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I cittadini del mondo

Ho letto recentemente un’intervista a Alessio Figalli, vincitore della medaglia Fields, il premio che viene definito il “Nobel della matematica”. La domanda dell’intervistatore era “Perché non hai pensato di restare in Italia?”. La risposta di Figalli è stata decisamente spiazzante. Perché non ne ha fatto una questione di minori o maggiori possibilità che si hanno in Italia rispetto all’estero. Semplicemente ha raccontato come sia capitato che partecipasse alle olimpiadi di matematica mentre frequentava il liceo classico a Roma e poi è capitato che si informasse sulla Normale di Pisa e decidesse di fare il concorso e poi è capitato che facesse un dottorato su un campo di studi che lo aveva affascinato e poi che vincesse una borsa per il Texas dove poi è diventato professore. Da dove poi è stato chiamato per diventare professore all’Università di Zurigo.

La cosa interessante è proprio questa mancanza di polemica con la realtà italiana dove peraltro si è formato. Figalli è un talento della matematica. Ma è anche un cittadino del mondo, come la gran parte degli scienziati dei nostri giorni.

Non esiste per loro una sola nazione in cui formarsi e vivere così come non esiste una sola lingua in cui esprimersi. La lingua franca della scienza è l’inglese ma conosco molti amici ricercatori e professori che sono in grado di esprimersi in almeno un’altra lingua oltre all’italiano. Non esistono frontiere e non esistono razze. Esiste un’unica umanità. E non c’è alcun bisogno di affermarlo, è così e basta. Ecco quindi che Figalli risponde in maniera sorpresa ad una domanda che in effetti non ha molto senso. È giusto e sano che chi si forma per fare ricerca in Italia vada a specializzarsi e a studiare all’estero. Deve farlo. È qualcosa che serve per comprendere meglio di quanto si possa fare nel corso di studi universitario che il mondo è uno solo così come è una sola l’umanità ed è una sola la scienza. Non esiste una scienza italiana o americana. Esistono senz’altro centri di ricerca, università, scuole di specializzazione e di alti studi nei vari paesi del mondo.

Ma la scienza, intesa come conoscenza della realtà, è una sola. Ed è universale. Tutti gli scienziati lo sanno. La politica no (o fa finta di non saperlo). D’altra parte la scienza ha ricadute tecnologiche che possono diventare molto importanti per lo sviluppo economico delle nazioni. La politica lo sa (anche se in Italia non sembra così) e fa di tutto per agevolare queste possibilità di movimento nel mondo degli scienziati. Gli scienziati sono il meglio, l’espressione massima dell’umanità. Vengono coccolati e cercati in tutto il mondo e gli viene concessa assoluta libertà di movimento e di residenza.

La nostra piccola politica italiana è indietro su una semplice verità. Non comprende che attrarre scienziati e ricercatori e finanziare la ricerca cosiddetta di base, quella che apparentemente non serve a nulla, è il migliore investimento che si può fare, quello che sulla distanza rende di più in termini di economia reale perché ha delle enormi ricadute tecnologiche e culturali.

Il problema non è tanto quindi la fuga di cervelli, che come abbiamo scritto su Left 30 del 27 luglio scorso è in realtà la fuga di tanti giovani in cerca di un lavoro “normale”.

Andrebbe incentivata la possibilità di viaggiare dei ragazzi, di fare esperienze di studio e di ricerca all’estero, magari anche durante il corso di studi secondario così come accade con l’Erasmus per l’Università. E anche, perché no, le possibilità di lavoro all’estero magari con delle strutture di accompagnamento e di facilitazione da parte degli stati europei.

E poi andrebbe certamente finanziata in maniera massiccia l’Università e la ricerca per poter attrarre talenti dall’estero, persone che possano venire a studiare e fare ricerca in Italia. Andrebbe data a tutti la possibilità di muoversi nel mondo come gli scienziati, la possibilità di fare ricerca nel proprio ambito di interesse, anche al limite nella ricerca di lavoro a livello europeo.

Gli scienziati come Figalli si muovono nel mondo per fare la loro ricerca e se ne infischiano delle questioni politiche. Vanno là dove ci sono possibilità, economiche, di ricerca e di conoscenza di cose nuove. Mostrano a tutti quella che può essere la realtà di tutti i popoli del mondo. Quella di muoversi nel mondo senza i confini politici che sono solo delle linee tracciate sulla carta geografica.

Il problema non è quello di far restare le persone e gli scienziati in Italia ma quello di promuovere gli spostamenti di tutti gli scienziati nel mondo, quindi anche verso l’Italia.

Ognuno deve essere libero di scegliere dove vivere e studiare. Senza limitazioni.

Sarebbe ora che la sinistra comprendesse questa realtà e ne facesse una sua battaglia, anche se oggi sembra un’utopia.

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L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola dal 17 agosto 2018


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Ius sanguinis, i paradossi di una legge xenofoba

Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini sul palco durante il suo intervento al tradizionale raduno di Pontida (Bergamo), 17 settembre 2017. ANSA PAOLO MAGNI

«Mai più stranieri a casa nostra». Lo dicono i leghisti che invocano la chiusura delle frontiere, ma lo dicono anche – e in tutt’altro senso – i figli di molti immigrati residenti: quei ragazzi che nascono e crescono in Italia, si sentono cittadini, ma non sono riconosciuti tali dalle leggi dello Stato. Stranieri a casa loro, appunto.

La riforma del (cosiddetto) ius soli è naufragata con la fine della legislatura, ed è destinata a restare nei cassetti per un bel po’ di tempo. Tra le tante (e sgangherate) motivazioni che hanno spinto a non approvarla c’era il mito della «invasione delle puerpere»: l’idea per cui migliaia di donne, soprattutto africane, sarebbero venute in Italia appositamente per partorire, così da avere un figlio italiano.

L’immagine dell’«invasione» – di donne partorienti, o di nuovi cittadini di presunta origine «aliena» – non ha però alcun fondamento, ed è il prodotto di fantasie tutte ideologiche. Basta guardare i dati per capirlo. Secondo una stima della fondazione Moressa, i potenziali beneficiari della (defunta) legge sullo ius soli sarebbero stati 800mila all’inizio, e 60-70mila l’anno a regime. Tutte persone, si badi, residenti da sempre in Italia: nessun figlio di puerpera appena sbarcata, nessuna «invasione».

D’altro canto, con le norme esistenti, fondate su uno ius sanguinis molto rigido (è italiano chi discende da parenti italiani), possono prendere la cittadinanza i nipoti e i pronipoti dei nostri emigranti, anche se sono appena arrivati nel nostro Paese. Può così accadere – ed effettivamente accade – che diventi cittadino chi ha vissuto e vive da sempre all’estero, e non ha nessuna relazione con l’Italia (se non un lontano parente, magari un bisnonno mai conosciuto). Quanti sono i potenziali beneficiari di questa procedura? Una ricerca coordinata dal prof. Mario Savino parla di circa 70 milioni di persone. No, non avete letto male, e non c’è un errore di stampa: sono proprio 70 milioni, più dell’attuale popolazione italiana. Di questa potenziale “invasione” nessuno parla: ecco la natura tutta ideologica del dibattito sulla cittadinanza.

