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L’arma più usata nelle violenze sessuali in Italia: le chiavi di casa

symbolic picture of violence at home

L’ultima storia arriva da Reggio Emilia. Lui il 16 agosto invita lei a cena a casa sua. Sono fidanzati. O meglio: lui è l’ennesimo stronzo che la considera proprietà privata e lei se n’è accorta appena in tempo. Alle 2 di notte litigano, lui la accusa di un tradimento, la pesta a sangue, lei si rinchiude in camera, lui prova a sfondare la porta finché non decide di chiuderla in casa. Il giorno successivo, nel pomeriggio, lui prova a scusarsi ma appena lei gli comunica di voler mettere fine alla loro relazione ricominciano le botte. E le violenze sessuali, ovviamente, poiché la donna-oggetto comprende anche la soddisfazione corporea nella mente malata di questi. Solo tre giorni dopo lei riesce a scappare, dopo avere trovato il luogo in cui erano nascoste le chiavi dell’appartamento. Fugge, si presenta dai carabinieri e racconta tutto. Piccolo particolare: lei l’aveva già denunciato nello scorso luglio per atti violenti. Ma ora vedrete che in molti ci spiegheranno che la colpa è sua che ha deciso di dargli un’altra occasione.

Oltre 100 donne ogni anno vengono uccise in Italia. Negli ultimi dieci anni le donne uccise sono state 1.740, di cui 1.251 (il 71,9%) in famiglia. Anche l’Onu conferma che l’80% dei casi di violenze contro le donne si consuma tra le mura domestiche per mano di ex partner, mariti, compagni, padri, fratelli o persone conosciute ed è la causa del 70% dei femminicidi.

Eppure la ferocia che si scatena nel caso in cui i colpevoli siano stranieri subisce un brusco annacquamento quando si tratta di violenze a casa nostra. I giornali anzi fanno a gara per confondere violenza e amore, inquinando l’aria già tossica: è tutto uno sciorinare “killer in lacrime” (come nel caso del Corriere del Veneto lo scorso 8 agosto scrivendo di Natalino Boscolo Zemello che ha ucciso la moglie), oppure di innamorati pentiti (qui i casi sono moltissimi) fino al pezzo su Repubblica Torino in cui raccontando di Marco Lopez Tacchini (che ha ucciso la sua compagna) la giornalista ci tiene a farci sapere che l’assassino chiede «in continuazione notizie della sua cucciola».

Per questo rientro dalle vacanze si potrebbe fare un patto: prendere coscienza che l’arma più usata dai violenti contro le donne sono le chiavi di casa, la razza peggiore è quella dei presunti innamorati e tutta questa paura di essere invasi potrebbe essere usata per chiudere i porti agli assassini che usano l’amore come condono.

Ci sarebbe aria più pulita. Mica solo per le donne. Per tutti.

Buon mercoledì.

Praga 1968, cronaca di una speranza tradita

Una foto di Vladimir Lammer, scattata nell’agosto 1968 nella piazza Venceslao a Praga, l’immagine fa parte della mostra “La Primavera di Praga 1968-1969” allestita a Milano dalla Galleria Expowall

Cinquant’anni sono trascorsi dall’occupazione russa della Cecoslovacchia, il 21 agosto 1968, dopo il tentativo dei cecoslovacchi di conquistare una nuova democrazia, il “socialismo cecoslovacco”, dove il potere assoluto del Partito comunista, ruolo che deteneva dal colpo di Stato del 1949, era ridimensionato e circoscritto all’ambito politico. In quel periodo due avvenimenti crearono la premessa di un possibile cambiamento. Al congresso degli scrittori a Praga, il 29 giugno 1967, i relatori, coraggiosamente, chiesero un ritorno alla libertà di espressione e democrazia esistenti prima della seconda guerra mondiale. Il secondo fu quando gli studenti dell’Università Carolina a Praga, denunciando una cattiva gestione delle risorse, organizzarono una manifestazione il 31 ottobre. In questo clima, il 5 gennaio 1968 fu eletto segretario del partito lo slovacco Alexander Dubček, l’uomo che interpretava il desiderio di cambiamento del Paese e il superamento del modello socialista russo, come già aveva preannunciato in un articolo pubblicato nel dicembre ’67 sulla Pravda di Bratislava. Il “socialismo dal volto umano” accese gli animi. Nel marzo del ’68, gli studenti scesero di nuovo in piazza con la richiesta di mettere l’uomo al centro della società e non il partito. Presto i comizi studenteschi entrarono negli stabilimenti industriali, tra i compagni lavoratori.

