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L’ultima cena. Mentre si segregano le mense

C’è questa notizia che riempie tutte le pagine dei media progressisti che consiste, in pratica, nell’invito a cena di Carlo Calenda a Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Marco Minniti per ricostruire la sinistra. L’invito, garbato e pudicamente tenuto riservato sparandolo su twitter, dovrebbe rassicurare gli elettori del centrosinistra sul fatto che finalmente si muova qualcosa. Che quel qualcosa siano quattro persone sventolate come slogan potrebbe indurre ad avere qualche dubbio se non fosse che il candidato segretario Zingaretti ha pensato bene di rispondere con una cena in trattoria “con un operaio, uno studente, un professore e un imprenditore” (citando testualmente Zingaretti) che rende la vicenda ancora più paradossale. In attesa che le intenzioni politiche prossime venture sian svelate con i due rispettivi menù non ci resta come notare che le altezze insistono nel riunirsi tra loro disinteressandosi delle basi contribuendo, se possibile, alla già avviatissima disaffezione.

A proposito di cibi, portate e stomaci pieni intanto a Lodi, ridente cittadina che fu di Guerini e ora è in mano alla Lega (ma va?), la sindaca leghista ha deciso di inserire una clausola valida solo per gli extracomunitari per accedere ai servizi socio-sanitari come mensa, asili nido e scuolabus: chi è residente (legalmente e di diritto) in Italia deve dimostrare di non avere beni e redditi nel proprio Paese di origine. Nel malaugurato (e frequentissimo caso) in cui la nazione di provenienza sia tutt’altro che un’oliata democrazia con diligenti uffici in grado di rilasciare certificazioni questi lodigiani meno lodigiani degli altri dovranno accontentarsi di pagare la quota massima, la stessa delle più benestanti famiglie della città.

L’idea dell’extracomunitario che nasconde lingotti d’oro e ville con piscina in quel paradiso che è l’Eritrea o qualche altro Paese africano rientra perfettamente nella narrazione (razzista, sì razzista) di Salvini e i suoi servetti: se sei povero devi dimostrare di essere povero altrimenti sei solo uno che viene qui a sbafo, lavora in nero per i lodigianissimi imprenditori, pulisce le lodigianissime nonne e nasconde d’esser ricco. Un piccolo particolare: per gli italiani, invece, al sindaco di Lodi basta una semplice autocertificazione.

Ecco i tavoli in cui si svolge la storia. La nostra storia.

Buon appetito. E buon martedì.

Le voci corsare della Livorno ribelle

20030301 - PISA - CRO - IRAQ: CAMP DARBY; PROTESTA PACIFISTI LUNGO CANALE NAVICELLI - Una quarantina di pacifisti e disobbedienti hanno manifestato oggi lungo la parte terminale del canale dei Navicelli, che collega la base Usa di Camp Darby al porto di Livorno. FRANCO SILVI/ANSA/DEF