La cittadinanza, tra ideologia e “forza delle cose”.

Va detto che i dibattiti sulla nazionalità sono sempre stati “ideologici”: in questo senso, l’Italia non è un caso isolato. Molti anni fa, il sociologo Rogers Brubaker aveva ricostruito la storia della cittadinanza in due Paesi cruciali, la Francia e la Germania: e aveva scoperto…

L’articolo di Sergio Bontempelli prosegue su Left in edicola dal 17 agosto 2018


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Chi protegge i preti pedofili? Lo Stato fa finta di niente

Pope Francis and Pope Emeritus Joseph Ratzinger on the occasion of the celebrations for the sixty-fifth anniversary of his priesthood in the Clementine Hall in the Vatican, 28 June 2016. ANSA / PRESS OFFICE / Osservatore Romano +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

«Chi vede un bambino non vede nulla»; «Felice chi ha dei figli, ma non infelice chi non ne ha»; «Piccolo è il bambino, piccolo è il lutto»; «Non si deve dire un segreto a una donna, a un pazzo o a un bambino». Si tratta di una breve antologia di detti popolari coniati nell’attuale Europa tra il XV e il XVI secolo e raccolti dallo storico Jean Delumeau in uno dei suoi saggi più famosi, Il peccato e la paura (Il Mulino, 2006). «Quando ebbe inizio l’età moderna europea – spiega Delumeau – l’atteggiamento d’incomprensione nei riguardi dell’infanzia si rivela ancora largamente diffuso e riveste due aspetti tra loro complementari: la scarsa sensibilità per la freschezza e l’innocenza del fanciullino, la scarsa emozione per la sua fragilità; e la tendenza a vedere il fanciullo in età scolare (come diremmo noi oggi) come un insieme di difetti, un essere cattivo e maligno che occorreva necessariamente disciplinare affinché non diventasse adulto malvagio».

Questa antologia di proverbi, «per quanto contenuta, ci fa capire che il bambino non era riconosciuto come tale. Si tratta di una creatura che acquisterà valore solo quando sarà stata disciplinata, diventando uomo», osserva lo storico francese. La sua chiave di lettura del rapporto del mondo adulto con quello dell’infanzia nella cultura occidentale e cristiana al termine del Medioevo, può essere utile per osservare anche alcuni fatti di estrema attualità. L’annullamento dell’identità umana del bambino non è infatti una dinamica che appartiene solo al passato, né tanto meno – purtroppo – è stata definitivamente consegnata alla Storia della nostra civiltà. L’idea violentissima che scaturisce dalla “fusione fredda” tra il logos – il bambino non è un essere umano finché non entra nell’età della ragione (paideia) – e il pensiero religioso cattolico – il bambino è malvagio per natura (peccato originale) -, ne porta con sé un’altra altrettanto criminale: se non è essere umano, lo si può uccidere tranquillamente. Va ricercata qui, in estrema sintesi, la radice “culturale” della pedofilia, della sua giustificazione e della protezione riservata ai pedofili ad esempio dai gerarchi vaticani, di cui tanto spesso si sente parlare nel caso dei sacerdoti stupratori. Non solo. Contro questo crimine orrendo tante parole vengono spese e tanti impegni sono presi a livello istituzionale, ma poi, nei fatti, raramente si traducono in qualcosa di concreto. È questo il caso dell’Italia, e del nostro governo e Parlamento, in particolare quando c’è di mezzo la Chiesa cattolica. Veniamo ai fatti. Nel 2016, per primi su Left (n. 50 del 10 dicembre) denunciammo con l’avvocato Caligiuri del foro di Roma, la violazione della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, ratificata dall’Italia nel 2012. Ci si riferiva allora alle condizioni di estrema vulnerabilità e discriminazione in cui le presunte vittime di abusi si trovano a rendere testimonianza ai procedimenti penali contro i preti nei tribunali ecclesiastici presenti in territorio italiano. «Non solo nell’aula di giustizia ecclesiastica neppure è ammessa l’assistenza del difensore di chi ha denunciato l’abuso – ricorda Caligiuri – ma soprattutto viene negato il supporto psicologico di tecnici di comprovata esperienza legittimati a operare affinché la vittima, una persona che ha subito uno sconvolgimento emotivo, non incorra nella creazione di falsi ricordi. Fino a disattendere quanto stabilito per la cura e il sostegno alle vittime dalla Convenzione di Lanzarote». A questo protocollo possono aderire anche i Paesi che non fanno parte del Consiglio d’Europa, ma il Vaticano non l’ha mai fatto. «Pensando al contro esame, il dato più inquietante emerge dal versante delle garanzie costituzionali – sottolinea Caligiuri -. La difesa di un sacerdote, già imputato per abusi dal Vaticano, ha il vantaggio di acquisire prima dell’eventuale processo italiano la rievocazione narrativa che la vittima darà del fatto storico, i punti deboli su cui calcare la mano, le peculiarità anche caratteriali, la sua realtà emotiva».

Con queste informazioni si ha la possibilità di farla cadere in contraddizione. «Non a caso lo studio reciproco dell’avversario è un dato che gli avvocati curano molto nei processi – conferma Caligiuri -. Siamo pertanto in presenza di una disparità di trattamento in favore dei preti cattolici rispetto a qualsiasi altro cittadino italiano». Sulla base di queste osservazioni, il 19 febbraio scorso l’associazione Rete L’Abuso, proprio per mano di Mario Caligiuri, ha inviato una diffida alla presidenza del Consiglio per «condotte omissive del dovere di protezione dei minori dagli abusi nel clero, violazione della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, violazione della Convenzione di Lanzarote e altre inosservanze più elementari direttamente riferibili alla Costituzione italiana» (v. Left n. 9 del 2 marzo 2018). Tra i destinatari della diffida non c’è solo Paolo Gentiloni. Leggiamo anche: la XII Commissione affari sociali della Camera, il garante nazionale per l’Infanzia e l’adolescenza e la presidenza del Parlamento europeo. Per conoscenza hanno ricevuto il documento l’Unicef, il Comitato Onu per i diritti dell’infanzia, il presidente della Repubblica (come garante della Costituzione), l’Istituto interregionale per la ricerca sulla criminalità e la giustizia delle Nazioni Unite (Unicri) e il Centro di ricerca innocenti Unicef. In base alla legge che regola i rapporti tra i cittadini e le istituzioni, sono obbligati a rispondere entro 30 giorni. Tuttavia, quando scriviamo di giorni ne sono passati 60, e volete sapere se qualcuno del Palazzo si sia degnato di rispondere all’associazione che si occupa di tutelare i diritti di centinaia di vittime italiane di preti pedofili? Prima di rispondere a questa domanda, il presidente di Rete L’Abuso, Francesco Zanardi, tiene a sottolineare alcuni aspetti: «Il nostro Paese, come la Santa sede, ha ratificato la Convenzione Onu per i diritti dell’infanzia, e il solo fatto che lo Stato permetta alle gerarchie ecclesiastiche di attuare indisturbate sul territorio italiano le stesse violazioni contestate alla Santa sede dal Comitato d’inchiesta Onu (v. Left n. 6 del 15 febbraio 2014), equivale non solo ad infrangere quella stessa convenzione, ma anche a rendersi responsabile civile nei confronti dei propri cittadini».

