Home Blog Pagina 705

Il modello spagnolo e le città dei porti aperti

People enjoy the afternoon at the Gracia neighborhood in Barcelona, Spain, Tuesday, Sept. 8, 2015. (AP Photo/Manu Fernandez)

Qua e là in giro per il mondo si assisterebbe a un fenomeno di “neomunicipalismo”, si dice. Intendendo, per la verità, una grande varietà di fenomeni. Il primo riguarda il rinnovato protagonismo delle città e dei relativi sistemi di governance nell’affrontare questioni complesse e cruciali dell’avvenire, quali il cambiamento climatico, le diseguaglianze e le stesse migrazioni. La sovra-esposizione delle città a tante di queste questioni le trasformerebbe in veri e propri laboratori per l’elaborazione di nuove forme di azione collettiva e anche di politiche pubbliche finalizzate a “risolverle”: dalle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, messe in opera di recente da molte città, alle politiche di integrazione dei flussi di rifugiati. A corollario di questa accresciuta capacità sperimentale e di produrre “innovazioni” proprie alle città ed ai loro governi (intesi sempre in senso molto allargato) ci sarebbe anche la tendenza di queste a creare o ad aderire a “network”, sia macro-regionali sia globali, con altre città. Network all’interno dei quali le città possano scambiarsi esperienze concrete attivando anche collaborazioni utili a migliorare le proprie politiche locali. In sintesi, le città sarebbero in questa prospettiva i luoghi della sperimentazione di nuove soluzioni efficaci ed innovative ai problemi pubblici emergenti, tanto da auspicare un pianeta addirittura governato dai sindaci (è questa la tesi di un libro di grande successo del politologo Benjamin Barber dal titolo inequivoco Se i sindaci governassero il mondo). Il secondo fenomeno, pur avendo molto a che fare con alcuni degli aspetti del primo, riguarda più direttamente la sfera politica. Vi ricordate, restando al nostro Paese, la “rivoluzione arancione” dei primi anni 10 del 2000 oppure il partito dei sindaci dei secondi anni Novanta? Ecco, per neomunicipalismo, si può intendere anche il frequente riaffacciarsi di fenomeni di cambiamento…

L’articolo di Alessandro Coppola prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Perché la miserevole spiaggia di Roma è sintomo dell’assenza di una cultura della progettazione urbana

A view of ''Tiberis'', the beach along the Tiber, on the day of its opening, in Rome, Italy, 04 August 2018. The beach is meant to hard back to the bathing establishments of the 1960s. ANSA/CLAUDIO PERI

Nei pressi di ponte Marconi a Roma, presso il Lungotevere Pietro Papa nel quadrante sud occidentale della città, a diversi chilometri dal centro in un’area ex industriale densamente edificata a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, si è compiuta in questi giorni una vicenda che ha un alto valore esemplificativo.
Per comprendere bisogna mettere insieme due fatti. Da una parte vi l’inaugurazione di “Tiberis. La Spiaggia di Roma”, di cui tutti i media, la maggior parte spietatamente, si sono occupati a cominciare dal 4 agosto, il giorno della inaugurazione, e non c’era neanche questa volta la sindaca. Dall’altra la vicenda dello stadio della società giallorossa di calcio arenatosi in procura alla fine di giugno. I due progetti non sono soltanto localizzati nello stesso quadrante della città all’interno del XI Municipio (l’area dello stadio è nella sponda opposta del Tevere ad alcuni chilometri e a tre anse di distanza a valle rispetto a Tiberis), ma sono sistemicamente interconnessi: sono due facce della stessa medaglia, micro e macro si rispecchiano.

Cerchiamo di andare per ordine. È Ambito strategico del Piano regolatore vigente di Roma la valorizzazione delle sponde del Tevere e della presenza del fiume. Non si tratta di un gioco, ma di un atto pubblico importante, un atto formale come un Piano regolatore è il frutto di molto lavoro e di una ricognizione puntuale (i dettagli qui).
Un elemento propulsivo di questa strategia era la proposta della giunta Marino, nel quadro della candidatura olimpica per Roma 2024, di creare un parco fluviale come grande ambito in cui far convergere molte delle iniziative delle Olimpiadi. Si sarebbe potuta sfruttare l’occasione, un poco come la città di Barcellona fece per lo storico recupero del suo lungomare industriale nell’ormai lontano 1992, per mettere mano finalmente alla navigabilità, per il recupero ambientale, per la localizzazione nei pressi del fiume di una serie di attrezzature per il tempo libero e per lo sport. Ormai molte grandi città dimostrano, con il progetto di Hafen City ad Amburgo per esempio, che oggi si hanno tecnologie e strategie per affrontare una serie di temi connessi alla gestione delle acque contemporaneamente a quello dello spazio pubblico. Vi sono piscine e campi galleggianti lungo fiumi e baie, ci sono modi per rendere alcune attrezzature completamente impermeabili ma che consentono l’utilizzo di grandi parti di aree circostanti, vi sono studi che consentono il calcolo di precisi dare avere rispetto alle quote di rischio esondazioni.

Lungo i fiumi, e Roma non fa eccezione, vi sono immensi spazi “brown”, cioè ex industriali che trasformati possono ospitare strutture. Per esempio a Roma la grande area a nord chiamata delle Formaci nei pressi della diga di Castel Giubileo, la zona nei pressi dello scalo del Pinedo a pochi passi da Piazza del popolo, in cui da anni vi è un enorme cantiere abbandonato per un parcheggio mai realizzato, l’area industriale Ostiense su entrambe le sponde del fiume e l’area a nord di ponte Marconi e quella di Tor di Valle a sud sul cui punto tra poco torneremo. Vi sono poi interventi già previsti, ma come al solito mai completamente terminati in alcune aree centrali prima di tutto nella zona archeologica tra l’Aventino e il fiume. Attualmente esistono decine e decine di circoli sportivi a dimostrazione che l’attività per lo sport e per il tempo libero è compatibile con la presenza del fiume.