Parlare di Livorno rimanda spesso a fatti grandiosi, come le Leggi Livornine, la città delle Nazioni con le sue chiese ed i suoi cimiteri, la stampa tra le prime dell’edizione italiana dell’Encyclopédie – la summa del pensiero illuminista-, la cacciata del Granduca e la dittatura democratica di Francesco Domenico Guerrazzi nei moti del ’48-’49, la difesa in armi della città contro gli Austriaci, la fortissima presenza dell’associazionismo massonico che si intersecava col moto socialista e della Prima Internazionale, la fondazione del PcdI, gli straordinari protagonisti della Resistenza come Barontini e la rinascita democratica con sindaci del dopoguerra come il filosofo Nicola Badaloni e lo storico Furio Diaz. Fatti grandi anche in negativo, come il ruolo e la presenza della famiglia Ciano nelle vicende del fascismo italiano.
Voci possenti e corsare. La Livorno ribelle dagli anni Ottanta ad oggi (Agenzia X) dell’esule volontario Luca Falorni non rimanda a niente di tutto questo. Ci narra, in forma diretta ed in forma di riflessione, facendo parlare direttamente i protagonisti, del lungo inglorioso crepuscolo della città, dagli anni Ottanta dello scorso secolo ad oggi. Quando si logora definitivamente il binomio porto-partecipazioni statali, dove il Pci seppur non ancora Ds-Pds-Pd mostra tutti i segni dell’involuzione ideologica e della mancata comprensione del modificarsi delle condizioni strutturali che lo avevano reso protagonista.
Dove valori, principi, idealità si dissanguano e si fanno evanescenti.
Dove la disoccupazione giovanile dilaga.
La deindustrializzazione della città, il ripiegamento nella rendita immobiliare e nel commercio.
Un libro doloroso, in cui l’autore ci narra in prima persona del proprio acre seppur autoironico distacco dalla sua città, per finire nelle nebbie milanesi.
Doloroso per la lunga scia di morti per eroina e per i suicidi che lo segna, per la fine della pietas labronica – dove “il piccino era sacro” – rappresentata dai commenti e dall’atteggiamento della città di fronte alla morte nel 2007 di alcuni poveri bimbi rom nel rogo della loro roulotte.
Una ribellione contro la volgarizzazione operata da Virzì nei suoi film della labronicità, spogliata dai suoi non pacificati aspetti costitutivi e resa compatibile per una diffusione edulcorata a livello nazionale.
Una Livorno giovanile che trova le sue forme di espressione sul piano artistico-musicale e tramite la pratica dell’occupazione degli spazi, dove in assenza di un ’77 cittadino ci vengono descritte le varie ondate che arrivano fino ad oggi. Una presenza che passa soprattutto dai giovani livornesi studenti universitari in quel di Pisa, che mostra difficoltà a divenire punto di riferimento dei settori operai. Un libro da leggere, per la capacità di scrittura dell’autore, per la riflessione sociologica e politica di Silvano Cacciari, per le testimonianze dirette dei protagonisti. Che spiega come sia stata possibile la vittoria del Movimento 5 Stelle alle elezioni per il sindaco di Livorno e come potrebbe esserla quella della Lega salviniana alle prossime amministrative.
Un aspetto colpisce particolarmente: la mancanza di riferimento allo scioglimento del Pci – seguito alla Bolognina di Occhetto – per la quasi totalità dei protagonisti. Eppure ho potuto constatare di persona quale forza popolare e quale fortissimo aspetto emotivo – oltre che politico – avesse rappresentato a Livorno lo scioglimento del Pci e la nascita del Movimento per la rifondazione comunista. Questa data e questo tornante non è assolutamente periodizzante per le vicende descritte e nelle vite dei testimoni.
Solo in un periodo assai tardo rispetto all’’89-’91 si assiste alle ripresa di una simbologia e di una pratica “comunista”, di un comunismo delle origini da contrapporre al presente e rispetto al quali dichiararsi i diretti e legittimi interpreti.
Ed è questo un punto di estremo interesse.
Un libro con alcune gustose chicche, come i trascorsi musicali assieme al Falorni nel gruppo post-wawe DTX. I Deltatauki del deputato del Pd Andrea Romano, proveniente da Scelta civica passando dalla Fondazione di Montezemolo ma in gioventù aderente a Lotta Comunista.
Perché se la vita collettiva ed individuale è ricca di contraddizioni, la coerenza rimane pur sempre una virtù. O almeno dovrebbe.
Un libro da leggere, da discutere e sul quale riflettere: e di questo non possiamo che essere grati all’autore, al quale mi lega una antica comune frequentazione delle aule della facoltà di lettere e soprattutto dei bar, mescite ed osterie di Pisa e dei monti sovrastanti.

Parole come Taser

Patrizia Moretti e' scesa in strada con l'immagine del figlio morto, Federico Aldrovandi, durante il presidio della Coisp che ha improvvisato a Ferrara un presidio di solidarieta' verso gli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, sotto le finestre dell'ufficio della madre Patrizia Moretti, 27 marzo 2013. ANSA/TWITTER +++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY +++

Dice l’ex questore di Ferrara, ora a Reggio Emilia, Antonio Sbordone, in un’intervista a Il Resto del Carlino che “col taser sarebbe ancora vivo Federico Aldrovandi” poiché “per fermare “un giovane alto un metro e 90 agitatissimo – che era Federico – hanno dovuto usare anche i manganelli”. Federico, per chi non conoscesse la sua storia, invece è morto  perché la mattina del 25 settembre del 2005 ha incrociato i quattro poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri che sono stati chiamati per “un ragazzo in stato di agitazione” e sono riusciti a trasformare un semplice controllo in un pestaggio mortale. Restituendo Federico alla famiglia da cadavere e impegnandosi (come spesso succede in questi casi) a nascondere prove e depistare le indagini.