E cosa contesta l’Onu all’istituzione governata da papa Francesco? Questioni niente affatto marginali: di non aver «preso le misure necessarie per affrontare i casi di abuso “sessuale” e per proteggere i bambini», e di «aver adottato politiche e normative che hanno favorito la prosecuzione degli abusi e l’impunità dei responsabili». E ancora. Oltre quanto evidenziato da Caligiuri «lo Stato italiano disattende la Convenzione di Lanzarote per quanto riguarda il cosiddetto certificato antipedofilia», racconta Zanardi. È questo un documento che attesta la pulizia della fedina penale in riferimento a reati di natura “sessuale” che viene richiesto all’atto dell’assunzione a determinate categorie professionali a rischio. Vale a dire a quelle più a contatto con i minori. Diversamente da altri Paesi aderenti, il nostro non ha previsto questo obbligo per una fascia che invece è da sempre particolarmente a rischio, ovvero quella del volontariato “minorile”: allenatori di calcio, istruttori di vario genere, educatori, scout e così via. «Sembra un vuoto normativo creato quasi ad hoc e forse non è un caso, dato che a questa categoria appartengono anche i sacerdoti» osserva Zanardi. E dunque, chiediamo al presidente di Rete L’Abuso, come ha reagito il governo italiano alla vostra diffida? «Ad oggi, non è ancora pervenuta alcuna risposta da parte di nessuno degli uffici chiamati in causa. Malgrado la gravità dei fatti esposti, le istituzioni italiane hanno tacitamente deciso di non intervenire. Malgrado la priorità che dovrebbe avere un’istanza che riguarda i diritti e l’incolumità dei bambini, è come se per lo Stato il problema non esistesse. A questo punto può configurarsi il reato di omissione di atti d’ufficio da parte degli uffici inadempienti». Moderni interpreti di antiche idee e credenze inumane da rifiutare.

*

Articolo pubblicato su Left n. 16 del 20 aprile 2018

Carlo Ossola: Il futuro dell’Europa viene dall’arte e dalla conoscenza

Di fronte all’avanzata di partiti populisti, xenofobi ed euroscettici abbiamo pensato di tornare a leggere il Manifesto di Ventotene. Il filologo e critico letterario Carlo Ossola, che si è molto occupato di Europa, consiglia soprattutto di rileggerne la seconda parte. «È indubbio che la seconda parte del Manifesto (“I compiti del dopo guerra – L’unità europea”) sia oggi la più pertinente», dice il docente del Collège de France. «Specialmente là ove pone l’esigenza di una unità sovranazionale (non già articolata quale somma di nazioni)».

Ecco il passaggio cruciale del Manifesto di Rossi e Spinelli che il professore ci invita a rileggere:

«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani».

Ma, aggiunge Ossola, oggi di fronte alla «opacità politica di grandi Paesi quali la Cina e la Russia, e agli ondeggiamenti regressivi degli Usa», torna di attualità anche un ulteriore paragrafo del Manifesto, là dove recita: «E quando, superando l’orizzonte del Vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo».

L’unità sovranazionale invocata da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi è, oggi più che mai, un affascinante progetto da riprendere e da realizzare. Forse è un’utopia ma tentare di attuarla significa anche criticare radicalmente l’Europa di oggi, che si è diventata una fortezza chiusa ai migranti. Una feroce contraddizione in termini visto che le migrazioni – come ci ricorda Ossola nel suo nuovo libro Vivaio delle comete. Figure di un’Europa a venire (Marsilio) – sono state una straordinaria leva di crescita culturale.

«Gran parte della storia di Roma, che unì il Mediterraneo e l’Europa continentale, il Medio Oriente e il nord Africa, nel millennio della propria storia, è caratterizzata dalla coscienza della mobilità feconda delle popolazioni e degli individui», dice Carlo Ossola a Left. «Erano previsti gradi diversi (socii, foederati, cives, etc.) di partecipazione alla res publica. In essa, precocemente, osserviamo che Seneca era di Cordova (Spagna). Da lì vicino, Ucubi, proveniva anche la famiglia del più raffinato imperatore romano, Marco Aurelio. Nordafricani furono Apuleio, Tertulliano, Agostino, Frontone, e moltissimi altri che hanno fondato il sapere d’Occidente. È illusorio pensare che l’Europa non sia sempre stata plurale».

Così come non si può accettare che l’Europa dei mercati sia l’ultimo orizzonte della storia, come ci vogliono far credere i neoiberisti.

Da parte sua Carlo Ossola insiste molto su una realtà dell’Europa che oggi viene annullata da euroscettici e sovranisti, ovvero che fin dal medioevo il Vecchio continente è stato unito dalle Università e dai clerici vagantes. «Rispetto al passato va osservato anzi che la mobilità sociale è fortemente diminuita in Europa e questo è un pessimo segno», denuncia l’accademico dei Lincei. Che tuttavia avverte: «Il processo di integrazione attraverso il sapere è comunque irreversibile, se si pensa alla lunga durata degli scambi Erasmus, alla validità dei dottorati internazionali bilaterali, ai progetti Erc, a molte istituzioni europee di ricerca, dal Cern all’Università europea di Fiesole».

Se è pur vero, come scrive Ossola, che per lungo tempo furono i francescani e i domenicani a percorrere in lungo e in largo il territorio europeo, dal suo ultimo libro si evince che anche molti autori hanno contribuito a costruire un’Europa profondamente laica. Fin da Plutarco che combatteva le credenze passando poi per Boccaccio, Leonardo da Vinci, Erasmo, Montaigne, Alfieri, Leopardi e oltre. Autori «tutti di una dignità umana più grande dell’uomo stesso, e anelanti tutti alla pace universale», chiosa lo studioso. Un ruolo chiave nella costruzione di una moderna Europa delle lettere ebbe anche Petrarca. Nella nostra conversazione Ossola sottolinea soprattutto l’aspetto universale della sua lezione. «Petrarca è il primo dei moderni – spiega il professore – poiché nel Secretum prende le Confessioni di Agostino e le trasforma in una drammaturgia del sé; l’uomo può parlare del proprio temperamento e destino calandolo nel tempo, in questo tempo sublunare nel quale viviamo, pieno di turbamenti, illusioni, slanci».