In questo quadro, non era affatto assurda la proposta di creare un nuovo polo con lo stadio di calcio della Roma nella zona di Tor di Valle, dove insisteva una opera inaugurata nel 1959 e anch’essa legata anche se indirettamente alla vicenda olimpica, completamente abbandonata da decenni. Il velodromo di Tor di Valle fu il frutto della delocalizzazione di quello di Villa Glori per fare posto al Villaggio Olimpico del 1960. Incredibile pensare all’efficienza di quella città a paragone di Tiberis, di oggi, Ma torniamo allo stadio. La grande area golenale era disponibile e l’utilizzo era plausibile anche dal punto di vista del piano regolatore. In questa area si sarebbe potuto realizzare un complesso di attrezzature che se avevano nello stadio della A.S. Roma il nodo fondamentale, poteva vedere crescere attorno un complesso residenziale e commerciale che rendesse possibile un investimento privato in una logica di sviluppo compatibile con gli interessi pubblici. Nella zona a maggiore rischio come si fa in tutto il mondo, basta vedere i bellissimi progetti di Turenscape, era previsto un parco esondabile. La proposta prevedeva anche una immagine decisa dal punto di vista del townscape, con degli edifici alti che caratterizzavano un’area periferica come nodo urbano. È nota la lunga contrattazione tra amministrazione e privati negli anni della giunta Marino con una serie di compromessi faticosamente raggiunti tra cui il fatto che buona parte del costo delle infrastrutture (nuova stazione ferroviaria e un nuovo ponte) sarebbero ricaduti nella sfera dei privati.

La nuova amministrazione della sindaca Raggi ha bloccato la candidatura olimpica. Una scelta devastante, che ha tolto a Roma una ipotesi storica di adeguamento e di sviluppo. La codardia di questa decisione è dimostrata dal fatto che le stesse forze politiche stanno proponendo proprio in questi mesi un’altra candidatura per le Olimpiadi invernali del 2026 talmente confusa e compromissoria che gli stessi proponenti litigano ancora prima di cominciare.
Bocciata sul nascere l’ipotesi olimpica e la possibilità del Tevere di diventare una nuova fenomenale infrastruttura per Roma, verde, ludica e civica, si è arrivati a un gran pasticcio sulla questione stadio. In campagna elettorale si nicchiava che non lo si voleva, e si scelse un urbanista contrario allo stadio l’ingegnere Paolo Berdini, per poi farlo sedere ad un confuso tavolo di trattative. Fortissimo il sospetto che la ricontrattazione volesse far guadagnare crediti alla amministrazione. Come in Italia spesso accade: si riapre anche un accordo chiuso e si ricomincia daccapo, se no come si fa a far pesare il proprio potere? Berdini capisce il pasticcio in cui si deve muovere e si dimette e così si ricomincia, con figure di allarmante trasparenza. Il patteggiamento è all’insegna della rasatura delle cubature, con il bell’esito di far perdere ogni significato all’intero progetto e di rendere desolante il townscape urbano, uguale ai migliaia di metri cubi che hanno invaso la Roma periferica con scatoloni tra l’altro invenduti e soprattutto facendo gravare sul bilancio dello stato, la realizzazione delle infrastrutture necessarie al funzionamento del complesso o ad eliminarle del tutto rendendo il progetto anche dal punto della accessibilità una mezza follia. Il tutto cade tra l’altro nelle mani della magistratura a fine giugno con arresti e denunce che blocca la situazione.

Cosa c’entra tutto questo e perché ricordarlo oggi? Ma perché la miserevole spiaggia con bagni chimici, ombrelloni improbabili, strati di plastica a rullo nelle recinzioni o nelle balze sulle sponde, sediolette in plastica che sembrano uscite da un documentario sui Rom de Roma, crea un senso devastante di desolazione e di tristezza. Un designer di qualunque grado di preparazione strabuzza gli occhi per l’insipienza. La stampa più favorevole ha trovato una anziana di 92 anni che dice che almeno può toccare la sabbia, non farebbe il bagno comunque ed infatti non c’è neanche una piscina prefabbricata. Ma certo ai nostri giovani che vivono esuli a Berlino, ad Amsterdam, a Parigi, a Madrid, a New York, a Seattle vedere Tiberis li fa semplicemente piangere di rabbia e di frustrazione e tanti e tanti lo esprimono in rete lo sconcerto, anzi no, la rabbia.
Neanche il più entusiasta elettore di questa giunta riesce a pensare che la spiaggia di Roma inaugurata a ponte Marconi possa ascriversi a poco meno di una beffa.

Gli aderenti alla giunta si difendono dicendo che l’area era prima una discarica e che le diverse centinaia di migliaia di euro necessari a bonificare le sponde sono un successo e una riconquista per la città. Ma non si restituisce un bel niente se non vi è anche un progetto di spazio, un progetto di uso. L’ingente spesa di bonifica rispetto al nulla di progetto e di ideazione è una aggravante. Una banalità la spiaggia, che chiuderà a ottobre. E poi? Si vagheggiano usi per mettere le mani avanti, ma che succede quando le energie dopo due anni di giunta non sono riuscite neanche a far aprire un chiosco?  L’ideazione è di una povertà disarmante, quella a firma dell’Ufficio speciale tevere del Comune il cui responsabile ha candidamente concesso una intervista al maggiore quotidiano della capitale parlando dell’accordo con Zorro, un gentile organizzatore locale.

Alcuni si riferiscono molto incautamente a Parigi, e al recupero alla vita dei cittadini con i progetti di lungo Senna, ma lì si è messa in atto una complessa strategia che ha visto associazioni, architetti, gestori, promotori di programmi compatibili, concorsi piccoli e grandi, una raccolta di idee e proposte da parte di cittadini, in una azione sinergica guidata da una solida amministrazione pubblica. Ecco una tavola di miei laureandi che la spiegano benissimo.