A Est qualcosa stava cambiando. Mosca e i Paesi alleati, guardavano preoccupati al silenzio complice dei politici cecoslovacchi, Dubček in testa, mentre la folla viveva un euforico ottimismo. Brèžnev non poteva tollerare una tale protesta contro l’Unione Sovietica e lo dimostrò, alla fine di giugno. Quando, insieme ai fratelli del Patto di Varsavia, condusse delle manovre militari in Cecoslovacchia. Nel frattempo, il manifesto degli intellettuali, le Duemila parole, stilato dallo scrittore Ludvík Vaculík, fu visto dal Cremlino come un preciso segnale rivoluzionario e fu chiaro a Brèžnev che ormai Dubček non controllava più il partito. Il piano di Mosca era pronto, il motivo era esplicito. A luglio del ’68 ci fu un ultimo incontro fra Brèžnev e il Politburo sovietico e Dubček insieme al Presidium cecoslovacco (organo decisionale del Comitato centrale del Partito comunista, ndr), alla stazione di Čierna Nad Tisou, paese alla frontiera tra la Cecoslovacchia e l’Unione Sovietica. Le delegazioni arrivarono su due convogli, all’interno dei quali si incontravano, e ogni sera il treno sovietico faceva ritorno in territorio russo. L’atmosfera di apertura sembrava avesse raggiunto un compromesso. Ma era l’inizio della fine. «La notte del 20 agosto, l’ultimo giorno di vacanza per la mia famiglia – racconta Tomáš Jelínek, firmatario della Charta 77 che all’epoca aveva 12 anni -, si…

L’articolo di Cecilia Chiavistelli prosegue su Left in edicola fino al 23 agosto 2018


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Diciotti: gli ultimi contro i penultimi. A bollire in mezzo al mare

Migrants desembark from the Coast Guard's ship 'Diciotti' that carried 67 migrants who were taken in from 'Vos Thalassa' in the Mediterranenan, as it is docked at the port of Trapani, Italy, 12 July 2018 (issued 13 July 2018). Italian Interior Minister Salvini said on 12 July he would not authorise any migrants to get off coast guard ship Diciotti, but Prime Minister Conte overruled and allowed the entrance. ANSA / IGOR PETYX

Signore e signori accorrete perché le ultime novità sulla nave della Guardia Costiera italiana Diciotti sono uno spasso imperdibile, una sindone del disgoverno che finge di governare, un conato delle minacce contro il diritto internazionale, una farsa di bulletti che alzano la voce in cambio di un pugno di voti, l’ennesimo annuncio pronto a frantumarsi di fronte alla realtà dei fatti e alla vigliaccheria dell’uomo forte che aizza i penultimi contro gli ultimi per un po’ di consenso.

I fatti, intanto. Perché i fatti contano e anche se sono andati fuori moda vale sempre la pena ripeterli ostinatamente; una nave italiana della Guardia Costiera italiana viene lasciata alla deriva per cinque giorni in acque italiane, poi fatta attraccare a un porto italiano (quello di Catania) e infine lasciata bollire attendendo che i ministri Toninelli e Salvini smettano di twittare e si concedano una telefonata. O forse, ma questa è un’utopia, in attesa che il Presidente del Consiglio eserciti la sua funziona anche senza essere sculacciato dal Presidente della Repubblica.

Il 14 agosto un barcone che trasporta 190 migranti viene avvistato in acque maltesi dalle autorità locali. Quelli però decidono di non intervenire lasciandoli tranquillamente navigare verso l’Italia monitorandone il passaggio e offrendo assistenza (rifiutata, tra l’altro). In pratica Malta si vede passare sotto il naso una barca di migranti (considerata per convenzione internazionale inadatta alla navigazione) e se ne frega “esercitando il loro diritto di navigazione in mare aperto”, ha detto il ministro maltese, raccontando una castroneria raccapricciante.

Il barcone viene intercettato in acque italiane dalla Guardia Costiera italiana che, secondo le regole, interviene: 13 migranti in cattive condizioni vengono trasferiti d’urgenza a Lampedusa mentre gli altri 177 aspettano di sapere dove devono attraccare. Qui accade il primo comico (e tragico) intermezzo: il ministro dell’inferno Salvini minaccia di rispedire tutti in Libia nel caso in cui l’Europa non si faccia carico dello sbarco, il ministro Toninelli accusa Malta. Cosa c’entrino quei disperati lasciati a bagnomaria nel Mediterraneo con Malta e l’Europa non ci è dato di sapere: di certo la vigliaccheria di prendersela con loro è la strada più facile e disonesta per alzare la voce. Come al solito. Eroi, questi ministri del cambiamento.

L’articolo 33 della Convenzione di Ginevra (di cui il governo forse dovrebbe avere contezza) dice chiaramente: “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. In pratica le minacce di Salvini valgono come il due di bastoni quando briscola è denari. Al solito.

Toninelli poi interviene informandoci che la nave è diretta verso Catania e che «i valorosi uomini della Guardia Costiera hanno compiuto il proprio dovere salvando vite umane»: peccato che per 5 giorni si siano presi tutto il fango (da “scafisti” a insulti peggiori) da tutti i salvinisti. Un po’ in ritardo.

