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Troppo metano sotto il ghiaccio del polo Nord che si sta sciogliendo, perché ci dobbiamo preoccupare

«C’è una bomba a orologeria innescata sotto il ghiaccio nel Nord del pianeta e il cambiamento climatico lo sta sciogliendo». Tra i richiami alle battaglie per il suo programma di sanità pubblica, per un equo salario ai lavoratori sfruttati di Amazon, o tra gli appelli contro le politiche restrittive di Trump sull’immigrazione, nella pagina Facebook ufficiale del senatore democratico Bernie Sanders spicca un video in cui due persone provocano un’improvvisa fiammata sulla superficie ghiacciata di un terreno in Alaska, semplicemente perforandola, e aprendo la fiamma di un accendino.

«Come è possibile?», si legge nei sottotitoli che scorrono sul video: «Perché sotto il permafrost c’è il metano». Il permafrost è il terreno perennemente gelato delle zone di tundra artica, soggetto a disgelo superficiale estivo, e che invece rimane ghiacciato per molti metri in profondità. Adesso però il riscaldamento globale che sta sciogliendo l’Artico, incide anche sul permafrost a latitudini lievemente inferiori. Ed è una pessima notizia, perché il metano riscalda l’atmosfera ad una velocità 86 volte maggiore dell’anidride carbonica e, intrappolato nel permafrost, ce n’è una quantità assai maggiore che tutta l’anidride carbonica presente nell’atmosfera terrestre. Questo metano potrebbe accelerare notevolmente l’effetto serra e il riscaldamento del pianeta. Si stima un impatto, entro la fine del secolo, pari a quello della somma di tutte le attività umane fino ad oggi. E il fenomeno è già in corso.

Il video postato da Bernie Sanders è prodotto da The Years Project, un progetto realizzato in collaborazione, tra gli altri, con National Geographic, per informare, sensibilizzare sui rischi climatici, e dare forza a tutti i possibili interventi diretti allo scopo di un consumo sostenibile di risorse, non solo energetiche.

Mentre dunque si conferma, da un lato, la tradizionale vicinanza di National Geographic alle cause democratiche, negli ultimi decenni, e mentre il tema del cambiamento climatico e della sicurezza ambientale si conferma un caposaldo delle campagne democratiche dell’ultimo ventennio, da Gore a Sanders appunto, passando per Obama, il tempo ci dirà se questo tema saprà amalgamarsi coerentemente con gli altri della campagna di Sanders verso le prossime presidenziali. Contribuendo possibilmente ad aumentare quel consenso che, ora come ora, lo “sdoganamento” in salsa americana della parola socialista – con annesso l’impegno a dare voce all’America del 99% dei meno garantiti, contro l’1% di super-garantiti – sembra gli stiano procurando almeno in una certa misura.

Sulle rotte dei migranti: i lager per lo straniero dall’Ottocento a Minniti e Salvini

Un'immagine del centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 km da Tripoli. ANSA/ZUHAIR ABUSREWIL

Dopo il ciclo di seminari di approfondimento “Migranti: da dove vengono, cosa li spinge a partire, come viaggiano” , alla Fondazione Basso è stato presentato il libro Il controllo dello straniero. I “campi” dall’Ottocento a oggi a cura di Eliana Augusti, Antonio M. Morone e Michele Pifferi, editrice Viella.
Il libro fornisce un’accurata analisi del “campo” svolta, si legge, «alla luce di letture storiche, storico-giuridiche, studi antropologici e sociologici svolti entro le mura di centri per migranti in Italia e in Africa».
I saggi di cui il testo è composto, portano in un mondo di storie estremamente complesse e in parte conosciute durante i precedenti seminari sulle migrazioni (vedi articoli qui e qui).
Cercherò, per questo, di mettere in evidenza solo alcuni temi, invitando alla lettura del libro.
Le pagine si aprono con la storia della nascita dei ‘campi’ avvenuta durante le guerre coloniali a Cuba, in Sud-Africa nella guerra inglese contro i boeri e in altri conflitti. Con gli anni, in questi luoghi/non luoghi, si sono perpetuati anche feroci genocidi, fino a quello dei campi nazisti.

Il conflitto tra Stato e diritti umani

Si ritorna, spesso, alla storia tra Ottocento e Novecento, anni in cui iniziarono le prime migrazioni, e si mette in evidenza che gli «Stati Uniti, nell’arco di tempo considerato (Otto/Novecento) hanno assunto come principio ispiratore delle loro politiche migratorie, la tutela non tanto dei diritti degli individui, quanto delle prerogative della libertà, con la conseguenza di un corrente indebolimento delle garanzie giurisdizionali nei confronti degli immigrati. Prevaleva sui principi garantistici l’esigenza di governare e controllare i soggetti e, tuttavia, questo orientamento, ancorché dominante, doveva fare i conti con lo Stato di diritto difeso dall’opinione pubblica».
Tutto questo detto per gli Stati Uniti, può essere valido anche per l’Europa.
A partire dal dopoguerra, però, ci sono dei cambiamenti importanti: diventa certezza la convinzione di poter attribuire diritti all’essere umano in quanto tale.
La tesi dominante, dell’Otto/Novecento, della dipendenza dei diritti dallo Stato, viene rovesciata: i diritti non dipendono dalla volontà dello Stato, ma è lo stesso che trae la sua legittimità dal riconoscimento dei diritti, per cui, «sono i diritti (i diritti che la dichiarazione dell’Onu del 1848 presentava come diritti dell’uomo) che dovranno governare dando ad essi una piena e diffusissima attuazione.
Fra i diritti umani proclamati dalla Dichiarazione Onu del’48 due articoli, l’art.13 e l’art.14, hanno a che fare con il nostro problema. L’art.13 (secondo comma) recita che «ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese» e l’art. 14 sancisce il diritto di asilo affermando che «ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni».

Il diritto di movimento dei popoli

La possibilità di muoversi, per andare ovunque, sembra garantita. Aggiungiamo ai diritti formulati dalla Dichiarazione del ’48, la Convenzione di Ginevra, la creazione, nel 1951, dell’United Nations High Commission for Refugees, e infine, il moltiplicarsi di documenti e di organismi internazionali designati alla tutela dei diritti umani, e avremo la sicurezza che una così profonda attenzione non era stata mai dedicata ai diritti delle persone. Ma, nonostante la dichiarazione del ’48, i confini non sono stati cancellati, a cominciare dall’America. Il diritto internazionale continua a considerare la sovranità dello Stato un principio basilare e a riconoscere a ogni Stato sovrano il diritto di controllare l’accesso al proprio territorio. Dobbiamo anche dire che la Dichiarazione del ’48 afferma il diritto di qualsiasi cittadino di uscire dal proprio Paese e di rientrarvi, ma non prevede il diritto di essere accolto in nessun altro luogo. Come già detto Stati e confini non sono stati superati, «non è scomparsa la logica della contrapposizione tra il dentro e il fuori, tra soggetti appartenenti a una determinata comunità politica e soggetti esterni, i cittadini affidabili e i pericolosi stranieri visti come nemici che devono stare al di fuori della ‘cittadella’ e, se pure si riesce a entrare, si rimane sempre nemico, ma nemico ‘interno‘(….) È in questa realtà che deve essere inclusa la storia dell’impiego odierno di misure nel controllo del movimento migratorio anche se, durante l’Otto/Novecento, si sono utilizzati strumenti di concentrazione dei migranti posti agli estremi del territorio nazionale. Per questo non può essere sottovalutato in Italia, Occidente compreso, la realizzazione di centri di detenzione avvenuta negli ultimi anni e che si presentano come luoghi dell’eccezione, ‘anticamere del diritto e dei diritti’, strumento di contenimento di soggetti deprivati di diritti fondamentali e, sarebbe anche fuorviante vedere nelle persone trattenute nei centri, soggetti inerti. Si devono invece raccontare i casi di resistenza individuale e collettiva che cominciano a manifestarsi e che, con fatica, trovano interlocutori, e spesso ottengono anche dei risultati (qualche decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale)».

