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Uno lascia che i profughi anneghino, l’altro li affama. Per Salvini e Orban appuntamento a Milano

In un'immagine combinata, il ministro dell'Interno e vicepremier Matteo Salvini (S) ed il il primo ministro ungherese Viktor Orban. ANSA

Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, incontra il primo ministro ungherese, Viktor Mihály Orban, martedì 28 agosto a Milano. È il vertice dei due leader sovranisti più importanti d’Europa, il vice premier del secondo Paese manifatturiero della Ue e il capofila del gruppo di Visegrad, uno lascia che i profughi anneghino nel Mediterraneo, l’altro li affama. Da un lato l’artefice della linea dura contro i profughi a bordo della nave Diciotti, dall’altro il capo di un governo a cui la corte europea dei diritti umani ha appena intimato di riprendere la distribuzione di cibo alle persone la cui domanda di asilo è stata respinta.

Le autorità ungheresi, infatti, stanno adottando questa linea per spingere i richiedenti asilo a lasciar perdere la loro domanda. Lo ha denunciato un’organizzazione per i diritti umani, il Comitato Helsinki Ungherese (Hhc). L’agghiacciante forma di pressione è riservata a chi ha presentato appello dopo che la richiesta di asilo è stata respinta. I migranti in attesa di appello sono rinchiusi in un centro di transito in Ungheria, al confine con la Serbia. Mentre è in corso la procedura d’appello, i migranti non possono entrare in Ungheria ma sono liberi di andarsene in Serbia, spiega l’Hhc, citando richiedenti asilo e i loro avvocati: «Si tratta di un trattamento inumano e di una situazione legale assurda». «Sembra che questo sia un altro piano disumano del governo per dissuadere la gente dal chiedere asilo in Ungheria, costringerli a rinunciare alle loro richieste e tornare in Serbia per procurarsi del cibo», ha spiegato in un’intervista ai media, Lydia Gall, ricercatrice Hrw, Human Rights Watch, per l’Europa dell’Est e i Balcani.

Per la ong ungherese, affamare queste persone è l’ultimo passo del premier ungherese, l’ultranazionalista Viktor Orbán, nella sua battaglia per impedire che i migranti calpestino il suolo del paese. «Siamo indignati dalla tattica di usare la privazione di cibo per scoraggiare i rifugiati in situazioni vulnerabili. E’ totalmente disumano», afferma Anna Simai, direttrice della comunicazione della Hhc. «Completamente scandaloso e assurdo dover ricorrere ai tribunali per ottenere una fetta di pane», aggiunge Lydia Gall.

Il 10 agosto scorso è arrivata alla Cedu la delegazione dei legali di Hhc per chiedere misure urgenti a Strasburgo per nutrire le due famiglie. Hanno anche documentato il caso di due fratelli siriani che lasciati due giorni senza mangiare. In totale, sono stati rilevati otto casi. In risposta agli appelli per le misure provvisorie, la corte ha immediatamente e provvisoriamente ordinato alle autorità ungheresi di ridistribuire il cibo a queste persone. L’inumanità delle autorità ungheresi si rivela nei dettagli: Ahmed, secondo il racconto di un quotidiano spagnolo, ha lasciato l’Afghanistan quando era un bambino, dopo che suo padre e suo fratello furono uccisi. Ha incontrato Nadia, sua moglie, in Iran, da dove sono dovuti fuggire quando hanno cercato di reclutarlo per combattere in Siria. Hanno trascorso venti mesi in Serbia in attesa di attraversare il confine con l’Ungheria. La famiglia di cinque membri – tra cui un bambino di tre mesi – è riuscita a farlo il 10 luglio. Lo stesso giorno, hanno presentato una domanda di asilo che le autorità ungheresi hanno respinto un mese dopo. Sono stati agli arresti in un centro al confine di Röszke per essere espulsi in Serbia. A Nadia e ai suoi figli è stato dato del cibo. Ad Ahmed, no. Né hanno permesso alla famiglia di condividere le razioni con il padre. Nadia e Ahmed sono nomi fittizi, ma il loro caso è reale. Lunedì scorso, il 20 agosto, è stato impedito l’ingresso a un sacerdote che cercava di consegnare pacchi di generi alimentari nelle cosiddette “zone di transito”, gli unici luoghi in cui, secondo le nuove leggi promosse da Orbán, i rifugiati possono presentare le loro petizioni, dove devono attendere la fine del procedimento, anche se fanno appello, luoghi che, secondo le ONG, sono che centri di detenzione. Hrw comunica che ci sono almeno 120 richiedenti asilo nelle aree di Rözske e Tompa, al confine con la Serbia, in attesa di una decisione e a rischio di taglio dei viveri.

Dal primo luglio, infatti, è stato varato il cosiddetto pacchetto “Stop Soros”. Secondo la nuova legislazione, le autorità considerano “inammissibili” le richieste di asilo di chiunque sia entrato in Ungheria da un paese considerato sicuro dalla legislazione nazionale, inclusa la Serbia, anche se l’Unhcr ha raccomandato di non rimpallare i richiedenti col paese confinante. La nuova legge permette la deportazione anche di chi fa appello alla decisione, denunciano le organizzazioni specializzate: «E’ una situazione legale assolutamente assurda», afferma Simai.

L'”ufficio per l’asilo” dell’Ungheria afferma che non c’è nulla nella legislazione ungherese che obbliga a fornire cibo alle persone che si trovino nella “procedura di sorveglianza degli stranieri” nelle zone di transito. Ma per Hrw, «l’argomento è falso. Le autorità ungheresi hanno l’obbligo di fornire servizi alimentari e sanitari adeguati a tutte le persone in loro custodia», i trattati sui diritti umani proibiscono “trattamenti inumani e degradanti” di persone sotto custodia della polizia e chiedono che vengano “trattati con dignità”, inclusi la fornitura di cibo, acqua, igiene e cure mediche. L’ennesima denuncia sul trattamento dei rifugiati da parte delle autorità ungheresi arriva in un momento in cui si impongono sempre più ostacoli alle organizzazioni che difendono i diritti dei migranti in Ungheria. Come spiegato dal Comitato ungherese Helsinki, solo gli avvocati con un’autorizzazione speciale possono entrare nelle zone di transito, ma una volta lì devono recarsi in un container designato per poter interrogare i richiedenti. Le stesse leggi approvate con il nome di “Stop Soros”, in riferimento al magnate americano di origine ungherese George Soros, puniscono con un anno di carcere la fornitura di servizi e consulenza a migranti e richiedenti asilo.

