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Francesca Fagioli: I ragazzi di oggi, una generazione matura

«Prima ancora degli psichiatri, sono gli artisti e i poeti che ci raccontano di quel mondo misterioso che è l’adolescenza. Un mondo pieno di turbamenti, di conflitti, di sogni e progetti ma anche di solitudine e tristezza» scrive la psichiatra Francesca Fagioli, dopo aver citato un brano di Bel-ami di Guy de Maupassant, in un suo articolo sulla rivista scientifica Il sogno della farfalla. A lei che è dirigente medico al servizio di Prevenzione e intervento precoce salute mentale della Asl Roma 1, ci siamo rivolti per provare a far emergere alcune delle mille sfumature che riguardano questa fondamentale tappa della nostra vita, troppo spesso giudicata attraverso una lente deformata dai luoghi comuni.

Cos’è l’adolescenza?

L’adolescenza è il tempo in cui si devono comporre come in un puzzle tutte le sensazioni, emozioni, affetti, immagini che ci portiamo dentro dai nostri primi giorni, mesi, anni di vita. E l’adolescente tante volte non sa darsi un tempo. È come se, il tempo della nostra vita che inizia alla nascita, in adolescenza si fermasse e si allungasse allo stesso momento. Il mondo indefinito di luci e ombre del neonato, che nel primo anno di vita non ha ancora la visione nitida delle cose, riemerge nell’adolescenza, in particolare in quella incertezza che l’adolescente ha nella ricerca di un altro da sé. Per cui l’identità che prima di tutto è da cercare e consolidare è quella sessuale. Ma essere atti alla sessualità con la pubertà non significa un immediato passaggio all’atto. Ognuno ha bisogno di un suo tempo, per poter cimentare la propria identità in un rapporto con un essere umano che è assolutamente uguale a se stessi ma è completamente diverso, ossia nel rapporto uomo donna. Per cui la sessualità diventa rapporto interumano, ricerca, realtà umana che deve portare con un sentire del corpo a costruire un’identità non a distruggerla.

Nel linguaggio comune si parla di crisi adolescenziale come di un fatto normale a cui tutti vanno incontro in questa delicata fase di cambiamento. Cosa distingue una crisi “fisiologica” da una che fisiologica non è?

L’adolescenza è crisi per definizione. Una crisi assolutamente fisiologica perché avviene in un periodo particolare di passaggio dall’essere bambino al diventare adulto. Questo tempo può essere lungo, mutevole, diverso da individuo a individuo e anche da cultura a cultura. Ed è un cambiamento che coinvolge tutta l’identità dell’adolescente nei suoi affetti, nel sociale, da un punto di vista neuronale di sviluppo, cognitivo, giuridico. In particolare, appunto, nell’ambito della sessualità.

Perché deve esserci una crisi?

Per lo più è dovuto a un fatto biologico. In adolescenza deve emergere e svilupparsi quella identità umana che si forma alla nascita e che comprende una realtà anatomofisiologica del corpo che alla pubertà – il primo periodo dell’adolescenza – porta alla formazione dei caratteri sessuali secondari, un cambiamento che imprime al corpo una sorta di esplosione. Tuttavia l’identità comprende anche la realtà mentale. Il suo sviluppo non è visibile come quello del corpo però dovrebbe andare di pari passo a quello corporeo, in una fusione e non in una frattura con il corpo stesso.

Cosa succede in caso di “frattura”?

Sta qui la differenza tra crisi fisiologica e non. Non è fisiologica quando la mente si scinde dal corpo e può diventare addirittura violenta contro la propria realtà biologica. In tal caso, quella che è una irrequietezza assolutamente sana dell’adolescente che cerca un sapere, una conoscenza, diventa agitazione, diventa panico. L’essere un po’ introverso, silenzioso, diventa una solitudine, un vuoto mentale che impedisce di concentrarsi. Se la mente si ammala, il pensiero diventa qualcosa di potenzialmente pericoloso per se stessi. D’altro canto forse il caso peggiore è quando la crisi non c’è proprio. C’è chi sta bene pur essendo in crisi (appunto quella fisiologica), ma a volte lo “star bene” è la punta di un iceberg. Sotto un apparente distacco, freddezza, noncuranza, c’è un ghiaccio molto più profondo che si lega al termine anaffettività. Allora lo psichiatra deve saper distinguere in questo turbinio di situazioni diverse quella che è una crisi fisiologica da quella che non lo è.

I media spesso si occupano degli adolescenti solo quando alcuni di loro si trovano al centro di vicende di cronaca nera, finendo per restituire la fotografia di un mondo pieno di problemi, per lo più gravi, da tenere a bada. Come se a 15-16 anni i ragazzi fossero tutti potenziali delinquenti. Si tratta secondo noi di una visione del tutto alterata della realtà adolescenziale. È d’accordo?

Assolutamente sì. Basta pensare alla storia. L’irrequietezza giovanile, la ricerca di una conoscenza, un sapere che ha potenzialmente in sé qualcosa di forte, c’è sin dai tempi dei clerici vagantes. Io penso che si debba restituire ai giovani l’immagine di essere loro stessi una novità, di avere una possibilità di cambiamento, uscendo dai luoghi comuni che ne fanno solo dei delinquenti e dei drogati. Certo ce ne sono. Sono però una minoranza, non quello che si crede. Ed è una minoranza che ha un malessere psicologico.

C’è chi punta il dito contro l’educazione che ricevono.

Io penso che un giovane non debba essere educato ad avere un comportamento adeguato. Questo deve essere qualcosa che gli viene da dentro e che lo porta spontaneamente a muoversi in un certo modo nelle relazioni interumane, nel sociale e nei rapporti con i pari in particolare. Se non accade allora dobbiamo avere il coraggio di dire che c’è un malessere, che c’è una malattia mentale. Non è che ci si sveglia una mattina e improvvisamente si decide di fare il bullo con i compagni, oppure di fare branco e violentare una ragazzina, o di mettersi a tirare sassi dal cavalcavia “per noia”. Si deve avere il coraggio di dire che queste cose sono patologie mentali che riguardano una minoranza dei giovani.

Sappiamo che la psichiatria in generale ha diversi orientamenti. Anche quando si occupa di adolescenza?

La psichiatria oggi si dibatte senza trovare soluzione tra coloro che ritengono che la malattia mentale sia un fatto biologico e quindi più o meno genetico, e coloro che invece pensano che sia determinata dalle condizioni sociali e ambientali, facendone una questione quasi esclusivamente politica. Noi, basandoci sulla Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, sappiamo, ed è fondamentale, che il neonato sin dalla nascita ha un’identità precisa, ha un’identità “sapiente” e si relaziona all’ambiente con delle caratteristiche sue proprie. Quello che noi chiamiamo pensiero, il pensiero senza coscienza che emerge alla nascita, si forma dalla realtà biologica per una reazione mentale del neonato nei confronti del mondo non umano.

E la sapienza?