In sostanza, com’è abitudine di questi tempi, si prende un reato (i quattro poliziotti sono stati condannati fino all’ultimo grado di giudizio) e lo si propone come esempio per giustificare l’introduzione di un nuovo armamento. Se non fossimo in tempi tossici e piuttosto sdraiati il giornalista a colloquio con il questore avrebbe potuto chiedergli: “quindi ci sta dicendo che dobbiamo essere rassicurati dal fatto che degli assassini ora hanno un’arma in più?” e lì si sarebbe chiuso il discorso. Pensateci bene.

Ci sono tra le forze dell’ordine moltissimi uomini che ogni giorno sacrificano i propri affetti, la propria vita e il proprio impegno per fare onestamente il proprio lavoro in un Paese che è disordinato per natura. In questi stessi giorni, grazie a un film, si ritorna a parlare dell’incredibile vicenda di Stefano Cucchi e dell’inedia istituzionale (oltre alle botte) che l’hanno restituito (anche lui) da morto alla famiglia.

Forse il questore Sbordone non sa che Aldrovandi è morto perché massacrato di calci e di pugni (anche in testa) quando era già immobilizzato. Forse Sbordone non sa che quando il padre Lino ha visto il corpo del figlio ha pensato che fosse stato investito da un camion per come era ridotto e forse non sa nemmeno che si provò a ripulire e fare sparire i manganelli per disarticolare l’inchiesta. E forse non ricorda, glielo ricordiamo noi, che i poliziotti condannati sono stati calorosamente applauditi da un sindacato di Polizia che ha portato il suo massimo esponente come sceriffo in Parlamento agli ordini di Salvini.

O forse questi continuano a non capire, a non voler sapere, che la sicurezza è questione di modi, di rispetto delle regole, di Costituzione e di parole che andrebbero misurate per le vittime collaterali che un Paese democratico non si dovrebbe permettere. Ma di questi tempi, la misura nelle parole, è una responsabilità che non si prendono al ministero, figurati come si sentono liberi anche quelli più in basso. Finché non capiterà a un nostro figlio.

Buon lunedì.

Battersi per la democrazia nel proprio Paese. Da rifugiati

ROME, ITALY - JULY 8: The Ethiopian and Eritrean community of Rome celebrated, in Piazza della Repubblica, the visit of the Ethiopian Prime Minister, Abiy Ahmed, to Asmara, capital of Eritrea, for the meeting with President Isaias Afwerki, for the first meeting between leaders of the two countries 20 years after the border war of 1998-2000 on July 8, 2018 in Rome, Italy. The visit comes a month after Ethiopian Prime Minister Abiy Ahmed fully accepted a peace agreement with Eritrea that ended a two-year border war with tens of thousands of dead. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Getty Images)

