio di un diplomatico, dottorato in economia ad Harvard, è considerato un carismatico oratore ed è uno degli uomini più ricchi del Paese, patrimonio stimato in più di due miliardi di euro. Propone un classico programma di centrodestra, che parte dalla promessa di ridurre le tasse e ripristinare lo splendore del cosiddetto “modello cileno” che, appunto, è il neoliberismo senza freni che fu impresso all’economia del Paese dalla giunta Pinochet (al potere fino al ’90) con la supervisione di Milton Friedman (anche se a parole dichiarò la sua distanza dalla dittatura), capo dei Chicago boys, ispiratore di altre macellerie sociali come quelle di Thatcher e Reagan. Molto vicino a Friedman fu José Piñera, economista liberista suo allievo a Chicago, poi ministro di Pinochet fino all’81 e autore della riforma delle pensioni in Cile. È il fratello dell’attuale presidente Sebastián Piñera.

Presidente, su columna es indecente!, il suo editoriale è indecente, twitta Camila Vallejo, giovanissima deputata comunista, già leader del movimento studentesco (il sistema di istruzione è più o meno lo stesso di Pinochet): «Continua a relativizzare e giustificare l’orrore della dittatura civica militare (non il governo militare) e la sua pratica di sterminio – prosegue Vallejo -. Continua a tentare di pareggiare i conti e dimostra che non hai imparato nulla da quando hai celebrato il golpe 45 anni fa».

Oggi il Cile è un Paese dalla disuguaglianza rinnovata, dalla modernità esclusiva con il potere economico allergico a riforme progressiste. Proprio il 31 agosto, senza toccare più di tanto gli eredi del dittatore, si è chiuso il caso Riggs, il processo durato 14 anni contro l’appropriazione indebita di fondi pubblici da parte di Pinochet, assassino e pure ladro, per oltre un decennio. La Corte Suprema ha condannato tre ufficiali in pensione e il ministero del Tesoro ha ordinato il ritorno di un totale di 1,6 milioni “di beni di proprietà di Augusto José Ramón Pinochet Ugarte o una delle loro aziende”. L’inchiesta ha rivelato che l’ex dittatore aveva mantenuto dal 1994 più di cento conti nella statunitense Riggs Bank per un importo superiore a 21 milioni di dollari.

Da settimane, le confessioni di un ex carabiniere hanno fatto venire alla luce lo scandalo di alcuni ufficiali che, «per non aver complicazioni e non darne alle istituzioni» hanno coperto nel 2009 la notizia del ritrovamento in un tunnel minerario di alcuni resti di desaparecidos del ’73 durante le indagini su un altro caso di cronaca nera, quello dello “psicopatico di Alto Hospicio”, località nella quale furono assassinate quattordici donne povere tra il ’98 e il 2001. L’uomo condannato per quei femminicidi si è sempre dichiarato innocente. Ad agosto sono stati rimessi in libertà sette ex ufficiali che stavano scontando una pena per crimini contro l’umanità, il rapimento, omicidio e occultamento del cadavere di oppositori politici. I magistrati della Corte Suprema hanno giustificato la loro decisione sostenendo che le convenzioni sottoscritte dal Cile in materia di diritti umani non rappresentano un impedimento per il reinserimento sociale di coloro che sono condannati. Se i legali degli ex militari parlano di sentenza «storica», «questa decisione mette la Corte Suprema allo stesso livello degli anni della dittatura civile-militare», ha detto Lorenza Pizarro, presidente dell’Associazione dei parenti dei detenuti e scomparsi (Afdd) che sta valutando il ricorso a istanze internazionali. Fino a metà del 2017, c’erano in totale 1.328 casi penali per crimini contro i diritti umani pendenti nei tribunali cileni.

Durante lo scorso anno, almeno 31 ex militari hanno cercato di ricorrere per invertire le accuse, ottenere la libertà provvisoria o reclamare l’incostituzionalità, secondo il Rapporto sui diritti umani dell’Università di Diego Portales.