Ma c’è anche un altro aspetto da notare: il petrarchismo fu il primo genere poetico in cui si affermò la scrittura femminile. «La sua scrittura volgare, i suoi sonetti, piani, in una lingua tersa e imitabile – dice Ossola- furono il modello di una creazione al femminile che si sviluppò soprattutto nel Cinquecento, pensiamo per esempio a Vittoria Colonna, a Gaspara Stampa, Veronica Franco». Nel Vivaio delle comete la tradizione italiana innerva quella europea intrecciandosi con molte altre. In questa sua variegata biblioteca europea spiccano i nomi di Cervantes, Shakespeare, Leopardi, Dostoevskij, come autori cardine per l’Europa a venire. La nostra memoria collettiva, sottolinea lo studioso, nasce da una stratificazione di voci che hanno avuto un respiro che va ben al di là dei confini nazionali. «Nessun vero classico è puramente “nazionale”. Ad ogni opera di questi “fari”, come li definì Baudelaire, occorre ripetere, con il Rienzi di Wagner, “a tutto il mondo appartenga Roma”, come a tutto il mondo appartiene l’Iliade o l’Odissea, o l’Eneide, o la Divina commedia», dice Ossola. «Insegno a Parigi – aggiunge – e nel giardino prospiciente al Collège de France, c’è una statua di Dante. È l’unica (eretta a fine Ottocento) che non abbia cartiglio di sorta, mentre ne sono munite le statue vicine di Ronsard e di Montaigne. Perché Dante apparteneva e appartiene alla memoria collettiva dell’umanità. In questo le Lettere hanno un valore politico: abituano alla cittadinanza universale».

In un libro recente che è complemento del Vivaio delle comete, e cioè Europa ritrovata, Carlo Ossola ripercorre «in luoghi piccoli, plurali e universali per il loro lascito, questo grande dono d’Europa: la coscienza di un “oltre” che sia più inclusivo del “qui”: dalla Treviri della romana Porta Nigra e di Karl Marx alla Belém dei sogni del “Quinto impero” alla Lisbona del trattato siglato nel 2007 che – nell’opinione del professore – incrementa i principi di una Costituzione europea». L’identità plurale dell’Europa si è espressa attraverso la lettura, ma anche attraverso l’arte.

La gratuità dell’espressione artistica, dunque, è un altro aspetto che caratterizza la storia d’Europa che non è sempre stata legata solo ad una visione economicista incentrata sull’homo oeconomicus?

«Con i loro studi, Lucien Febvre e Henry Kraus hanno mostrato come l’Europa delle cattedrali sia anche il trionfo del simbolico sopra l’economico, del prestigio sopra la convenienza, del monumento sopra l’emolumento», risponde Ossola. «Le città si raccolgono intorno a un valore che “elevi a tenda” (come dirà nel Novecento Paul Celan), un po’ come oggi prosegue la costruzione della Sagrada familia a Barcellona. Da un lato il forum della merce e della parola condivisa, dall’altro il Palazzo della Ragione – di senno e di giustizia -, appaiono come le arcate portanti dell’identità europea: li visitiamo ancora, in essi convergiamo ancora». «Bisogna pensare al futuro dell’Europa in quei termini – esorta Carlo Ossola – anche se ora le nostra città crescono secernendo bidonvilles e ipermercati che le circondano e soffocano. Molto meglio ripensare a un valore comune da rimettere al centro di una vita sociale condivisa!».

Diritti storti. Ius soli e seconde generazioni

A moment of the demonstration to ask for the 'Ius soli', in Rome, 13 October 2017. Ius Soli (meaning "right of the soil"), commonly referred to as birthright citizenship, is the right of anyone born in the territory of a state to nationality or citizenship. ANSA / LUIGI MISTRULLI

Mentalmente il fascismo non è altro che l’esasperazione di un pregiudizio, di cui sono vittime gran parte degli esseri umani: la convinzione che la loro patria, la loro lingua, le loro tradizioni, siano superiori a quelle altrui. Questo diritto, per alcuni, si trasmette via sangue. Il proprio. Valore aggiunto che accomuna individui d’altro canto difficilmente accomunabili. Ecco il gene del popolo eletto inciso a caratteri cubitali sulla copertina del genoma. Il marchio di appartenenza. Quello che divide la crusca dal grano, la contraffazione dall’originale, il vero dal falso; qualcosa che rafforza il senso di identità, che spalanca i cancelli del sacro suolo.

A proposito di Identità. Nel 1970, una maestra di una cittadina statunitense, Jane Elliot, propone ai suoi allievi un esperimento “emozionale”, dal titolo: Cosa si prova ad essere discriminati?

Sembra un gioco, tutto è davvero molto semplice. Consiste nel suddividere gli allievi in due gruppi: Occhi Chiari e Occhi Scuri, e vedere cosa può succedere. Il primo gruppo comincia a ricevere stimoli sempre più positivi; dati scritti sulla lavagna senza alcun tipo di riscontro scientifico, o storico, ma che mettono in risalto come quelli con gli occhi chiari risultino più intelligenti, più puliti, abbiano dei genitori più responsabili, siano meno propensi alla menzogna e all’inganno.

Per fare diventare più evidente la diversità, agli Occhi Scuri viene chiesto di indossare un fazzoletto marrone al collo. Nel giro di poco tempo, “occhi scuri” diventò l’insulto più usato – tanto a scuola quanto in città – nel tentativo di denigrare l’altro (alcuni sostengono si usi ancora da quelle parti). In tanti smisero di parlarsi. Intere famiglie ruppero i rapporti. La città intera si trovò spaccata in due. L’esperimento ebbe fine non appena alle autorità scolastiche arrivarono voci che, uno e l’altro gruppo, si stava armando di sassi e di bastoni per andare a punire gli avversari. In tutto erano passati otto giorni.

La vecchia Europa, che lo ius soli in terre straniere se lo procurò attraverso secoli di conquiste a mano armata e fiumi di sanguinis delle popolazioni primitive, imparò ben presto la lezione. L’unico modo di continuare a governare un mondo che prima o poi avrebbe bussato ai suoi cancelli, era quello di tenerlo diviso. Per questo si inventa ogni giorno – da secoli – dei simpatici fazzoletti da appendere al collo dell’uno o dell’altro.

Uno di questi è precisamente la negazione del diritto (ius) ad essere parte del suolo (soli) dove si è nati. L’altro è l’adozione di un’aberrazione storica intitolata Prime e Seconde Generazioni, per denominare i migranti e i loro discendenti. Attribuendosi il miracolo di trasformare un evento esistenziale (migrare) in un fatto ereditario, esteso anche a chi la migrazione non l’ha mai compiuta, cioè…

L’articolo di Milton Fernández prosegue su Left in edicola dal 17 agosto 2018


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Invasioni all’italiana

Northern League senators protest the Italian government's 'ius soli' immigrant children citizenship bill, holding placards reading 'No ius soli', in Rome, Italy, 15 June 2017. The controversial bill grants 'ius soli' ('law of the soil' in Latin) citizenship rights to children born on Italian soil from immigrant parents. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Jorge Nestor Troccoli, nato a Montevideo nel 1947, è stato un ufficiale dei servizi segreti della marina uruguaiana durante l’ultima dittatura (1973-84). In Uruguay, Troccoli è soprannominato «il torturatore» e tra i suoi “colleghi d’arme” è stato tra i primi a riconoscere l’uso della tortura negli interrogatori dei prigionieri, al punto di rivendicarlo anche in un libro autobiografico, arido e agghiacciante. Inseguito dalla giustizia riuscì a lasciare il suo Paese e, mentre in Uruguay molti suoi ex commilitoni sono stati condannati perché riconosciuti responsabili di crimini contro l’umanità (sparizioni forzate, torture e omicidi), dai primi anni Duemila questo signore vive in Italia da uomo libero.