La sapienza che si ha nel primo anno di vita è un pensiero per immagini senza parola. Il vagito del neonato è quello che poi diventerà linguaggio articolato. Quindi la mente del neonato è certamente diversa da quella razionale dell’adulto. Ma questo pensiero poi cresce, si nutre e si sviluppa, attraverso le diverse tappe della vita – l’allattamento, lo svezzamento, visione dell’essere umano diverso e appunto la pubertà. La chiave di tutto è qui. Più precisamente, nella qualità di questi rapporti, fatti non solo di un benessere fisico e materiale. E ancora più, è nella qualità delle separazioni dai vari rapporti che lasciano dentro di noi una memoria dell’esperienza che abbiamo vissuto. Una memoria che non è il ricordo cosciente delle cose e che si svilupperà poi nella realtà mentale dell’adolescente.

Quanto e perché è importante intervenire in tempo con una diagnosi precoce?

Questa teoria forte ci permette di seguire e di capire quando, come, perché e in che modo il processo di sviluppo eventualmente si blocca. Sappiamo che le patologie psichiatriche emergono in adolescenza, è difficile e più raro trovarne nel bambino. Quanto prima noi riusciamo a individuare e affrontare la malattia mentale, quindi a fare diagnosi precoce, tanto più c’è possibilità di intervenire e di fare una cura, una psicoterapia per tendere alla guarigione. In adolescenza si può tentare il tutto per tutto, cosa che su un individuo adulto è molto più difficile.

Uno studio britannico ha rilevato che in Europa tra i giovani dai 16 anni in su c’è un crescente disinteresse per la religione. In che modo può incidere sulla crescita di una ragazzo un’educazione religiosa o vivere in un ambiente culturale intriso di credenze religiose?

Questo penso che sia un altro grande segno che i giovani sono molto più avanti di quello che pensiamo. Sono molto più maturi delle generazioni precedenti. E quindi sembrano rifiutare i concetti che ha la religione, il mondo delle superstizioni che ha la religione e che tanto, ancora oggi, contribuiscono ai conflitti, al terrorismo alle guerre. Questi dati sono prove inequivocabili di questa intelligenza giovanile. Sappiamo bene che tutta la nostra società si è sempre retta sulle due gambe terribili che sono la religione e la ragione. Pensiamo ad Ifigenia. Una ragazzina adolescente che deve morire per far partire le navi che faranno vincere la guerra dell’Occidente contro l’Oriente. Quindi una ragione che si sposa inevitabilmente con la religione e sacrifica l’irrazionale, adolescente e guarda caso femminile.

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Intervista pubblicata su Left n. 14 del 6 aprile 2018

I minori invisibili e quei segnali da cogliere

TOPSHOT - Syrian children run in the street in the rebel-held town of Douma, on the eastern outskirts of the capital Damascus on September 25, 2016. / AFP / Abd Doumany (Photo credit should read ABD DOUMANY/AFP/Getty Images)

Filomena Albano li chiama “invisibili”. Sono quegli adolescenti «più fragili e vulnerabili» che per l’Autorità garante per l’infanzia e adolescenza (Agia) «presentano forme di disturbo psichiatrico di cui troppo poco si parla e che vengono scarsamente intercettati». Per la prima volta, l’organo monocratico istituito nel 2011 per attuare la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo ha deciso di occuparsi della salute mentale degli adolescenti, perché «non c’è salute senza salute mentale». Un gruppo di lavoro della Consulta nazionale dell’Agia ha realizzato il documento La salute mentale degli adolescenti presentato a metà marzo. Ne parliamo con Filomena Albano, il magistrato che nel 2016 è stato nominato titolare dell’Agia. Quali sono i problemi più urgenti emersi dallo studio? «Le diagnosi tardive e la difficoltà nel distinguere quello che è il disagio psichico dell’adolescenza, che in una certa qual misura è fisiologico, dal vero e proprio disturbo patologico». È un mondo sconosciuto, continua il Garante. Non esiste un monitoraggio nazionale, né tantomeno esistono dati quantitativi del fenomeno. «Questa è la prima criticità che abbiamo evidenziato. Ma solo con la conoscenza del fenomeno si può intervenire». Il gruppo di lavoro si è concentrato su 8 città: Bassano del Grappa, Bergamo, Bologna, Ferrara, Milano, Padova, Palermo e Roma. Aree molto diverse del territorio nazionale quanto a organizzazione sanitaria, sociale e scolastica ma che mostrano un dato omogeneo. «I ragazzi più vulnerabili sono purtroppo gli adolescenti adottati, quelli finiti nel circuito penale, giovanissimi autori di reato, i figli al centro di fortissimi dissidi familiari e i minori stranieri non accompagnati, per i quali – sottolinea Albano con amarezza – il viaggio già di per sé può rappresentare una concausa grave delle loro condizioni di salute mentale».
E se a Bologna gli operatori sottolineano la necessità di instaurare un rapporto più continuo con la scuola intesa «come interlocutore unitario», al di là delle singole esperienze virtuose, e a Milano ci si lamenta dell’assenza di “luoghi di parola” per gli adolescenti, mentre a Roma si richiede più continuità nei percorsi psicoterapeutici nella sanità pubblica, ovunque vengono evidenziate gravi lacune, come riporta il documento. Una di queste, spiega Albano, è «l’insufficienza dei posti letto nei reparti di neuropsichiatria infantile». Spesso gli adolescenti finiscono nei reparti per adulti, «ma questo è impensabile, può provocare danni ulteriori», denuncia il Garante. Le cifre però parlano chiaro: su tutto il territorio nazionale i posti letto di ricovero ordinario di neuropsichiatria infantile sono 336 rispetto ai 5mila della pediatria e ai 5mila della psichiatria. «Solo un’esigua parte dei ricoveri di adolescenti con acuzie psichiatrica avviene in un reparto di neuropsichiatria infantile», si legge nello studio dell’Agia. Secondo la Sinpia (Società italiana di neuropsichiatria infantile) solo un minore su due riesce ad avere una diagnosi nei servizi territoriali, solo due su tre un trattamento terapeutico riabilitativo e solo uno su dieci riesce ad «effettuare il passaggio a un servizio per l’età adulta».
Il problema sta anche, e soprattutto, a monte, nella prevenzione. «I segnali che mandano i ragazzi, se letti tempestivamente, possono far scattare interventi precoci. Ma quello che manca – e questa è un’altra criticità – è la comunicazione tra i soggetti territoriali: le Asl, la scuola, le comunità, le case famiglia, l’autorità giudiziaria, i servizi sociali». Se per esempio non funziona il collegamento tra la scuola, dove si possono cogliere i primi segni di disagio, e i servizi sociosanitari, il rischio è quello di una diagnosi tardiva e quindi di una cura inefficace. Quando poi la diagnosi viene effettuata, può verificarsi, continua Albano, la mancanza «di una tempestiva presa in carico del soggetto». E così pure risulta carente il collegamento tra l’ambito residenziale e quello territoriale: che ne è di un adolescente, ricoverato in fase acuta in una struttura, una volta dimesso? «Non deve ricominciare da capo, deve essere garantita la continuità terapeutica, in modo che la storia del ragazzo venga letta dall’inizio alla fine», sostiene con forza il Garante che ricorda la solitudine delle famiglie che non sono in rete né con i servizi sociali né con quelli sanitari.
Il documento presenta al governo e alle istituzioni, raccomandazioni, cioè linee guida, atti di soft law. È un primo passo, in attesa di avere «strumenti più incisivi nei confronti degli interlocutori», si augura Filomena Albano. Dal documento intanto emerge un’assenza preoccupante: quella degli adulti. Questo vuoto da cosa dipende? È perché ci si accorge adesso dei diritti dei minori o perché è in atto una crisi più generale degli adulti? Bisogna mutare completamente prospettiva nei confronti di coloro che il Garante preferisce chiamare «persone di minore età» piuttosto che minori. «Prima venivano considerati oggetto di protezione. Con la Convenzione Onu si è ribaltato tutto. Sono soggetti di diritto e questo presuppone un cambiamento radicale: gli adulti non possono più considerare i figli come un’appendice di se stessi. Lo sanno bene le coppie che adottano. I figli sono persone con la loro storia, ma questo, ripeto, richiede una maturazione culturale profonda». Un cambiamento, in questo senso, riguarda i minori stranieri non accompagnati. La legge 47/2017 ha introdotto la figura dei tutori sociali, semplici cittadini “microgaranti” dei ragazzi con i quali instaurano una relazione. Quattromila domande arrivate, corsi di formazione attivati e Tribunali per i minorenni che adesso devono nominare i tutori. «Sono volontari che possono intercettare preventivamente i problemi dei minori stranieri – conclude il Garante -, è un modello di cittadinanza attiva che è una speranza».