Poi il ministro Salvini lo smentisce: non dar ordine di sbarcare, dice, finché l’Europa non si occuperà di distribuire i migranti. Fa niente che la ridistribuzione sia il punto centrale della revisione del trattato di Dublino a cui il ministro non ha mai partecipato (a nessuna delle riunioni) a Bruxelles: l’importante è fare rumore. Poi, al solito, verrà smentito dai fatti ma troverà una nuova provocazione su cui spostare l’attenzione.

Intanto una nave italiana della Guardia Costiera italiana viene lasciata alla deriva per cinque giorni in acque italiane, poi fatta attraccare a un porto italiano (quello di Catania) e infine lasciata bollire attendendo che i ministri Toninelli e Salvini smettano di twittare e si concedano una telefonata.

Ah, a proposito, per quelli che scrivono dappertutto  “destituite il comandante, c’è sempre di mezzo la Diciotti”: il salvataggio è stato effettuato da due motovedette alle 3.40 di notte, e Diciotti ha semplicemente effettuato il trasbordo alle 8.20 del mattino. Per dire.

Bravi tutti. Avanti così.

Buon martedì.

 

Camping river: i diritti umani calpestati dal Campidoglio

I video, i post sui social e le dichiarazioni alla stampa rilasciate dall’amministrazione capitolina per giustificare lo sgombero del Camping river evidenziano fatti drammatici dietro la più becera propaganda. «Lo sgombero di Camping river, avvenuto lo scorso 26 luglio, è stato un caso emblematico per mostrare l’utilizzo da parte del Comune di Roma della propaganda mediatica, uno strumento di distrazione di massa, che racconta una verità altra, utile a coprire inefficienze e promesse fatte in campagna elettorale e mai mantenute», commenta Associazione 21 luglio, al termine della conferenza stampa Camping river. Le verità nascoste nelle pieghe della propaganda, tenutasi qualche giorno alla Camera dei deputati per illustrare i retroscena di un’azione di sgombero fallimentare, dispendiosa, profondamente lesiva dei diritti umani e accompagnata da una narrazione mediatica falsata da informazioni e dati lontani dalla verità. Distorta, volta a giustificare le operazioni che hanno preceduto lo sgombero e quelle, successive, che hanno allontanato le famiglie dall’insediamento.

Lo sgombero di Camping river – secondo quanto scritto dal sindaco Virginia Raggi sui social, poco dopo lo sgombero – è stato fatto per la drammatica situazione igienico-sanitaria, che «stava mettendo a rischio la salute degli stessi abitanti». Il primo cittadino però ometteva di precisare che le premesse per arrivare alla condizione in cui versava il campo le ha messe proprio l’amministrazione da lei guidata, con la decisione di distruggere cinquanta moduli abitativi a decorrere dal 21 giugno e di sospendere l’erogazione idrica a far data dal 30 giugno.

A rafforzare l’urgenza della chiusura del campo sulla via Tiberina, la giunta capitolina sciorina una serie di cifre (inesatte) con l’obiettivo di convincere i cittadini che il mantenimento dei campi ha un costo insostenibile: si spenderebbero, ogni anno, venticinque milioni di euro. In realtà, secondo i dati dell’Associazione 21 luglio, nel 2016, si è speso un milione e mezzo di euro che, nel 2017, sono diventati tre milioni e mezzo. Cioè, un decimo della cifra dichiarata ufficialmente dalle istituzioni comunali. Per le quali, per bocca della consulente del Comune Monica Rossi, «il bilancio dello sgombero di Camping River è estremamente positivo».

Oltre alla grave violazione dei diritti umani (tenuta, evidentemente, in poco conto), i numeri dicono il contrario. «A fronte di 359 persone del campo ammesse alle azioni del Piano Rom alla fine solo il 9 per cento è rientrato all’interno di tali azioni (fra rimpatri assistiti e sostegni all’affitto). Il 52 per cento delle famiglie non ha trovato alcuna soluzione e ora vaga in strada, mentre al 30 luglio, risultavano 123 le persone collocate in strutture d’emergenza, dove, come da accordi verbali, resteranno fino al 30 settembre 2018. Per la loro accoglienza – a carattere meramente emergenziale – il Comune di Roma dovrà spendere, fino al 30 settembre 2018, una cifra stimata vicina ai quattrocentomila euro», dice l’Associazione 21 luglio. Questa è la verità.

Firenze ridotta a location del nuovo Renzi show

«Ne verrà fuori una grande battaglia contro la demagogia, il qualunquismo e la paura. Bellezza contro odio, apertura contro protezionismo, Rinascimento contro oscurantismo». Matteo Renzi è un po’ così. È un entusiasta. Pensa di poter far tutto. L’ex sindaco ed ex segretario del Pd, ma anche ex presidente del consiglio, non si accontenta del ruolo di senatore. Vuole fare. Vuole dire. Soprattutto, vuole apparire. È la sua natura. Per questo eccolo nella veste di conferenziere, dalla Cina agli Usa. Non solo.