Scampato all’estradizione perché quando fu chiesta  qui da noi, la tortura non era ancora un reato, Troccoli ha anche ottenuto la cittadinanza italiana. Grazie a un bisnonno, Pietro, che da Marina di Camerota emigrò da bambino in Uruguay e che vide l’Italia per l’ultima volta nel 1880. Pietro Troccoli ebbe nove figli e decine di nipoti, nessuno di loro ha messo mai piede nel nostro Paese. Lo stesso vale per il bisnipote Jorge, fino a quando qualcuno non gli ha suggerito la possibilità di ottenere il doppio passaporto grazie allo ius sanguinis. E così è stato. Come ci ricorda Sergio Bontempelli in questa storia di copertina «con le norme esistenti, fondate su uno ius sanguinis molto rigido (è italiano chi discende da parenti italiani), possono prendere la cittadinanza i nipoti e i pronipoti dei nostri emigranti, anche se sono appena arrivati nel nostro Paese».

Esattamente come nel caso di Troccoli (il quale pare ci sia riuscito in tempi più rapidi della media), può accadere «che diventi cittadino chi ha vissuto e vive da sempre all’estero, e non ha nessuna relazione con l’Italia (se non un lontano parente, magari un bisnonno mai conosciuto)». E quanti sono i potenziali beneficiari di questa procedura? Secondo una ricerca coordinata dal professor Mario Savino dell’Università della Tuscia, la stima si aggira intorno a 70 milioni di persone. Più dell’attuale popolazione italiana. Ovviamente non tutti hanno alle spalle un passato come quello di Troccoli ma di questa potenziale “invasione” nessuno parla mai. Si è invece fatto un gran parlare di “invasione” (nei fatti inesistente) quando nell’autunno del 2017, la legge sullo ius soli è stata affossata in Parlamento dallo scarso coraggio del Pd e dal voltafaccia del Movimento 5 stelle che nel 2013 aveva presentato una versione dello ius soli ancora più avanzata di quella che ha contribuito a far naufragare. Negando in questo modo la cittadinanza, e una serie di diritti a essa connessi, a circa 800mila ragazzi che in Italia sono nati, o per lo meno ci sono arrivati in tenera età, e qui sono cresciuti, vivono, studiano, lavorano.

Dopo questa vergognosa pagina della storia politica del nostro Paese, purtroppo, tante altre ne sono state scritte sempre riguardo all’immigrazione, sia prima che dopo l’insediamento del governo giallonero, come abbiamo costantemente denunciato. Ci siamo però resi conto che dopo l’affossamento dello ius soli, questi 800mila ragazze e ragazzi, i loro diritti, le loro storie, le loro battaglie, sono completamente scomparsi dai radar dell’informazione e della politica. Come se non esistessero, come se non fossero mai esistiti.

Anche per bucare questa censura abbiamo deciso di dedicare agli italiani senza cittadinanza la nostra storia di copertina. La dedichiamo in particolare a Marko, la cui storia ci viene raccontata da Eleonora Forenza, eurodeputata Prc nel Gue. Marko non è il vero nome di questo ragazzo che si trova in un Centro di permanenza per i rimpatri ma è quello di un altro ragazzo bosniaco come lui. «Anzi no. Marko non è bosniaco, lo sono solo i suoi genitori» dice Forenza a Checchino Antonini. «Eppure sta sbattuto in un Cpr, a Bari, per essere rimpatriato in una patria che non è la sua, non l’ha mai vista. Parla italiano perfettamente perché qui è nato e cresciuto, ma ha i documenti scaduti».

La storia di Marko si inserisce in quello che Forenza spiega come «il contesto europeo di follia e di criminalità sulle politiche migratorie con una specificità tutta italiana: l’assenza del riconoscimento dello ius soli». Un’assenza che è diventata annullamento dell’identità di una generazione per la quale non più tardi di un anno fa, nel pieno del dibattito sulla legge, anche il mondo degli intellettuali e della cultura si è speso in messaggi di solidarietà e sostegno. Ma che dopo la bocciatura della legge di civiltà è piombato in un inspiegabile e imbarazzante silenzio.

Chi non è rimasto inerte è il deputato di Sinistra italiana nel gruppo Leu Erasmo Palazzotto. Il primo giorno utile della legislatura ha ripresentato la proposta di legge nella versione che fu della campagna L’Italia sono anch’io. «Perché – dice Palazzotto – questa ondata di razzismo non va moderata, bisogna contrapporre un altro modello di società». «E di cultura» rilancia la psichiatra Rossella Carnevali nell’intervista conclusiva. E noi con con loro, continueremo a ribadirlo.

L’editoriale di Federico Tulli è tratto da Left in edicola dal 17 agosto 2018


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Un’invasione che non c’è

Districarsi tra numeri, tabelle e grafici relativi a chi abbandona il nostro Paese per trasferirsi stabilmente all’estero, non è facile. I singoli indicatori che segnalano il flusso di persone in uscita dall’Italia sono parziali. E fanno luce solo su uno spicchio di realtà. Facciamo un esempio. Secondo l’Istat, le cancellazioni all’anagrafe per l’estero nel 2016 sono state circa 114mila. Sempre nello stesso anno, le iscrizioni all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) per “solo espatrio” sono invece 124mila.

Le due cifre non coincidono e per di più sono sottostimate. Come mai? A spiegarlo ci pensa una ricerca di Marida Cevoli e Rodolfo Ricci (pubblicata all’interno di Le nuove migrazioni italiane, Ediesse). Basandosi sui movimenti migratori dall’Italia alla Germania tra il 2012 e il 2016, hanno scoperto che solo una parte di chi lascia il nostro Paese si reca nel proprio Comune per essere rimosso dal registro anagrafico. Vice versa, l’iscrizione all’anagrafe tedesca risulta conveniente e addirittura indispensabile per lavorare o aprire un conto in banca. Questo esempio spiega in buona parte perché il Centro studi e ricerche Idos ritiene ragionevole la stima di 285mila italiani emigrati nel 2016 (come indichiamo nell’infografica), vale a dire oltre il doppio del calcolo Istat.

Quella di chi saluta il Belpaese è una cifra importanteche, se unita agli altri dati demografici relativi all’Italia, fa cadere alcuni falsi miti.

Primo: quello dell’invasione. Nel 2016, a fronte di quasi 300mila partenze di italiani – principalmente tra i 18 e 34 anni – gli sbarchi di migranti sono stati circa 180mila. E mentre il trend degli espatri non accenna a diminuire, gli arrivi sulle nostre coste sono bruscamente frenati. Fino a toccare il -81% dei primi mesi del 2018 rispetto al 2017. Numeri che dovrebbero far implodere all’istante il terrorismo mediatico alimentato dal governo giallonero sull’immigrazione. Una vera “arma di distrazione di massa”, come scriviamo in copertina.