A metà settembre ci sarà la riunione dei ministri dell’Interno europei, e lì si vedrà. «Ci sarà parecchio di cui parlare – dice lo stesso ministro degli Interni a proposito dell’incontro con il premier ungherese – si dice che in base ai trattati, alle convenzioni, a Ginevra, noi non possiamo riportare gli immigrati indietro. Bene. Ma trattati e convenzioni si possono modificare». Stessa retorica xenofoba, simili misure anti-immigrazione e uguale rifiuto di accogliere i rifugiati nell’Unione europea: sta nascendo un polo sovranista e xenofobo di partiti al governo.

Intanto è scissione nel partito ungherese di estrema destra Jobbik: c’è infatti chi voleva andare ancora più a destra, mal digerendo il recente ammorbidimento della linea. E così nasce il movimento “Patria nostra”. Jobbik, che aveva conquistato il secondo posto dopo il Fidesz di Viktor Orban alle ultime elezioni di aprile, con il 18% e 1,2 milioni di voti, si indebolisce notevolmente con la fuoriuscita della corrente estremista guidata da Laszlo Torockai, sindaco di Asotthalom, un comune al confine sud del Paese. Del gruppo parlamentare di 26 deputati una sola esponente lascia, ma sono numerosi i rappresentanti regionali e comunali che hanno aderito alla novità, che nasce come movimento ma presto diventerà un partito registrato. Torockai ha indicato due obiettivi immediati: i referendum sull’appartenenza dell’Ungheria all’Ue e sulla reintroduzione della pena di morte.

La rabbia e l’orgoglio (di Rosella)

Professori e alunni a scuola per l'inizio dell'anno scolastico 2017/2018, Torino, 11 settembre 2017 ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Lei si chiama Rosella Bertuccelli, ha 66 anni, e dopo quarant’anni da insegnante precaria ha ottenuto l’agognato posto fisso a un anno dalla pensione. Ci sono voluti quarant’anni, a questo Paese, per concedere un posto di lavoro dignitoso a Rosella, per riconoscerle un merito professionale e per concederle di programmare con più fiducia il proprio futuro. A 66 anni Rosella si è presentata all’Ufficio scolastico provinciale e ha comunicato di non volere accettare. L’impiegato non voleva credere alle proprie orecchie. «È proprio sicura?», le ha chiesto e Rosella ha confermato senza indugi: «Certo che sì, il mio posto lo potete dare a un giovane, io rinuncio».

Dicono le colleghe della maestra Bertuccelli che la sua scelta sia frutto anche di tanti anni passati a studiare la filosofia dell’educazione che prevede di dare tutto ciò che è possibile per gli altri. Ma le parole più interessanti le pronuncia un maestro che descrive il gesto di Rosella come un senso «di rabbia orgogliosa che ti fa dire no, costi quel che costi». La rabbia e l’orgoglio sono due feticci inquinati che in questi anni sventolano issati sulla prua del cattivismo contemporaneo per giustificare l’esasperazione vendicativa e la guerra contro tutti come se, nella rabbia e l’orgoglio, ci debba stare per forza una violenza addirittura legittima.

La storia di Rosella se ci pensate appare al contrario e invece rimette dritta la realtà: la maestra di Viareggio per dignità e per giustizia ha preso una decisione che le costerà almeno il 30% di pensione. Rosella è convinta che la rabbia e l’orgoglio debbano spingere le persone a non far subire agli altri ciò che si è ingiustamente subito. Non è un digrignare di denti sperando che qualcuno ci permetta di passare all’incasso ma è un tenere la barra dritta per salvarsi tutti insieme. E mentre qualcuno l’accuserà di essere stata stolta o buonista probabilmente la giovane che ha ottenuto il posto ceduto da Rosella sarà un’ottima maestra di generosità. Mica per buonismo: per rabbia e per orgoglio.

Buon lunedì.

Ponte Morandi, il crollo di un sistema (e di un’ideologia)

TOPSHOT - Italian rescuers climb onto the rubble of the collapsed Morandi motorway bridge to look for victims and survivors in the northern port city of Genoa on August 14, 2018. - At least 30 people were killed on August 14 when the giant motorway bridge collapsed in Genoa in northwestern Italy. The collapse of the viaduct, which saw a vast stretch of the A10 freeway tumble on to railway lines in the northern port city, was the deadliest bridge failure in Italy for years, and the country's deputy transport minister warned the death toll could climb further. (Photo by Valery HACHE / AFP) (Photo credit should read VALERY HACHE/AFP/Getty Images)

I monconi di quello che rimane del ponte Morandi sono braccia che si tendono sul nulla; la creatura che sostenevano è precipitata trascinando con sé 43 vite, ma, in verità, e ammesso che questo bilancio sia possibile, in quella voragine è collassato un sistema e forse si è evidenziata la storia recente ed infelice di un Paese smarrito. Partiamo da qui, dal significato racchiuso in quelle immagini strazianti che hanno fatto il giro del mondo, perché da sempre i ponti sono rappresentazione e metafora della capacità umana di piegare le asperità della natura, di collegare città e popoli, di alludere ad un “oltre” dinamico e sconosciuto.

Molte città e molte civiltà sono ricordate attraverso questi emblematici dispositivi che colpiscono l’immaginazione e caratterizzano il paesaggio (e forse secondi solo alle cupole nell’antichità ed oggi ai grattacieli): gli etruschi, per rimanere nei nostri territori, hanno insegnato ai romani l’uso dell’arco e poi la realizzazione dei ponti, così da generare la figura del pontifex (costruttore di ponti), da subito associata alle prerogative regali (da Numa Pompilio in poi) e poi esitata nell’ambito del collegio di sacerdoti con compiti di governo del culto (pontifex maximum). Essi affascinano perché sono sintesi di capacità tecnica e di forma estetica, sono architetture a tutto titolo metafora del cammino umano nel mondo.

Come dimenticare il ponte romano di Gard (basta guardare le banconote da 5 euro) realizzato, nella regione occitana francese, su tre ordini di arcate (e su un’altezza di 49 metri), con funzioni sia di acquedotto che stradale; ma S. Francisco è il Golden gate; New York si ricorda anche attraverso il ponte di Brooklyn, Firenze con il suo ponte Vecchio, Sydney attraverso l’Harbour bridge (quasi più identitario per gli abitanti della splendida Opera house); ma non si può andare ad Esfahan in Iran senza rimanere incantati dal ponte safavide Si-o-se Pol (detto anche ponte Allahverdi-Khan) di 33 arcate, luogo magico, forse ancora più intrigante di sera quando, perfettamente illuminato, diviene luogo propizio per gli scambi fugaci di sguardi tra i giovani di entrambi i sessi. A questi oggi si aggiungono gli affascinanti ponti ad arpa o a ventaglio (tra i primi il ponte Øresund tra Danimarca e Svezia, tra i secondi il Beipanjiang Duge bridge a Liupanshuiin, Cina).