Bisogna che l’amministrazione cerchi un dialogo vero con la cultura del progetto, un legame che qui appare drammaticamente reciso in tutti gli aspetti: dall’ideazione, al programma, ai materiali. Come si dovrebbe fare per ricominciare? Nello stesso modo in cui sempre si ricostruiscono i territori devastati: vi ricordate i monasteri, vi ricordate i pool antimafia, vi ricordate le squadre speciali, sapete del programma “Bollenti spiriti” della Regione Puglia? Si devono creare piccole task force: nuove, vitali, sinergiche indipendenti dalle logiche burocratiche, amministrative, sindacali e di asservimento politico. Ciascuna task force deve avere tre componenti se no il sistema non è vitale. Ci deve essere un elemento propulsivo e protettivo della politica, ci deve essere almeno un membro delle associazioni di cittadini, ci deve essere almeno un uomo di cultura e progettista. Questo è il minimo.

Queste sono le tre aree che servono: cultura, politica, cittadinanza insieme, il triangolo del vivente, lo chiamo. E da lì, a poco a poco, si ricomincia, innestando a rete gli accordi con gli altri, i tecnici, gli enti, la burocrazia eccetera. Ma il nucleo ideativo è “solo” composto da queste tre forze se no guai, è lo stillicidio, è il veto incrociato, è il ribasso, è il compromesso sino agli strati di plastica di Tiberis. Alla task force si danno ambiti reali di interventi, si dà potere per agire, non si ha paura ma si protegge dall’interno e dall’esterno. Attenzione, mica inventiamo l’acqua calda è cosi che fanno tante e tante situazioni anche in Italia! Quello che è evidente negli esiti a Roma, al di la della buona volontà e dell’impegno, è stato un lavoro non ben condotto e che quindi fa fare più fatica del necessario e alla fine genera sconcerto da ogni angolo visuale. Se Milano ha come ultimo episodio del suo grande rilancio urbano uno spazio pubblico vibrante grazie ad un forte rapporto pubblico privato con l’Apple store aperto h24 a Piazza Liberty, Roma risponde con questa tristissima spiaggia. Sarà l’ultima di una amministrazione cosi incredibilmente deludente che ha peggiorato quasi ogni aspetto della vita cittadina? Sarà l’ultima di Raggi e della sua giunta?

Antonino Saggio è architetto e urbanista, docente di Progettazione architettonica e urbana all’università La Sapienza di Roma. Qui il suo progetto Tevere cavo

La bellezza della rivolta di Antigone, contro il nazismo e le dittature

Cosa significa oggi la celebre affermazione della filosofa Hannah Arendt «nessuno ha il diritto di obbedire»? Oltre al diritto alla disobbedienza esiste anche il dovere di disobbedire, se la legge diventa ingiusta? E ancora: cadaveri, sepolture negate, memoria, rifiuto di accettare leggi inique o di eseguire ordini arbitrari. Sono i temi e le parole, drammaticamente contingenti, sulle quali siamo invitati ad interrogarci al Cimitero militare germanico della Futa, a quasi mille metri d’altezza, nell’Appennino tosco-emiliano.

La prima ribelle nella storia della letteratura è Antigone che osa seppellire il cadavere del fratello nonostante il divieto imposto dal tiranno Creonte. Sa che il suo destino è segnato, ma questo non le impedisce di fare quello che ritiene giusto. Anzi, doveroso.

Il pensiero di Arendt e le parole di Antigone tornano in vita nel silenzio del Cimitero militare della Futa, sugli Appennini tosco-romagnoli nel comune di Fiorenzuola, grazie al lavoro instancabile su memoria e resistenza della compagnia teatrale Archivio zeta che da quindici anni mette in scena importanti rivisitazioni dei drammi greci, in questo luogo di raccoglimento, tempio alla memoria degli sconfitti, dove l’umana pietas riesce a elevarsi sull’hybris di chi si riteneva invincibile perché dalla parte della legge.

Lo spettacolo, in programma fino al 19 agosto, si svolge al tramonto tra le sepolture dei soldati tedeschi, creando un gioco di echi storici e umani preziosi, soprattutto se il testo è quello potente di Antigone. Ma non è quella sofoclea a prendere vita, bensì Antigone/ Nacht und nebel, dove i termini “notte” e “nebbia” si riferiscono ai prigionieri politici della Germania nazista, come stabilito dal “Decreto Notte e nebbia” emanato da Adolf Hitler nel dicembre del 1941. Un terribile eufemismo che il dittatore trasse dall’opera L’oro del Reno di Richard Wagner dove il personaggio di Alberich, indossato l’elmo magico, si trasforma in colonna di fumo e sparisce cantando Nacht und nebel, niemand gleich, “Notte e nebbia, (non c’è) più nessuno”.

«Gli oppositori dovevano essere fermati e fatti scomparire “nella notte e nella nebbia”, diceva testualmente Hitler. Su applicazione del decreto, tutte le persone rappresentanti un pericolo per la sicurezza, sabotatori e resistenti, furono deportate e sparirono nel segreto assoluto, costretti ad indossare un’uniforme con la sigla N.N., Nacht und nebel appunto. Partendo da queste terribili fantasticherie wagneriane avvertiamo l’urgenza di riconoscere ad Antigone lo status di prigioniero politico che viene fatto annegare da Creonte, come un N.N.. Antigone è invece una donna che dimostra che si cade e si cadrà sempre lottando, testimoniando la bellezza irrinunciabile della rivolta che si afferma attraverso la grazia del gesto e il peso delle parole», spiegano i due attori Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti di Archivio zeta.

D’altra parte la forza contestatrice di Antigone è talmente dirompente da diventare un topos letterario, sul quale si sono cimentati autori come Jean Anouil e Bertold Brecht. Se il drammaturgo francese ambienta la sua Antigone durante la Repubblica francese di Vichy, Brecht presenta un Creonte tiranno, definito dalle sua guardie “duce”, nel duplice significato, etimologico, di “condottiero” e in quello più ampio di “dittatore”.