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Articolo pubblicato su Left n.14 del 6 aprile 2018

Il pittore che ha sconfitto i Khmer rossi

Angkor wat

Phnom Penh, 2008. Nell’aula di tribunale dove venivano processati sei fra i più sanguinari capi dei Khmer rossi, un vetro separava i carnefici dalle vittime. Quella esile «barriera era come una finestra panoramica in un acquario da incubo: da un lato gli accusati e i membri della corte, dall’altro i familiari delle persone massacrate trent’anni prima nell’indifferenza più generale» scrive Lawrence Osborne nella prefazione de Il pittore dei khmer rossi (Add editore) di Vann Nath, uno dei sette superstiti del campo di sterminio Tuol Sleng, il famigerato S-21. 

In questo coraggioso e sofferto memoir racconta i lunghi anni di oppressione e di torture a cui Nath fu sottoposto senza che fossero formulate nei suoi confronti precise accuse, senza processo, solo per il crudele volere dei Khmer rossi, non paghi di averlo sottratto agli affetti e al suo lavoro di pittore e – insieme a molti altri – di averlo fatto quasi morire di stenti in campi di lavoro. Erano pianificati dall’Angkar, l’onnipotente e onnipresente organizzazione Khmer capeggiata da Pol Pot che, sulla strada della costruzione dell’“uomo nuovo”, fra il 1975 e il 1979, mandò a morte quasi due milioni di persone, derubricate come «ostacoli» alla rivoluzione, e «sterminate perché non erano proletari abbastanza umili», dice lo scrittore e giornalista inglese Lawrence Osborne a Left. 

«Risparmiarvi non serve a niente, uccidervi non costa niente», sentenziava l’Angkar. A futura memoria Osborne ha voluto che campeggiasse come esergo del suo affascinante Cacciatori nel buio (Adelphi) che dopo Pordenonelegge lo ha riportato in Italia, e in particolare a Firenze, per il Festival degli scrittori-Premio Von Rezzori (2-4 maggio). In questo suo primo romanzo pubblicato in Italia (dopo il successo del libro reportage Bangkok) racconta di un giovane inglese, insegnante senza ambizioni, all’apparenza un uomo senza qualità che lascia una grigia vita quotidiana nel Sussex per viaggiare nel Sud est asiatico, in cerca di una vita parallela, dell’incontro con l’ignoto, forse inconsciamente di una donna per riuscire a lasciarsi andare alla bellezza dell’irrazionale. Nel suo peregrinare da emigrante in cerca di fortuna fra alterne vicende, approderà proprio in quella Battambang carica di fantasmi del passato, dove Nath aveva vissuto per molti anni facendo il pittore prima che la cittadina diventasse teatro di rastrellamenti e fosse evacuata dai Khmer rossi. I suoi quadri che raffigurano carceri disumane e scene di tortura entrarono, come testimonianza e denuncia, nel processo al criminale Duch, il professore di matematica che, salito ai vertici del regime, torturò e uccise almeno 17mila persone nel centro di detenzione S-21. 

Nella prefazione all’importante libro testimonianza che Vann Nath ci ha lasciato, Osborne ricorda anche i lunghi incontri con il pittore che lo ospitava al piano di sopra del suo modesto ristorante per raccontargli di quella indicibile tragedia. Dopo il colpo di Stato di Lon Nol nel 1970, dopo la guerra del Vietnam e i bombardamenti a tappeto di Nixon si fece strada in Cambogia una banda para militare guidata da Pol Pot disposta a sterminare un terzo dei suoi concittadini per costruire un’astratta nuova Cambogia comunista. La paranoia della cospirazione anti rivoluzionaria dominava sovrana e muoveva la macchina di sterminio in stile nazista. Assassini in divisa nera e sadici carcerieri, questi erano i Khmer rossi. Fra loro anche molti ragazzini di12, 13 anni armati di fruste elettriche, mitragliatrici e mannaie, perché i proiettili costavano troppo. Bambini soldato a cui era stato fatto il lavaggio del cervello, denuncia Vann Nath in questa sua coraggiosa testimonianza, tanto più forte e toccante, per il tono semplice, diretto e profondo, che lascia intravedere una straordinaria resistenza e umanità. 

Alcune foto pubblicate nel libro ci mostrano Vann Nath nel 1980 insieme agli altri sei sopravvissuti della prigione S-21. Poi lo rivediamo nel 2008 quando testimoniò al processo e infine, silenziosamente commosso, con in mano il verdetto della condanna di Duch. 

Inviato dalla rivista Vogue, Osborne seguì per tre mesi quel processo al comandante khmer, accusato di genocidio. Lì conobbe la dolorosa storia di Vann Nath, che era stato risparmiato perché in grado di dipingere efficaci ritratti di Pol Pot. Quando Duch gli mostrò la fotografia del capo supremo dei Khmer rossi, il pittore non sapeva nemmeno chi fosse quell’uomo dallo strano sorriso. Comprese presto che si trattava di uno degli agghiaccianti deus ex machina del genocidio e che la sua sopravvivenza era appesa alla sua abilità di ritrattista. 