Cosa rappresentava per noi il ponte Morandi? E quale ferita dovremo rimarginare e quali azioni intraprendere, fermo restando il dolore irredimibile per le vite spezzate alle quali tutti ci sentiamo vicini perché quasi tutti abbiamo percorso quelle campate più volte nella nostra vita. Innanzitutto, e forse controcorrente, non credo che…

L’articolo di Ugo Tonietti prosegue su Left in edicola dal 24 agosto 2018


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La scuola del non cambiamento

MARCO BUSSETTI MINISTRO ISTRUZIONE

Accade sempre d’estate. Quando gli studenti e gli insegnanti sono in vacanza, i governi sfornano le loro riforme scolastiche. La legge 133, primo atto della riforma Gelmini, è del 6 agosto 2008: la cosiddetta finanziaria d’estate firmata dal centrodestra (con la Lega al governo) provocò una catastrofe, 10 miliardi di tagli dalla primaria all’università. La legge 107, la Buona scuola del governo Renzi, è del 15 luglio 2015, e anche questa, come si è verificato negli ultimi tre anni, ha indebolito il ruolo e l’identità degli insegnanti, nonostante le mega assunzioni.

Tanto per ricordare, nell’agosto 2016, entra in azione l’“algoritmo impazzito” del Miur sulle domande di mobilità, facendo precipitare nell’ansia migliaia di docenti. Quest’anno non è arrivata una riforma sistematica, perché, come ha “rassicurato” il presidente del Consiglio – nel suo monologo su Facebook dell’11 agosto -, i provvedimenti d’autunno «non toccheranno settori strategici come l’istruzione». Ma, intanto, il 12 agosto è entrato in vigore il decreto dignità, con alcuni punti che riguardano direttamente il sistema dell’istruzione. È un primo biglietto da visita dei legastellati sulla scuola per la quale Mario Pittoni, responsabile istruzione della Lega e presidente della settima Commissione del Senato, aveva detto prima delle elezioni: «Serve un buon meccanico che faccia ripartire la macchina».

Ma da quello che si è potuto vedere in questi primi mesi, l’“officina” del governo, si muove sostanzialmente…

L’inchiesta di Donatella Coccoli prosegue su Left in edicola dal 24 agosto 2018


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Più Pepe nella sinistra: «Un tempo per lavorare, un tempo per vivere»