Ma esiste un diritto alla disobbedienza? Il dilemma non è solo di carattere etico o filosofico, ma sconfina inevitabilmente nel campo del diritto. La Costituzione francese del 1946 riconosce il diritto alla resistenza “qualora il governo violi la libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione” definendolo non solo “il più sacro dei diritti” ma anche “il più imperioso dei doveri”. All’enunciato francese si ispira, durante i lavori della Costituente, Giuseppe Dossetti che chiede di introdurre nella Carta italiana eguale previsione nel costituzionalizzare la “resistenza all’oppressione” quale “diritto e dovere del cittadino”. La proposta non fu accolta, ma come sostenuto da molti autorevoli costituzionalisti, il diritto di resistenza è implicitamente legittimato trovando la propria fonte di riconoscimento nel principio di “sovranità popolare” stabilito dall’articolo 1 della nostra Carta. Secondo i costituzionalisti è inoltre possibile, e legittima, la resistenza individuale di fronte al provvedimento o al comportamento arbitrario della autorità.

Questo è anche il senso profondo dell’affermazione della autrice de La banalità del male e de Le origini del totalitarismo: nessuno ha il diritto di obbedire se l’ordine è ingiusto e arbitrario, in quanto l’ordine ricevuto, in quel caso, non rappresenta una giustificazione o una scusante per chi lo esegue. Arendt anzi, rifacendosi a Kant, fa notare che il diritto nasce sempre da un atto autonomo e non dall’obbedienza a un ordine esterno.

Le donne, gli uomini e i bambini che tentano di arrivare in Europa su navi fatiscenti, o cercano di attraversare i confini sotto le coltri innevate delle Alpi, i braccianti che muoiono sulle strade dentro furgoni infuocati sono tanti fratelli di Antigone che aspettano e sperano nella nostra umana, inscalfibile, durissima presa di posizione. Dirompente e inalterabile.

Se l’opposizione è lasciata a Tony Nelly

È un caso piccolo ma significativo di come la superficialità sia una mendace arma politica di governo e d’opposizione: per dimostrare che il Decreto Dignità voluto dal ministro Di Maio fosse un boomerang contro le assunzioni Repubblica corre a intervistare un utente twitter che risponde al nickname di Tony Nelly su Twitter (tanto per partire subito con il piede giusto a proposito di credibilità) che racconta beatamente come il decreto del governo avrebbe contribuito al suo licenziamento presso una filiale della Cariparma Crédit Agricole poiché, spiega, ha già usufruito dei 24 mesi di lavoro a tempo determinato e “un’assunzione a tempo indeterminato rischierebbe di ingessare troppo l’azienda”.

Apriti cielo. Tony Nelly viene sventolato come bandiera del fallimento del Decreto dignità e in poche ore rimbalza sulle home page di quegli stessi giornali che tutti i giorni ci mettono in guardia dal web (come se fosse un individuo e non semplicemente uno spazio) e dalla propaganda.

Passa un giorno e la Cariparma Crédit Agricole invia a Il Fatto Quotidiano una bella lettera di smentita: Simone B. (alias Tony Nelly) si sarebbe licenziato spontaneamente nel febbraio 2017 (parecchio prima delle elezioni) per accettare un contratto a tempo determinato presso un’altra azienda.

Una bufala in piena regola, insomma, di quelle che se avvenissero su un siterello qualsiasi provocherebbero l’orrore sdegnato degli stessi editorialisti che in questi anni ci hanno voluto insegnare che le fake news siano un obbrobrio tutto di questi anni e non una modalità che esiste dalla nascita della parola.

Ciò incuriosisce però è l’uso strumentale che di Tony Nelly ne ha fatto un pezzo dell’opposizione, quella che si è auto incoronata come argine del populismo: non è tanto il fatto che abbiano scelto un testimonial falso ma soprattutto che la critica a un decreto del governo abbia bisogno di un caso particolare per essere avvalorata come se le analisi approfondite o le controproposte all’azione di Di Maio non siano efficaci e doverose da un’opposizione che si definisca tale. Come nel famoso monologo di Fo in Mistero Buffo par di vedere il capo dell’opposizione chiedere di gran foga di andare in giro a scovare un neo disoccupato da offrire alla folla, riducendo il tutto a un misero reality show.

Fatevi due conti di quanto possa essere persuasiva un’opposizione basata su Tony Nelly. Immaginate quello che ci aspetta.

Buon venerdì.