«Durante i tre anni, otto mesi e 20 giorni in cui furono al potere i Khmer rossi dichiararono 2mila cambogiani nemici dello Stato e li giustiziarono. Altre centinaia di migliaia morirono per eccesso di lavoro, di malattia o inedia. Si stima che il bilancio totale sia tra un milione e mezzo e tre milioni di vittime. Anche se questa tragedia risalente agli anni 70 è un fatto ormai lontano nel tempo, i ricordi sono vivi nella mia mente. Ancora oggi quando visito Tuol Sleng, vengo sopraffatto da questo passato doloroso», scriveva nel 1998 ad incipit de Il pittore dei Khmer rossi. Anche se Duch fu condannato, giustizia in Cambogia non è stata ancora fatta. «La democrazia nel Paese è una farsa. Chi ha soldi e amicizie altolocate gode di assoluta impunità», denuncia l’ex cooperante, giornalista e scrittore Peter Fröberg Idling, (Il sorriso di Pol Pot, Iperborea). I manuali di storia nelle scuole offrono versioni edulcorate del passato. Scrivere libri o girare film che contribuiscano a fare luce sul passato e sul presente è una vera impresa. Ci è riuscito con grande impegno Rithy Panh, regista cambogiano che vive in esilio in Francia e autore di importanti libri inchiesta come L’eliminazione (Feltrinelli, 2011) e La macchina di morte dei Khmer rossi (ObarraO) testo dell’omonimo docufilm uscito nel 2003. 

«Rithy Panh ha potuto fare un documentario, ma non gli hanno permesso di fare un film di larga circolazione. Riesci a farlo solo se hai tanti soldi come Angiolina Jolie», chiosa Osborne alludendo al film Per primo hanno ucciso mio padre che l’attrice e regista ha tratto dal libro della sopravvissuta cambogiana Loung Ung pubblicato in Italia da Piemme. In questo annoso quadro di potere corrotto e autoritario e di mancato ricambio di uomini al comando nelle istituzioni, il processo a Duch ha comunque inserito una discontinuità, è stato un passo importante per tentare di ricostruire la fiducia della gente nella giustizia, per avviare un processo di elaborazione collettiva prima che sia troppo tardi. «Il rischio è grande: la Cambogia ha vissuto un periodo di relativa ripresa economica, i giovani che allora non erano ancora nati non sanno niente, manca poco al black out, alla cancellazione totale della memoria». Un annullamento che renderebbe impossibile qualunque elaborazione collettiva per la costruzione di un futuro democratico. Non è un caso se anche per il 29 luglio si annuncino elezioni farsa. Ma c’è chi si oppone. Come il leader del maggior partito di opposizione Sam Rainsy che continua a lottare dall’esilio. Mentre scrittori e artisti come Osborne, Idling, Panh continuano a sollevare domande sulle radici che portarono Pol Pot e altri a progettare lucidamente quell’agghiacciante genocidio. «Pol Pot andò all’università in Francia. Era un fanatico della rivoluzione francese», fa notare Osborne. A Parigi, inoltre entrò in contatto con molti intellettuali di primo piano negli anni Cinquanta e con i comunisti francesi più vicini allo stalinismo diventando un nazionalista granitico. Anche se non basta certo a spiegare l’immane tragedia cambogiana offre una chiave di lettura per leggere più in profondità la sua biografia, per tentare di capire come il timido Sar diventò il feroce Pol Pot.

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Articolo pubblicato su Left n. 18 del 4 maggio 2018

La guerra mondiale della Lega

Un momento dell'intervento del ministro dell'Interno Matteo Salvini in occasione della festa della Lega Nord a Cervia (Ravenna), 4 agosto 2018. ANSA/PASQUALE BOVE