Mujica, lei come vede lo stato di salute della “società del benessere”?
Siamo in un vortice. L’innovazione tecnologica sempre più veloce spinge sul pedale della produttività e cambia le forme di lavoro. E va di pari passo con una impressionante tendenza alla concentrazione della ricchezza. L’economia cresce ovunque, con enormi contraddizioni ma cresce. A livello globale la ricchezza aumenta ma è sempre più concentrata nelle mani di pochi, in primis nelle società più sviluppate. Ed è enorme la distanza tra chi è al vertice di questa piramide e il resto
della società. Tutto ciò genera una sensazione di insicurezza e di frustrazione in ampi settori anche delle classi medie, non solo in quelle più umili. Questa incertezza è alla base del rigurgito di nazionalismi a cui stiamo assistendo. Avanza la destra che a sua volta alimenta la paura. Basta pensare a coloro che hanno votato Donald Trump. Contemporaneamente, nei Paesi avanzati, c’è uno smantellamento delle politiche sociali, indispensabili per garantire equità e benessere diffuso, per non dire della tendenza che notiamo ovunque a riformare il diritto del (e al) lavoro. Cercando di renderlo sempre più flessibile e meno tutelato, togliendo ogni sicurezza alle persone. E poi c’è il marketing. Un’arma formidabile per far aumentare nelle grandi masse la sete di consumo di novità. Uno strumento che confonde e ci fa illudere che la realizzazione di un’identità umana consista nel comprare cose nuove. Questo modello ormai è diffuso dappertutto. Con il risultato di un colossale indebitamento della gente comune che si trova a vivere alla continua ricerca di soluzioni economiche per far fronte alle rate. Anche questo produce disagio sociale. Togliendo peraltro tempo per gli affetti, per le relazioni personali, per i figli.
Come va pensato e realizzato un nuovo modello di “benessere”?
Penso che confondere le persone facendo credere che la crescita economica sia automaticamente garanzia di benessere per tutti sia estremamente fuorviante e pericoloso. È necessario iniziare almeno a prendere in considerazione come la gente si sente. Bisogna cominciare, a livello politico, a considerare se i cittadini abbiano tutti gli strumenti a disposizione per realizzarsi come persone e non solo come consumatori. Non si tratta certo di fare apologia della povertà, né di tornare all’antico. Si tratta di capire che ciò che si sta sprecando non sono solo energia e mezzi materiali,
ma tempo di vita e questo tempo non lascia spazio per la soddisfazione delle esigenze più personali, intime, degli esseri umani. Avere cioè tempo da dedicare alle relazioni personali (magari non invitando la fidanzata a passare il sabato pomeriggio in un centro commerciale), nelle relazioni con i figli, con gli amici, con la ricerca e l’approfondimento di interessi in ambito culturale. Indubbiamente bisogna lavorare per vivere. Chi non lavora vive a carico di qualcun altro che lavora. Ma la nostra identità non è solo quella che ci dà il lavoro. Deve esistere un tempo per lavorare e un tempo per vivere e realizzarci a pieno come persone.
È un problema che si sta verificando a qualsiasi latitudine.
Avendo molti soldi a disposizione si possono comperare molte cose. Ma non si può compare il tempo della vita, dei rapporti, quello che si passa alla ricerca della soddisfazione di esigenze che definiscono l’identità di ciascuno di noi. E la “vita” vera ci sfugge tra le mani. Allora in questo senso va fatta una battaglia culturale. Credo che la mia generazione abbia commesso l’errore di non rendersi conto che per cambiare una società non basta occuparsi di produzione e redistribuzione della ricchezza o dei rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Non si può non notare che in Paesi molto sviluppati a livello tecnologico, come per esempio il Giappone, ci sono ragazzi che si suicidano per non aver passato un esame a scuola. È purtroppo molto frequente. Il punto è che una società altamente competitiva pone delle sfide che finiscono per essere umanamente insostenibili per degli adolescenti e questa cosa è inaccettabile e da sovvertire. Occorre un salto di paradigma culturale.
Lei è d’accordo con chi sostiene che la concentrazione di potere economico influisca sulla tenuta delle democrazie?
Senza dubbio, il peggiore pericolo per le democrazie contemporanee è la concentrazione della ricchezza in poche mani. Perché questa implica sempre, direttamente o indirettamente, potere politico, potere di lobby, potere nelle decisioni. E le democrazie tendono a essere ridotte a plutocrazie. È un fenomeno in via di espansione ovunque nel mondo. La democrazia si sta ammalando per eccessiva ricchezza anche in Europa, non solo nel continente americano.
C’è una soluzione per vivere in società più egualitarie?
Innanzitutto servono risposte politiche valide. Ci sono questioni che il mercato non sistemerà mai lasciandolo “libero”. Soprattutto se i governi continueranno a non preoccuparsi di tutelare il bene pubblico, né di individuare politiche fiscali adeguate alla redistribuzione non del reddito ma della ricchezza, per bilanciare le innegabili differenze che esistono nella società. C’è qui una contraddizione enorme che ha a che fare con la cultura nella quale siamo immersi e che è funzionale alla concentrazione capitalista. Chi ci governa è il mercato, e, siccome il mercato deve funzionare, bisogna seguire inevitabilmente le sue regole mettendosi una benda negli occhi. Così da un lato abbiamo la cultura dello spreco legata alla sovrapproduzione di beni e alimenti che nessuno consumerà, dall’altro, allo stesso tempo, assistiamo allo sfruttamento dei lavoratori e alla devastazione dell’ambiente provocati da processi produttivi sempre più esasperati. Di nuovo viene in mente il presidente Donald Trump con le sue “politiche”. Gli Usa sono usciti dagli accordi di Parigi e dopo decenni ritornano di attualità le tensioni nucleari. Bisogna fare in fretta a trovare soluzioni perché i problemi non sono solo la produzione di spazzatura, i disastri ambientali e lo smog. Anche la guerra nucleare è un rischio che va considerato. Personalmente non non mi preoccupa tanto Trump, quanto la gente che lo ha votato. C’è una parte della società che ragiona come lui , «America first», e quindi rottura degli accordi con l’Iran,  stop agli accordi sul clima – e questo è il problema. Una cosa simile accade in Europa, dove ci sono persone convinte che la causa delle loro insicurezze “sociali” siano legate ai flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente. Cadono in questo ragionamento e non si rendono conto che così producono un impoverimento di civiltà, di cultura, di umanità.
In America latina dopo la caduta delle dittature c’è stato un progressivo rafforzamento delle sinistre. Qual è oggi la situazione?
Si è certamente vissuta una stagione positiva, di crescita socio-economica, che ora è in frenata. Dal punto di vista economico lo sviluppo in America latina è stato legato alla domanda mondiale di alcune materie prime importanti. I governi più o meno progressisti si ritrovarono con i mezzi economici necessari per esercitare politiche sociali egualitarie, per combattere la povertà, per affrontare affrontare i problemi più pressanti. Ora non è più così. Guardiamo al Brasile: 40 milioni di persone che erano uscite dalla povertà vi stanno tornando.
Per quale motivo?
Uno dei fattori che più hanno contribuito alla crescita economica in Sud America è stato il capitale straniero. Le aziende che arrivano da fuori chiedono benefici per insediarsi. E il governo che deve creare posti di lavoro tende a concederli. Il punto è che con il tempo queste aziende e chi ha investito su di loro hanno iniziato a portare i guadagni all’estero. Una fuga di risorse che i governi si trovano a dover ammortizzare, chiedendo ad esempio dei prestiti internazionali, perdendo quindi progressivamente tutti i benefici iniziali. È quanto accade oggi in gran parte del Sud America. Con tutte le conseguenti perturbazioni economiche e sociali che ridanno forza alle destre. Le riforma del lavoro in Brasile ne è un chiaro esempio. Ridurre il costo del lavoro, peggiorando le condizioni di vita delle persone, per abbassare i costi di produzione. È questa la regola. Che vale anche in Europa e ovunque si parli di “riforma del mercato del lavoro”.
Cosa ne pensa di quello che sta succedendo in Venezuela?
A questo punto non lo comprendo più. Ovviamente difendo con tutte le mie forze il diritto dei venezuelani alla non ingerenza di “attori” stranieri. Perché tutto ciò che oggi viene da fuori può solo peggio rare la situazione. I problemi che hanno i venezuelani devono risolverli i venezuelani. Penso che siano stati fatti importanti errori di valutazione, che si sono aggravati per la caduta del prezzo del petrolio. Il Venezuela vive una sorta di deformazione storica. A causa della ricchezza che viene dal petrolio la società venezuelana è abituata a vivere con beni importati. A cominciare dal cibo. Ora sta pagando il prezzo di tutto questo. Ha perso buona parte della popolazione rurale che è emigrata nelle città. Adesso, sebbene sia un Paese ricco di risorse – terra, acqua, animali – c’è poca gente capace di trasformarle in cibo. E questo è il tallone di Achille dell’economia venezuelana. Un altro problema è l’esercito che dal colpo di Stato di Chavez del 2002 è sempre molto vicino al governo.
Sappiamo bene come ragionano i militari, si dichiarano di sinistra ma sono sempre militari. E tenderanno a ragionare in termini di bianco e nero. È la loro formazione. Anche se non c’è la guerra si comporteranno come se ci fosse e continueranno a vedere il mondo a modo loro. In questo contesto allora è complicato avviare una politica di negoziazione nazionale, affinché nel Paese possano convivere le enormi differenze che tutti vediamo.
Durante il suo mandato presidenziale sono state approvate fondamentali leggi di civiltà: la legge sulla interruzione di gravidanza, quella che legalizza e regola la cannabis di Stato, il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Cosa non è riuscito a fare e avrebbe voluto fare?
Siamo riusciti in alcune cose, ma ce ne sono tante ancora importanti da fare. Continua a esistere un gap sociale che non è giustificabile in un Paese come l’Uruguay che ha pochi abitanti e molte risorse. Oltre il 9 per cento degli uruguayani vive vicino la soglia di povertà, e lo 0,5 per cento nell’indigenza. Se guardiamo alla media dell’America Latina si tratta di percentuali mediamente anche basse. Ma questa non è la risposta che risolve le necessità di queste persone. Abbiamo anche problemi di scarsi progressi nell’istruzione. Il livello di scolarizzazione è aumentato e migliorato. Ma l’ampliamento del numero di persone che si dicono laiche non è andato di pari passo con un vero approfondimento culturale del dibattito pubblico. Questo per dire che non ci possiamo nascondere dietro ai progressi ottenuti con la nostra agenda sociale. Ci sono evidenti differenze di classe che esistono ancora. In Uruguay abbiamo sofferto molto il processo di concentrazione della ricchezza di cui parlavamo prima. Il mio Paese continua ad essere il più “equo” dell’America Latina. Ma America Latina è il continente meno equo del mondo. Quindi siamo i campioni dei peggiori, non possiamo accontentarci.
Per il suo “stile” di vita, senza volerlo lei è diventato un’icona della sinistra. Lei si considera una eccezione come politico?
Mi considero profondamente repubblicano e per me è chiaro che un politico debba vivere in coerenza con le proprie idee che sono quelle che ho ripercorso in questa intervista per Left. Anche su questo c’è profonda sintonia con la mia compagna (Lucia Topolansky è la vicepresidente della Repubblica, ndr). Anche se per un periodo della mia vita sono stato presidente e in altri ho ricoperto diversi incarichi istituzionali e ora sono il primo senatore, necessariamente considero di dover vivere sempre come vive la maggioranza del mio popolo. E non come vive la minoranza privilegiata. Perché la democrazia nel suo senso profondo vuol dire essere espressione della maggioranza.
Molti governanti scelgono di vivere come una minoranza privilegiata…
Penso che le Repubbliche siano nate per dire alle monarchie e ai signori feudali: tutti gli esseri umani sono uguali, almeno nella realtà più profonda, e nelle cose fondamentali. Dunque uguali diritti e uguali possibilità per tutti. Ma sono anche consapevole che il miraggio del profitto a tutti i costi snaturi le cose. Sembra una malattia. Va bene essere ambiziosi ma se l’obiettivo è accumulare denaro e la via più breve è fare politica, è una disgrazia. Perché si finisce per umiliare la politica. Se a qualcuno piace il denaro, buon per lui. Ma che si dedichi all’industria, al commercio, agli affari non alla politica. Perché se la si sceglie come via per diventare ricchi, siamo spacciati.
Negli Stati Uniti Trump è presidente, in Italia Berlusconi è stato premier, la Repubblica ceca ora è guidata da Andrej Babiš…
C’è un’idea che avvelena la nostra civiltà ed è che per realizzarsi nella vita si debba diventare ricchi. Questo è un inganno che confonde molta gente. Per quanto mi riguarda di fronte a questi signori citerei Seneca: «Povero è chi ha bisogno di molto. Chi impara a vivere con sobrietà non è povero, ha sempre più del necessario».