Secondo: quello dei cervelli in fuga. Solo il 25% di chi parte ha una laurea in tasca, e spesso gli stessi laureati vanno all’estero a fare lavori per cui non hanno studiato. Non solo “cervelli”, è anche una fuga di braccia.

Terzo: quello dell’esodo dal Sud. Le partenze più corpose di italiani si registrano da Lombardia e in Veneto. In parte, certo, si tratta di una “migrazione di rimbalzo”, ossia di studenti e lavoratori del Meridione che hanno vissuto al Nord e poi hanno deciso di proseguire la loro vita altrove. Ma è indubbio che ci sia altro, e che la crisi economica si sia fatta sentire anche nei distretti industriali del Settentrione.

L’articolo è tratto da Left del 27 luglio 2018


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Contro l’intolleranza a colpi di rap genuino

Non c’è alcun dubbio: che piaccia o no, è il rap a detenere lo scettro dell’egemonia culturale musicale tra ragazze e ragazzi che frequentano le scuole italiane, i cosiddetti Millennials e la successiva Generazione Z, dei nati dopo il 2000. Il genere – che sta vivendo un nuovo boom, dopo l’exploit degli anni 90 – maneggia le parole più comuni tra i giovani, quelle da loro avvertite come più proprie, e che meglio risuonano con l’immaginario 2.0, destreggiandosi spesso sull’esile crinale che separa lo spirito di ribellione dall’individualismo menefreghista più spinto.

Proprio la ribellione allo status quo, infatti, è stata la matrice di buona parte della cultura hip hop delle origini, quella dei sobborghi afroamericani e ispanici di New York. «Il rap è la Cnn del ghetto» diceva Chuck D, celebre leader dei Public Enemy, in lotta aperta col mainstream mediatico. Quell’ambiente che, viceversa, viene blandito, in modo più o meno spudorato, da chi ha fiutato il business, e verga rime fatte di nichilismo a buon mercato. Consumiste e becere nel migliore dei casi, misogine e razziste nel peggiore. Ma c’è di più. Persino l’estrema destra, da sempre campionessa indiscussa nell’appropriarsi di culture altrui cambiandole di segno (o meglio, nel provarci, con risultati quasi sempre imbarazzanti) ha iniziato a interessarsi e praticare il rap. Lo chiamano “rap identitario”, parla di difesa del sacro suolo patrio, impero romano, sol invictus, lame verso chi non rispetta i “veri valori”, eccetera. Ma come si è potuti arrivare a questo? E come reagire?

«Semplicemente: non bisogna dare nessuno spazio e nessun tipo di agibilità ai fascisti». Kento, rapper reggino che ama flirtare col blues, da sempre attivista impegnato e scrittore – in libreria con Resistenza Rap (Round Robin Editrice) – non usa mezzi termini.

«I video di certi “nazi rapper” non vanno condivisi, non solo perché sono scarsissimi e hanno un messaggio aberrante, ma anche perché non bisogna concedere loro la dignità di nominarli o di dargli visualizzazioni online. I neofascisti hanno cominciato rivendicando – in modo ridicolo – Rino Gaetano e perfino Che Guevara. Da lì a organizzare delle pseudoserate rap, il passo è breve. Mi chiedo se si siano resi conto delle loro azioni, i politici e i giornalisti che sono andati ospiti a parlare nelle loro sedi, legittimandole».

Già, lo sdoganamento di questa cultura criminale è merito anche della stampa, come abbiamo denunciato più volte nelle nostre pagine. Ma il rap potrebbe mettere un argine all’intolleranza.

«Il rap è il rock dei nostri anni, quindi può fare moltissimo, ma dobbiamo essere più esigenti, sia noi musicisti che gli ascoltatori – spiega Kento -. La scena rap deve prendere coscienza di sé e diventare un movimento, abbandonando l’individualismo, se vuole costruire qualcosa di importante». E sulle origini, sulle radici, prosegue: «Il rap è un “contenitore neutro”, si, ma fino a un certo punto. Perché la verità storica innegabile è che nasce nelle periferie povere e meticce della Grande mela, e quindi dovrebbe rifiutare razzismo e intolleranza già nel suo Dna».

In questa direzione, nella ripresa cioè di queste radici riot, nell’accezione migliore del termine, qualcosa tra i rapper emergenti si sta muovendo.

«Ho grande fiducia nei giovani colleghi – ci confida il rapper di Reggio Calabria – che crescono e maturano con rapidità mostruosa e che giustamente si stanno prendendo lo spazio che meritano. Spazi la cui disponibilità è variabile e non sempre legata a logiche limpide e disinteressate. Ma gli spazi, fisici e metaforici, bisogna prenderseli. E questa è da sempre una prerogativa dell’hip hop: creare arte, opportunità e cultura in luoghi nuovi, dove spesso magari non si percepiva che degrado e povertà».

E per fare in modo che sempre più giovani abbiano questa chance, Kento parte dalle scuole, nelle queli tiene laboratori rap coi bambini. «I progetti vanno alla grande, i ragazzi sono straordinari, ma l’impressione che ho della scuola italiana è un po’ frammentaria: molto spesso ci si deve affidare quasi esclusivamente alla buona volontà e al cuore degli insegnanti, gli stessi che stanno subendo un attacco senza precedenti da parte degli ultimi governi, che hanno sminuito la loro professionalità e il loro ruolo. Ad ogni laboratorio che faccio, tocco con mano queste difficoltà ed aumenta la mia stima (con qualche eccezione, ovvio) nei confronti della loro categoria».

Muruburu – Alessio Mariani nella vita reale -, “cantautorapper” che unisce le sue passioni, narrativa e rap, riuscendo magistralmente a mettere in rima miti e personaggi della letteratura e dell’epica moderna, questa categoria la conosce bene: è lui stesso professore al Liceo Matilde di Canossa di Reggio Emilia. «Insegno storia e filosofia e, anche per far fronte a questa ondata di intolleranza, credo che i programmi di storia dovrebbero essere un po’ aggiornati. Ma è vero, molto possono fare gli insegnanti, e coloro che vogliono possono spingersi un po’ più avanti. Io l’anno scorso in quinta sono riuscito ad arrivare fino a Berlusconi», ci racconta. E il rap, nei confronti della scuola, può divenire il miglior alleato. «È il genere più fruito dagli adolescenti  – prosegue Murubutu – e proprio per questo ha delle responsabilità morali: deve propagandare dei modelli educativi corretti, di tolleranza, di equilibrio e di convivenza pacifica nelle nostre società e nelle nostre periferie, che sono sempre più multietniche. Il fatto stesso che il rap spopoli proprio in questi luoghi meticci, in un certo senso, mi rassicura: è un baluardo concreto contro le sbandate razziste della cultura hip hop».