«Quante storie per un uovo in faccia» ha detto Beppe Grillo, dopo che giornali e tg lo avevano annoiato ripetendo la notizia, e la fotografia con l’occhio bendato, di una ragazza italiana di ventidue anni, campione internazionale di atletica, che, mentre camminava da sola, di notte, è stata colpita deliberatamente (ipotesi poi smentita dalle indagini) a un occhio, con schegge nella cornea, da un uovo lanciato con buona mira da un’auto in corsa. Forse la noia di Grillo era per il fatto che la giovanissima campionessa italiana ferita è italiana ma nera, padre e madre nigeriani italiani, e la persuasione detta subito da Daisy Osakue è di essere stata vittima di un gesto razzista. Non sto dicendo che Grillo è razzista. Non gli importa niente e non ha mai detto una sola parola sull’argomento, che interessa poco anche il suo datore di lavoro Casaleggio, titolare di una seria ditta rappresentante di non si sa che cosa, ma molto profetico. Lo infastidisce che qualcuno punti l’attenzione sull’ondata di razzismo (forse una pura catena di coincidenze fra eroi del cambiamento e balordi da strada) provocata all’improvviso da Torino ad Aprilia, da Catania al ferimento grave alla schiena della bambina rom, di 14 mesi. E tutto ciò a cominciare dalla presa del potere del suo governo. Lo infastidisce che in tanti vedano così chiaro il rapporto fra il linguaggio e anche i sentimenti divulgati del nuovo governo del cambiamento, e un improvviso moltiplicarsi della voglia di colpire, far male, ferire e offendere, purché si tratti di neri.
Però, mentre tutti hanno visto il volto ferito e medicato di Daisy, la “negra” ventenne di Moncalieri che vince con la bandiera dell’Italia le gare di atletica nel mondo, molti ricorderanno la frase meno nobile che si sia ascoltata da anni in Italia: «Quante storie per un uovo in faccia».
Ma raccontiamo tutta questa vicenda da capo, come ho provato a fare nel mio libro Clandestino
(La Nave di Teseo) dedicato alle copiose falsità sui migranti. Ho scritto sulla copertina “la caccia è aperta”. È quel che sta accadendo. Come tutti coloro che propongono guerra, questo strano e misterioso governo italiano presieduto da un prestanome di bell’aspetto, (e il solo con buone maniere della compagnia), usa un linguaggio che contiene una parte molto grande di disprezzo per qualunque avversario. Questo fatto suscita l’ammirazione rumorosa di alcuni, nel silenzio prudente di tanti. E ha provocato l’attenzione di chi non credeva che si potesse condurre un’azione di governo usando quasi solo insulti. Risveglia fra i suoi ammiratori il senso di libertà del poter esprimere liberamente parole e giudizi anche pesanti, senza pensarci due volte (“torna a casa tua, sporco negro”, “Ma tu chi sei? Vai nel reparto veterinario a farti curare”). Tutto ciò sempre a carico di coloro che non possono difendersi perché in Italia speravano (alcuni sperano ancora) di trovare asilo (qui la parola non è giuridica, è umana), protezione, un rapporto di esseri umani con esseri umani. La Lega è il motore di tutto, basta notare l’imbarazzante sottomissione del ministro Toninelli quando parla prima di lui e per lui il ministro dell’Interno. Toninelli, ogni volta, trova il suo capo “umanissimo” come nei vecchi film di Fantozzi. Personalmente ho dovuto cominciare a confrontarmi con la Lega quando la Lega era già in Parlamento (è il più vecchio Partito italiano), e io sono stato eletto alla Camera ai tempi della vittoria di Prodi. Ho trovato un gruppo agitato, rabbioso, pronto all’aggressione (ti gridavano “faccia da culo”, se tentavi di spiegare l’assurdo di ciò che dicevano). A quel tempo era un gruppo secessionista che non aveva ancora scoperto i migranti africani e si dedicava a denigrare, nel modo più volgare e violento gli italiani del Sud, colpevoli di tutto e indegni di tutto. Un gruppo che raccomandava ai suoi seguaci di gettare “nel cesso” la bandiera tricolore. E si faceva spesso rappresentare, nei discorsi in aula, dal deputato Borghezio, un uomo che ha interrotto la sua solitudine mettendo insieme, a Torino (anni Novanta) un assembramento notturno detto “guardia padana”, con il compito di incendiare i giacigli di “stranieri” senza casa. Borghezio è stato condannato in via definitiva in Italia, ma rappresenta ancora la Lega al Parlamento europeo. Infatti il suo esempio (come le parole del senatore leghista Calderoli, che ha chiamato «scimmia» la ministra afro-italiana Kyenge, allora nel governo di questo stesso Paese) non è andato perduto. In pochi giorni del luglio 2018, appena maturato il giusto clima di questo governo, una bambina rom, di poco più di un anno, in braccio alla madre, in strada, è stata colpita alla schiena da un colpo di fucile ad aria compressa, sparato dal balcone di una buona casa, con buona mira, e messa in pericolo di vita da un nostro connazionale non povero, non arrabbiato, appena pensionato da un buon impiego. Nei giorni successivi, uno dopo l’altro, altri nostri connazionali, che evidentemente hanno sentito finalmente approvati ad alto livello i loro sentimenti, hanno preso la mira su persone nere e colpito, con la calcolata attenzione di bravi tiratori. Forse non razzisti ma abili, se si deve colpire un nero. Hanno sentito il dovere di prendere posto, nella guerra che il nuovo governo fondato su un contratto Lega-Cinque stelle ha dichiarato agli esseri umani detti “clandestini”, in realtà profughi, i “nemici” storditi e sperduti di una caccia crudele che prevede (ordina) la restituzione ai libici di interi barconi di gente salvata in mare, che vuol dire: saranno schiavi, donne e bambini inclusi. È un evento che è già accaduto, quando i militi della Repubblica di Salò consegnavano scrupolosamente ai tedeschi gli ebrei che avevano individuato e arrestato per essere mandati a morire.
C’è dunque guerra appena dichiarata contro esseri umani che non dovrebbero stare qui per ragioni di razza (la parola è stata rilanciata per la prima volta, dopo l’abbattimento del fascismo, dall’attuale presidente leghista della Regione Lombardia, Fontana), di religione, di cultura, di estraneità ai nostri valori, di difesa “dall’invasione”. La posizione umana e morale è quella di Kazchinsky, Orban, Kurz. E Putin. Qualcosa di molto più patriottico accade subito dopo. Il 27 luglio, ad Aprilia (Italia). Un marocchino, dichiarato “sospetto” (parola usata anche dai telegiornali senza tentativi di spiegazione, sospetto di che cosa?), è stato prima inseguito in macchina e poi ucciso da una ronda della Lega del Sud. Tre uomini pronti alla difesa della razza, di cui uno armato, hanno inseguito, tamponato e ucciso a botte “il sospetto”, primo caso di linciaggio nella nuova epoca italiana. Sul linciaggio il governo ha taciuto. Non tutti, però. Il ministro dell’Interno ha questo da dire: «I reati sono reati. Ma allora si usi la stessa mano pesante per le migliaia di reati commessi dagli immigrati». Il ministro, evidentemente ha sottovalutato l’importanza delle comunicazioni. Ha dimenticato che nessuno ha finora annunciato una ondata di reati gravi commessi in massa da “clandestini”, in un Paese in cui il femminicidio, la vasta rete di mafia, ndrangheta, sacra corona e droga restano saldamente nelle mani di italiani. E che mentre si acciuffano (con la finzione del salvataggio) e si buttano nelle tonnare libiche centinaia di persone che forse hanno diritto di asilo ma non hanno potuto chiederlo, non si hanno notizie di Matteo Messina Denaro, capo supremo della mafia, in libertà operativa da decenni. Il fantasma di Rosa Parks guarda a questa Italia dal fondo del mare. Neanche di lei sceriffi e politici del sud razzista americano pensavano granché. Ma non è lei che è rimasta fuori dalla Storia.

La guerra mondiale di Salvini è il titolo dell’incontro con Furio Colombo in programma venerdì 7 settembre nell’ambito del Festival della comunicazione di Camogli

L’articolo di Furio Colombo è stato pubblicato nel numero 32 di Left del 10 agosto


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Immigrazione e noir, dove la xenofobia perde sempre

A Palestinian girl walks past a mural painted on the wall of a UN school in the Deir al-Balah refugee camp in central Gaza Strip on June 28, 2018. (Photo by Majdi Fathi/NurPhoto via Getty Images)

In principio fu Jean Claude Izzo, uno dei padri del noir contemporaneo, morto precocemente, a far irrompere nella narrativa popolare per eccellenza, la descrizione di società europee che stavano cambiando. La Marsiglia raccontata, soprattutto nella trilogia che ha come protagonista Fabio Montale, è meticcia, cosmopolita, attraversata da conflitti in cui, più che “presunte purezze di sangue” o identità riconducibili al fenotipo di francese bianco, contano appartenenze di classe o quartiere di provenienza. Si tratta di un approccio che riguarda soprattutto Francia e Gran Bretagna. Marsiglia, città mediterranea e storicamente incrocio di popolazioni diverse, è altra cosa rispetto al resto della Francia, ma poi non è così vero. Dominique Manotti, scrittrice e militante, racconta volti di una Francia torbida in cui la presenza di cittadini, “con altre origini” attiene alla quotidianità. Vite Bruciate del 2006, ambientato in Lorena, descrive un conflitto in fabbrica. Scioperi contro delocalizzazione, corruzione e speculazioni in cui si muovono personaggi, soprattutto lavoratori, provenienti in particolar modo dal Maghreb, che agiscono in quanto sindacalisti, attivisti, fianco a fianco ai lavoratori autoctoni, nel tentativo di difendere il lavoro e di sventare un piano criminoso. L’autrice conosce bene il razzismo nelle istituzioni e fa dire ad un suo personaggio: «Un arabo, per la polizia, resta sempre un arabo», per non rimuovere il fatto che taluni conflitti non sono spariti con i processi di assimilazione. Restando in Francia, anche la celebre Fred Vargas affronta lo stesso tema. Uno degli agenti della squadra di Adamsberg, il suo personaggio principale, viene ad un certo punto…

L’articolo di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola


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Resistenza in versi, se il nemico pubblico è un poeta

Questo pezzo senza titolo del 2011 è stato esposto a Londra nel 2012 come parte di una retrospettiva al Mosaic Rooms in cui sono apparse oltre un centinaio di opere d'arte di Adone. Questi collage, come la sua opera letteraria, combinano influenze tradizionali e contemporanee