I campi per gli stranieri

Tornando al ‘campo’, con questo termine si indica spesso, una struttura rozza e facilmente riconoscibile, che sostituisce le mura con «il profilo fluttuante del filo spinato e dei moderni reticolati metallici (…). Il campo è una “costruzione giuridica” ma, le azioni che in esso avvengono, possono essere definite come la negazione del diritto. Guardando poi alle politiche nazionali e, in particolare, al momento straordinario dell’espulsione dello straniero, il diritto di polizia si ‘universalizzò’ relativamente tardi, quando, sia gli Stati Uniti che l’Inghilterra, rispettivamente con le leggi 3 marzo 1903 e dell’11 agosto del 1905, regolamentarono l’immigrazione straniera e dotarono i loro rispettivi governi del diritto di espulsione».

Dal pregiudizio al mutuo interesse

Il primato restò legato alla Francia che, con la legge del 19 ottobre 1797, all’art. 7, previde la stretta sorveglianza per tutti gli stranieri, anche quelli ormai residenti sul territorio ai quali poi sarebbe stato tolto anche il passaporto. In Italia la legge 3-6-1889, all’articolo 90, delega il Ministero dell’Interno ‘per motivi di ordine pubblico ’, il potere di ordinare che lo straniero di passaggio, oppure già residente nel Regno, fosse espulso e condotto alla frontiera.
Lo ‘straniero’ ai quali si riferivano le leggi, poteva essere il lavoratore, il profugo, il deportato, lo schiavo, il vagabondo, lo zingaro, la persona con disturbi psichici, oppure l’appartenente ad un’altra nazione o etnia.
Il diritto che si stava sviluppando come scienza, prendeva il posto del trascendente e regolava la nuova famiglia delle Nazioni, basandosi sui parametri della reciprocità e del mutuo interesse e, un approccio scientifico, avrebbe dovuto salvaguardargli un’apertura senza pregiudizi e condizionamenti ma, la sua storia, lo condannava all’autoreferenzialità e a una decadenza coloniale.
La ricerca profonda del libro ci fa riflettere sulla cultura giuridica del nuovo millennio che critica la crescente criminalizzazione dei migranti, alimentata anche da una cattiva politica e opinione pubblica.

Gli immigrati italiani in America

Il problema serio dell’espulsione amministrativa nell’Italia postunitaria viene rivisto insieme alla lunga storia degli immigrati italiani in America, e alla storia delle Immigration Station di Ellis Island e Angel Island, inaugurate rispettivamente nel 1891 e nel 1910 e che operarono fino al 1954, e al 1940.
La prima costruita a N.Y. per accogliere gli immigrati, esaminarli e respingere i cosiddetti ‘non desiderabili’, la seconda, quella della baia della California, pensata proprio nel pieno dell’immigrazione cinese, per ostacolarne il flusso e favorirne i ‘rimpatri’.
La paura per l’invasione degli stranieri, continuò a crescere costantemente ovunque.

In Libia, dai campi fascisti a quelli attuali

E ancora, tra le pagine ritroviamo la terribile storia legata ai campi di concentramento in Libia durante il fascismo che non finisce mai di colpire per l’atroce repressione riversata su intere popolazioni nomadi e seminomadi per stroncare la resistenza anti-italiana portata avanti da Omar al- Mukhtar, al fine di avere sempre a disposizione mano d’opera da sfruttare, in tutti i sensi, per lo sviluppo della colonizzazione agricola.
Si arriva, così, ad un’epoca più recente, la Libia del post- Gheddafi, realtà in cui il campo, viene presentato come un luogo che ‘tutela’ i migranti e i loro diritti anche se non è così: «in Europa come in Africa, in realtà è, al contrario, un luogo di eccezione rispetto allo stato di diritto. Nel campo, detenzione, sofferenza fisica e psicologica, si combinano senza che per altro vi sia una chiara determinazione della fattispecie del reato commesso. Negli ultimi quindici anni si è dunque fatto ricorso sempre più alla detenzione amministrativa, non solo in Italia attraverso la costruzione di diverse tipologie di campi, ma anche in Africa, specialmente in Libia (…). Segue tutta la storia del “Trattato di Amicizia, cooperazione e partenariato” del 2008, tra il presidente del Consiglio italiano di allora, S.Berlusconi, e il generale M. Gheddafi, e che segnò, dopo il crollo della Libia, uno dei periodi più drammatici, amari e oscuri per l’Italia, condannata dai giudici della Corte Europea, il 6 giugno 2012, per la sua politica di respingimento in alto mare.
Anche i saggi sui campi italiani ci fanno riflettere sempre di più sul notevole aumento del flusso dei migranti diretti verso l’Europa, e che arriva sulle coste italiane e greche.

La politica della fortezza Europa

Il concetto di crisi poi, si è sovrapposto a quello dei rifugiati, anziché riferirsi ai luoghi di provenienza e transito – con cui i Paesi dell’Unione europea hanno storicamente costruito relazioni e portato avanti accordi – o alla crisi dell’Europa che, per molte cose, si è dimostrata inadeguata e ingiusta nell’individuare una seria e organizzata politica d’assistenza e protezione dei migranti.
Per comprendere l’odierna realtà, nelle pagine si tiene memoria di quel che è accaduto sul territorio italiano, dal 2013, con l’avvio dell’operazione Mare Nostrum e poi con quella denominata Triton, diretta da Frontex, per riflettere su molti aspetti delle politiche di controllo e sorveglianza verso i rifugiati arrivati via mare.

Le leggi italiane sullo status di immigrato negano i diritti

Tra queste pagine, come è stato accennato prima, si affronta il problema della detenzione amministrativa degli stranieri, istituto giovane dell’ordinamento giuridico italiano, introdotto per la prima volta nel 1995 come misura eccezionale di natura temporanea, e poi normalizzato dal 1998, dopo aver subito numerose modifiche e trasformazioni che hanno riguardato le regole e gli standard per la creazione e la gestione dei centri destinati a ‘trattenere’ gli stranieri in attesa di espulsione.
«In questa lunghissima e difficile storia, la cosa più inquietante, è il riemergere degli status.
Lo status di immigrato irregolare prescinde dai comportamenti del soggetto che ne è titolare e giustifica di per sé una sua capitis deminutio nel godimento non solo dei diritti sociali, ma di quegli stessi diritti di libertà e alla dignità, che finora erano stati considerati i più inalienabili fra i diritti umani».

 

IL RAGGIO VERDE

Dopo gli incontri alla Fondazione Basso, trovare una linea profonda per raccontare le storie e le esperienze ascoltate da tante persone, è stato impegnativo ma molto interessante. Tornare poi indietro nella Storia, attraverso le pagine di un libro, per vedere meglio quando e perché sono nati nel mondo terribili ‘pensieri’ che hanno generato altrettante terribili realtà, è stato importante per capire meglio perché ancora oggi, ingiustizie profonde e disuguaglianze persistono ovunque. Ma, per inoltrarsi, senza perdersi, in questo infinito e difficile mare, ci vuole molta conoscenza e, allora, che fare? Domanda profonda, e risposta immediata: dobbiamo ripartire dalla Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, perché «è la nascita che rende tutti uguali» (v. articolo di Francesco e Domenico Fargnoli sul Sogno della farfalla, n.2, 2018 ) e che dà la speranza-certezza che esista un altro essere umano con il quale avere rapporto. È quel raggio profondo di luce che salva, e non fa affogare nel mare nero della disperazione; raggio verde che, come racconta una storia dà, a chi ha la fortuna di vederlo nella magica luce di un tramonto, la possibilità di conoscere se stesso e gli altri. Raggio verde come quello disegnato sulla copertina della rivista Il Sogno della farfalla che oltre al numero monografico sopracitato ha dedicato un convegno il 14 aprile 2018  insieme a Left e alle sue infinite pagine rosse.

3-fine

Gli altri articoli sono stati pubblicati

il 22 agosto 2018 

e il 23 agosto 2018

 

Terremoti e burocrazia, la strategia dell’abbandono

Un casale parzialmente distrutto dal sisma a pochi chilometri dal centro di Amatrice

La terra non smette di tremare e la paura delle devastazioni del terremoto non si allenta, in un pezzo di Italia fragile. Mentre scriviamo arriva la notizia di una scossa di magnitudo 3.9 in Emilia, intanto in Molise, da giorni continuano le scosse (la più forte di magnitudo 5.1 a Montecilfone, Campobasso, lo scorso 16 agosto). Due anni fa fu colpita la valle del Tronto, a cavallo fra Lazio e Marche.