L’Africa irrazionale di Giorgio Manganelli

Di Giorgio Manganelli, più che le opere letterarie, abbiamo sempre amato quelle occasionali, nate da uno sguardo ribelle, senza sofismi d’accademia. Basta pensare a certi suoi acuminati giudizi su Tiepolo. («Non è solo un bugiardo, è un falsario, l’inventore di un mondo coerente e inabitabile, seducente e irraggiungibile») o alla sua tenace lettura di Pontormo e del suo scontroso diario. («Libro riluttante, dispettoso, di un pittore che ha dipinto secondo una “maniera” singolare, meravigliosamente aspra e fantastica»). Dietro al suo modo di leggere l’arte c’è sempre la ricerca della persona, dell’artista e un tentativo di indagarne, oltreché la poetica, la personalissima visione del mondo. Analogamente, da certa data in poi, dopo essere stato a lungo scrittore e lettore sedentario, Manganelli sviluppa una passione per il viaggio, mosso dal desiderio di conoscere l’altro, di rapporto con realtà diverse; alla ricerca dello sconosciuto che può arrivare a mettere in crisi chi non viaggia da turista, ma sia disposto ad affrontare l’imprevisto, l’ignoto. «Manganelli era attratto dall’altrove», ha scritto Salvatore Nigro. «E della lontananza aveva una misura emotiva e passionale. La inseguiva sugli atlanti, come sulle carte topografiche e sugli orari dei tram». Ogni luogo da raggiungere era per lui altrove, e insieme intimo e lontano da sé. Così, dopo essere stato in Cina, nelle Filippine, in Malesia andò in India nel 1975. Cinque anni prima si era tuffato nel grande continente da cui nasce questo breve testo, Viaggio in Africa, che Adelphi pubblica in nuova edizione e con la postfazione di Viola Papetti. Cosa piuttosto curiosa, queste pagine così ispirate e dense, nascono da un viaggio fatto su commissione. Giorgio Manganelli fu ingaggiato da Carlo Castaldi, dirigente di Bonifica, che aveva progettato la Transafricana, una strada lungo la costa dell’Africa orientale, dal Cairo a Dar es Salaam. L’industriale pensava di aver trovato in lui un cantore dell’iniziativa. Invece si ritrovò tra le mani una puntuta e preoccupata relazione sul “pragmatico neocolonialismo ferroviere e alberghiero” che avrebbe portato con sé. La costruzione della TA1 avrebbe reso quella parte di Africa più comodamente vendibile denunciò Manganelli. Nonostante vi fosse andato da “embedded”, riuscì a sviluppare un punto di vista sull’Africa libero da ogni esotismo, avendo provato sulla propria pelle un sole che non lascia scampo e piogge torrenziali. Dal rapporto con la vastità e la potenza della natura africana ricava, per confronto, una chiara visione dell’artificialità della vita urbana in Europa. («La città ignora le stagioni se non come definizioni economiche»). Ma è soprattutto l’incontro con persone e culture differenti a offrirgli una angolazione inedita, quanto mai lontana dall’approccio muscolare di Heminguay, dal misticismo di Whitman o dal tenebrismo di Conrad. «Nella fantasia dell’europeo l’Africa è in primo luogo una regione selvaggia, popolata di animali da zoo, un parco, una riserva, anche uno scenario cinematografico», scrive in Viaggio in Africa. «Al cinema, i colori irruenti, la facile poesia, il tempo prestabilito rendono agile la degustazione innocua di uno spazio primitivo». L’esotismo alla maniera de La mia Africa, non faceva per Manganelli che detestava il «frigido e disonesto cliché cinematografico». L’incontro con l’Africa, non tanto quella mediterranea, ma quella delle terre aspre e solitarie oltre il Sahara è per lo scrittore scomparso nel 1990 qualcosa di ben più intimamente sconvolgente. «Il viaggiatore potrà non trovare città, villaggi, capanne, non incontrerà uomini per decine di chilometri».
È soprattutto l’Africa coloniale a lasciarlo senza fiato: ridisegnata con violenza dalle potenze europee, gli appare come «miraggio e incubo, nati dal nostro passato e dal nostro angustiato presente». «L’africano è prigioniero dei suoi luoghi senza confine». Con questa visione negli occhi di «un’Africa nera, magmatica, informale, che non ama il principio di non contraddizione» approderà in Grecia, trovando insopportabile il Partenone, frutto di un «gesto di violenza ragionevole nei confronti della stessa demonicità greca e rifiuto di Eleusi».

Le mani sulla città

Le mani sulla città. Quelle invisibili dell’ideologia neoliberista che, attraverso il braccio armato di palazzinari e costruttori senza scrupoli, sfregia il paesaggio e costruisce nuovi ghetti. Deregulation urbanistica, zooning, cementificazione ad oltranza segnano il volto del territorio. Gli esempi sono tantissimi, dalle interminabili periferie senza identità che assediano il centro storico di Roma, alla laguna di Venezia intossicata dalle grandi navi, fino alla crescita esponenziale e cacofonica di Istanbul, che annulla le millenarie radici multiculturali e cosmopolite di questa straordinaria città ponte fra Oriente e Occidente. Le mani sulla città, però, sono anche quelle, sapienti, della buona architettura, che sa immaginare e dare forma a edifici e quartieri che rispondono ad esigenze sociali e politiche, creando e ricreando spazi urbani a dimensione umana e collettiva. Influenzando positivamente la qualità della vita, progettando freespaces (per dirla con Yvonne Farrell e Shelley McNamara, curatrici della Biennale architettura 2018), riaffermando il binomio democrazia e sostenibilità. Di questi due opposti modi di mettere le mani sulla città ci occupiamo in questa storia di copertina, con reportage da metropoli simbolo di questa trasformazione epocale – Belgrado, Mosca, Istanbul, Roma, Austin, Shenzhen – e chiamando architetti, sociologi e urbanisti a confronto. Se è vero che il cambiamento rapido delle città è cominciato con l’industrializzazione stessa, è altrettanto vero che nel nuovo millennio le megalopoli stanno andando incontro a una trasformazione totale, sotto la spinta di un potente inurbamento(in questo quadro il diritto alla città diventa un tema assolutamente centrale).

Per averne un’idea basta dire che nel 1850 in città viveva circa il 3% della popolazione mondiale, mentre oggi la percentuale si aggira intorno al 54%. Secondo le previsioni nel 2030 si arriverà al 70%. Uno degli aspetti più drammatici di questa accelerata urbanizzazione è che più di un miliardo di essere umani vive in slums, mentre nelle grandi città occidentali – pensiamo per esempio alle banlieue parigine – sono sorte delle vere e proprie enclave separate. È il nuovo apartheid urbano che nelle metropoli americane (e non solo) separa minoranze ultra ricche da vaste maggioranze di poveri. Esempio lampante di questo conflitto che si è aperto fra architettura e democrazia sono i quartieri per miliardari circondati da mura, fili spinati, telecamere e strettissimi controlli. Se ne trovano in Messico, in Brasile, e perfino nella parte più alta di Hong Kong. Più spesso, anche da noi, le città sono contrassegnate da quartieri dormitorio, che formano una barriera, un confine definitivo, un capolinea. Come il Corviale a Roma. Un problema che non riguarda solo le periferie più povere: con la crescita esponenziale dello sprawl sono tanti i quartieri senza identità, senza piazze e luoghi di ritrovo che non siano centri commerciali. Marc Augé anni fa coniò il termine “non luoghi” per parlare di questi spazi commerciali e di transito standardizzati, omologati dalla globalizzazione.