«Perché non restano al loro Paese a combattere le dittature invece di scappare da noi?» Una frase che capita di sentire spesso nel mondo sovranista e nazionalista, anche in quello che si dichiara di sinistra e che dimostra una scarsa propensione per gli studi storici. Da secoli le persone che si spostano anche a causa di persecuzioni di ordine politico o di altra natura, hanno utilizzato la diaspora come strumento di resistenza per non rompere i legami con i Paesi di origine ma per provare a gettare le basi per un cambiamento, a volte anche di ordine rivoluzionario. Senza dover andare lontano si pensi ai tanti esuli italiani durante il fascismo, chi in Francia chi nell’allora Urss, che mentre cercavano di garantirsi il sostentamento ricostituivano le basi organizzative che poi sono state essenziali per la nostra Resistenza. E così come il fascismo si accaniva contro di loro, si ricordino i fratelli Rosselli, questi embrioni trovarono il modo di rientrare “clandestinamente” in patria formando anche quadri.
Spesso sono minoranze ma, invece di perpetuare con un approccio colonialista ed eurocentrico, è importante che alcune esperienze di maturità politica incontrino il sostegno e non l’ostilità di chi vorrebbe vivere in un pianeta migliore. Ne citiamo solo alcune, di cui forse non si parla abbastanza.
Molto sappiamo di coloro che fuggono da Turchia e Siria in quanto curdi. I primi a partire, già altamente politicizzati, alla volta dell’Europa, lo fecero oltre 20 anni fa. Italia, Francia e Germania sono Paesi fondamentali per questa diaspora, che ha dato vita a emittenti radiofoniche e televisive in curdo nel Nord Europa e che da noi hanno prodotto centri culturali come l’Ararat a Roma, in perenne rischio sgombero, dove si collegano ospitalità ed elaborazione politica. Svolge un ruolo importante…

Sicurezza del patrimonio d’arte, i proclami non bastano

ROME, ITALY - AUGUST 31: Firefighters bring to safety a painting after the collapse of the roof on the San Giuseppe dei Falegnami Church at the Roman forum on August 31, 2018 in Rome, Italy. A total of 200 works have been saved inside the church. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Getty Images)

«La nascita dell’unità per la sicurezza del patrimonio culturale va nella direzione di quella semplificazione non solo burocratica e amministrativa, ma anche e soprattutto operativa. Tutte le strutture che collaborano alla sicurezza, dalla protezione civile ai vigili del fuoco, alle strutture territoriali, ora sanno a chi rivolgersi per tutte le questioni legate alla sicurezza». Il ministro Bonisoli ha deciso. Diventa operativa l’unità istituita nel 2017, ma mai entrata in funzione.
In precedenza aveva dichiarato: «Siamo un Paese fantastico, con un patrimonio unico, ma ci sono luoghi, strutture, infrastrutture di proprietà statale o di altri dove entra il pubblico che vanno mappati, protetti e messi in sicurezza». Il crollo, alla fine di agosto, del tetto della Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, alle pendici del Campidoglio, ha innescato una serie di reazioni a catena. Il velo alzato, quasi d’incanto. Come se la perdita del cassettonato cinquecentesco della chiesa fosse un caso isolato. Come se il pericolo scampato avesse suggerito l’importanza il tema della sicurezza. Per la prima volta.
I ministri si succedono. Ognuno con le sue idee. Ciascuno con una formazione,che inevitabilmente indirizza le misure e, prima ancora, i settori sui quali porre una attenzione particolare. Ognuno pronto a rivendicare le differenze con il passato. Ma anche ognuno politicamente ostaggio del raggruppamento politico che lo ha scelto. Il problema è che il patrimonio storico-artistico-archeologico è un puzzle, che continua a perdere tessere. Da un ministro all’altro. Da Franceschini a Bonisoli. Da un crollo all’altro – tra una tutela sempre più sfumata e una valorizzazione che si è mutata in merchandising – la storia sostanzialmente non cambia. Responsabilità condivise, anche se non uguali, contribuiscono a dissipare un patrimonio unico, ma non eterno. Ma concorrono anche a…

L’inchiesta di Manlio Lilli prosegue su Left in edicola dal 14 settembre 2018


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«Liberate Chamseddine», è un eroe non un criminale

ZARZIS, TUNISIA - MARCH 12: A fisherman works on his fishing boat in Zarzis Port on March 12, 2011 in Zarzis, Tunisia. The beaches and port in Zarzis are well know as the departure point for illegal immigrants crossings to the island of Lampedusa in Italy. Tens of thousands of guest workers from Egypt, Tunisia, Bangladesh, Sudan and other countries are fleeing to the Tunisian border to escape the fighting in and around the Libyan capital of Tripoli. Men, women and children have descended on Tunisia, creating a humanitarian crisis in the country which itself has only recently toppled its president in an uprising. In Libya Muammar Gaddafi has vowed to fight to the end. (Photo by Dan Kitwood/Getty Images)