Oggi risalire la collina verso Amatrice e imboccare il corso principale della città è come entrare in un paese raso al suolo dalle bombe. Il centro è stato completamente distrutto dal terremoto del 24 agosto 2016, che ha causato quasi 300 morti e decine di migliaia di sfollati: gli edifici storici sono ormai ridotti a massi catalogati all’interno della zona rossa, fra pareti franate, muri accartocciati e i tanti resti di una vita quotidiana strappata all’improvviso dal suo anonimo ripetersi; materassi, pentole, scarpe da donna, libri ammucchiati in un imprevisto disordine, una precarietà immobile che conserva, suo malgrado, i ricordi di chi qui ci abitava.

Oggi si fanno i conti con il «difficile passaggio dall’emergenza alla gestione ordinaria», come dice Filippo Palombini, che in Comune ha preso il posto di Sergio Pirozzi, il “sindaco immagine” del post sisma, che nel frattempo è diventato consigliere in Regione e presidente della Commissione terremoto del Lazio, attirandosi le ire dei suoi concittadini, che prima lo osannavano e ora lo accusano di aver utilizzato il dramma per far carriera politica. L’Unione europea ha stanziato circa 1 miliardo e 200mila euro dal fondo di solidarietà, ma il bilancio, a due anni di distanza, racconta di ritardi, inadempienze e una burocrazia che rallenta ogni intervento e nevrotizza istituzioni e cittadini.

«Il problema non sono i fondi – sbotta il sindaco – ma la possibilità di utilizzarli: la Centrale unica di committenza per gli appalti pubblici, gli studi di fattibilità, l’esiguo numero di tecnici rallentano tutto. Ad Amatrice quello che c’è già è stato pagato dai privati». Ora, garantisce il sindaco, è partita l’approvazione dei primi “aggregati volontari”, blocchi di edifici che, con l’accordo di tutti i proprietari e il via libera del Comune, possono essere sottoposti a un unico intervento di ricostruzione. Una parola che suona ancora come un miraggio: dal centro è stata rimossa appena la metà delle macerie e, in molte delle 69 frazioni, il paesaggio è ancora la desolante fotografia dei giorni successivi al terremoto.

Su circa 2.500 residenti, 1.600 hanno perso la prima casa, ma il 90 percento degli immobili è comunque inagibile; chi ha potuto se ne è andato, altri (circa 550) sono stati sistemati nelle Sae, le soluzioni abitative di emergenza; soltanto in pochi sono riusciti a organizzarsi autonomamente, mentre un centinaio di sfollati vive ancora negli…

Il reportage di Federica Tourn, con le foto di  Stefano Stranges, prosegue su Left in edicola dal 24 agosto 2018


SOMMARIO ACQUISTA

La Grecia di Tsipras fuori dalla morsa della Troika ma a che prezzo?

epa06881794 Greek's Prime Minister Alexis Tsipras (L) and Hungary's Prime Minister Viktor Orban (R) arrive for a family photo in front of the Arcades du Cinquantenaire during a NATO Summit in Brussels, Belgium, 11 July 2018. NATO member countries' heads of states and governments gather in Brussels on 11 and 12 July 2018 for a two days meeting. EPA/CHRISTIAN BRUNA

La Grecia è ufficialmente fuori dal memorandum – una recente decisione dell’Eurogruppo ha differito al 2032 l’inizio del ripianamento di parte del debito – ma anche la stampa “amica” di Tsipras non può fare a meno di interrogarsi se davvero riuscirà realmente a lasciarsi dietro le spalle, «seppur gradualmente», otto anni di austerità, disoccupazione, emigrazione, miseria, suicidi, morti per malasanità e psicofarmaci a go-go per chi sopravvive. L’economia greca è stata distrutta per un quarto dall’inizio del “salvataggio”. Se il Pil cresce del 2% è comunque il 20% sotto quello del 2010. Le entrate dei greci sono crollate del 38,3%, il tasso di povertà si attesta al 22%, il sistema pensionistico pubblico ha subito tagli del 14 % e la maggior parte dei pensionati hanno perso un terzo del loro potere d’acquisto, il 30% delle imprese ha chiuso, gli investimenti delle imprese sono crollati del 60%, il tasso di disoccupazione supera il 20%, il debito pubblico è superiore al 178%, molti greci non hanno altra scelta che emigrare. Dei 260 miliardi di euro “prestati” dai creditori, l’89,7% è servito per ripagare i debiti.
Nel primo trimestre del 2018, il rapporto debito/Pil, al 180%, da solo svela l’imbroglio con cui sono stati imposti i memorandum. Nel 2009, infatti, il debito greco era una montagna di 301 miliardi di euro, il 126% del Pil e, grazie alle misure draconiane imposte dalla troika ha toccato quota 325 miliardi, per non parlare dell’indebitamento delle famiglie. «Un successo innegabile!», osserva da Atene, con amaro sarcasmo, Tassos Anastassiadis, esponente di Antarsya, la coalizione della sinistra alternativa. L’uscita dal commissariamento non significa fermare gli “impegni” e gli effetti strutturali delle “riforme”. «Da un lato, gli “impegni” sono stati presi fino al 2060, a partire da un ulteriore calo delle pensioni nel 2019 – ricorda Anastassiadis – dall’altra, vi è la continuazione delle “riforme” già programmate e “liberamente concordate”, in termini di vendita di spazi pubblici, concorrenza, flessibilizzazione del lavoro, ecc…». Anche Eduardo Garzòn, a cui dobbiamo le cifre economiche citate in testa, avverte che «chi crede che sia una buona notizia è perché non ha letto o capito la letra pequeña, le clausole scritte in piccolo, dell’ultimo salvataggio: la Grecia è obbligata a registrare un avanzo di bilancio primario (esclusi gli interessi sul debito) del 3,5% del Pil su base continuativa fino al 2022 e 2,2% fino al 2060».

Tsipras cita Omero per la ripartenza

Per l’occasione, il premier Alexis Tsipras non lesina citazioni dalla mitologia e dalla letteratura classica nel salutare la fine dei programmi di assistenza internazionali che, se da una parte hanno evitato la bancarotta, dall’altra hanno devastato la società ellenica con riforme durissime. Parlando simbolicamente da Itaca – in camicia davanti al golfo della piccola isola ionica – Tsipras si è rivolto in video ai greci affermando che il Paese ha superato la sua «Odissea moderna» iniziata nel 2010, e la fine dei piani di aiuti internazionali segna «un giorno nuovo, un giorno di redenzione, ma anche l’alba di una nuova era». In oltre sette minuti carichi di riferimenti omerici ed evocando viaggi su mari tempestosi, il premier ha spiegato che «i salvataggi dalla recessione, l’austerità e la desertificazione sociale sono finalmente finiti. Il nostro Paese riconquista il suo diritto a disegnare il proprio futuro». «Abbiamo lasciato le Simplegadi alle nostre spalle», ha aggiunto, in riferimento alle mitiche rocce del Bosforo che, cozzando tra di loro, impedivano il passaggio delle navi. Il premier greco ha quindi rivendicato l’opera del suo esecutivo, che a suo avviso ha compiuto la missione che si era prefisso nel 2015, «portare il Paese fuori dalle restrizioni dei memorandum e dall’austerità senza fine».
Ricordando i drammi economici e sociali di questi anni («Un viaggio che non è mai stato facile, ma ha sempre avuto una destinazione, anche nei giorni più bui, nelle tempeste più forti»), Tsipras ha detto che «abbiamo sentito le Sirene del “tutto inutile” molte volte: che le cose in Grecia non cambieranno, che i memorandum saranno qui per sempre, che non ha senso resistere contro Lestrigoni e Ciclopi, bestie contro le quali la piccola e debole Grecia non avrebbe mai potuto vincere. In questo punto di partenza, non commetteremo l’hybris (l’insolenza, la tracotanza) di ignorare le lezioni dei memorandum. Non ci faremo trascinare dall’oblio, non diventeremo lotofagi. Non dimenticheremo mai le cause e le persone che hanno portato il paese ai memorandum. La protezione della grande ricchezza dalle tasse, l’intreccio di interessi e la corruzione diffusa, l’impunità di una serie di gruppi di affari e dell’editoria che per anni credevano il paese gli appartenesse, il cinismo e il disprezzo di un’élite politica che credeva la Grecia fosse un feudo e i greci i loro docili soggetti». E, ha aggiunto, non ci dimenticheremo chi all’estero ci dileggiava e chi ci ha sostenuti. Il premier ha poi concluso ricorrendo di nuovo all’Odissea: «Adesso abbiamo nuove battaglie davanti a noi. I proci contemporanei sono qui e ci sono davanti. Sono quelli che vorrebbero vedere di nuovo la barca verso il mare e la gente di nuovo nella stiva. Quelli che hanno costruito “a loro immagine e somiglianza” la Grecia della corruzione, degli interessi e del potere dei pochi. Coloro che vogliono poter indisturbati evadere le tasse, fare i parassiti a scapito dell’interesse pubblico, avere i propri off-shore e depositi all’estero. Coloro che si considerano al di sopra di qualsiasi legge e norma. E tremano all’idea di una giustizia indipendente. Non lasceremo Itaca nelle loro mani. Ora che abbiamo raggiunto la nostra meta desiderata, abbiamo la forza di rendere la nostra terra come essa merita. Perché Itaca è solo l’inizio».
Prossime fermate: il rimpasto di governo e il programma economico per il 2019, anno delle elezioni europee.