Un fenomeno, la globalizzazione, che se da un lato ha democratizzato il turismo, rendendolo di massa, dall’altra sottopone centri storici allo stress di un numero esorbitante di visitatori. Il problema sorge in particolare quando città come Firenze vengono ridotte a una Disneyland dell’antico, sfrattando botteghe e servizi per gli abitanti, a favore del bric a brac delle multinazionali del turismo. Con tanto di ordinanze che impongono assurde norme di decoro urbano, come quella voluta dal sindaco Nardella, che vieta di sedersi sulle panchine a mangiare e bere dopo una certa ora. Misura che finisce per colpire solo i senza fissa dimora. Accanto alla “turistificazione” delle città cresce l’ostracismo verso i più poveri. Non è un caso se i centri storici di Venezia e Firenze continuano a perdere abitanti. Queste problematiche, che abbiamo affrontato con l’aiuto di storici dell’arte, archeologi e urbanisti, vengono approfondite qui da Paolo Berdini che, a partire dall’esempio di Barcellona, invita a una presa di posizione e a un nuovo impegno civico dal basso, per resistere e opporsi alla speculazione, alla privatizzazione degli spazi pubblici e all’annullamento della memoria che minaccia i centri urbani. Con lui Alessandro Coppola racconta di esperienze di nuovo municipalismo, mentre Corrado Landi scrive dell’importanza sociale del lavoro dell’architetto, basata sul rifiuto di logiche neoliberiste.

«Si è sempre costruito per politica, fin dalla polis, l’architettura è l’arte che ha il più immediato e necessario impatto politico» scrive Fabio Sani ne L’architettura e la morte dell’arte (1996). «Antonio da San Gallo, uomo colto e difensore dell’ordine costituito, progettava edifici per il potere politico. Michelangelo, indipendente e difficilmente controllabile, usava il potere politico per affermare le sue idee. La storia ci dice che l’architettura ha sempre avuto una valenza politica. Essa fa le scelte, ma è l’architetto che cerca una forma e ha il dovere etico di opporsi alla cattiva politica».

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 10 agosto


SOMMARIO ACQUISTA

Restituiamo una identità alle città

Nel 2014 Salvatore Settis in Se Venezia muore descrive il dilagare della monocultura del turismo in quella meravigliosa città e lancia l’allarme sulla concreta possibilità che, senza efficaci interventi, Venezia rischia di scomparire come entità urbana viva, per trasformarsi in un grande teatro dell’effimero, in cui fiumi di persone sciupano delicati campi e calli, mentre i residenti si assottigliano sempre più. Fino, estremizzando, a scomparire del tutto. E una città senza residenti, afferma Settis, perde la memoria, resta un set cinematografico, per sua natura finto. Le città sono costruzioni complesse generate da esigenze economiche. Sono plasmate della cultura artistica e storica che le caratterizza, ma sono figlie delle ricchezze che producono. Per oltre cinque millenni hanno saputo mantenere un equilibrio tra le esigenze produttive e quelle di mantenimento della popolazione residente, indispensabile a garantire il funzionamento di tutte le attività urbane. Anche quando in epoca moderna le città sono state investite dal fenomeno della grande industria manifatturiera, i processi di identità dei luoghi sono rimasti più o meno indenni. L’economia neoliberista sta sconvolgendo i paradigmi storici che hanno generato le città e sta causando fenomeni di omologazione di interi settori urbani.

Proviamo a declinare gli effetti urbani causati dall’economia dominante nel caso di Roma, capitale e città con dimensioni demografiche più grandi dell’intero Paese, iniziando proprio dal fenomeno più vistoso, quello della sostituzione della popolazione residente con le attività turistiche. Il turismo, comprensivo della filiera del commercio, e il sistema audiovisivo sono ormai il settore di punta della città. Nel 2015 ci sono state oltre 40 milioni presenze turistiche che, oltre all’accoglienza, hanno alimentato anche il gigantesco sistema di somministrazione di pasti e bevande, che ormai connota l’intero centro storico. Non siamo ancora arrivati alle punte veneziane, ma Roma è divorata da quello stesso modello economico. Per comprendere la discontinuità che si è prodotta, basta ripercorrere la storia della violenta trasformazione della città, che si ebbe con l’esplosione delle attività terziarie negli anni Settanta. Anche allora si produsse una forte richiesta di spazi per attività d’ufficio, che – in mancanza di una seria politica urbanistica – aggredirono gli spazi residenziali. Alloggi abitati da famiglie furono…

L’articolo di Paolo Berdini prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

La lezione di dignità e di civiltà dei rifugiati di via Scorticabove

Un'immagine di migranti in via Scorticabove dove alloggiano un gruppo di rifugiati, 10 luglio 2018 a Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Il 5 luglio i telegiornali hanno dato la notizia dello sgombero improvviso e senza avvertimenti di 120 titolari di protezione internazionale dall’edificio dove vivevano da anni. Prima era un centro di accoglienza, poi la cooperativa che lo gestiva si è ritirata (perché pare fosse coinvolta in Mafia Capitale) e gli ospiti sono rimasti a vivere lì. Arrivi in via Scorticabove e ti trovi davanti da un lato tante valigie disposte con cura per non ostruire il passaggio delle auto, dall’altro dei gazebo ordinati ai lati della strada con i letti disposti sotto, uno accanto all’altro (“davvero 120 persone dormono in questo piccolo spazio?” “si”, ti rispondono), un tavolo con delle sedie e una tv che trasmette una partita di calcio. Loro sono lì, dei signori puliti, sorridenti, ospitali, eleganti pur vivendo per la strada (una drammatica discordanza). Si vengono a presentare stringendoti la mano. Tagliano un cocomero e te lo offrono a più riprese, non puoi rifiutare, devi prenderlo. E sai che loro stanno per strada e tu non puoi fare molto, oltre a portargli acqua ghiacciata, frutta, quello che puoi.