A breve, anche novello Angela (nel senso di Piero &  Alberto, la coppia dei divulgatori culturali per eccellenza in tv). Matteo Renzi voce e volto narrante di un docufilm su Firenze. La città d’arte raccontata attraverso i suoi luoghi più rappresentativi. Palazzo Medici Riccardi e il Corridoio Vasariano, Palazzo Pitti e il Duomo, Santa Croce e Santa Maria Novella, oltre a molto altro. Con un punto fermo, la partenza da piazza Duomo. Qui, il prossimo 21 agosto, inizieranno le riprese della Firenze secondo Renzi. E per l’occasione la piazza rimarrà chiusa al transito dei pedoni.

A produrre il docufilm, Lucio Presta. A lanciarlo, lui, Matteo Renzi. Che per ora ha dovuto subire il “no” di Mediaset alla trasmissione in tv del programma. Già perché il prodotto va venduto. Deve girare. Altrimenti non serve a niente. Diventa un’esercitazione sterile. Rischia di essere come il video che gli sposi si fanno fare per il giorno del matrimonio. Ad uso e consumo di amici e parenti.

Firenze diventa la location del nuovo Renzi show. Il piccolo schermo che tanto gli piace(va) e nel quale si è esibito spesso anche con eccessiva disinvoltura lo attrae, è chiaro. Anche per questo ha deciso di provare ad esserne un protagonista. Ma non sui temi della politica. Più precisamente, non in maniera esplicita. Facendolo, ma attraverso la lente della cultura. Anzi della “bellezza”, come dice utilizzando un’espressione abusata, ma che piace tanto ai più.

Il tante volte “ex” ritorna alle sue origini. Quelle de Stil novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter, il libro pubblicato nel 2012. Allora, tra le righe, sottolineava l’inadeguatezza della classe dirigente e quindi l’allontanamento dai partiti. Ora Firenze, le sue architetture e la sua storia, saranno il pretesto per contrapporsi al populismo dei leader del presente. Allora gli antagonisti erano Mario Monti e il “montismo”, ora lo sono il leghista Matteo Salvini e il pentastellato Luigi di Maio.

Nell’aprile 2012 Renzi presentando l’uscita del libro al teatro della Pergola fece ricorso a spezzoni di video, da Cettolaqualunque, a Wall Street 2, passando per Berlinguer ti voglio bene. Le immagini gli servirono per far capire come doveva essere la politica. Il docufilm su Firenze del 2018 sarà il suo modo per sottolineare l’inadeguatezza del governo.

Nel 2012 come nel 2018 utilizzando, in maniera retorica e banale fino al qualunquismo, la “bellezza”. Con un distinguo nella nuova performance, a dire il vero. In questa occasione c’è addirittura un richiamo al Rinascimento, del quale, è inutile dirlo, lui sarebbe l’artefice. Renzi ritorna a Firenze, quindi. Ha deciso di descriverne i luoghi della cultura più suggestivi. Che importa se gli strumenti e i modi sono inadeguati. Tanto lo fa per sé, non certo per rendere davvero un servizio alla città d’arte. D’altra parte non sarebbe neppure la prima volta che si occupa del patrimonio storico-artistico cittadino.

Nel luglio 2011 la prima idea folgorante: restituire la facciata alla basilica di San Lorenzo. Come? Coprendo il muro esistente con marmi bianchi, secondo il progetto che Michelangelo aveva lasciato incompiuto. Come noto, il diniego della Soprintendenza ha impedito l’operazione. A distanza di pochi mesi ecco una nuova impresa. Ricercare la perduta battaglia di Anghiari di Leonardo sotto i muri del Salone dei Cinquecento. Dopo diverse perforazioni interviene di nuovo la Soprintendenza. Questione chiusa.

Insomma la Firenze dei monumenti Renzi lo conosce. Per questo un po’ lo teme.

«Allora si potevano buttar giù piazze e distruggere mura, oggi si devono rispettare emerite schifezze protette – non si sa bene perché – da un nobile vincolo», scrive il molte volte “ex” in Stil novo. La rivoluzione della bellezza da Dante a Twitter. Questa volta non ci dovrebbe essere rischio per l’incolumità di “piazze” e “mura”. E neppure di chiese e palazzi. Renzi ne parlerà soltanto. Speriamo

Tre ciarlatani e un funerale

Circa 300 persone in piazza De Ferrari per la manifestazione chiamata Ponte16100, dal numero di codice avviamento postale di Genova, nata sui social con l'obiettivo di creare un momento collettivo di elaborazione della tragedia del viadotto Morandi, Genova,19 agosto 2018. Un rotolo di carta di decine di metri è stato riempito con pensieri per Genova. Pensieri di rabbia come "Funerali di Stato per un omicidio di Stato", "Basta parole? silenzio", oppure di speranza: "Genova si rialzerà più bella di prima". ANSA/LUCA ZENNARO

Partiamo subito da un dato di fatto: atteggiarsi da rockstar durante un funerale di Stato, usare gli applausi come randello, fare ombra alle bare, invitare (da addetto stampa del Presidente del Consiglio) i giornali a enfatizzare gli applausi con un sms inviato ai giornalisti, leggere i quotidiani il giorno dopo che titolano come avrebbe voluto Casalino, avere bisogno di un nemico per ispirare protezione (e nel dubbio indicarne qualcuno nel mucchio) e confondere la giustizia con la vendetta fa schifo. Tanto. Anche se fa schifo perfettamente in linea con il sentire comune che annusiamo nei bar, nelle discussioni sui social, nelle pessime uscite di qualche pessimo ministro. Niente di nuovo, insomma, se non fosse che qui i morti sono ancora caldi e verrebbe da sperare che possano servire da argine. E invece niente.