Nei sondaggi il centrodestra vola verso la maggioranza assoluta

A poco più di un anno dalle nuove elezioni, il trend sembra prevedere un ritorno al potere della destra conservatrice. Questo lo scenario degli ultimi sondaggi elettorali diffusi dai principali istituti demoscopici ellenici. Syriza, dopo il doppio successo alle due tornate elettorali del 2015, sembra ora in netto calo. Gli istituti demoscopici valutano il partito di Tsipras tra il 22 ed il 25%, ben lontano dal 36 e 35% registrato nelle due elezioni 2015 inframezzate dal referendum contro il memorandum vinto dai No col 61,31 % ma poi totalmente disatteso dal governo di Syriza. In molti lo lessero come una capitolazione alla logica del Tina (There is no alternative). Molto peggio va al suo partner di governo, ovvero i nazionalisti moderati di Anel, valutati al 2%, al di sotto della soglia di sbarramento del 3%. Chi si prepara a tornare al governo è Nuova Democrazia (Nd) dato al 36-37% col quale, grazie al premio di maggioranza (50 seggi) potrebbe assegnare al centrodestra quota 150, la maggioranza assoluta. Rinascerebbe il Pasok, i famigerati “socialisti”, seppure in un blocco di centrosinistra con Dimar e To Potami sondati al 10%. Appena un punto sotto ma in crescita, i neonazisti di Alba Dorata. La formazione guidata da Nikolaos Michaloliakos è valutata tra l’8 ed il 9%, e al 7% i comunisti del Kke, che ad oggi passerebbero dal 5.6 al 7%.

Le reazioni in Italia

«La Grecia esce dal programma internazionale di bail out gestito dalla troika e riconquista la propria autonomia dopo 8 anni. Le difficoltà non mancheranno ma intanto Tsipras ha salvato il suo Paese con riforme e senso di responsabilità. Chapeau», scrive su twitter l’ex premier ed esponente Pd, Paolo Gentiloni. Di tutt’altro avviso Stefano Fassina, deputato dichiaratemanete noeuro dentro Leu: «È immorale la propaganda che oggi arriva dai vertici della Commissione europea sulla Grecia. Uno spot in vista delle prossime elezioni europee. A Bruxelles hanno la faccia tosta di congratularsi con il popolo greco per il “successo” di un’offensiva che ha avuto soltanto il merito di salvare le banche tedesche e francesi. I programmi della Troika guidata dai più forti governi e interessi della Ue hanno inferto drammatici colpi alle fasce sociali più deboli e alle classi medie greche. Hanno devastato sanità pubblica, pensioni e diritti del lavoro, generato povertà diffusa, emigrazione di mezzo milione di persone, in larga parte giovani qualificati, privatizzato-svenduto asset publici preziosi. Ma, oltre alle macerie sociali, il dramma è che il debito pubblico è arrivato al 180% perché i programmi hanno portato il Pil a un crollo del 30%. Un »successo« che, come ha scritto il Fmi, lascia tale debito su un sentiero di insostenibilità, coperto nelle celebrate previsioni ufficiali da irrealistici obiettivi di avanzo primario al 3,5% del Pil per i prossimi anni e poi sempre sopra il 2%. La Grecia, in realtà, rimane agonizzante, prigioniera dell’austerità, senza significative prospettive di crescita. Serve alla Grecia e a tutti nella Ue una rotta alternativa all’ordo-liberismo del mercato unico e dell’eurozona. La Grecia, purtroppo, dimostra che, nel quadro dato, anche la sinistra migliore è costretta a attuare, in profonda contraddizione con il mandato democratico ricevuto, l’agenda liberista».

Anno Duemiladiciotti. Stanno tutti bene

Dopo lo sbarco di ieri sera dei 27 minori è ricominciata l?attesa per i migranti giunti nella tarda serata di lunedì nel porto di Catania sulla nave Diciotti della Guardia Costiera.Tolta la bandiera gialla che indica la quarantena è stato possibile far scendere la scaletta e provvedere ai rifornimenti alimentari. ANSA/ORIETTA SCARDINO

“Sono tutti illegali”, dice il ministro dell’interno Salvini. Per uno scherzo del destino proprio mentre qualcuno gli fa notare che l’illegale negli atteggiamenti è lui.

“Stanno tutti bene”, dice il ministro Toninelli, mentre è impegnato nelle sue irrinunciabili vacanze ma ci dice che lavora lo stesso, con il telefono. Per uno scherzo del destino il comandante della nave Diciotti della Guardia Costiera ci dice di avere saputo dello sbarco dei minori “via Facebook senza niente di scritto” poiché probabilmente l’hotel del ministro alle Infrastrutture non ha nemmeno un fax.

Come stanno tutti bene? Come si sta bene nell’anno duemilaDiciotti?

“Tutti i ragazzi sono molto provati – ha detto Teo Di Piazza di Medici Senza Frontiere -. Le prime testimonianze che abbiamo raccolto ieri sera sul loro periodo in Libia sono raccapriccianti. Un ragazzo ha problemi alla vista perché è stato tenuto più di un anno al buio. È chiaro che questo ha forti ripercussioni anche dal punto di vista psicologico”. Un altro ha una ferita da arma da fuoco “grave e problematica, tanto da avere la mano destra semiparalizzata”.

Una operatrice di Terre des hommes parla di 27 “scheletrini”: “Abbiamo accolto 27 scheletrini, il più magro sarà stato un po’ più basso di me e sarà pesato una trentina di chili, la gamba con lo stesso diametro del mio polso – racconta -. Uno era tutto e solo orecchie, uno non riusciva a camminare perché era pieno di dolori, tre avevano delle bende lerce al polso, al piede e al braccio sparato. Abbiamo accolto 27 scheletrini, comprese due splendide fanciulle”.

Insomma, tutto bene. Augurandovi di non essere mai somali o eritrei di qualcuno.

Buon venerdì.

La sicurezza che manca in Italia

Nearby buildings of the partially collapsed Morandi bridge in Genoa, Italy, 16 August 2018. Italian authorities, worried about the stability of remaining large sections of the bridge, evacuated about 630 people from nearby apartments. The Genoa prefect's office on Thursday corrected the death toll, saying 38 people are known to have died, not 39 as previously reported. The death toll remains provisional. ANSA/LUCA ZENNARO

Il crollo del viadotto Morandi ha messo dolorosamente davanti agli occhi di tutti qual è la sicurezza che davvero manca al nostro Paese. A minacciare il diritto all’incolumità di chi vive in Italia non sono certo i migranti come vogliono far credere politici xenofobi che hanno costruito il proprio successo elettorale sulla paura di invasioni (inesistenti). È inaccettabile il braccio di ferro che, ancora una volta, i ministri Salvini e Toninelli hanno ingaggiato sulla pelle di chi scappa da guerre e dalla povertà, cercando un futuro altrove. Nel mirino del governo giallonero questa volta sono finiti 177 migranti che, mentre scriviamo, non hanno ancora un approdo sicuro benché si trovino a bordo della Diciotti della guardia costiera italiana! . (Sabato 25 agosto il Viminale ha dato il via agli abarchi). In un colpo solo sono stati calpestati i valori della Costituzione e l’articolo 33 della convenzione di Ginevra. Negati i diritti umani fondamentali, come hanno denunciato Magistratura democratica e Asgi (Sempre domenica è arrivata la notizia che Salvini è indagato per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio nda).