*

Il tupamaro presidente Durante il regime dittatoriale che è stato al potere in Uruguay tra il 1973 e il 1985, José Alberto Mujica Cordano che all’epoca era uno dei capi tupamaros, il Movimento di liberazione nazionale di ispirazione marxista-leninista attivo dagli anni 60, è stato detenuto in condizioni disumane, torturato e isolato dal mondo esterno insieme a diversi suoi compagni di lotta. Con il ritorno alla democrazia, divenuto leader del Movimento di partecipazione popolare, il raggruppamento maggioritario del Fronte Ampio (la sinistra uruguaiana), dopo essere stato eletto deputato e senatore è stato tra il 2005 e il 2008 ministro dell’allevamento, agricoltura e pesca. Sempre nel 2005 ha sposato l’attuale vice presidente della Repubblica e leader storica del Mpp, Lucía Topolansky. Il 30 novembre 2009 ha vinto le elezioni presidenziali. Alla fine del mandato è stato nuovamente eletto senatore ed è risultato il più votato. Vive in una piccola fattoria a Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo, la stessa in cui Gabriela Pereyra ha realizzato l’intervista e scattato l’immagine in apertura.

IN TOUR IN ITALIA Mujica sarà il 28 agosto a Livorno, il 29 a Bologna quindi sarà a Ravenna, a Milano (31 agosto) e a Mantova, con un anteprima l’1 settembre Festivaletteratura

L’intervista esclusiva di Gabriela Pereyra a Pepe Mujica è stata realizzata a Montevideo e pubblicata su Left del 28 ottobre 2017


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Hugo Pratt e l’arte di essere liberi. Insieme agli altri

L’estate calda porta sul palmo il sogno di un’avventura. Porta il rumore del mare, orecchiato dall’ombra di un’amaca tra le dune. Il mare delle storie di Sandokan, dei tormenti profondi di Conrad. Oggi il Mediterraneo è abusato da un massacro lucido e disumano. Allora sempre di più occorre guardare il mare e cercare l’avventura, il sogno, la follia sana di Colombo. Quanto è nascosto dietro l’orizzonte, quanto non si può vedere con i piedi ben piantati per terra. Partire, prendere il largo. Per allargare lo sguardo e il pensiero.

Ancora si deve ripetere, e sembra assurdo, che il fumetto non è un’arte minore, non è bassa letteratura. Sarà la stranezza di questo cimento, che unisce parola e disegno. O meglio… permette di unire. Poi la scelta resta alla fantasia dell’autore. Ed ecco le tavole di puro disegno di Pratt. Il silenzio riempito di mare, di un respiro lento, un volo di gabbiano.

Hugo Pratt è Corto Maltese. O forse è più vero il contrario. L’affascinante marinaio maltese non poteva raccogliere meglio la spinta vitale del suo autore. I viaggi, nell’Africa nera e nell’Argentina ridente, dove Pratt ha disegnato per anni, hanno formato il suo tratto, ballando ogni sera con una donna diversa. Le donne di Pratt e le donne di Corto. Bellissime o terribili, seducenti o sedotte. La prima donna di Corto è Pandora. E non si può credere che la scelta del nome sia casuale. Pratt ha sempre raccontato che quella storia, la Ballata del mare salato, non era stata scritta per iniziare la saga del marinaio: Corto non doveva essere il protagonista. Eppure Pandora nel mito greco è il nome della prima donna mortale. Un inizio. Forse, inconsapevolmente, Pratt con questa scelta voleva dire che…

L’articolo Andreas Iacarella prosegue su Left in edicola dal 24 agosto 2018


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Sulle orme di John Fante, crescere in una lingua straniera

Vengo da un’isola chiamata Sicilia. Sono figlio di immigrati, di una famiglia siciliana che si trasferì a Roma negli anni Cinquanta, poco prima della mia nascita. La mia Sicilia, come ha scritto Elio Vittorini alla fine di Conversazione in Sicilia, è solo per avventura Sicilia: solo perché questo nome mi suona meglio del nome Persia o Venezuela o Brasile. Ma è anche come dire, a rovescio, che di qualsiasi luogo io possa scrivere, che sia Persia o Brasile, quel luogo per me sarà sempre Sicilia. Perché questo nome non indica soltanto un posto fisico, una terra rintracciabile su qualsiasi mappamondo. Io non sono cresciuto nella mia isola d’origine. Sono cresciuto in una città chiamata Roma, e questa città ha per me un volto preciso, un volume, una consistenza tattile: è fatta di quartieri, di palazzi, di vicoli che conosco bene. La Sicilia, no. La mia Sicilia è un paesaggio interiore. È un effetto acustico, una vibrazione, una sequenza di sillabe… è soprattutto una lingua.