Per far passare il suo messaggio, il professor Mariani – di cui è da poco uscito il mixtape La penna e il grammofono – ha lavorato molto sulla sua poetica. «Io vengo dal rap antagonista, di protesta, quello nato nei centri sociali, luoghi a me cari, che tuttora frequento e conosco anche grazie ai miei tour. Ma quel tipo di rap, a mio avviso, è limitato dalla retorica “sloganistica” che talvolta lo caratterizza, che rischia di danneggiare il messaggio positivo che vuole portare. La “sloganistica” penso sia una restrizione del pensiero. Io ho fatto in passsato questo tipo di rap e quindi la mia è anche un’autocritica».

Ad attendere con ansia un rinnovamento del linguaggio del rap inteso come musica di denuncia sociale c’è anche Emiliano Rubbi, produttore discografico (tra gli altri, del rapper Piotta), sceneggiatore della allegoria horror Go Home, profondo conoscitore del panorama musicale italiano e non: «Mi aspettavo che con l’elezione di Trump, dagli Stati Uniti sarebbe arrivata una nuova ondata di musica di protesta – spiega Rubbi – perché storicamente funziona così: le tendenze musicali Usa dopo un po’ si ripercuotono a cascata anche da noi. Ora, oltre oceano qualche novità c’è stata, rimanendo in ambito black, penso ad esempio ai testi di Kendrick Lamar. E persino Eminem, non certo noto per fare rap conscious, si è lanciato contro il presidente. Ma da noi ancora nulla: mentre sono all’opera molti rapper virtuosi, per il momento il mainstream continua a scimmiottare il rap gangsta, che non ha nulla di sociale. È un egotrip autoriferito, per così dire, tutto polarizzato sul personaggio che lo fa, che può colpire alcuni giovani, ma dietro non c’è niente di più».

Il problema, forse, è più profondo di quanto possa sembrare. Mancano ancora le parole, per una nuova vera era di rap “battagliero”, che torni a prendersi a cuore il destino delle minoranze.

«Passata la cosiddetta “prima scuola”, quella degli anni 90, delle Posse, il rap italiano ha continuato ad avere alcuni rapper conscious mainstream, penso a Caparezza, ma sono lontani i tempi in cui i 99 Posse andavano in classifica – prosegue il produttore discografico -. E, se scarseggia in generale la musica di protesta, è anche perché il vocabolario tradizionale della sinistra viene considerato dai giovanissimi, principali consumatori del rap, come vecchio, noioso, difficile, respingente, che sa di muffa. La sinistra di oggi è post ideologica, ha rifiutato un certo tipo di ideali, ed è finita con lo scomparire per decenni. Per questo quelle parole d’ordine sono divenute incomprensibili. E poi i ragazzi oggi pensano la politica come una cosa per vecchi, chiusa nei palazzi, inutile: per questo, in un mondo molto modaiolo come quello del rap di oggi, è difficile trovare parole “altre”, sperimentare». Kento e Murubutu, intanto, sono un esempio. E i semi della loro poetica sono sparsi tra i giovani. Qualcosa, prima o poi, dovrà nascere.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 16 dicembre 2017


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Piergiorgio Odifreddi: “Laicità” è la parola chiave della democrazia

Il segretario della Lega, Matteo Salvini, pronuncia un giuramento simbolico sul Vangelo dal palco allestito in piazza Duomo, 24 febbraio 2018. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

«Siamo cittadini di un sistema democratico e palese, o sudditi di un regime totalitario mascherato? Per dare una risposta a questa domanda, di estrema attualità, il matematico Piergiorgio Odifreddi si è messo a tavolino e ha scritto un libro utilizzando gli strumenti che più gli sono congeniali, quelli della logica. Arrivando a quale conclusione? La democrazia non esiste è il titolo del volume appena uscito per Rizzoli (e Critica matematica della ragion politica è il sottotitolo). Per saperne di più abbiamo rivolto a Odifreddi alcune domande.

Cosa c’è che non va nella nostra democrazia?

Spesso ci sono concetti che vengono accostati o confusi con quello di democrazia, questo libro è un tentativo di distinguerli.

Ad esempio?

Si pensa che la democrazia sia il modo più efficace per implementare i diritti. Ma c’è un teorema dimostrato scientificamente da un premio Nobel dell’economia, non da un outsider qualsiasi, Amartya Sen, il quale sostiene che la democrazia e i diritti sono incompatibili tra loro.

Da una parte ci sono i diritti, dall’altra c’è la democrazia?

Esattamente. Bisogna scegliere quale dei due vogliamo avere. L’esempio dell’economia è il più evidente. Sappiamo tutti che la distribuzione della ricchezza nel mondo (e in Italia) è iniqua. L’uno per cento della popolazione ha la stessa ricchezza del rimanente 99%. Se volessimo mettere alla prova democratica questa cosa, che cosa accadrebbe? Che l’esproprio e la redistribuzione della ricchezza posseduta da quell’uno per cento passerebbe con il 99% dei voti.

Perché non succede?

Perché il diritto di proprietà è tra i diritti fondamentali tutelati in quelle realtà che si chiamano democrazie. Alla base c’è la finzione che le due cose vadano d’accordo. Ma i diritti di coloro che sono ricchi, spesso, sono contrari all’interesse della maggioranza della popolazione. E qui penso al presidente Mattarella che nel valutare la lista dei ministri si preoccupa della reazione negativa dei mercati: è la traduzione pratica del teorema di Amartya Sen. Il punto è che se si sceglie in base ai diritti e alle indicazioni della popolazione si è in democrazia, se si guarda allo spread e all’indice di Borsa non si è in democrazia. È molto triste ma è così».

È per questo che nel libro definisce un “fantasma” la nostra democrazia?

Fantasma è qualcosa di evanescente. Se gli elettori scelgono quello che va bene ai poteri forti, va tutto bene. Se provano a cambiare lo status quo ecco che la democrazia diventa una finzione. Serve per far credere che siano gli elettori a decidere.

«L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro», dice l’articolo 1, e per almeno tre volte la Corte costituzionale ha sentenziato che la laicità è un caposaldo dello Stato. Democrazia e laicità sono sinonimi?

Io la metterei così: ci può essere una democrazia compiuta senza laicità? Per me indubbiamente no.

E immettere nella Costituzione di uno Stato – che avrebbe dovuto essere laico – un concordato con la Chiesa cattolica è l’opposto di una visione laica. Peraltro, a proposito di sovranità popolare e di democrazia l’articolo 7 non si può abrogare nemmeno tramite referendum. Può sembrare paradossale ma nella storia dell’Unità d’Italia, c’è stata più laicità prima della Costituzione repubblicana che con essa. Dopo il 1861 e per circa 50 anni ci sono stati dei governi non solo laici ma addirittura anticlericali. Con un conservatore come Crispi che arrivò allo scontro con il papa pur di erigere la statua di Giordano Bruno a Roma in piazza campo de’ Fiori ,dove era stato messo al rogo. Oggi sarebbe impensabile. E non solo per i 50 anni di Dc.