Il governo legastellato si accanisce sulle persone più vulnerabili, additandole come nemici del popolo italiano e intanto pensa a imporre l’iniqua flat tax che premia i più ricchi invece di rimboccarsi le maniche, mettendosi a lavorare ad un massiccio piano di messa in sicurezza del territorio e delle infrastrutture. In quella stessa drammatica settimana di ferragosto scosse di magnitudo 5.1 sono state registrate in Molise e successivamente in Emilia (3.9). Sono già trascorsi due anni dal terremoto che devastò regioni del centro Italia e ancora oggi lo scenario è quello di paesi bombardati con la popolazione locale che vive in condizioni precarie, come raccontano Federica Tourn e Stefano Stranges in un ampio reportage dalla Valle del Tronto. I terremoti sono eventi naturali difficili da prevedere. Ma si può fare prevenzione per evitare crolli di case, ponti, infrastrutture.

Non è stata una fatalità naturale a far crollare il 14 agosto il ponte genovese di cui erano ben note le fragilità dovute all’usura del tempo e dei materiali. Un’opera all’avanguardia quando fu costruita, ma che aveva bisogno di manutenzione, di un monitoraggio moderno e scientifico, come gran parte dei 50mila ponti sparsi per l’Italia. Sulle cause del disastro di Genova costato vite umane indaga la magistratura. Emergeranno le responsabilità. Ma pensando alle vittime, insieme al dolore, cresce la nausea per il comportamento di una classe dirigente italiana composta da politici e industriali irresponsabili. È agghiacciante la leggerezza con cui sono stati svenduti a privati beni pubblici, essenziali, come le autostrade, senza imporre ai gestori, che ne ricavano lauti profitti, adeguati investimenti per la manutenzione e la modernizzazione delle strutture.

Dall’Italia spa ideata da Andreotti nel 1991 per arrivare alla stagione delle svendite e delle cartolarizzazioni, politici di centrosinistra e di centrodestra si sono dati man forte in questa operazione scellerata di messa all’incanto di beni comuni, per fare cassa nell’immediato, senza peraltro nemmeno ricavarci cifre consistenti. La storia chiama in causa i governi Berlusconi e il provvedimento salva Benetton votato anche da Salvini nel 2008. Ma chiama in causa pesantemente anche Prodi che dette il via alla stagione dei saldi e poi, D’Alema, Amato, Di Pietro ecc. È stata la sagra delle privatizzazioni all’italiana. Anche per colpa di un centrosinistra sedotto dal neoliberismo alla Blair, che considerava la Borsa l’ombelico del mondo. Correre ai ripari oggi pensando a un piano di ri-nazionalizzazioni non è facile, ma è un tema che merita una discussione pubblica, è un tema che la sinistra dovrebbe riproporre con forza, come sta facendo Corbyn che è riuscito a risollevare il Labour rifiutando l’ideologia liberista della Terza via. E non basta.

Poco prima che si verificasse il dramma di Genova su Left cercavamo di riflettere sul futuro delle città, (le mani sulla città) strette nella morsa della speculazione finanziaria e della corsa al cemento. Tema centrale, ineludibile. A Genova c’erano  studi per spostare su rotaia parte del traffico di merci. Ma si parla da anni della Gronda e di altri progetti e ha continuato a prevalere un modello di sviluppo legato al traffico su gomma. Il caso del capoluogo ligure purtroppo non è unico e isolato. Anche grazie a provvedimenti come lo Sblocca Italia  sostenuto dal ministro Lupi durante il governo Renzi, un Paese fragile dal punto di vista idrogeologico come l’Italia è sempre più a rischio. È quanto mai urgente aumentare il livello di sicurezza. Serve un gigantesco piano di monitoraggi con sensori e tecnologie satellitari, per fare la tac alle infrastrutture, come suggerisce l’urbanista Paolo Berdini, che insieme all’architetto e docente di Scienza delle costruzioni Ugo Tonietti e al giurista Mario Sentimenti, da diversi punti di vista, offrono importanti spunti di riflessione e proposte per rimettere al centro la questione del controllo pubblico, della prevenzione e della conoscenza. Tema chiave, perché il Paese possa uscire dallo stato di arretratezza in cui versa.

Proprio per questo proponiamo oltre alla storia di copertina, un’ampia contro copertina dedicata alla scuola.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 24 agosto 2018


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La grande bugia

GENOA, ITALY - AUGUST 18: The Morandi Bridge still partially stands after a large section of it collapsed earlier this week on August 18, 2018 in Genoa, Italy. 43 people were killed after a large section of the Morandi highway bridge collapsed on August 14, 2018. Thousands attended a state funeral for 19 victims of the disaster today while some families boycotted the event, blaming the government for failing to ensure that the bridge was safe. (Photo by Jack Taylor/Getty Images)

Ci sarà da riflettere nel profondo per comprendere la tragedia di Genova e avviare una nuova fase di vita del Paese. Tragedia per le incolpevoli vittime in primo luogo, ma anche per una nazione che è arrivata al capolinea del trentennio del liberismo con un evento simbolico: una città e una nazione spezzati in due, senza alternative a portata di mano e senza una classe dirigente in grado di indicare una rotta credibile.

Iniziamo dallo svelamento della grande bugia che ha dominato questi ultimi decenni: pubblico è sinonimo di sprechi e malversazioni e solo il settore privato è in grado di garantire una prospettiva per tutti. È stato il centro sinistra di governo che ha svolto con un zelo degno dei neofiti il compito di cancellare tutti i monopoli pubblici che avevano garantito sicurezza sociale e benessere fino agli anni Ottanta. È sotto la presidenza di Romano Prodi che viene smantellato l’Iri, il colosso pubblico punto di eccellenza di capacità progettuali e realizzative. Nel 1992 Ferrovie dello Stato diviene – sulla base degli indirizzi europei – società per azioni. Con i governi Prodi-D’Alema-Amato si privatizzano le Autostrade e Telecom.

Gli storici ci hanno già raccontato di quale fosse stata la regia dell’operazione che ha consegnato il timone di un intero Paese a gruppi imprenditoriali spesso improvvisati e incapaci di guardare al futuro. Un giudizio immediato lo possiamo dunque già dare sul gruppo dirigente del centrosinistra acritico che si beava di aver fatto «lenzuolate di liberalizzazioni» mentre invece demoliva lo Stato, perché non c’è stato settore che non sia passato sotto la regia privatistica.

Qui nasce il primo nodo da sciogliere se l’Italia vuole davvero riprendere il cammino. In quegli anni sono stati demoliti sistematicamente tutti i saperi tecnici che avevano contribuito alla creazione del boom economico del secondo dopoguerra. La polverizzazione dell’Iri trascina infatti dietro di sé tutti i corpi tecnici dello Stato, dai ministeri dei Lavori pubblici e dei Trasporti per passare alle Province e alle strutture comunali. È dunque evidente che per ricostruire la funzione pubblica dell’Italia del futuro c’è bisogno di risorse umane di elevata qualificazione.