Dalla ripresa della democrazia nel 1990, lo Stato cileno ha istituito quattro commissioni per riconoscere le vittime di crimini contro l’umanità e garantire loro riparazioni. In quegli anni, la Commissione Valech, dedicata a chiarire l’identità delle persone che hanno sofferto privazione della libertà e della tortura per ragioni politiche nel regime di Pinochet, ha dichiarato che il numero delle vittime della dittatura supera le 40mila, di cui 3.065 sono state uccise o sparite tra settembre 1973 e marzo 1990.

«I riferimenti su Allende de Piñera sono stati deplorevoli. Ha detto, cosa senza precedenti, che il presidente Allende aveva usato metodi non democratici e che aveva promosso la violenza. Parole ingiuste che non corrispondono alla realtà», ha scritto anche Roberto Pizarro, in un lungo editoriale su Mundiario, rilanciato dall’edizione spagnola di Other news, sito di una Ong formata da persone «preoccupate dal declino dei mezzi di informazione». Pizarro, economista e figlio a sua volta di uno dei fondatori, nel 1933, del partito socialista cileno, ha ripercorso i tratti salienti del governo di Unidad popular. «Il contatto più diretto che ho avuto con Allende è stato nell’ottobre 1971, quando era già presidente. Il Centro per gli studi socioeconomici dell’Università del Cile, che ho diretto, aveva invitato un gruppo di intellettuali di spicco a un seminario sulla transizione al socialismo e all’esperienza cilena. C’erano Paul Sweezy, economista nordamericano, editore della Monthly Review, l’intellettuale italiana Rossana Rosana, antifascista resistente e fondatore della rivista Il Manifesto e Lelio Basso, leader eccezionale del socialismo italiano», ricorda Pizarro. «Non bisogna mai dimenticare che la nostra proposta politica, la via cilena al socialismo – gli disse Allende – è caratterizzata dalla libertà più illimitata della stampa e che il nostro Paese dovrebbe essere un esempio del pieno funzionamento della democrazia».

Allende e il governo di Unidad popular hanno promosso un programma di trasformazioni «profondamente rivoluzionario. La nazionalizzazione del rame rese possibile recuperare i miliardi di dollari che le multinazionali stavano sottraendo; l’approfondimento della riforma agraria, che consentiva ai contadini e ai Mapuche di beneficiare delle terre che lavoravano; controllo pubblico delle società bancarie e monopolistiche per porre fine al consumo di credito e ai prezzi non equi per i consumatori; istruzione pubblica e gratuita, che è stata garantita a tutti i giovani; una partecipazione popolare senza precedenti nelle decisioni politiche del Paese. Ma, allo stesso tempo, queste trasformazioni, che miravano a sostituire il capitalismo, furono promosse senza violenza, attraverso il pieno esercizio delle libertà democratiche e il rispetto dei diritti umani».

«Allende – si legge ancora – ha insistito sull’uso di istituzioni democratiche per promuovere le trasformazioni. Ha riconosciuto in Fidel Castro un esempio di lotta, ma non ha assunto i suoi metodi». Infine: «Le trasformazioni a favore delle maggioranze e l’esondazione della felicità popolare che caratterizzò il governo di Allende terminarono bruscamente e iniziò la restaurazione conservatrice. Il sistema politico esclusivo e il modello economico delle disuguaglianze, istituito da Pinochet, hanno spinto indietro di decenni il nostro Paese. Al momento, ci sono alcuni gruppi economici che monopolizzano la ricchezza prodotta da tutti i cileni e il loro immenso potere ha permesso loro di mettere una grande parte della classe politica al loro servizio (…) Sfortunatamente, gran parte della generazione politica che ha accompagnato Salvador Allende nella sua lotta per la trasformazione, ha finito per amministrare il regime politico di ingiustizie e il modello economico di disuguaglianza che il dittatore Pinochet ha instaurato. Le ampie strade non sono ancora state aperte per il popolo cileno».