A Zarzis c’è un sit-in permanente. Pescatori, comuni cittadini, e tanti bambini, ogni giorno di fronte alla municipalità della città costiera, a sud della Tunisia, al confine con la Libia. Sono i figli e le figlie, i parenti e gli amici, ma anche molti semplici conoscenti dei sei pescatori tunisini arrestati in Sicilia il 30 agosto scorso. Al sit-in chiedono a gran voce: «Liberateli». Il capitano dell’imbarcazione sotto sequestro in Sicilia è Chamseddine Bourassine, ora nella casa circondariale “Petrusa” di Agrigento insieme agli uomini del suo equipaggio: Lofti Lahiba, Farhat Tarhouni, Salem Belhiba, Bechir Edhiba, Ammar Zemzi. La figlia di Chamseddine, Malak, 12 anni, dalla Tunisia manda un messaggio: «Liberate i nostri papà, ci mancano. Sono fiera del fatto che salvano delle vite in mare, fateli tornare a casa». L’arresto è stato convalidato con l’accusa di «procurare illegalmente, al fine di trarre profitto», l’ingresso nel territorio italiano di quattordici cittadini tunisini. L’arresto sarebbe stato supportato dai video dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere Frontex che per diverse ora avrebbe filmato l’imbarcazione più grande trainare quella più piccola. Ma chi ha guidato l’operazione non sapeva che stava arrestando gli eroi invisibili di Zarzis. Quei pescatori che da anni, nelle uscite di pesca in alto mare, hanno portato in salvo centinaia di esseri umani. Così come ne hanno riportato i corpi ormai spenti, diventati bianchi dai giorni in mare, per dar loro degna sepoltura in terra tunisina.
Chamseddine Bourassine ha 45 anni, è sposato ed ha tre figli. Ha fondato insieme ad altri dodici pescatori, tuttora membri attivi nell’amministrazione, l’associazione “Le pêcheur” dei pescatori per lo sviluppo e l’ambiente di Zarzis. Chamseddine è il presidente locale, ma è anche a capo dell’associazione della pesca nazionale. «L’associazione è nata nel 2013, allora il nostro scopo principale nel fondarla era…

L’articolo di Marta Bellingreri prosegue su Left in edicola dal 14 settembre 2018


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Corbynomics, nazionalizzare per far crescere il Paese

FALKIRK, SCOTLAND - AUGUST 20: Labour leader Jeremy Corbyn and Scottish Labour Leader Richard Leonard (not seen) campaign on Labour's 'Build it in Britain' policy at Alexander Dennis bus manufacturers on August 20, 2018 in Falkirk,Scotland. The Labour leader will spend the next four days in Scotland in an attempt to revitalize the party in Scotland. (Photo by Jeff J Mitchell/Getty Images)

La tragedia di Genova ha, drammaticamente, riaperto in Italia il dibattito su nazionalizzazioni e privatizzazioni. Un dibattito che è stato banalizzato dalla pochezza delle posizioni degli attori politici del nostro Paese, con il governo gialloverde che proponeva una assurda (in quanto intempestiva) nazionalizzazione di Autostrade per l’Italia e l’opposizione che si preoccupava per il destino delle azioni in borsa della società che gestisce le autostrade.
In maniera meno drammatica il dibattito sulle privatizzazioni si è riaperto negli ultimi anni anche in Gran Bretagna, la patria delle privatizzazioni e spesso rappresentata come modello virtuoso.
La realtà ci mostra invece che l’insoddisfazione dei cittadini britannici nei confronti delle privatizzazioni è in continuo aumento. E non vi è da stupirsi, visti i continui disservizi denunciati, associati a un costante aumento delle tariffe, in praticamente tutti i settori in cui il controllo è passato, negli anni della furia neoliberista, dal pubblico ad aziende private in concessione. Gli unici che ci hanno guadagnato sono sempre gli stessi, grandi speculatori finanziari che hanno assunto il controllo di sempre più grandi fette dell’economia britannica.
Ferrovie, acqua, energia elettrica, gas, poste, gestione degli ospedali, gestione dei carceri, energie elettrica, gestione della sicurezza di grandi eventi come le Olimpiadi del 2012. Ovunque vengono alla luce in continuazione piccoli o grandi scandali circa la mancanza di fornitura di servizi, quasi sempre associata a tariffe che negli anni aumentano a dismisura, con imprese private che finiscono solitamente per dover essere “salvate” dallo Stato attraverso l’iniezione di aiuti o fondi pubblici, non prima – ovviamente – di aver pagato giganteschi dividendi agli investitori finanziari.
L’ultimo grande scandalo, soprattutto in termini di grandezza, è stato quello…