Però ridurre politicamente tutta la vicenda del crollo del ponte Morandi a questo è di una miopia che fa spavento e credere che basti scimmiottare quegli altri per erodergli voti rinunciando consapevolmente alla complessità che ci governa (e che la politica dovrebbe essere in grado di governare) è il modo migliore per garantire al governo in carica un agevole e lungo futuro.

Dietro il crollo di Genova ci sono decine di questioni che andrebbero discusse, analizzate e soprattutto raccontate. C’è la privatizzazione selvaggia di un centrosinistra che ha svenduto (o comunque ha avvallato l’idea della svendita come buona e giusta soluzione) un pezzo del patrimonio pubblico con l’ulteriore aggravante di “avere flirtato – per citare l’azzeccatissima definizione di Alessandro Gilioli – più o meno apertamente con grossi gruppi imprenditoriali e bancari, così diventando parte integrante di una rete politica-economica di potere”. C’è anche la narrazione (anche questa con colpevole favoreggiamento politico di un certo centrosinistra) che tutto il pubblico faccia schifo e tutto il privato invece sia bello e funzioni. C’è, semplificando, il neoliberismo strisciante di chi lo alimenta fingendo (male) di combatterlo e intanto si inchina al capitalismo di chi vede le strade, gli ospedali e i servizi primari solo attraverso la lente del fatturato che possono portare.

Ci sono le bugie. Tante, da tutte le parti, ben prima dell’era delle fake news. C’è il governo Berlusconi-Lega come responsabile della concessione della rete autostradale (che il governo Prodi aveva immaginato ben diversa) con il decreto legge 59 del 2008: convenzioni con le concessionarie autostradali approvate togliendo ogni possibilità di verifica agli organismi di controllo e riducendo gli spazi di intervento per il pubblico, compresa quella sottoscritta con Autostrade per l’Italia. C’è la consapevolezza da parte del ministero delle Infrastrutture, della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali a Roma, del Provveditorato per le opere pubbliche di Piemonte-Valle d’Aosta-Liguria a Genova e di Autostrade per l’Italia che da almeno sei mesi sapevano della corrosione dei tiranti ceduti sul ponte di Genova (come scritto nel verbale della riunione con cui il primo febbraio 2018 il Provveditorato alle opere pubbliche di Genova rilascia il parere obbligatorio sul progetto di ristrutturazione presentato da Autostrade che ha scovato l’Espresso). C’è anche l’assurda nomina da parte del ministro Toninelli di alcuni di quelli che già sapevano e che ora sono nella commissione d’indagine ministeriale e in fondo indagheranno se stessi.

E poi c’è questa nefasta sicumera per cui nessuno alza mai la mano a dire “sì, forse ci siamo sbagliati” o “siamo la vostra opposizione però di questo potremmo parlarne” per cui chi ha perso le elezioni (perché evidentemente ritenuto inaffidabile, a torto o ragione) non sente mai il bisogno di mettersi in discussione. Così alla fine qui fuori sembra di assistere alla presunta sinistra che difende i capitalisti (tra l’altro senza capitale, anomalia tutta nostrana).

E poi ci sarebbero i morti. E il rispetto che gli si dovrebbe. Ma questo ormai l’abbiamo perso da un pezzo.

Buon lunedì.

L’Italia sono anche loro

ROME, ITALY - OCTOBER 13: Sons and daughters of immigrants, together with students, teachers and parents in Piazza Montecitorio for Citizenship Day, to ask for the approval of the reform of the Ius Soli, on October 13, 2017 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images)

Chiamiamolo Marko – suggerisce Eleonora Forenza, eurodeputata Prc nel Gue – nome di fantasia ma bosniaco come lui. Anzi no. Marko non è bosniaco, lo sono solo i suoi genitori. Eppure sta sbattuto in un Cpr, a Bari, per essere rimpatriato in una patria che non è la sua, non l’ha mai vista. Parla italiano perfettamente perché qui è nato e cresciuto, ma ha i documenti scaduti». La sua storia si inserisce in quello che Forenza spiega come «il contesto europeo di follia e di criminalità sulle politiche migratorie con una specificità tutta italiana: l’assenza del riconoscimento dello ius soli».