A chi si riferisce?

Oggi la nostra società è quasi papista. Pensiamo a un giornale come Repubblica che è stato laico per tanti anni e adesso assomiglia a un organo ufficiale della Santa sede. Questo è l’ambiente culturale in cui viene interpretata la laicità nel nostro Paese. Vien da sé, così, un appiattimento nei confronti della Chiesa e un’esaltazione di questo papa, che in fondo è anche lui come Salvini un populista, conservatore di destra.

Eppure Bergoglio viene additato come ispiratore da molti progressisti nostrani.

È un’ulteriore prova che la laicità in Italia vada assolutamente riscoperta. Penso però che gran parte della popolazione non sia d’accordo. E qui c’è un paradosso molto italiano: in chiesa ci va solo una minoranza. Ma quando c’è in ballo la contrapposizione o quanto meno la non acquiescenza al potere ecclesiastico quella minoranza si trasforma stranamente in una maggioranza. Ricordiamoci cosa è successo con la legge 40 e il referendum del 2005. L’Italia era spaccata in due in maniera singolare: da una parte, per l’abrogazione, la comunità scientifica con in testa due premi Nobel, Dulbecco e Montalcini, e dall’altra Ratzinger e Ruini. In una democrazia cose del genere non dovrebbero mai accadere. La popolazione dovrebbe respingere al mittente queste intromissioni ecclesiastiche nella vita pubblica e nelle leggi dello Stato invece non lo fa. Nemmeno quando ancora oggi dopo 40 anni si mette in discussione la legge sull’aborto.

Il motto del risorgimento era “Libera chiesa in libero Stato”…

La democrazia imporrebbe che la Chiesa fosse libera, ma non che fosse finanziata dallo Stato. E invece c’è l’ottopermille, ci sono decine di migliaia di insegnanti di religione nella scuola pubblica. La laicità sia parte integrante della democrazia ma il fatto che non ci sia in Italia è l’ulteriore dimostrazione che, come diceva di Rodotà, la nostra è una democrazia di facciata. Sembra che ci sia ma non c’è. Non solo perché le decisioni che ricadono sulla nostra vita quotidiana sono prese dagli speculatori e dai cosiddetti ‘poteri forti’ dell’economia e della finanza. Ma anche per la carenza di laicità.

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Intervista pubblicata su Left n. 22 del 1 giugno 2018

Viene prima la scienza della politica, ma prevenzione e manutenzione pur essendo essenziali non portano voti

A general view of a highway bridge collapsed in Genoa, Italy, 14 August 2018. A large section of the Morandi viaduct upon which the A10 motorway runs collapsed in Genoa on early 14 August. Several people have died, rescue sources said, as both sides of the highway fell. The viaduct gave way amid torrential rain. ANSA/LUCA ZENNARO

Scriviamo a caldo della tragedia immensa del crollo del viadotto sul Polcevera a Genova progettato dall’ingegner Riccardo Morandi. Tutti conosciamo l’entità della tragedia. Forse non tutti sanno che ormai gran parte del nostro patrimonio autostradale corre lo stesso rischio. Il cemento armato anche se realizzato a regola d’arte, anche se non avvengono episodi drammatici e inaspettati (una nave andò a sbattere anni fa su un altro viadotto di Morandi in Venezuela facendone crollare tre enormi campate), anche se non arriva l’esplosione di un Tir di combustile che lo fa squagliare come successo a Bologna l’altro giorno, insomma anche senza nessun evento eccezionale (terremoti, maremoti, alluvioni, eccetera) siccome sono ormai passati più di cinquanta anni i nostri ponti e viadotti sono a rischio crollo. È successo e succederà ancora ed ancora. Chiaro? Siamo ormai nella fascia di rischio. Il calcestruzzo si sgretola, i tondini di ferro si ossidano, i sistemi di precompressione (la tecnica messa in atto a Genova) perdono di potenza. Si immagini poi se vi è anche scarsa o nulla manutenzione. Un canale di uscita dell’acqua ostruito per anni determina infiltrazioni, immaginate che succede nel tempo. Oppure la vegetazione si infiltra tra gli impalcati e poi?

A questo punto uno si domanda ma come mai interpellanze, pressioni, azioni, perizie e contro perizie (per esempio il viadotto della Magliana a Roma è veramente a rischio crollo da un momento o all’altro) non determina azioni concrete e soprattutto che c’entrano mai i vaccini? Ecco vedete sono assolutamente fenomeni identici.

Nel nostro Paese la manutenzione non si fa “di norma” (vorrei dire di default) come dovrebbe avvenire normalmente. Cioè non si mantengono le strutture come sistema ovvio e soprattutto “indipendente” dalle scelte e dalle amministrazioni politiche. No! La politica in Italia ha allungato la sua mano anche su queste pratiche che non dovrebbero assolutamente entrare nella sua sfera competenza. Sono pratiche “ovvie” di buon senso amministrativo, gestionale. Pulire una casa, mantenerla in ordine, riparare una lampadina, portare la spazzatura nei bidoni mica ha bisogno di una discussione generale: sono cose che si fanno e basta!

E invece no. In Italia è la politica che decide della manutenzione! Ma ecco il punto: come tutti sanno e misurano quotidianamente la manutenzione non rende nulla alla politica. Tutto il contrario. Che vantaggio ha il politico di turno a iniettare resine, a sostituire le parti ammalorate, a inserire sensori per capire come va giornalmente la situazione nel cemento armato, a pulire da erbacce gli scoli per evitare infiltrazioni che negli anni porteranno a catastrofici crolli. Non ha alcuno vantaggio elettorale. Quindi tende a non farlo.. semplicissimo anche perché sempre più spesso il personale tecnico è ridotto all’osso, demotivato, depotenziato tecnologicamente, a volte addirittura corrotto o asservito alla politica.

Il personale politico invece, e scusatemi la brutalità, ha la tendenza fare un sopralluogo dove è crollato un viadotto e a promettere che lo rifarà e magari ad inaugurarlo, cosi si incassano consensi.

La tragedia paga la manutenzione no. Se posso decidere, tenderò a non fare manutenzione.

E i vaccini che c’entrano? Siamo in un Paese in cui la politica vuole entrare e lucrare in tutto. Anche in una cosa cosi ovvia e palese come la situazione sanitaria. Ci sono i politici che vogliono dire la loro anche su quando e come vaccinare. Come se non esistesse un dibattito scientifico e medico che consiglia o ordina, come in questo caso, quello che si deve fare.

Insomma la assenza di manutenzione (con crolli e tragedie molte delle quali assolutamente evitabili) e le assurdità sui vaccini sono due aspetti dello stesso degrado. Vi è un palese conflitto di interessi: la politica deve stare fuori da alcune aree, se vi entra è la fine. E ahimè è difficile non pensare che ci stiamo velocemente avvicinando.

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Antonino Saggio è architetto e urbanista, docente di Progettazione architettonica e urbana all’università La Sapienza di Roma. Qui alcuni suoi lavori su Morandi l’autore del progetto del viadotto autostradale di Genova