In Quaderni palestinesi Mu’in Bsisu racconta che un carcerato incontrato da bambino nella prigione di Acri era solito ripetergli: «I ricchi hanno Dio e polizia. I poveri hanno le stelle e i poeti».
Chissà se avrà pensato a queste parole il poeta egiziano Galal el-Bahrairy, condannato a inizio mese da un tribunale militare in Egitto a tre anni di carcere e al pagamento di una multa di 560 dollari. I suoi “crimini”? Un libro di poesia in cui avrebbe criticato l’esercito egiziano e una canzone ironica contro il presidente al-Sisi. El-Behairy era stato arrestato a marzo dopo aver pubblicato la sua canzone “Belaha”, dal nome di un personaggio di un film egiziano noto per le sue bugie e con cui gli egiziani si fanno beffa di al-Sisi: «Oh Balaha, quattro anni sono alla fine trascorsi in disgrazia / Con tutti i tuoi gangster nelle prigioni più buie / Spero tu possa marcire in un posto così».
Parole inaccettabili nell’Egitto dell’ex generale golpista. Ma i poeti sono nel mirino delle autorità non solo qui. A distanza di diversi chilometri da il Cairo, infatti, la poetessa palestinese, ma cittadina israeliana, Dareen Tatour è stata condannata da un tribunale di Nazareth per «incitamento alla violenza» perché rea di aver pubblicato su internet nel 2015 – nei giorni caldi dell’«Intifada di Gerusalemme» (o «dei coltelli» per gli israeliani) – i seguenti versi accompagnati da alcune immagini di proteste palestinesi: «Resisti, mio popolo, resisti a loro / A Gerusalemme, ho indossato le mie ferite e respirato le mie pene / E ho portato l’anima sul palmo della mano / per una Palestina araba / Non mi arrenderò a una soluzione pacifica / Non abbasserò le mie bandiere / finché non li caccerò dalla mia terra». In un Paese dove i non ebrei (si legga «arabi») sono ormai ufficialmente…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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Torna Rita Coolidge, la ragazza del Delta che fa parte della storia della musica americana

La Delta Lady è tornata. Soprannominata così per una canzone a lei dedicata da Leon Russell nel lontano 1970, Rita Coolidge ci regala uno splendido album, il suo ventisettesimo, dal titolo Safe In The Arms Of Time. Una delle figure più importanti della musica contemporanea, Rita Coolidge dopo aver partecipato come corista al tour di Joe Cocker, partecipando al famoso live Mad Dogs & The Englishmen, inizia la sua carriera solista nel 1970 con un primo album importantissimo dove il sound elettroacustico in voga all’epoca viene bilanciato dalla potente e calda interpretazione dell’artista che sa scegliere già a venticinque anni autori e musicisti. Bella e affascinante, dopo aver cantato nei cori di “Love The One You’re With” farà perdere la testa a Stephen Stills – che gli avrebbe suonato le chitarre acustiche nell’album d’esordio – e a Graham Nash, a tal punto che voci insistenti nel music business addossarono – in parte errate – queste liaison allo scioglimento del supergruppo CSN&Y, come David Crosby racconterà, in una straordinaria metafora western musicale intitolata “Cowboy Movie” del 1971.

Rita Coolidge, come testimonia appassionatamente la sua recente autobiografia, è sempre stata una musicista di classe, non prolifica come altre sue colleghe, ma senz’altro ai vertici delle classifiche raggiungendo assieme all’ex-marito, attore e cantante country, Kris Kristofferson, il primo posto nel 1973 con l’album Full Moon e vincendo due Grammy Award, il primo nel 1974, per la performance di “From The Bottle To The Bottom”, e il secondo nel 1976 con la canzone “Lover Please”. La carriera è così continuata con altri numerosi album e collaborazioni arrivando a Robbie Robertson (anche lui di origini indiane) per un progetto dedicato ai nativi americani e che la vide protagonista proprio qui in Italia, ad Agrigento, nella Valle dei Templi (11 febbraio 1995) nel concerto della Concordia, ispirato proprio dal tempio greco, assieme allo scomparso poeta, cantante e militante indiano John Trudell, al trio Ulali (anche loro coriste di origini Cherokee) e alla altrettanto famosa performer Buffy St. Marie, indimenticata songwriter del brano portante del film Soldato Blu.

La Coolidge si ripresenta oggi con un album maturo, pieno di storia e ricordi, sapientemente arrangiato e prodotto con sonorità “classic rock “, blues e ballads. Prodotto da Ross Hogarth e registrato ai Sunset Sound Recorders di Los Angeles, un album a nome di una delle icone piu importanti della musica non poteva non essere creato in California, proprio negli stessi studi dove la cantante di Lafayette, Tennessee, aveva registrato il suo primo disco. «Tornare in quello studio è stato un viaggio nel passato. In ogni corridoio c’era un ricordo», dice la cantante, proseguendo «l’intento era quello di fare un disco che avesse lo stesso fascino dei miei primi album. Fare un disco di radici che raccontasse le mie». La Coolidge si avvale così di David Grissom alle chitarre, del mitico Bob Glaub al basso e di due turnisti d’eccezione quali Brian MacLead alla batteria e John “JT” Thomas alle tastiere e al piano. Oltre a loro una serie di altri strumentisti che arricchiscono senza mai strafare un momento sonoro lungo dodici brani, passando da malinconie pianistiche a decisi rock-blues; da brani permeati da qualche goccia di nostalgia a episodi di consapevolezza umana che trovano riscontro nella certezza della voce, nell’impianto delle composizioni, negli interventi ricchi delle chitarre e delle voci; nell’alternarsi dei groove e nell’ingresso del violoncello che stempera le atmosfere.

Al cospetto della cantante una schiera di songwriters altrettanto notevole, a partire da Keb Mo’, bluesman americano di grande spessore col quale la Coolidge scrive “Walking On Water” e “Naked All Night”. David Grissom e Chris Stapleton firmano invece il brano d’apertura, “Satisfied”, una potente ballata che ci racconta che «la vita è una strada tortuosa con curve e ponti che svoltano e girano. Il tempo uno scontro nello schiocco delle dita. Colpiscilo e guardalo bruciare. Un tempo trovammo riparo nelle braccia della luce della luna. Troppe passeggiate sulle recinzioni, Troppi “Non so”. E io…desidero per te pace sulle ali dell’amore. In qualsiasi cosa tu cercherai spero tu possa trovare le risposte alle domande nel tuo cuore e forse sarai soddisfatto. Certe volte mi viene da piangere. Altre volte vorrei ridere. Sono appesa al tuo ricordo come una vecchia fotografia sbiadita. Avrei tante cose da dirti se tu fossi ancora qui. Mi dispiace averti ferito. Mi dispiace averti buttato giù». Stephen Bruton che già negli anni 70 aveva lavorato con la Coolidge torna come autore con “Spirit World” dove è ancora protagonista la magistrale slide guitar di Joey Landreth, stella nascente del rock (già con The Bros, un combo di “americana” e folk nato e cresciuto in Canada).