Era l’inizio dell’autunno del 2017 quando il Parlamento italiano ha rinunciato a terminare l’iter di una legge attesa da centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi. Celeste Costantino, ex deputata di Sinistra italiana, ora in stand-by, ha seguito quella vicenda: «Il risultato era un passo indietro al testo de L’Italia sono anch’io (legge di iniziativa popolare supportata da centomila firme raccolte da Arci e altri, ndr), noi volevamo intervenire sui tempi, ora lunghissimi, per la cittadinanza degli adulti. Va detto che in Parlamento lo ius soli “puro” non è mai stato preso in considerazione – ricorda Costantino – gli emendamenti degli alfaniani spinsero per una mediazione tra ius soli e ius culturae e tutto si arenò in Senato dopo essere stato approvato alla Camera nel silenzio assordante del M5s, nemmeno un emendamento e l’astensione finale. Preferirono mantenere la stessa ambiguità mostrata verso la legge per una Giornata della memoria delle vittime del Mediterraneo. Anche noi non eravamo convinti ma ritenemmo che valesse la pena andare avanti. Per il Pd, nonostante lo ius soli figurasse nel programma di governo esisteva un problema di tenuta generale dell’alleanza con Alfano, piovevano già sondaggi molto negativi, l’arretramento era frutto di quelle pressioni esterne, fu un vero cambio di priorità».

«E ora dentro questo Parlamento non ci sono più margini – interviene Erasmo Palazzotto, deputato per Sinistra italiana nel gruppo di Leu – perché la regressione culturale che ha attraversato il dibattito pubblico ha dato vita a questo quadro politico. C’era una maggioranza ostile già nella passata legislatura quando una possibilità c’era. Sarebbe stato un piccolo avanzamento seppure…

L’articolo di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 17 agosto 2018


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Non si è mai stranieri a Palermo

Palermo, Sicily, Italy. Seafront view

«Perché tante persone in Italia sono tristi? Hanno tutto, ma sono tristi. Figli che non parlano con i genitori, genitori che non parlano con i figli. Quartieri della stessa città che non comunicano tra di loro». Clelia Bartoli rimane senza parole davanti a quelle osservazioni. A fargliele sono i suoi studenti del Cpia di Palermo, formalmente Centri provinciali per l’istruzione degli adulti ma da qualche tempo frequentati quasi interamente da giovani richiedenti asilo.

Dine è uno di loro. Ha 19 anni, un sorriso contagioso e la voce ferma di chi vuole realizzare i propri sogni. «Abbiamo riflettuto, guardandoci intorno. Rimanevamo male quando salutavamo e nessuno ci rispondeva. Ci spiegavano che in Italia è normale: non si saluta chi non si conosce. Per la nostra cultura è inconcepibile. Ci siamo accorti che qui quello che manca è la giocherenda». Clelia non capisce. Le spiegano che è un termine pular, una lingua parlata in parecchi Paesi del West-Africa, il cui significato si avvicina al concetto di solidarietà, ma il senso è ben più ampio.

«Si tratta di una parola composta – mi spiega Clelia – dai termini “giuntura” e “linfa vitale”; la giocherenda è quindi il fluido che, scorrendo nelle articolazioni, le tiene insieme e ne permette il movimento». Clelia e i suoi ragazzi parlano, ragionano, progettano: vogliono far conoscere a tutti la giocherenda. «L’assonanza con la parola italiana gioco è stata la chiave del rebus. Abbiamo cominciato a creare dei momenti cooperativi e narrativi. Attività in cui nessuno perde, in cui l’obiettivo è quello di dar luogo a una storia comune». Come la “ruota dei desideri”, un tabellone con dei cerchi concentrici in cui i partecipanti all’inizio devono scegliere il proprio desiderio, poi l’identità, infine i mezzi da utilizzare e gli ostacoli da aggirare per raggiungere il proprio sogno. 

«L’abilità è quella di ripensare le cose come risorse per raggiungere ciò che si desidera». Tra giochi e laboratori ludici i ragazzi di Giocherenda sono stati da esempio a tanti. Hanno coinvolto l’intera città, mescolando ricchi e poveri, giovani e vecchi. Sono stati contattati da Dell’Oglio, un’azienda di alta moda, per formare l’intero personale. E sono andati nei quartieri più periferici di Palermo, come lo Zen, Brancaccio e Ciaculli. «Stanno insegnando loro come non sentirsi stranieri nella loro stessa città, come praticare la resilienza collettiva», spiega Clelia.