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola dal 14 settembre 2018


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La lotta comune europea in risposta all’attacco contro le donne in Italia

Sono fermamente convinta che il pensiero politico femminista, le pratiche politiche delle donne siano oggi indispensabili per scrivere una nuova storia nello spazio politico europeo. Non solo per rompere logiche della Unione neoliberista e della fortezza Europa, ma anche per superare i bivi di una sinistra europea che sembra non riuscire a produrre alternative fra il progressismo europeista (ma come si può pensare oggi di fare fronte con quei Socialisti europei che hanno costruito l’Europa del Fiscal compact e dei respingimenti? e il neopatriottismo sovranista (ma da quando la difesa dei confini è “qualcosa di sinistra”?). Autodeterminazione, sorellanza, cooperazione, internazionalismo, solidarietà, accoglienza: la politica delle donne, che si basa su questi concetti e queste pratiche, è essenziale oggi più che mai per rifondare l’Europa, per ricostruire dalle fondamenta una nuova casa comune europea. E per questa casa comune dell’autodeterminazione dei popoli europei le Case delle donne e gli spazi femministi sono fondamentali. È anche a partire da questa convinzione che ho richiesto che la Commissione Femm (Commissione per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere) audisse una delegazione rappresentativa degli spazi di libertà e autodeterminazione delle donne che in questo momento sono sotto attacco nella città di Roma e in tutta Italia: la Casa internazionale delle donne, la Casa delle donne Lucha y Siesta, il Centro antiviolenza Donna L.i.s.a..
L’audizione, avvenuta lo scorso 3 settembre, è stata…

La riflessione di Eleonora Forenza prosegue su Left in edicola dal 14 settembre 2018


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Benoît Hamon: «Ecologia e giustizia sociale per l’Europa»

Benoit Hamon (L), leader of the left-wing political movement Generations (formerly First of July Movement - M1717) takes a selfie photo after the movement's founding congress in Le Mans, western France, on December 2, 2017. / AFP PHOTO / JEAN-FRANCOIS MONIER (Photo credit should read JEAN-FRANCOIS MONIER/AFP/Getty Images)

«La crisi si verifica quando il vecchio è morto e il nuovo sta per nascere», dice Benoît Hamon, citando Antonio Gramsci. La sinistra si trova in questa condizione: sappiamo cosa è morto, quello che non potrà più funzionare, ma non sappiamo ancora come sarà il nuovo. Benoît Hamon, ex ministro di Hollande, diede le dimissioni in opposizione alle politiche del suo proprio governo. Nel 2017 vinse le primarie della sinistra, e divenne candidato per le presidenziali francesi, presentandosi agli elettori con un programma fortemente orientato a sinistra. In vista della prossima campagna elettorale per le europee, gli abbiamo rivolto alcune domande.
C’è una divisione, specialmente nella sinistra, sulla questione europea. Pensa che sia possibile riformare l’Europa?
È necessario riformare l’Europa. L’ideale europeo oggi è distorto dai liberisti. La decostruzione dell’Europa con la crescita dei nazionalismi e dei fascismi è pericolosa. E penso che sia importante che la sinistra non abbandoni il principio secondo cui la cooperazione fra Paesi è preferibile alla concorrenza e alla rivalità.
Quali sono gli ostacoli alla riforma dell’Unione europea?
Gli ostacoli sono di due tipi. Il primo è politico, cioè caratterizzato dalle maggioranze conservatrici o liberali che promuovono principalmente l’espansione del mercato e perdono interesse per la questione ecologica, per la questione sociale, e anche per la questione democratica. Il secondo ostacolo è quello dei trattati europei, che rendono difficile promuovere politiche progressiste ed ecologiste. Dovremo concentrarci sulla trasformazione dell’Europa in due tempi. A lungo termine, dobbiamo modificare i trattati in modo da consentire l’esercizio della democrazia e l’attuazione di politiche progressiste. Nell’immediato, dobbiamo…