Un lavoro di cesello durato diversi mesi da parte di Hogarth che già qualche anno addietro aveva iniziato a cercare canzoni, sondare amici e autori per lavorare a questo importante ritorno artistico (Hogarth è uno dei più quotati produttori sulla scena e ha vinto un Grammy quest’anno per l’album dell’inedito duo Taj Mahal/Keb Mo’). Tra i diversi autori anchel Graham Nash che aveva ospitato la cantante, non solo nel suo cuore, ma anche sul primo album Songs For Beginners. Il brano dell’artista inglese , firmato con lo storico batterista Russell Kunkel, si intitola “Doing Fine Without You” e vede ospite al banjo John McFee, già con i Doobie Brothers e poi strumentista con diversi artisti quali Costello, Grateful Dead, Emmylou Harris e altri. La Coolidge è profonda interprete di ”Van Gogh”, scritta da Tom Douglas e Allen Shamblin, dove la poesia e le linee melodiche ci proiettano in una dimensione altra, ad immaginare i colori, e a raccontarci dell’arte e della malattia che traspare nei dipinti del pittore olandese, e di quella bellezza, quella della vita, forse, a volte, troppo grande, da poter sempre essere rappresentata nei quadri. La cantante poi collabora su “You Can Fall In Love” con l’ex batterista di Tom Petty, Stan Lynch, dove il racconto narra di un incontro con una vecchia fiamma incarnando così uno dei leit-motiv dell’album: non è mai troppo tardi.

Lynch a sua volta scrive anche il brano di chiusura dell’album, Please Grow Old With Me, dove il discorso di condivisione e una seconda possibilità per farsi perdonare, vengono esaltati da una dolcissima e breve “lullaby”. “Over You”, “We Are Blood”, “Rainbow”, “The Things We Carry”, sono gli altri titoli di un album che nelle intenzioni del produttore e dell’artista vogliono raccontare dell’amore, della spiritualità e della legittimazione perché la vita è un lavoro interiore che inizia con “me” e diventa “noi”. Un album che riporta a brillare la stella della Coolidge nell’universo musicale, confermando con questo lavoro la incredibile possibilità che la sua timbrica, l’approccio e l’interpretazione hanno di imprimere a brani, apparentemente di “maniera”, una forte impronta personale. Un album che si discosta da quelli pop e country del passato, che recupera certamente il suono americano con le slide guitars in evidenza, le voci, le armonie vocali e tutto quel sound che fin dai primi 70 ci aveva accompagnato assieme ad altri capolavori di colleghe forse più blasonate. Ma è di legittimazione non solo artistica che vogliamo ritornare a scrivere.

Legittimazione umana, crescita personale e identità ben salda sapendo che l’artista ormai ha superato quell’affronto, quell’ingiusta violenza perpetrata nel tempo, che la volle autrice mai riconosciuta ufficialmente di uno dei pezzi più celebri della musica rock, “Layla”. Forse inesperta all’epoca, fu “raggirata” nel momento in cui, dopo aver scritto la parte strumentale al piano, non venne citata come autrice del brano che sarebbe diventato uno degli “anthem” del chitarrista inglese Eric Clapton che lo prese “in prestito” dal batterista Jim Gordon. I due all’epoca militavano nella formazione Derek and The Dominoes e il demo di quella coda , intitolata provvisoriamente “Time”, era stato il frutto di una collaborazione che la coppia, di nome e di fatto, aveva registrato insieme. Coolidge dopo aver ascoltato incidentalmente il brano alla radio chiese al suo producer, David Anderle, di interpellare Robert Stigwood, boss dell’omonima etichetta che aveva pubblicato la canzone, ma la risposta fu «vuoi davvero citare Stiggy? Chi sei tu? Una ragazza che canta! Non avresti il denaro per affrontare la causa». Una persecuzione lunga tutta la carriera. Come per i suoi “antenati”. Ma oggi sappiamo che quella ”Layla” non ha solo padri ma anche una madre. Indiana. Salva «nelle braccia del tempo» a raccontarci che se è arte vera, prima o poi verrà riconosciuta.

Il Meridione e l’apologia del non finito

La prossimità con il degrado è qualcosa con cui il Sud ha imparato a convivere dagli anni Settanta. Non ci fa più caso. Non ha a che fare con l’abitudine al brutto, quanto con l’aver avuto dei sogni troppo ambiziosi ed averli visti sfumare. Il non finito è un simbolo. Può essere facilmente frainteso e interpretato come passività e inerzia, mentre si tratta di un monumento all’ultimo guizzo di vitalità del Meridione.

Il non finito è case senza intonaco, appartamenti senza finestre, tondini che fuoriescono dal cemento eroso, che dovevano contenere vita, ma che di vita sono rimasti privi. È anche balconi senza ringhiere, ma con le antenne satellitari sui tetti. È un palazzo di quattro piani in cui l’unico appartamento ultimato è al piano terra. È un cinema che doveva nascere nel bel mezzo di un paese popoloso, ma che non ha mai azionato il proiettore.

Se volete avere un’immagine chiara guardate Dogman, l’ultimo film di Matteo Garrone. Il non finito di Castel Volturno per i personaggi è casa, è focolare, hanno trovato al suo interno una loro dimensione, mentre per lo spettatore quello stesso paesaggio è la cornice perfetta del degrado sociale e umano.

Per chi abita i non finiti nella realtà è la stessa cosa: quelle strutture non sono bruttezza. Chi abita questi luoghi, chi li ha progettati e messi in piedi lo ha fatto con amore, con una sorta di ottimistica proiezione di un futuro per sé e per la sua famiglia. Se proprio si deve loro imputare una colpa, semmai, è stata quella di non avere avuto la percezione netta di quanto stesse accadendo. La maggiore parte di questi edifici incompiuti sono nati negli anni Sessanta e Settanta. Perché? Perché c’era una voglia di credere che i piani per l’industrializzazione del Sud avrebbero consentito agli emigranti di tornare al paese natio, ai giovani di restare e a quelle case di avere un senso.

Il pacchetto Colombo in Calabria, finanziato dalla Cassa del Mezzogiorno, aveva quale obiettivo la…

L’articolo di Eleonora Aragona prosegue su Left in edicola


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La magia di Istanbul minacciata dal cemento

Qualche anno fa circolava nelle tv turche un bizzarro spot. L’imprenditore edile Ali Aligoglu pubblicizzava la nascita di un nuovo quartiere residenziale a Istanbul. Camicia bianca sbottonata e jeans sbarazzino, su uno sfondo iper-saturato e surreale, Ali affermava solenne: «Stiamo creando una nuova area con 3.100 appartamenti. L’87 per cento sarà destinato a spazi verdi con campi da golf!». Il costruttore insisteva impettito: «Ho sempre sognato giardini al decimo piano, e ora saranno realtà! Tutti meritano di vivere in una casa con una piscina. Qui ce ne sarà una lunga 130 metri». Infine, armato di elmetto giallo e in posa da supereroe, appariva in piedi su una ruspa: «Ci sarà una piazza, un centro commerciale, tutta l’area pullulerà di vita! Con un pagamento anticipato di mille lire turche, anche tu potrai averne una tutta tua».