Allo Zen, Dine si ferma a parlare con una ragazza dopo il laboratorio. Lei gli racconta che ha perso il padre, che ha problemi in famiglia. E che il sogno di diventare ballerina che nutriva tempo fa, l’ha ormai…

Il reportage di Carmine Gazzanni prosegue su Left in edicola dal 17 agosto 2018


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Il “cambiamento” è una farsa, diamo voce a chi è senza diritti

ROME, ITALY - MARCH 18: Viola Carofalo leader of the party during her speech wearing a shit dedicated to the brazilian activist Marielle Franco, killed in Rio de Janeiro at the National assembly of the italian political party Potere al Popolo (Power to the People) at the Teatro Italia on March 18, 2018 in Rome, Italy. The extreme-left party founded by some social centers in which extra-parliamentary left-wing groups have joined, receiving 375.000 votes in the last political election. (Photo by Ivan Romano/Getty Images)

Sono sempre stata abituata a fare i compiti per le vacanze all’ultimo minuto, di fretta, sperando di essere graziata, che nessuno degli insegnanti me ne chiedesse conto. Così, mentre la prima settimana di settembre già se ne fuggiva, io stavo lì a leggiucchiare e scrivere, ancora distratta dal pensiero dell’estate che se ne andava. Stavolta però non è possibile, i compiti delle vacanze ci tocca farli in tempo, e bene pure, perché l’autunno che ci aspetta sarà pieno di insidie e di sfide e bisogna farsi trovare preparati.

Dopo una campagna elettorale sotto la neve, in questi mesi, sotto al sole, abbiamo continuato a costruire Potere al popolo! aprendo sedi, facendo mutualismo e sostenendo lotte, discutendo, crescendo. Di questa crescita, se ne sono accorti anche i sondaggi e i media: forse perché non siamo scomparsi dopo il 4 marzo e abbiamo continuato a lavorare duro, radicandoci sui territori.

Questo sforzo di migliaia di militanti in tutta Italia ha pagato, e non solo sul piano della visibilità, che va e viene, ma anche su quello del coinvolgimento popolare, che resta per me ciò che conta davvero. Un passaggio importante di questo processo di costruzione sarà il campeggio che stiamo organizzando dal 23 al 26 agosto a Marina di Grosseto, in Toscana. Il campeggio è aperto a tutti, ci sono già 450 prenotati, e ha in programma due assemblee pomeridiane: con la prima, venerdì 24, continueremo a fare “tutto al contrario”, a discutere delle…

L’articolo di Viola Carofalo prosegue su Left in edicola dal 17 agosto 2018


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Marielle Franco, parla la madre: «La sua lotta non si ferma»

Português: Marielle Franco em agosto de 2016. Data 17 agosto 2016, 21:56:21 Fonte https://www.flickr.com/photos/midianinja/29568404732/ Autore Mídia NINJA

City of God, Tropa de elite. Ci sarà un motivo per cui tra i più acclamati film brasiliani degli ultimi anni molti sono quelli che mettono al centro la violenza. Una violenza che è tratto strutturale di un Paese in cui corpi legali e illegali non sono separati da confini chiari e visibili. In cui la criminalità si fa Stato e lo Stato si fa criminalità. Quest’intreccio era al centro delle denunce di Marielle Franco. Consigliera a Rio de Janeiro per il Partito socialismo e libertà (Psol), è stata trucidata il 14 marzo di quest’anno. I proiettili di calibro 9 che l’hanno uccisa facevano parte di una partita destinata alla polizia brasiliana. Eppure le prime parole di Marinete Silva, avvocato di 66 anni e madre di Marielle, non sono su proiettili e violenza. L’abbiamo incontrata, grazie e insieme al Comitato Lula livre, a Roma, dov’è arrivata per rivendicare verità e giustizia per Marielle.

Stupore. È questo che vuole trasmetterci. «Non immaginavo nulla di simile. Sono rimasta assolutamente tramortita dal livello di mobilitazione globale che ha seguito l’omicidio di Marielle. Anche qui, in questi miei primi giorni in Italia, molte donne mi hanno scritto solo per conoscermi, per farmi sentire il loro affetto e la loro vicinanza. Per la mia vicenda personale, ma anche – e soprattutto – per quella politica». Siamo noi, non senza un colpo a cuore, a riportarla a quella notte, a quei giorni…

Sono passati più di quattro mesi dalla notte dall’omicidio di Marielle. La sua morte è stata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Poi, come troppo spesso accade, è finita quasi nel dimenticatoio. A che punto sono le indagini?
Ancora non abbiamo in mano nulla di concreto, purtroppo. La polizia sta seguendo diverse piste, ma nessuna pare possa esser considerata come risolutiva. Marielle combatteva su così tanti fronti che non è facile identificare chi possa esserci dietro il suo omicidio. La sua lotta dava fastidio a molti, a troppi. Ora la polizia ha disposto una task force di 18 uomini, nei quali ho piena fiducia. Mi dispiace però non essere minimamente coinvolta e informata degli sviluppi delle indagini: la maggior parte delle informazioni le apprendo anche io dai media.

Come ha reagito il mondo politico brasiliano all’assassinio?
Il sostegno delle istituzioni è stato abbastanza discontinuo. Subito dopo la notizia dell’assassinio il governo si è schierato apertamente al fianco di Marielle, in particolare il presidente Michel Temer e il ministro della Difesa Raul Jungmann; questo atteggiamento però non è durato a lungo, visto che non appena il caso è stato messo in secondo piano dai media è venuto meno anche l’appoggio delle forze politiche che sono al governo. La sinistra invece, attraverso il Partito socialismo e libertà, ma anche il Partito dei lavoratori (Pt) e il Partito comunista brasiliano (PCdoB), non ha smesso di rivendicare giustizia per Marielle.