L’intervista di Florence Poulain a Benoît Hamon prosegue su Left in edicola dal 14 settembre 2018


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Per non dimenticare Sabra e Chatila

Il 17 settembre 1982 è una data tristemente nota per il popolo palestinese, quella di uno dei tanti massacri di cui è stato vittima, il massacro di Sabra e Chatila che da allora ancora non ha avuto giustizia. Ricordiamo brevemente cosa accadde: 36 anni fa le milizie falangiste libanesi, sotto il controllo diretto dell’esercito israeliano capeggiato dal ministro della difesa dell’epoca, Ariel Sharon, entrarono nei due campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila saccheggiando, distruggendo e massacrando gli abitanti, senza fare distinzione fra vecchi, donne e bambini e perfino animali. Entravano nelle case alla ricerca di qualsiasi essere vivente per ammazzarlo e massacrarlo, cercavano dappertutto, negli armadi, sotto i letti … facendo ovunque terra bruciata … Infatti si salvarono solo quelli che miracolosamente riuscirono a scappare o si nascosero ed ebbero la fortuna di non essere scoperti o perché feriti si finsero morti sotto altri cadaveri.

Purtroppo scene di queste tipo, queste immagini di massacri, morte, distruzione e sistematica repressione, non appartengono solo al passato ma sono storia di tutti i giorni per i palestinesi dei Territori Occupati di Gaza e della Cisgiordania, vittime quotidiane dell’occupazione israeliana.

Solo Gaza negli ultimi 10 anni è stata vittima di ripetute invasioni e guerre, chiamate con nomi altisonanti. L’ultima in ordine di tempo, l’“Operazione Margine di protezione” risale appena a 4 anni fa, all’8 luglio 2014, e queste ripetute guerre ed invasioni hanno provocato la morte di migliaia di palestinesi, decine di migliaia sono i feriti e centinaia di migliaia gli sfollati per la terza, quarta volta…

Queste scene di morte, distruzione e sistematica repressione si ripetono anche in Cisgiordania sebbene prendano forme diverse. Dall’assassinio di massa si passa all’assassinio dell’individuo, alle limitazioni alla libertà di movimento, ai muri e alle strade circolari che chiudono in ghetti i centri palestinesi, agli espropri di terre, alle distruzioni di case per arrivare alla appropriazione delle risorse idriche, allo sradicamento di alberi e alla costruzione di nuovi insediamenti. Infatti il numero degli insediamenti è aumentato a dismisura e in questi giorni è in atto il tentativo di demolire il villaggio di Kham Al Amar,  uno dei 45 villaggi palestinesi minacciati di demolizione, a favore di un progetto di insediamento, E1. Il progetto mira a creare un collegamento fisico tra la colonia di Ma’ale Adumim e Gerusalemme creando così una specie di mezzaluna di colonie attorno a Gerusalemme Est, dividendola dal resto della Cisgiordania e sottrarla completamente ai palestinesi. La costruzione degli insediamenti nel 2017 è stata più di quattro volte superiore a quella del 2016 a causa del massiccio sostegno ricevuto dal governo israeliano e dagli Stati Uniti nonostante la risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 23 dicembre 2016 li avesse considerati una evidente violazione del diritto internazionale .

Forme diverse di repressione, dunque, che causano uno stillicidio continuo di vittime palestinesi, soprattutto tra i giovani. Infatti, altissimo è il numero dei giovani palestinesi assassinati soprattutto ai check point con la scusa di non aver risposto ad un alt o per aver cercato di accoltellare soldati armati fino ai denti o per aver lanciato pietre … giovani vite palestinese ammazzate quotidianamente anche sotto gli occhi dell’Autorità nazionale palestinese, tutto ciò con l’applauso dell’amministrazione americana di Trump. Infatti, Israele e l’amministrazione Trump si dividono il compito. I nordamericani hanno assunto il compito di eliminare la causa palestinese dallo scenario internazionale, mettendo una pietra sopra una volta per sempre, svuotando la causa palestinese dei suoi elementi di forza, togliendo dal tavolo delle trattative tre argomenti importanti, tre diritti inalienabili del e per popolo Palestinese, quello di Gerusalemme come capitale della Palestina, quello del ritorno dei profughi e quello del diritto internazionale e delle sue organizzazioni, UNRWA, Consiglio dei diritti umani dell’Onu, il Tribunale Penale Internazionale …..