Perché non è importante la città dove hai vissuto; è molto più importante, e decisiva, la lingua nella quale sei stato allevato. Non si cresce in un luogo, si cresce in una lingua. Io sono cresciuto nel dialetto siciliano. Ogni volta che ne sento l’accento, la cadenza, il modo di pronunciare le vocali, tutto questo è per me come una musica familiare da cui riaffiora istantaneamente, e istintivamente, il suono della mia infanzia. Le parole sono davvero delle scatole sonore che contengono molte cose: hanno a che fare con la nostra vita, oltre che con il loro significato. Involontariamente, custodiscono la nostra memoria.

E la lingua dell’infanzia è la più importante di tutte, perché è la lingua nella quale…

L’articolo di Fabio Stassi prosegue su Left in edicola dal 24 agosto 2018


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Migranti, una nuova legge pensando a Jerry Masslo

In un’intervista al Corriere della sera, il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, dice: «Vogliamo favorire il cambiamento. In primo luogo, per garantire il più rigoroso rispetto dei diritti dei migranti a partire dai diritti fondamentali. Scopo dell’iniziativa, per esempio, sarà informare meglio chi parte per ragioni economiche su cosa lo aspetta durante il viaggio. Diversa questione è quella dei rifugiati, che hanno diritto all’asilo, ma che vanno ripartiti in modo più equo in tutta Europa». Noi del Movimento degli Africani (Mda) nel maggio 2015, alla Camera avevamo illustrato una proposta che tutt’ora rimane la più dignitosa (vedi box a fine pagina, ndr).

Questa proposta ha il vantaggio di essere stata messa a punto da donne e uomini di origine straniera, che vivono in Italia da oltre trenta anni, sposati con cittadini di origine italiana, e che vivono in prima linea il dramma e i dolori, effetti collaterali della politica europea in generale e italiana in particolare sull’immigrazione. Purtroppo invece la proposta sull’immigrazione nel programma di governo avanzata dal ministro Matteo Salvini, il quale ha seminato e alimentato demagogia e paure sul tema dell’immigrazione, è basata sulla chiusura delle frontiere. Non è prevista nessuna possibilità di entrata regolare.

Eppure, se c’è un soggetto titolato a rendere conto degli effetti della politica sull’immigrazione, sono gli immigrati stabili. Chi sbarca, oggi, sulle coste italiane ha un contatto, un parente o un amico, in Europa. È importante coinvolgere gli immigrati stabili nella ricerca di soluzioni sostenibili allo spinoso problema dell’immigrazione.

Quasi trenta anni fa, nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1989, ci fu la barbara aggressione perpetrata da un gruppo di criminali i quali, coi volti coperti, fecero irruzione con armi e spranghe nel capannone dove dormivano Jerry Masslo e altri 28 immigrati; dopo aver intimato di consegnare tutti i soldi che avevano guadagnato in due mesi e oltre di lavoro nei campi, assassinarono Jerry. La sua storia dice molto del fenomeno dell’immigrazione in Italia ed è alla base della proposta fatta nel 2015 dal Mda. Il 21 marzo 1988, Jerry Masslo atterrava all’aeroporto Leonardo Da Vinci, con un volo dalla Nigeria. L’aereo era fra i mezzi più utilizzati dagli africani, se non il principale, per arrivare in Europa. Il visto di ingresso non era obbligatorio, né necessario, per una permanenza fino a tre mesi.

Così come accade oggi per i cittadini dell’Unione europea che vogliono recarsi negli Usa. Per turismo o per affari, i cittadini dell’Ue non hanno bisogno di un visto, bensì del solo biglietto di andata e ritorno, previa un’autorizzazione al viaggio elettronica (Esta). Viene rilasciata online dall’autorità statunitense, previo pagamento di una tassa (14 dollari). Nessun cittadino Ue deve passare il confine dal Messico per poter arrivare in Usa.

Appena sbarcato, Jerry Masslo chiese…

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La proposta del Movimento degli Africani Abolire la Bossi-Fini, dotarsi di una vera politica dell’accoglienza e dell’integrazione andando oltre l’emergenza, contrastare la continua strumentalizzazione politica e la propaganda irresponsabile dei media: questi i principali nodi della proposta di legge elaborata dal Movimento degli Africani nel 2015 e che ora pensano di rimettere sul tavolo in occasione dell’anniversario dell’omicidio di Jerry Masslo. Per quanto riguarda il fronte “profughi” il punto centrale è rappresentato dalla apertura di corridori umanitari nel quadro di un piano straordinario di accoglienza europea basato sulla libertà di scelta del Paese dove richiedere asilo, oltre alla chiusura dei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). Sul fronte delle politiche nazionali di integrazione e stabilizzazione degli immigrati: ripristino del ministero per l’Immigrazione, revisione delle regole sui visti di ingresso e soggiorno in Italia, snellimento delle procedure per il ricongiungimento familiare, abolizione della discriminazione elettorale nei confronti degli stranieri residenti, approvazione di una legge sulla cittadinanza basata esclusivamente sullo ius soli.

L’articolo di Ouattara Gassou prosegue su Left in edicola dal 24 agosto 2018


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Sinistra senza identità

La tragedia del ponte Morandi di Genova sta mettendo in evidenza, ancora di più, la crisi dei partiti di sinistra o che si definiscono tali. Come ha giustamente osservato Lucia Annunziata il fatto che nessun esponente di spicco del Pd, eccezion fatta per il segretario-reggente Martina e pochissimi altri, abbia partecipato ai funerali di Stato è una misura di quanto in quel partito si sia perso il rapporto con la società civile. Il segretario-di-fatto Renzi non si è visto anche se ha mandato messaggi di sfida, come al suo solito ma restando ben nascosto. Aggiungerei che vale altrettanto, se non di più perché più di sinistra del Pd, per gli altri partiti a partire da Leu. C’è come una mancanza di interesse, una mancanza di senso della realtà, di quello che è accaduto.