“Sulla mia pelle” censurato su Fb. La denuncia di Ilaria Cucchi: Cancellati gli eventi che annunciano la proiezione gratuita

«Sulla mia pelle aveva invaso il web. Una valanga di eventi organizzati in tutta Italia per la proiezione. La cosa mi ha fatto un enorme piacere e mi ha scaldato il cuore vedere ancora una volta quanto interesse e quanto calore ci sia intorno a Stefano e a questo bellissimo film su di lui. Devo pertanto confessare tutto il mio dispiacere e la mia amarezza per il fatto che tutto questo sia stato cancellato in un batter d’occhio da Facebook. Scomparso». Lo denuncia Ilaria Cucchi sullo stesso Facebook, parlando del film di Alessio Cremonini che alla Mostra di Venezia ha aperto la sezione Orizzonti. «Noi non abbiamo voce in capitolo, possiamo forse comprenderne le ragioni ma mi dispiace e non poco». Secondo Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, e il sito Milano in Movimento, Fb ha cancellato gli eventi che annunciano la proiezione gratuita del film a causa del copyright. Il film, presentato in anteprima a Venezia, uscirà, infatti, al cinema e su Netflix oggi 12 settembre. «Netflix, Facebook e i multisala vogliono impedire la proiezione del film – scrivono gli attivisti – pretendendo di avere l’esclusiva facendo appello al “diritto d’autore” e affermando che il film non può essere visto fuori dal nucleo domestico e di conseguenza in collettività, in un luogo pubblico e gratuitamente». A Milano l’appuntamento per chi pensa che «questo sia un film da vedere in compagnia e in un luogo pubblico per condividere ogni singola emozione» è il 13 settembre alle 21 in piazza Oberdan, organizzato dal collettivo LuMe.
«Quando venne assassinato noi avevamo più o meno l’età di Stefano, ci ritrovavamo in un locale di San Lorenzo a Roma tutte le sere. Seguimmo con apprensione quella tragica vicenda sin dalle prime ore, decidemmo che era doveroso raccontarla – scrive TerraNullius, collettivo di autori attivo dal 2003 – tutti per un momento avevamo pensato: “poteva capitare anche noi, a chiunque, tutti devono sapere”». Nacque così Non mi uccise la morte (Castelvecchi), uno dei primi esperimenti di instant graphic journalism italiani, per la sceneggiatura di Luca Moretti e le matite di Toni Bruno.
Da subito la famiglia di Stefano, Ilaria, Giovanni e Rita, consegnarono ai due autori di TerraNullius tutti i documenti in loro possesso, tutte le cartelle cliniche, gli atti. Ci fu solo un patto che TerraNullius strinse da subito con l’editore: «Quell’opera, quella storia, sarebbe stata pubblicata con licenza creative commons e messa a disposizione gratuitamente in forma digitale sul nostro portale. Non mi uccise la morte in questi anni è stato scaricato gratuitamente in decine di migliaia di copie digitali, nonostante questo l’editore ha ristampato più volte il libro che circola ancora nelle librerie italiane e sugli store online». Dal libro negli anni sono state derivate piece teatrali, canzoni, cortometraggi «quella che candidamente chiamiamo “libera circolazione delle storie” ci è sembrata un atto naturale prima che doveroso», spiega il collettivo.
Da alcuni anni Luca Moretti e Toni Bruno hanno ceduto tutti i diritti del libro ad Acad (Associazione Contro gli Abusi in Divisa), l’associazione nata proprio per fare in modo che le vicende come quella di Stefano non si ripetano più. «Quando abbiamo saputo da Ilaria che Netflix stava preparando un film che raccontava, a distanza di anni, gli ultimi tragici giorni di Stefano, siamo stati contenti che quella storia, grazie alla perseveranza, alla forza e all’abnegazione della famiglia Cucchi, continuava a circolare, a riprodursi, a raccontare, a prevenire, a combattere. In questi giorni apprendiamo che la produzione del film ha bloccato una serie di proiezioni collettive che definisce “illegali” e ha dato mandato a Facebook perché ne oscurasse i relativi eventi a favore di quelli che definisce ufficiali e della programmazione sulla piattaforma Netflix».
A TerraNullius, che pubblica la lista delle iniziative, sono certi: «Tutte quelle persone incontrate in questi anni non si faranno irretire dalle leggi del mercato e che quelle proiezioni “illegali” si faranno, nonostante tutto. Abbiamo pensato ancora una volta che al posto di Stefano potevamo essere noi, e che anche a lui sarebbe piaciuto sapere che la sua storia non si arrende alle regole della “legalità” costituita dalle carte. Una legalità non dissimile da quella che lo ha ucciso».