Infatti, il 14 maggio 2018 è stata spostata l’ambasciata americana a Gerusalemme riconosciuta di fatto come capitale di Israele. L’idea di Trump di tagliare i finanziamento alla UNRWA ( United Nations Relief Works Agency, Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione), che negli ultimi 70 anni ha fornito un aiuto indispensabile a più di cinque milioni di rifugiati palestinesi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Libano, in Siria e in Giordania , significa non solo non riconoscere più mezzi di sopravvivenza ai profughi palestinesi ma significa anche politicamente non riconoscere più il loro di diritto di ritorno. Il ritiro americano dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu è stato motivato ipocritamente dall’ambasciatrice Nikki Haley per il “continuo pregiudizio” contro Israele che solo nella repressione delle marce del ritorno che dal 30 marzo ogni venerdì si organizzano lungo i confini della Striscia di Gaza ha assassinato 170 palestinesi, fra questi bambini, personale sanitario, giornalisti… e ne ha ferito più 16.000.

Questa politica americana non è altro che l’applicazione delle parole di Trump quando dice “abbiamo due principi, il primo principio i nostri soldi , il secondo lo stato d’Israele e il resto può andare a quel paese”. Di conseguenza possiamo dire che questa amministrazione Nordamericana è la più accanita sostenitrice dell’occupazione della Palestina aiutata dalla situazione internazionale e regionale e da tutto ciò che si verifica nel mondo arabo, dalla politica dell’Arabia Saudita e dei Paesi del Golfo e dalle loro situazioni interne. Perciò gli Usa sono determinati e stanno portando avanti il cosiddetto progetto del secolo (per quanto riguarda la parte palestinese eliminando di fatto lo stato della Palestina cancellando l’ipotesi dei due Stati).

La repressione israeliana prende anche le forme dell’arresto indiscriminato che colpisce perfino i bambini, infatti la media degli arresti quotidiani è di 30/40 persone in tutta la Cisgiordania. Per questo motivo, e non solo per le limitazioni alla libertà di movimento, si dice che la Palestina è oramai un carcere a cielo aperto e che un palestinese su tre è stato in carcere. Infatti, più di 800.000 palestinesi in Cisgiordania sono stati in carcere, la maggioranza per arresto amministrativo, cioè un arresto senza una precisa accusa fino a 6 mesi, rinnovabili alla scadenza senza limite di volte. Per questo la detenzione amministrativa è una pratica detentiva illegale contraria alle norme internazionali che nonostante ciò Israele continua imperterrita ad applicare.

L’arresto amministrativo è una forma punitiva tra le più odiate dai palestinesi perché senza una precisa accusa impedisce, o meglio nega loro il diritto alla difesa e ad un giusto processo e per questo tanti prigionieri palestinesi si sono e si stanno ribellando attuando ogni forma di protesta in particolare scioperi della fame mettendo a rischio le loro vite, alcuni infatti sono arrivati a scioperare fino a 3 mesi come Mohammad El Kiki, altri per oltre due mesi come Bilal Kayed e El Isawi e numerosi anche gli scioperi di fame collettivi come lo sciopero della dignità che ha coinvolto tra aprile e maggio nel 2017 quasi 2000 prigionieri per 45 giorni. Anche in questi giorni continuano gli sciopero della fame individuali e di gruppo.

Per questo il modo migliore per non dimenticare Sabra e Chatila non è limitarsi a delle semplici commemorazioni ma adoperarsi per fermare le continue aggressioni al popolo palestinese e i suoi continui massacri, di vite umane e dei suoi diritti.