Un ponte non può crollare da solo. Un ponte, grande e importante come il ponte Morandi, che passa dentro una città, non può crollare all’improvviso. I ponti sono progettati per resistere ai terremoti, alle esplosioni, devono e possono resistere a impatti significativi ai piloni di sostegno. Qualunque ne sia la causa o le concause è evidente che c’è stata una incuria prolungata nel tempo. Non si capisce poi perché gli stralli di uno dei piloni siano stati sostituiti diversi anni fa e quelli degli altri tre piloni no. Lo si può chiaramente vedere dalle fotografie: gli stralli dell’ultimo pilone sono chiaramente rivestiti di acciaio al contrario degli altri. Per quale motivo, essendo il ponte stato costruito tutto insieme, si fa una manutenzione così importante di un solo pilone e non si considerano gli altri?

Un ponte crolla per un evento più che eccezionale. In questo caso l’evento più che eccezionale è stata l’incuria, la sciatteria nella manutenzione, il considerare che siccome il progetto prevedeva capacità di tenuta maggiori del necessario (come è normale per qualunque costruzione) allora si poteva tollerare un ammaloramento delle strutture del 20% e che non sarebbe stato un problema arrivare fino al 40%! Questa incuria, questa sciatteria nel gestire un pezzo di Paese, sembra la stessa che è stata applicata dai politici di sinistra a questo evento. Non comprendere, non vederne la gravità. Affannarsi a dire che la privatizzazione di autostrade funziona, che non si sono presi soldi. Ma non è questo il punto.

Così come la reazione della società Autostrade, il cui primo comunicato il giorno dopo la tragedia, è stato quello di preoccuparsi degli azionisti. Ma chissenefrega degli azionisti! Peraltro ogni investitore sa di correre dei rischi ad investire in azioni di qualunque società, anche la più solida. Non si capisce perché per Autostrade non possa essere così. È il pensare che tanto anche questa cosa verrà accettata, verrà assorbita, passerà come “una cosa che può capitare e capita”. Che i problemi sono altri. No, il problema è questo! Non deve e non può capitare che crolli un ponte senza motivo. Se la Società autostrade spende tanto per la manutenzione, come sembra da quanto viene detto dai giornali di questi giorni, allora significa semplicemente che quella spesa è fatta male. Tanto c’è lo Stato-mamma che tutto paga e tutto risolve. Quindi si prendono regolarmente le decisioni più dannose per lo Stato (che siamo tutti noi) e più vantaggiose per i privati (che sono solo alcuni).

Che poi, voglio sottolinearlo con forza, il problema non è quello che un privato si arricchisca se fa un servizio che funziona e riesce a ricavare un guadagno da quello che fa in maniera efficiente. Il problema è di fondo. Perché, evidentemente, esistono manager che non pongono l’attenzione necessaria alla manutenzione. Considerano che “tanto non può succedere e non succederà. E anche se succede tutto passa, tutto verrà assorbito dal ventre molle del Paese a cui in fondo non frega niente… l’importante sono gli utili e gli azionisti”. Ma che cavolo di persone sono queste? È sconfortante vedere come la sinistra non abbia detto nulla al riguardo. Non esiste un porsi domande, chiedersi se le privatizzazioni, così come sono state fatte hanno avuto problemi, hanno creato problemi. Tutti a difendere se stessi. Non esiste un porsi la domanda – magari fosse una ricerca – circa il fatto che manca completamente l’idea di fare l’interesse dello Stato, ossia cercare di fare il meglio nell’interesse di tutti gli abitanti di questo Paese e non solo. Cercare e trovare la soluzione migliore.

Il Movimento 5 stelle ha più che ragione a dire che con un disastro di queste proporzioni la concessione viene necessariamente messa in discussione. E dispiace vedere come a sinistra questo venga contestato. Evidentemente non c’è più nemmeno mezza idea di come fare opposizione se non contestare a prescindere. Come quando si trattava di formare il governo. L’opposizione al governo va fatta in maniera decisa, ma questo non significa accecarsi e non vedere l’enormità di quello che è successo. È da tempo ormai che la sinistra e il Pd in particolare ha perso il rapporto con la realtà di quello che pensano gli italiani. Ed è tragico che non ci si accorga che il M5s non fa altro che ripetere in maniera anche un po’ strampalata proposizioni che in altri tempi erano fondamenti della sinistra. In questo caso la ribellione ai “poteri forti” e la questione morale.

La sinistra brancola nel buio ormai da tempo. Non ha più un’identità dall’89 o forse dal ’68. Ha cercato una nuova identità con il superamento del Pci per arrivare al Pd, ma in realtà ha perseguito sempre e solo la soddisfazione dei bisogni, delle necessità materiali, perdendo quell’umanità che aveva, quell’interesse per le persone che non è solo pensare ai loro bisogni ma anche alla loro realizzazione. Gli interessi materiali non hanno affetti. È amare le cose più delle persone. E dopo di questo il passo è breve, si pensa alle persone come fossero delle cose.

La crisi della sinistra è tutta qui. Non cercare di costruire la politica che permetta a ciascuno di trovare il modo di realizzare se stessi e di trovare il senso della propria vita.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola dal 24 agosto 2018


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L’universo anarchico e immaginifico di Fernando Arrabal

Fernando Arrabal è nato nel 1932 a Melilla, città autonoma spagnola vicino a Gibilterra, anche se sulle coste del Marocco. Di recente sono passati di lì molti dei flussi migratori verso l’Europa e adesso è circondata da una rete di metallo alta sei metri, per impedire il passaggio dei migranti, che si accalcano alle zone di confine.

Arrabal in questo caldo agosto cammina per le vie di San Miniato, in provincia di Pisa, è ospite del Festival del pensiero popolare, che l’ha premiato con un bel quadro di Stefano Renieri, nel giorno dedicato a San Rocco il 16 agosto. Intorno a quella data in molti l’hanno incontrato nelle strade assolate, bambini e adulti, attirati dal suo abbigliamento a dir poco singolare. Anche alcune coppie, sulle scale che scendono dal prato del duomo alla bella piazza del seminario, lo incrociano, interloquiscono con lui. Arrabal li “importuna”, si avvicina nient’affatto intimidito, è un piccolo folletto surrealista, porta gioia tra le persone, gioca con loro:

– Tu sei fidanzato de ella? – dice.