Per fortuna cibo e acqua non mancano, tanti come te sono andati a trovarli, ma quello che provi stando qui è palpabile: stanno cercando di togliere loro la dignità di esseri umani. Sono tutti titolari di protezione internazionale. Tutti perciò in un modo o in un altro hanno vissuto in passato la violazione dei loro diritti umani. Nonostante ciò, questi signori eleganti sono riusciti a ricostruirsi una nuova vita qui da noi. Qualcuno parlerebbe di resilienza, ma c’è di più e oltre questo. Gli uomini che vivevano, e vivono ancora, in via Scorticabove hanno una cassa mutua dove coloro che lavorano versano qualcosa per permettere a tutta la comunità di vivere dignitosamente. Questi signori con la S maiuscola, non solo hanno superato le esperienze traumatiche vissute prima, durante e dopo la migrazione (richiesta di asilo, vita nei centri di accoglienza, ottenimento documenti e ricerca lavoro), ma hanno addirittura trovato un modo di vivere insieme perfino migliore di quello che vediamo oggi nella nostra società occidentale. Hanno trovato un modo di vivere con gli altri andando oltre le difficoltà materiali. Perché siamo tutti esseri umani e la naturalità con cui te lo sbattono in faccia è disarmante. Questi signori eleganti hanno fatto della resilienza del singolo una resilienza collettiva che è diventata la loro identità, andando dunque oltre il concetto stesso di resilienza intesa come capacità di ritorno allo stato precedente.

Il comune fino al 23 luglio ha offerto loro di separarsi e rientrare nel sistema di emergenza (centri di accoglienza per titolari di protezione internazionale). Ma loro ci sono già stati, significherebbe tornare indietro, non vogliono e non possono. Perciò sono rimasti in strada. Hanno proposto al comune una “co-progettazione finalizzata all’assegnazione, tramite bando o convenzione, di un bene pubblico in auto-recupero”. Lunedì 6 agosto il comune ha mostrato un’apertura verso la proposta, ma allo stesso tempo sembra che abbia l’intenzione di sgomberare i rifugiati anche dalla strada con la scusa che alcuni cittadini si sarebbero lamentati (di cosa che è l’occupazione di suolo pubblico più discreta e pulita che tu abbia mai visto?). Di fronte ad uno sgombero della strada ovviamente la comunità sarebbe costretta a sparpagliarsi. Sembra si voglia in ogni modo dividere questa comunità così efficiente e sana.

Se ci riflettiamo quello che ci appare davanti è uno scontro di civiltà: da un lato il Comune di Roma, con dietro tutti i suoi interessi economici o politici e le sue strategie per mantenerli, passando anche senza farsi troppi scrupoli sopra alle condizioni già precarie delle persone svantaggiate (vedi anche lo sgombero del Camping River); dall’altro una comunità di 120 titolari di protezione internazionale che hanno fatto veramente della necessità una grande virtù, creando un sistema in cui l’interesse personale di ognuno si identifica con l’interesse della comunità. Interesse non economico o politico ma per una vita dignitosa insieme ad altri esseri umani. Questo modo di pensare fa paura alle istituzioni che ormai hanno perso da tempo, salvo rarissime eccezioni, la loro vocazione sociale. Fa paura perché è un pensiero che potrebbe diffondersi e i cittadini si renderebbero conto sempre di più delle condizioni della propria città e questo porterebbe scontento. Quindi meglio eliminare ogni pericolo facendo sparire il problema, che in questo caso sono i nostri vicini sudanesi, o rom, o chiunque altro metta a rischio i nostri cari valori occidentali basati sull’individualismo e sul potere. Ecco cosa possiamo leggere dietro al non voler rinunciare dei nostri di via Scorticabove, a questo punto possiamo dire non alla loro casa materiale, ma alla loro capacità di vivere insieme, alla loro identità collettiva. Per questo stanno vivendo per strada e stanno resistendo attivamente uniti. Lì davanti alla loro casa, che ora è diventata la strada. Perciò andiamoli a trovare, per farci insegnare la vita.

*

Rossella Carnevali è una psichiatra e psicoterapeuta che da anni si occupa di salute mentale di richiedenti protezione internazionale e rifugiati

Dem Usa, continua la svolta progressista nel partito: ora Ayanna Pressley ci prova a Boston

È passato poco più di un mese da quando la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez nelle primarie democratiche del Bronx ha sconvolto il panorama politico. Il suo trionfo sembra aver scoperchiato il vaso di Pandora delle candidature negli Usa, dando coraggio e visibilità a tanti “americani col trattino” lasciati finora nella penombra della politica. Due casi interessanti sono emersi nelle ultime settimane: quello di Ayanna Pressley, candidata per il Congresso nel settimo distretto del Massachusetts, e quello di Abdul El-Sayed, che si è presentato alle primarie come aspirante governatore del Michigan.

Ayanna Pressley, 44 anni, nel 2009 è stata la prima donna di colore ad essere eletta nel Boston City Council in 108 anni di storia. Originaria di Chicago, è cresciuta solo con sua madre attivista politica, per aiutare la quale ha anche abbandonato momentaneamente gli studi per lavorare a tempo pieno. A differenza di Alexandria, la sua carriera politica è iniziata ai tempi del college. Per queste elezioni di midterm, ha deciso di provare a vincere il seggio al Congresso previsto per il distretto di Boston. Deve però prima fronteggiare alle primarie Mike Capuano, sessantaseienne Dem ben finanziato dai donatori e appoggiato dal sindaco di Boston e dall’ex governatore del Massachusetts. Capuano è l’attuale detentore del seggio al Congresso ed è molto apprezzato nel Distretto, attualmente soggetto a quello che in italiano chiameremmo “un imborghesimento” diffuso. Pressley ha denunciato come sia stata al centro di polemiche e accuse provenienti dall’ambiente politico del Massachusetts, all’interno del quale è stata tacciata di essere una traditrice perché non ha pazientemente aspettato che giungesse il suo turno di ricoprire una carica importante, ma ha deciso invece di sfidare anzitempo un mostro sacro come Capuano.