L’enfasi e le aspirazioni di Ali Aligoglu si riferivano a Istanbul ma possono essere considerati paradigmatici di quel che è accaduto in numerose grandi città. In pochi anni, intorno alle megalopoli sono spuntate a macchia di leopardo numerose cattedrali nel deserto. Si è passati dall’idea di agorà greca agli abrasivi neologismi di gentrification e disneyficazione. Un processo che si è realizzato attraverso tappe tese a sottovalutare, svendere, depauperare gli aggregati urbani.

Se infatti, nei secoli scorsi, le città hanno subito profondi cambiamenti legati all’industrializzazione, oggi, i centri cittadini si plasmano sulla base degli input neoliberisti. Mentre nel Medioevo i commercianti si appropriarono dei centri urbani per la produzione e la vendita delle loro merci, adesso è la città a diventare essa stessa merce. La frontiera dove reinvestire il surplus capitalista in mattoni e cemento. In centri commerciali e quartieri-dormitorio.

L’esempio della rivoluzione urbana di Istanbul è emblematico. Il processo si muove a ritmi serratissimi, favorito anche dall’istituzione di…

L’articolo di Dino Buonaiuto prosegue su Left in edicola


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La dittatura della realtà

Pochi giorni fa Davide Barillari, uno degli eletti del M5s alla Regione Lazio, ha pubblicato un post sulla sua pagina Facebook in cui rivendicava l’autonomia della politica dalla scienza. «Scienziati intelligenti contro politici ignoranti? Quando si è deciso che la scienza fosse più importante della politica? Chi l’ha deciso e perché?» Nel suo post Barillari se la prende con gli scienziati che a suo dire impongono le loro scelte politiche. «Perché gli scienziati dello stampo di Burioni, cioè legati a doppio filo sia alle multinazionali del farmaco che ai partiti del passato bocciati alle urne dagli italiani, sono davvero convinti di detenere l’unica verità possibile, eterna ed inconfutabile…e sono davvero convinti che la politica si debba inchinare supinamente a loro. (…) Senza più valutare, senza più fare scelte per definire quale sia la direzione giusta, senza pianificare. BISOGNA CREDERE». Per arrivare alla conclusione che la scienza, secondo Barillari, deve essere democratica! Non voglio argomentare contro Barillari perché non ce n’è alcun bisogno. Sostenere che la scienza sia democratica è una contraddizione in termini. La scienza è conoscenza della realtà che si costruisce con il metodo scientifico. Il metodo scientifico consente di confrontare una teoria con la realtà e di stabilire quale tra diverse ipotesi di spiegazione di un fenomeno sia quella corretta e quale non lo sia. Lo scienziato confronta il suo modello della realtà con la realtà stessa. Dall’analisi dei dati di realtà decide se il modello che ha costruito sia corretto oppure no e con quale margine di errore, ossia con quale frequenza in un numero alto di esperimenti tutti uguali il modello rispecchia correttamente il comportamento della realtà. Perché la realtà non mente mai. La menzogna è solo degli esseri umani, non certo della natura inanimata. La realtà è quella che è. La realtà è oggettiva. Il lavoro dello scienziato è appunto quello di costruire un modello della realtà stessa che riesca a rappresentarla al meglio possibile e che permetta di prevedere il funzionamento della realtà stessa in modo da piegarla al nostro volere. La meccanica quantistica descrive il comportamento della realtà atomica e subatomica. Il modello quantistico può essere usato per costruire componenti elettronici il cui funzionamento viene previsto proprio in base al modello. I telefonini e i computer che usiamo costantemente funzionano perché il modello quantistico rappresenta “bene”, ossia in maniera molto precisa con pochissimo margine di errore, la realtà oggettiva, la realtà della materia di cui sono composti il telefono e il computer. È ovvio quindi che non esiste alcuna democrazia in natura. La natura è quella che è e basta. La scienza che ne vuole costruire modelli operativi semplicemente cerca il modello migliore possibile, quello che funziona meglio. Eventualmente può comprendere che un modello non è abbastanza preciso e sostituirlo con un altro.

Ma non esiste in nessun modo un “processo democratico” per decidere se una determinata teoria scientifica è corretta o meno! È la realtà che dice se una teoria è corretta o meno. Perché la realtà è dittatoriale. Non c’è alcuna discussione sulla realtà… della realtà! La cosa interessante da osservare è la lettura politica che si può fare di questo post di Barillari. Perché conferma che il Movimento 5 stelle è formato da persone che hanno una esigenza di ribellarsi ma senza alcun metodo, senza alcuna forma che li aiuti in quello che diventa un ribellismo fine a se stesso e quindi anche senza uno scopo preciso. Sembra il “vietato vietare” di matrice sessantottina che non ha chiaro a cosa ribellarsi e si ribella a tutto. Allora non c’è più distinzione tra il divieto da rifiutare perché violento e il divieto da non rifiutare e accettare perché è invece sano e corretto. È come se il ’68 non fosse mai passato oppure come se ci fosse il tentativo di ricreare un nuovo ’68 che questa volta sarebbe diverso per le possibilità offerte dalle tecnologie di comunicazione… come se la democrazia diretta e la distribuzione democratica dell’informazione potessero dare a tutti una capacità di scelta che diventa realtà che supera la realtà. La “scienza democratica” appunto. La ribellione senza vedere rischia di diventare annullamento. Se si pensa che la scienza sia una questione politica e quindi di democrazia si finisce nel delirio o nel migliore dei casi nel medioevo. Si perde il rapporto con la realtà e ogni cosa perde di senso.

Il Movimento 5 stelle ha sfruttato l’esigenza di ribellione degli elettori e ne ha fatto la propria battaglia politica. Il Vaffa day di Grillo era questo. Ed è anche giusto dire che ribellarsi è giusto! Il problema è che se non si hanno idee chiare su cosa sia reale e cosa no, anche in termini di realtà umana, si finisce nella ribellione verso tutto e tutti, nel nichilismo più pericoloso che può diventare fascismo e nazismo. Esiste il rifiuto, che è allontanare e ribellarsi a ciò che è violento e non umano. Questa è la sana ribellione che non è con l’odio, ma è semmai con l’amore per gli altri. Esiste la negazione che invece è ribellarsi e far sparire con odio e rabbia ciò che viene ritenuto violento ma che in realtà non lo è, perché la violenza è in realtà nella negazione, nel ribelle cieco. Come la ribellione alla medicina e alla scienza che è una negazione della realtà. Ribellarsi con negazione alla realtà fa male a chi fa quella ribellione. Perché si perde il rapporto con la realtà. La sinistra ha il dovere di comprendere qual è la ribellione giusta e quale quella sbagliata. Perché è la ribellione del genio, quella che ha rapporto con la realtà, che riesce a modificarla e a trasformare la visione del mondo, che fa la rivoluzione. È la rivoluzione del pensiero che fa la rivoluzione della realtà.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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