E noi non riusciamo a tornare a quella miracolosa sintonia

Io non so se sia capitato a voi ma ve lo racconto lo stesso, anche se è fuori dai canoni del giornalismo, non è nemmeno letteratura, e figurati che schifo buttare in rete una cosa così oscenamente personale. Ma la scrivo perché ci farebbe bene a tutti di questi tempi cadere in burroni di umanità. Almeno per guardarci negli occhi, senza veli, indipendentemente dalle fazioni, come in quei giorni in cui hai perso male male, che ti dici allo specchio cazzo che botta che ho preso o quelli in cui ti è capitato di sbucciarti il gomito su una stella e ti vengono le vertigini mentre ti congratuli con te stesso.

Qualche mese fa è stato male mio padre. È naturale, se ci penso a mente fredda: i figli hanno l’onere di vedere i padri mentre si consumano, con le nocche che si fanno nodose come radici e la faccia che gli tira sempre all’in giù. È stato talmente male che i medici mi facevano capire che sarebbe finita. È naturale anche questo. A raccontarlo sembra così banale eppure è così straziante che quando capita ti dici fanculo che sia normalerivendico il diritto e il dovere di affondare.

Pensavo, ci pensavo stamattina, che in quei giorni, forse sono state ore, a me sono sembrati secoli, ho avuto la sensazione che mi si fossero allargati i pori, si fosse aperta un’altra arteria del cuore, che avessi guadagnato una decina di diottrie, che io abbia avuto un coraggio che non si è più ripetuto, che tutti gli altri mi sembrassero magnificamente (ma anche terribilmente) bisognosi di essere capiti. Nella sala d’aspetto ho scambiato parole con famiglie di cui mi appariva tutto il mappamondo di dolori e di relazioni, ho scoperto una gentilezza che credevo annichilita dagli inciampi della vita, da questa cretina predisposizione a voler diventare impermeabili per difendersi e invece ne usciamo tutti solo imbruttiti.

In quei giorni ho pronunciato con mia madre parole che oggi non riuscirei nemmeno a balbettare. Sono quei momenti in cui ci prendiamo la briga di diventare flusso senza questa assurda paura di sembrare nudi. Ogni tanto penso che non ci ameremo mai più, noi della nostra famiglia, come ci siamo amati in quei momenti lì.

E invece penso che noi avremmo bisogno di questo coraggio. Basterebbe avere una classe dirigente (nel senso largo, quello dove anche un fratello maggiore è classe dirigente) capace di prendersi il rischio dell’empatia e della sincerità, anche quando rischia di apparire patetica, per rendere migliore questa parte di mondo. Qualcuno così eroico da avere l’ardire di chiedere scusa, qualcuno che ci spieghi perché la pensa così senza usare le formulette studiate dai suoi aridi e goffi esperti di comunicazione. È la mancanza di autenticità che li fotte tutti, questi miserabili piazzisti da due soldi.

E mi dico per fortuna faccio lo scrittore. Per fortuna non mi prenderei mai il rischio di scrivere un editoriale così. E invece stamattina l’ho scritto. E mio padre sta meglio. E noi non riusciamo a tornare a quella miracolosa sintonia.

Buon mercoledì.