C’è poi il problema di ritrovare le risorse economiche utili alla manutenzione del gigantesco patrimonio infrastrutturale italiano. Risorse tagliate sistematicamente dagli anni 90 anche mediante…

L’articolo di Paolo Berdini prosegue su Left in edicola dal 24 agosto 2018


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Sulle rotte dei migranti: la fuga di giovani e donne dal Mali, dai Paesi del Sahel e dal Bangladesh

epa01003647 A Malian herdsboy controls cattle outside a village on a dry plain in central Mali 01 May 2007. Life in Africa's Sahel has become increasingly more difficult with desertification and temperature rise due to climate change making farming and the survival of livestock increasingly more difficult. Mali, twice the size of France, is one of the world's poorest countries. EPA/NIC BOTHMA

“Migranti: da dove vengono, cosa li spinge a partire, come viaggiano” è l’argomento di approfonditi seminari organizzati nei mesi scorsi dalla Fondazione Basso per gli studenti della Scuola di giornalismo, e aperti al pubblico. Li abbiamo seguiti e  dopo il primo racconto sulla Nigeria e il Ciad, ecco il secondo.

Cercando tra le decine di pagine piene di appunti raccolti durante gli incontri, è come se, lo sguardo, diventato più profondo per le tante storie ascoltate, riuscisse a vedere in un solo colpo d’occhio tutti i flussi di esseri umani che, fusi con altri, creano in continuazione un movimento planetario che supera barriere insormontabili per affermare la propria identità e uguaglianza con gli altri esseri umani.

Il Sahel, cuore dell’Africa

Durante un incontro, su una mappa antica del mar Mediterraneo centrale, ho visto infiniti tracciati di rotte conosciute e sconosciute che mi hanno fatto pensare a navi con le vele spiegate al vento. La mente si è incanalata per qualche momento in un sogno, in una storia diversa, fatta di uomini liberi di navigare, e vivere, ovunque. Ma se i sogni vanno sempre custoditi dentro di noi, la realtà deve essere conosciuta così, la voce di un esperto, mi ha riportato alla dura vita di un altro Paese africano: il Mali, Stato del Sahel, nel cuore dell’Africa occidentale, una regione che complessivamente conta circa 19 milioni di abitanti. Tornando al Mali, diverse crisi ambientali hanno aggravato ancora di più le condizioni del territorio che per il 35% è di natura desertica. Nel biennio ‘72/’73, si verificò una gravissima siccità che interessò soprattutto le popolazioni nomadi transumanti che ebbero molti danni. La situazione si aggravò poi, dieci anni dopo, a causa di un’altra fortissima crisi idrica. Le comunità dei Tuareg subirono per prime gli effetti delle violente crisi climatiche … e dell’indifferenza delle elite. Gli aiuti, e l’assistenza internazionale, ‘distrassero’ i fondi che furono impiegati per altre opere e gli shock ambientali provocarono così una massiccia emigrazione. Molti giovani decisero di raggiungere l’Algeria e la Libia e di offrire la propria mano d’opera, mal pagata, mentre altri entrarono nella rete della criminalità. Nel 2011, una crisi alimentare ha causato nuove migrazioni che si sono orientate così, verso il Mediterraneo.

Il Mali, Paese poverissimo

Il Mali è uno dei Paesi più poveri del mondo, soprattutto lo sono i suoi centri rurali, tanto che anche i giovani più istruiti decidono di emigrare. La qualità delle performance statali verso le popolazioni per quanto riguarda i beni e i servizi è scarsa, rafforzando quindi la sfiducia generale verso lo Stato che viene considerato del tutto assente, soprattutto rispetto alla sicurezza mentre la polizia è spesso accusata di collusione con i criminali. Chi è all’estero cerca di accumulare ricchezze fino a che non avrà raggiunto una stabilità economica che gli permetterà di vivere dignitosamente, una volta tornato a casa. Il collasso della Libia di Gheddafi, è stato un altro motivo che ha spinto i maliani verso l’Europa. Il 2012 è stato un anno drammatico, per gli scontri interni, il golpe militare che, nel 2013, aprì la strada a gruppi jihadisti. Da allora il Mali non compare più nell’elenco dei Paesi cosiddetti sicuri e lo Stato del Sahel è diventato quasi un’ossessione per l’Unione europea.

I giovani e le loro speranze

Durante gli incontri alla Fondazione Basso, alcuni giornalisti freelance hanno raccontato le loro esperienze vissute in quell’area dell’Africa, dalla Nigeria al Niger e da altri Stati. Oltre a farci conoscere le difficili realtà umane e sociali incontrate, ci hanno detto che esiste una generazione di giovani che studia e che sogna una vita migliore, nonostante tutto.
L’Africa Occidentale non è povera, è solo molto impoverita. Ma allora, chi l’ha impoverita? La risposta è semplice:  le multinazionali. Le grandi imprese mondiali  trovano negli Stati del Sahel un terreno molto fertile: vengono dalla Turchia, dall’India e anche e soprattutto, dalla Cina. Si tratta di territori ricchi di materie prime. Nel Niger per esempio ci sono i più grandi giacimenti di uranio del mondo. Ma, ancora, ci domandiamo, che cosa spinge tante persone ad affrontare un viaggio così pericoloso e costoso? Sono i migranti stessi a raccontarcelo, sempre di più, con le loro parole. E sono storie che parlano di povertà e di migrazione causate anche da forti svalutazioni che a metà degli anni 90 hanno colpito la moneta del Mali, come quella di altri Paesi dell’Africa occidentale.

Dall’Africa all’Asia: il Bangladesh

Dal Mediterraneo all’immenso continente africano e, poi da questo, attraversando con il pensiero l’oceano Indiano, siamo arrivati in Bangladesh, per accendere i riflettori su questo grande Stato, nato nel 1971 dalla secessione dal Pakistan. Per i bengalesi, il ‘viaggio’ non è una novità. Ne è la prova un documento, una sorta di “glossario della sopravvivenza” emerso nel 2008 a Lampedusa. Le nove pagine ricomposte raccontano e, forse, nascondono, anche altre storie. Il glossario ci aiuta a capire quello che una persona vive quando si accinge a fare un viaggio. Giovani operatori che lavorano presso l’Amm, Archivio Memorie Migranti, affermano che questo documento si è conservato bene perché era avvolto in un foglio di plastica cucito nei pantaloni come si fa per i soldi, o per gli oggetti sacri, perché senza questi, per un bengalese, tutto perde di valore. Il glossario non è negoziabile con niente e, chi ha avuto l’interesse di aprire quelle pagine, ha potuto leggere parole come “Poeta” … “Amore” … e, allora, si deve occorre trovare uno sguardo diverso, e un sentire, che vada al di là delle stesse parole scritte.
È sempre interessante ripercorrere la storia di mille Paesi, di come sono nati e di come, innumerevoli volte, i loro popoli hanno lottato e sofferto per difendere o riconquistare la propria libertà ma, per ora, mettiamo un po’ da parte queste grandi storie per andare al cuore di questa ricerca, ‘il viaggio ’ di milioni di esseri umani, per ascoltare e conoscere i loro sogni, la loro vita.

Chi è che emigra? 

Le migrazioni del Bangladesh sono molto numerose e investono tutti gli strati della società ma coloro che vengono in Italia non sono i poverissimi, bensì appartengono ai ceti medi urbani e rurali. Spasso si tratta di proprietari di terre come quelli che, in passato, emigravano in Inghilterra e in altre parti del mondo.
La comunità migrante bengalese esiste ed è anche una forte comunità politica, con tutte le divisioni all’interno di essa; c’è una componente molto laica ma anche una religiosa. Ci sono anche tante differenze tra chi vive in campagna e chi vive in città e i migranti che provengono dai ceti medi urbani hanno meno difficoltà nell’inviare i soldi alle  famiglie di origine, a differenza degli appartenenti ai ceti meno abbienti che devono accettare il primo lavoro disponibile che permetta loro di mandare le rimesse alla fine del mese; per questo, moltissimi migranti indiani vivono in case con famiglie allargate, o con altri parenti e amici.
Fino al 1990, i bengalesi erano quasi del tutto sconosciuti in Italia: non si sapeva niente della loro realtà. Molti di loro partono anche per arricchire la propria identità umana, e perché è bello sentirsi cosmopoliti. Altri ancora hanno studiato o, avendo un patrimonio economico da investire, sono venuti in Italia per cercare di migliorarlo. Per queste persone non c’è urgenza nel trovare un’occupazione perché prevale il fascino della scoperta di mondi e realtà diverse. Può accadere poi, che altri migranti ci raccontino le loro storie con quell’intensità che ci riporta, ancora una volta, a grandi poeti come Shakespeare e Tagore, ma … anche a Marx.