Grande appoggio è giunto, al contrario, da Alexandria Ocasio-Cortez, sia attraverso i social network sia tramite interviste e interventi ai comizi di Pressley. In un tweet pubblicato il giorno successivo al suo trionfo, Ocasio-Cortez invitava il Massachusetts a fare la differenza votando per Ayanna Pressley. Nonostante le similitudini, però, tra le due candidate ci sono anche alcune differenze. Innanzi tutto, Pressley non fa parte dei nuovi socialisti associati a Bernie Sanders, ma anzi nel 2016 faceva parte dei Dem che appoggiavano Hillary Clinton. Nonostante ciò, ha dichiarato in varie occasioni che non è l’establishment la soluzione per soverchiare la presidenza Trump, ma una rivoluzione del Partito democratico che parta dall’interno, aprendo le porte a una nuova generazione di politici.

Un profilo ancora diverso è quello di Abdul El-Sayed, medico trentatreenne figlio di immigrati egiziani e di religione musulmana. Prima di candidarsi come governatore del Michigan, El-Sayed è stato il più giovane direttore esecutivo del Detroit Health Department. La sua carriera accademica è stata a dir poco brillante, con laurea in medicina all’Università del Michigan e alla Columbia e una borsa di studio Rhodes, prestigiosissimo riconoscimento statunitense che gli ha concesso di frequentare anche l’Università di Oxford. Nonostante abbia dichiarato anche lui di non appartenere al movimento socialista, ma di essere piuttosto un rivoluzionario progressista, ha ottenuto l’endorsement non solo da Ocasio-Cortez, ma anche da Bernie Sanders in persona. Non sono mancate di accuse di essere legato ai Fratelli Musulmani e di voler portare la jihad nel cuore del Midwest.

El-Sayed ha bypassato le critiche, dichiarando che il mondo politico americano ha subito una grossa evoluzione grazie a un uomo chiamato Barack Hussein Obama, senza il quale il medico Abdulrahman Mohamed El-Sayed non avrebbe nemmeno potuto sognare di concorrere per diventare il primo governatore musulmano degli Stati Uniti. Il Michigan, d’altronde, è lo Stato con il maggior numero di arabi musulmani del Paese. In un’intervista rilasciata per The Nation, El-Sayed ha dichiarato che i nuovi Dem devono smettere di scusarsi per le loro idee e cambiare il panorama politico, smettendo di «giocare secondo le regole dei Repubblicani», cercando cioè di racimolare più fondi possibile ingraziandosi le grandi corporations. Alexandria Ocasio-Cortez ha presieduto a diversi suoi comizi, apparendo anche in alcuni manifesti accanto a El-Sayed. Alle primarie Democratiche del 7 agosto non ce l’ha fatta ma la sua battaglia, ha detto in un twitt, continuerà.

La vittoria di Ocasio-Cortez ha scatenato quello che la stampa americana ha definito più volte “un sisma” all’interno della politica americana. Un’importante risposta di novità all’oscurantismo proposto dalla presidenza Trump.

No, la povertà non è “naturale”

20090422 - ROMA -SOI-ISTAT: QUASI 2.5 MILIONI ITALIANI IN POVERTA' ASSOLUTA - Un anziano fruga tra i rifiuti del mercato di piazza S. Cosimato a Trastevere, a Roma. In Italia, circa due milioni e mezzo di persone vivono in poverta' assoluta. Sono i ''poveri fra i poveri''. Si trovano in questa condizione 975 mila famiglie, il 4,1% dei nuclei familiari. Lo stima l'Istat che oggi ha presentato un rapporto sulla poverta' assoluta riferito al 2007 e nel quale sottolinea che rispetto al 2005, ''la poverta' assoluta e' rimasta stabile e sostanzialmente immutata''. Il fenomeno e' concentrato al Sud dove la poverta' assoluta arriva a 5,8%; il Nord si attesta al 3,5 e il Centro al 2,9. ANSA /GUIDO MONTANI/ KLD

Forse potremmo, come gioco dell’estate, provare a recuperare in mezzo a questo chiasso le parole che ci siamo perse per strada, quelle che lentamente sono diventate tossiche senza che ce ne accorgessimo e alla fine ce le ritroviamo sofisticate come quella merce contraffatta di pessima qualità e di pessimo gusto di cui dovremmo accontentarci.

La povertà, ad esempio, è una parola diventata così terribilmente oscena che in pochi hanno il coraggio di pronunciarla. Per togliercela dagli occhi lo “sceriffo” Minniti decise addirittura di renderla illegale (tanto per rinfrescarci tutti la memoria su cosa ci ha portati fin qui) nelle vie delle nostre città. Ci farebbe bene vomitare il metanolo e provare a ripulirla, la povertà. No, la povertà non è naturale, innanzitutto. Non è naturale che esistano poveri per provenienza, per ceto, per mestiere o per meccanismi economici. Possiamo averne contezza, certo, qualcuno può anche accettarlo ma non è naturale, no. Foscolo nel suo Epistolario scriveva «Quaggiù la povertà è vergogna che nessun merito lava; è delitto non punito dalle leggi, ma perseguitato più crudelmente dal mondo». Eppure quella stessa parte di mondo che crea povertà alla fine è la stessa che più di tutti la disprezza. Scriverlo, anche solo dircelo, è liberatorio, di questi tempi.

La povertà non è accettabile. Per niente. E essersi abituati alla povertà è solo un’ulteriore aggravante del delitto. Come scriveva il premio Nobel per la Pace Muhammad Yunus «Se credessimo davvero che la povertà è inaccettabile e che non dovrebbe appartenere a una società civile, avremmo già costruito appropriate istituzioni  politiche per creare un mondo privo di povertà».

Ecco, si potrebbe partire da qui. E si rovescerebbe molto della narrazione che stiamo vivendo in questi anni nel mondo: ci si renderebbe conto che superare la povertà non è un atto di carità, come vorrebbero convincerci, ma è semplicemente un gesto di giustizia. E provate a pensare come spolverando una parola diventata così spaventosa si potrebbe iniziare a smettere di avere paura di ciò che non conosciamo piuttosto che temere ciò che crediamo vero e invece non lo è.

Buon giovedì.