Marielle ha una storia che parla a tanti in Brasile. La violenza è sempre stata centrale. Sia perché vissuta e subita, sia perché combattuta. Fino, appunto, alla morte. Da cosa nasce la sua battaglia?Marielle è nata e cresciuta a Maré, una delle favelas di Rio de Janeiro, tra le più grandi e difficili. A spingerla verso l’attivismo politico è stata l’irruzione nella sua vita della violenza più brutale. Nel 2003, una delle sue più care amiche rimase infatti uccisa da quelle che noi in Brasile chiamiamo balas perdidas: un colpo partito involontariamente durante un conflitto a fuoco tra polizia e bande criminali. Questo episodio, avvenuto proprio vicino la casa del nonno di Marielle, non solo l’ha spinta verso la lotta, ma l’ha guidata per tutta la sua vita di attivista: combattere la violenza in ogni sua forma, lottare per i diritti degli ultimi. Il lavoro decennale nella favela è stato fondamentale per dimostrare a tutte e tutti quale fosse il senso della sua lotta politica: supportare la causa delle donne e lgbtq+, dei neri e di tutte le comunità segregate fisicamente e socialmente nelle favelas.

Nei giorni immediatamente successivi all’omicidio, si è molto parlato di questa lotta di Marielle per la “sua” favela,  per Maré. In cosa si concretizzava questo impegno?
Marielle aveva messo in piedi un centro che svolgeva attività per tutta la comunità: corsi d’inglese, teatro, danza, musica, arte; ma anche spettacoli, un orto comunitario, corsi di indirizzo al lavoro. Ciò che più di tutto ha contributo alla popolarità di quest’esperienza è stato un corso per aiutare i giovani della favela a superare i test d’ingresso per le università pubbliche. In Brasile l’università è gratuita, ma funziona con il sistema del numero chiuso: nella maggior parte dei casi solo chi viene dalle scuole private riesce a superare i test d’ingresso. La creazione di un percorso del genere, oltre ad affrontare un enorme problema di disuguaglianza e classismo della società brasiliana, ha attratto moltissimi giovani, che poi sono rimasti per partecipare alle altre attività, e magari per impegnarsi in prima persona. Tutto questo avviene esclusivamente grazie all’impegno volontario e gratuito di tante persone, che lavorano quotidianamente senza fondi o facilitazioni. Ad esempio le prime lavagne della scuola erano di Marielle, le portò lei stessa dalla sua cucina.

L’omicidio di Marielle ha acceso le luci di tutto il mondo sul Brasile di Temer. Molti erano rimasti ai governi del Pt, alla lotta alla povertà, ai successi macroeconomici. Qual è la situazione oggi in Brasile?
Non viviamo giorni tranquilli. Nel 2016 un golpe “blando” ha portato al potere Michel Temer, vicepresidente del governo Rousseff, deposta in circostanze tutt’altro che limpide. Nel prossimo autunno ci dovrebbero essere le elezioni, ma la situazione di Lula (vedi box, ndr) rende tutto ancora molto incerto: l’ex presidente infatti è ancora in prigione, arrestato per corruzione in pressoché totale assenza di prove a carico. In queste condizioni è difficile dire se e quando si svolgeranno le elezioni. Quello che è certo è che nel frattempo la vita quotidiana si sta facendo sempre più insostenibile: in tutto il Brasile, ma a Rio de Janeiro in particolare, violenze e aggressioni sono all’ordine del giorno, mentre si tagliano indiscriminatamente i fondi per la sanità, l’educazione e lo stato sociale.

«Marielle presente. Ora e sempre» è stato uno slogan che si è diffuso in Brasile, ma anche molto oltre. In che modo questa presenza è palpabile? In cosa la vita e la lotta di Marielle vivono oggi in Brasile, al di là della retorica?
Una settimana fa abbiamo lanciato un nuovo progetto, Papo Franco, un laboratorio di discussioni e attività informali, in cui sia possibile conoscersi ma anche riconoscersi come comunità. Papo in portoghese significa chiacchierata, mentre Franco, come in italiano, si riferisce alla sincerità e al coraggio; non è solo un modo per ricordare Marielle, ma anche per portare avanti la sua battaglia politica e sociale: di questo progetto, tra l’altro, ne parlava lei stessa in un vecchio video. Mobilitarsi a Maré, come in ogni altro angolo del pianeta, è fondamentale: quanto più diffonderemo il messaggio di Marielle, tanto più forte diventerà. Non possiamo fermarci ora. Lo dobbiamo non solo a Marielle, ma alle tante e ai tanti che non hanno mai smesso di crederci e di lottare.

L’intervista a Marinete Silva è tratta da Left n.33 del 17 agosto 2018


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