Le donne e il futuro

Durante l’incontro sul Bangladesh, giovani donne originarie di quella terra, ci hanno parlato delle loro vite. Una  ha raccontato di essere nata dalla terza generazione di migranti bengalesi presenti nel nostro territorio, quindi ha rivelato di sentirsi completamente italiana per il vissuto e allo stesso tempo anche legata alla cultura della propria terra di origine. L’altra donna ha dovuto lasciare l’India molto giovane, per scegliere una vita diversa da quella che volevano imporle per motivi di religione, casta o altro. Ambedue hanno studiato in Italia, e ora si realizzano lavorando ognuna in campi diversi.

I tempi cambiano lentamente ma profondamente ovunque e ritengo che nessun movimento umano deve essere fermato se nasce da un’esigenza profonda di cambiamento ma, prima di tutto, non deve essere fermato se le persone che lo attuano sono spinte da motivi gravissimi e tragici che mettono a rischio la loro vita e quella della comunità cui appartengono.
Mentre rifletto sulle migrazioni, penso all’Italia, dove sono nata e dove vivo, e all’importanza fondamentale di una politica che trasformi il proprio ‘pensiero’, vecchio e dannoso per intere generazioni di cittadini, in un altro ‘nuovo’ che metta, urgentemente, al centro dell’attenzione l’essere umano nella sua totalità, perché è da qui che inizia la vera trasformazione di una società che, nel cosiddetto ‘straniero’, non veda un pericolo costante ma un arricchimento per tutti.

2-continua

il precedente articolo, pubblicato il 22 agosto 2018, qui

L’uomo forte è un vigliacco che smercia vendetta chiamandola giustizia

Un murales che ritrae il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini in tonaca da prete, crocifisso brandito in una mano, libretto nell'altra, è apparso oggi a Roma in un sottopasso nel quartiere Ostiense. L'opera riporta sul bordo bianco che la circonda la scritta "Vattene, Satana, Vattene". Un riferimento alla copertina di Famiglia Cristiana - oggetto di forti polemiche - dove il ministro era rappresentato sotto il titolo 'Vade retro Salvini'. Sulle nocche del leader leghista compaiono inoltre le parole 'love' (mano destra) e 'hate' (sinistra), come quelle dell'inquietante predicatore interpretato da Robert Mitchum nel film 'La morte corre sul fiume', Roma, 28 luglio 2018. ANSA/ANGELO CARCONI

L’uomo forte è un vigliacco. Lo chiamano forte ma semplicemente è incapace di brillare secondo le regole e allora finge di poterle forzare o scavalcare per dare sensazione di grandezza. Succede così anche ai ragazzini che giocano a pallone in cortile: chi non sa stare secondo al gioco prova a rendere possibile la prepotenza per riuscire a stare a galla. E invece è un incapace. Il più incapace, anche se piace a quasi tutti. Segna solo quando riesce a svuotare il campo dagli avversari.

L’uomo forte è un truffa. Finge di proteggervi ma ha bisogno solo del vostro consenso. Si vende al migliore offerente e la Storia ci insegna che quelli che pagano bene sono altri, mica il popolo. L’uomo forte non protegge nessuno, combatte la sua battaglia contro i nemici immaginari, inventati per funzionare negli intestini di chi è disposto a farsi circuire dalla paura per giustificare la propria disperazione. L’uomo forte non risolve i problemi, è capace solo di immaginarne di più neri e più terribili in arrivo e così ci convince a non pensare alle nostre disperazioni: noi restiamo disperati ma lui ci insegna che è maleducato ricordarglielo. Disfattisti: l’uomo forte i lucidi li chiama così.

L’uomo forte è una pestilenza: rompe gli argini di ciò che è lecito in cambio della promessa di un’indefinita protezione e intanto sfrutta la cedevolezza delle regole per curare i propri affari, per brogliare i propri impicci. L’uomo forte ci piace perché siamo deboli, esausti, pessimisti e ci convince che possano saltare le regole del gioco per tornare in gioco dimenticandosi che senza regole alla fine il gioco è lui. Solo lui.

Ma l’uomo forte finisce sempre male. Con un tonfo. Forte. Basta solo che succeda che i suoi seguaci si accorgano di assomigliare ai falsi nemici nelle fragilità, nelle privazioni, nella contrizione dei diritti. Di solito accade quando la vendetta (che l’uomo forte chiama “giustizia”) tocca qualcuno che ci è vicino, che è simile a noi. Allora l’uomo forte cade. I suoi scherani lo rinnegano. I suoi elettori lo ripudiano. E si ricomincia, di nuovo.

Solo le leggi e le regole contengono questi mostri. Le leggi e le regole. E la capacità di vederci molto più uguali di quello che raccontano.

Buon giovedì.

Sulle rotte dei migranti: la Nigeria tra povertà e assenza di diritti civili e il Ciad colpito dalla carestia

Oltre 335.000 persone continuano a soffrire la fame nella regione del Lago Ciad, un?area enorme dove a soccorrere la popolazione ci sono soltanto dieci medici. Il tutto, mentre dei 121 milioni di dollari richiesti per far fronte a questa immane crisi, ne sono arrivati dalla comunità internazionale solo 40. E? l?allarme lanciato da Oxfam di fronte ad una delle più gravi catastrofi umanitarie che il mondo stia affrontando oggi. In una giornata, in cui la comunità internazionale è chiamata ad interrogarsi e soprattutto a mettere in campo azioni immediate ed efficaci, per rispondere ad una crisi, come quella alimentare, che colpisce oggi 815 milioni di persone nelle aree più povere del mondo. ANSA/UFFICIO STAMPA OXFAM ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

È un doloroso leitmotiv il susseguirsi di tragiche notizie trasmesse dai media sulla sorte di migliaia di migranti.
Sul planisfero fisico, si vede l’Italia immersa nel blu di un unico grande mare, il Mediterraneo, carico di storia millenaria di antiche civiltà il cui ricordo, a volte, sembra quasi scomparire di fronte a terribili tragedie. Bagnata dallo stesso mare per un grande tratto, l’immagine dell’Africa appare sin da subito potente e anche misteriosa. Il verde intenso di alcune regioni vicine al mare, agli oceani e dell’entroterra, sfuma lentamente in un giallo, a volte chiaro, a volta ocra, che annuncia il deserto. Linee di colore blu intenso segnano il percorso di grandi fiumi, e chiazze dello stesso colore indicano laghi distanti tra loro come miraggi. Oceani immensi collegano ad altri continenti.

“Migranti: da dove vengono, cosa li spinge a partire, come viaggiano”. Gli incontri alla Fondazione Basso

È  l’argomento di un ciclo di seminari di approfondimento, realizzati da gennaio a giugno 2018, dalla Fondazione Basso di Roma, per gli studenti della Scuola di giornalismo e aperti al pubblico. Gli esperti presenti, insieme ai testimoni delle migrazioni, ci hanno aiutato a riflettere non solo sugli ultimi anni e sul grande flusso di migranti che attraversa il Mediterraneo, e che viene presentato con le proporzioni di una profondissima crisi ma, anche, a sfatare miti come la corrente distinzione tra ‘rifugiati’ e ‘migranti economici’, per guardare al retroterra e all’intreccio di cause che costringono sempre più persone e gruppi in difficoltà a migrare fuori dal proprio Paese.