– E tu? Sei il suo amante? Vi divertite insieme?

Questi passanti, tutti italiani, sono evidentemente un po’ imbarazzati, forse anche divertiti. Qualcuno risponde, accettando la provocazione: – Sì mi sarebbe piaciuto, è un bell’uomo, ma si è sposato con questa mia amica!

Arrabal ride, e insiste: – E allora? Qual è il problema?

È uno gnomo, un Pan provocatore, non a caso nei primi anni sessanta, fu uno dei tre fondatori di un Movimento Panico che ancora si stenta a definire, insieme ad Alejandro Jodorowski e a Roland Topor.

Già lo racconta il suo vestire: ha una camicia blu, coperta di stelle, come i cieli di San Miniato, uno straccetto al collo, forse un residuo di cravatta, poi sulle spalle uno zainetto rosso. È un eterno studente in patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie.

Arrabal è Trascendente Satrapo dei seguaci di Alfred Jarry. È stato nominato nel 1990 a questa elevatissima carica, certo per meriti sul campo. Ha anche pantaloni stretti che gli avvolgono le due piccole gambe da pinocchietto, indossa un paio di scarpe di pelle lucida. Sulla testa, ed è la parte più evidente, ha una serie di occhiali, tre a volte quattro, delle forme più strane. Durante la giornata ne indossa anche altri e quando viene accompagnato al supermercato, si accorge di essersene dimenticato qualcuno in albergo e insiste per tornare indietro.

Nella sua follia riesce ad essere straordinario, è un artista, un uomo che ama il pensiero surreale, non a caso è stato amico di Tristan Tzara, di André Breton, di Andy Wharol, padri delle correnti più immaginifiche del XX secolo. Quando gli facciamo delle domande, lui ci risponde in modo preciso e puntuale, molto compito, ma le sue risposte sono a dir poco strane, un po’ spiazzanti: è un cappellaio matto, è difficile credergli fino in fondo. Anche quando racconta di Pirandello, uno dei suoi miti: nel 1934 ottenne il premio Nobel, due anni dopo la nascita di Arrabal. Subito dopo Pirandello fu intervistato sul futuro del teatro. Era in Sicilia, e lui aprì il braccio verso destra. Il giornalista pensò a Tripoli, che allora era colonia italiana, ma Pirandello indicava appunto Melilla, la città natale del nostro straordinario interlocutore.

– Almeno – dice Arrabal – è questo che diceva il mio amico Borges, che mi chiamava “Arrabal l’africano”. Il film che gli ho dedicato è quello che amo di più. Di sette che ne ho fatti – tutti capolavori – è quello che mi è venuto meglio.

San Miniato qualche giorno prima ha applaudito il bellissimo “L’albero di Guernica”, con una folgorante Mariangela Melato, ad interpretare una pasionaria nella guerra civile spagnola. Il film è del 1975, Franco era ancora al potere, e Arrabal era considerato una dei quattro o cinque nemici della patria più pericolosi. – In molti – ci dice ancora – hanno dichiarato di voler scrivere al generalissimo, di questo e di quello, ma l’unico che l’ha fatto davvero sono stato io, condannando la dittatura di Franco, tutto il male che ha fatto alla Spagna e alla mia famiglia in particolare.

Per questa lettera pubblica, analoga a quelle che lo stesso autore ha destinato a molti altri dittatori del XX secolo, Arrabal fu processato arrestato e condannato al carcere, con l’opposizione dei più grandi intellettuali, che si schierarono a suo favore. In testa a tutti Samuel Beckett che ne esaltò i meriti letterari: considerava il teatro di Arrabal parente stretto del suo “Aspettando Godot” e di tutto il teatro dell’assurdo.

Adesso Arrabal è un giovane di ottantasei anni, ancora attivissimo, soprattuto nei teatri di tutto il mondo. Qui a San Miniato sono arrivate le sue ultime opere – “Sarah e Victor” e “Dalì VS Picasso” – ambedue con la regia di Sergio Aguirre. Anche per questo lo intervistiamo sul qui e ora, per sapere cosa pensi dell’attuale crisi, il periodo cupo che stiamo attraversando.

La risposta, come al solito, ribalta la domanda: – Ma quale periodo cupo, mai come ora siamo stati così bene, dal punto di vista creativo e intellettuale. Del resto in tutte le epoche, anche nella Grecia classica si parlava di crisi nera, irreversibile! Quando si parla di crisi, sui giornali, ai talk show televisivi, allora io sono felice, perché è un momento di grande creatività. Dico questo soprattuto per i giovani, è come se le pagine tornassero ad essere bianche e loro hanno penne e pennelli, colori, insomma tutti gli strumenti giusti per riempirle. La società di oggi sta crollando (anche realmente: vedi il ponte di Genova!), e allora è il momento di cambiare; mi sembra che il periodo sia simile a quello che abbiamo vissuto alla metà degli anni 60, quando tutto sembrò potere rinnovarsi, anche nel teatro: caos totale, ribaltamento del pubblico, ballerine in scena nude e un poeta che depilava il pube della propria compagna…

Foto di Antonio Fernandez

Il Festival del pensiero popolare / Palio di San Rocco pellegrino è arrivato al decimo anno di vita. Quest’anno il festival era interamente dedicato a Fernando Arrabal, nove giorni di incontri, letture, improvvisazioni teatrali, spesso dedicate al teatro panico, film come “L’albero di Guernica” e spettacoli teatrali, “Dalì VS Picasso” e “Sarah & Victor”, tutto di Arrabal, con qualche escursione verso i suoi colleghi di cordata, cioè Alejandro Jodorowski e Roland Topor. Le regie, almeno quelle degli spettacoli principali, erano di Sergio Aguirre che con il Centro di Iniziative Teatrali, fondato trent’anni fa con Manola Nifosì, è stato premiato con il San Rocco 2018, per la diffusione della poesia e del teatro spagnolo. Naturalmente a fianco di quello che senza dubbio è il suo poeta preferito, naturalmente Arrabal. Importanti tutti gli interpreti, ma qui si segnala Mila Moretti, la figlia del grande Mario, tra l’altro fondatore del Teatro dell’Orologio di Roma. Su di lei è stato proiettato il videoritratto, firmato Ricky Farina, che sul blog del Fatto Quotidiano ha realizzato “Mila Moretti, un’attrice pericolante”, che racconta i problemi fisici, ma anche l’eccezionale forza di questa donna, per la quale Arrabal ha scritto il suo “Sarah & Victor”.

La foto di Fernando Arrabal  in apertura è di Antonio Fernandez,