La Nigeria e Benin City

Durante l’incontro approfondiamo la storia di questo grande Stato sin dal colonialismo, riflettendo anche sul fatto che i flussi, dal 2011/’12, sono raddoppiati, a causa anche delle violenze di Boko Haram che destano grande preoccupazione. Meta principale delle migliaia di migranti è il Nord-Europa dove ci sono intere comunità già insediate e dove possono ritrovare parenti ed amici. Sulla carta geografica della Nigeria abbiamo focalizzato la città di Benin City, a Nord del fiume Benin e a trecento km. dalla strada a Est di Lagos. Questa città ha attratto molti abitanti del Delta scappati da un mortale inquinamento e da zone di guerriglia, motivi gravissimi per i quali ha raggiunto un tasso enorme di urbanizzazione. Le case sono basse, le periferie molto disagiate e il livello di disoccupazione è elevatissimo. L’agricoltura resiste ancora, ma non riesce ad assorbire e sostenere i flussi continui di migrazione. Anche Lagos ha avuto uno sviluppo notevole, ma lì sono presenti altri migranti. È difficile avere un quadro completo della popolazione. In Nigeria, infatti, il sistema dell’anagrafe copre solo una piccola parte della popolazione. Si usa il concetto di ‘stima’ ma è un concetto labile e discutibile, che arreca non pochi problemi ai richiedenti asilo perché non possono essere identificati. Si parte con un nome e, all’arrivo, se ne ha un altro ma, se vogliamo produrre dei processi di accoglienza, dobbiamo partire da questo, da come possiamo fare per individuare queste persone in modo da facilitarne l’integrazione. Da Benin City emigra tantissima gente che poi arriva in Italia; ma perché questo luogo è così importante? Molti giovani arrivati sulle coste italiane dicono, spesso, di venire da lì ma, in realtà, parecchi di loro sono emigrati ancora da altri Paesi, o dalla Libia. Questa città è conosciuta, purtroppo, anche per la tratta delle ragazze nigeriane destinate alla prostituzione. Ci sono centinaia di giovani donne che sono state costrette a rimpatriare dopo aver vissuto anni di sfruttamento in Italia; senza soldi, e con il peso di una società che, per il loro passato, le punisce e le relega ai piani più bassi della scala sociale.
C’è però un grande lavorio da parte delle Ong e dell’Agenzia antitraffico nigeriana (Naptip) che sensibilizzano la popolazione per aiutare a reinserire le ex prostitute, appena libere dai trafficanti, da forze dell’ordine corrotte, spesso conniventi con le loro famiglie di origine.

Un’economia allo sbando

La Nigeria è sempre stato un Paese di immigrazione per molti africani ma, dopo Gheddafi, i mercenari in cerca di nuovi ingaggi, si sono innestati nella la popolazione causando numerosi conflitti. Molte persone sono ritornate nei loro Paesi per poi riemigrare. In tutta la Nigeria la rete del welfare e dei servizi civili è molto debole; il prelievo che si ottiene dalle compagnie petrolifere presenti nel territorio non è sufficiente a coprire le spese della la società nigeriana che quindi è paralizzata, perché non riesce a portare avanti riforme e modernizzazione. La conseguenza è che rimangono sacche di miseria e povertà che la indeboliscono sempre di più, pur essendo una terra molto ricca.
Sono presenti, nel territorio, anche piccole industrie ma, agli abitanti, per salvarsi da questa situazione, non resta che emigrare per cui, i flussi col tempo potrebbero aumentare ancora di più. Rimane però sconosciuta la realtà di moltissimi emigrati. Cosa è accaduto in questi ultimi quattro/cinque anni? Forse una parte di loro è rimasta irregolare e un’altra parte invece è riemigrata verso i Paesi anglofoni ma, per chi studia questa realtà, i dati sono sempre volatili; soprattutto, non è detto che quelli che mancano alla ‘conta’ siano ‘cattivi’ o vengano per farci del male. Ci vuole buon senso. Magari hanno trovato, o ritrovato, amici che li hanno ospitati, oppure sono ritornati nel loro Paese.

Il difficile percorso dell’integrazione in Italia

In Italia non esistono percorsi che facilitano l’integrazione ma, stare vicino a ragazzi che sono riusciti ad aprire da noi piccole attività, è importante per non farli sentire soli. Chi opera in questo settore dice che ci vuole una pazienza infinita, ma racconta anche della forza che ha in sé questo grande movimento umano che, oltre ad essere soggettivo, è fortemente collettivo, anche se lo spaesamento di chi arriva impegna molto tempo per essere superato. Bisogna aprire allora lo sguardo e ritrovare la storia dell’immigrazione in Italia, iniziata negli anni Settanta, per comprendere quella di oggi, molto più complessa. Molti migranti vogliono stare qui per avere il passaporto, per poi ripartire per il mondo insieme ad altre persone, tra le quali troviamo anche molti italiani in cerca di lavoro. Durante l’incontro alla Fondazione Basso sono stati riportati gli ultimi dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil che documentano il fatto che l’Inps individua solo il 20/25 % di una parte di lavoratori, chiamati ’fragili’ perché, pur lavorando, non riescono a raggiungere il numero preciso di giornate o settimane che li farebbe accedere alla disoccupazione. Tra loro ci sono moltissimi stranieri, considerati precari molto vulnerabili. Nei campi poi si conta ancora la presenza media di due/tremila persone (a Rosarno, in Basilicata, a Foggia, a Mantova, Forlì, Cesena, Ravenna/Alfonsine). Mettendo insieme tutte queste realtà, alla fine si calcolano centomila persone, si pensa, irregolari, che – con quelle individuate dall’Inps arrivano a centottantamila – e che lavorano in condizioni difficilissime e, molto spesso, disumane.

Il Mali, il Niger e il Ciad

Tra studi, racconti e testimonianze si passa, poi, dalla Nigeria al Mali, Niger, Ciad, affrontando il problema dei cambiamenti climatici, delle diminuzioni delle piogge e delle desertificazioni in atto. Riprendendo le principali rotte, si scopre che, l’ottantacinque per cento delle migrazioni sono intro-africane e le mete sono il Nord-Africa e, l’area del Sahel, come transito.
La fascia del Sahel dell’Africa sub-sahariana – il cui nome tradotto vuol dire “Bordo del deserto”- è estesa e comprende molti Stati, tra cui il Niger. Alle porte del Sahara c’è sempre stata un’attività commerciale e un’economia che affonda le radici nei secoli. Le rotte dei migranti però, sono le stesse della cocaina e questo crea un forte impatto nella popolazione. Queste strade infatti sono utilizzate anche dai vari gruppi legati ad Al-Qaeda e dalle bande di guerriglieri locali.
Il Niger ha assunto il controllo del territorio; sono presenti basi militari che appoggiano la Francia e le sue iniziative di controterrorismo e controllo del traffico dei migranti, esteso lungo cinque Paesi. Il Ciad, incastonato tra sei Stati e senza sbocco sul mare, è un’ex colonia francese. Il clima, nel Sud, è simile a quello di una foresta equatoriale, mentre il territorio del Nord è fortemente interessato da un processo di desertificazione anche se rimane sempre molto importante per l’esportazione del bestiame. Quindi il Paese è diviso in due: il Nord, poco popolato, con la presenza di popolazioni Tuareg e arabe e, il Sud più popolato. Il Centro-Sud ormai da anni è attraversato da un grave carenza alimentare, come attesta anche Medici senza frontiere.

Povertà, desertificazione e violazione dei diritti umani

Il Ciad, come già detto, in passato è stato amministrato dai francesi che hanno avuto poco interesse per questo Paese, ma che hanno sfruttato per la coltivazione del cotone, e per prelevare mano d’opera da schiavizzare e utilizzare in altri territori. Pochissime le infrastrutture costruite nel Paese,  l’amministrazione si occupò
attivamente solo del Sud. Si sa ancora che questo Paese detiene il tremendo record per i crimini contro l’umanità, e per l’estesa corruzione. Il Nord e il Sud, poi, sono in conflitto tra loro e, da anni, c’è in atto un processo di militarizzazione. Chi ha avuto il coraggio di arrivarci per girare un film e scattare foto, racconta che ha ottenuto l’autorizzazione per farlo in brevissimo tempo, appena ventiquattro ore, dopo aver consegnato una piccola somma alla persona giusta. La politica ha funzionato un po’ da supporto per lo sviluppo dei campi petroliferi ancora a Sud, e che rendono il Paese, già pieno di risorse naturali, sempre più ricco. Preoccupa molto inoltre il fatto che il grande lago del Ciad, una volta profondissimo, si sia quasi del tutto prosciugato a partire dagli anni Sessanta: un motivo in più per riflettere sulla desertificazione, dal momento che nel Paese non lo fa più quasi nessuno. Nel Ciad è in corso una crisi umanitaria senza precedenti; una realtà grave che delinea sempre di più i veri motivi che portano a migrazioni infinite.

1-continua