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Dovunque vada, cerco gli zingari

20100119 - CLJ - ROMA - CASILINO 900: TRASFERIMENTO ZINGARI AL CAMPO DI VIA DI SALONE - La signora Anifa Osmanovich e la sua famiglia durante un momento del trasferimento dei zingari dal campo nomadi Casilino 900, uno tra i piu' grandi insediamenti d'Europa, all'area attrezzata di via di Salone, oggi 19 gennaio 2010 a Roma. ANSA / CLAUDIO PERI / DBA

«Non smette mai di emozionarmi che uno possa dire “vaffanculo” al mondo e praticare l’antica arte della raccolta degli stracci nel bel mezzo del post-moderno e del post-industriale. Le donne portano fardelli di ramoscelli legati insieme, gli uomini guidano carretti stracolmi di metallo di scarto, i bambini estraggono bottiglie dai rifiuti [..] Sostanzialmente questa gente fa quello che facciamo tutti: provare a sopravvivere. Soltanto, non se ne vantano, non compilano la loro storia, preferendo le leggende, le storie popolari, le fiabe trasmesse di generazione in generazione; i loro “c’era una volta” ai “il 13 dicembre di quel tal anno in Copenhagen”. E quindi dovunque vada, li cerco, cerco quella metafora vivente della cultura mediterraneo-cristiana, quella nazione senza terra, quella gente che, quando qualcosa è costruito, devono rifiutarlo, bruciarlo per divertimento o disperazione, e trasferire il loro regno portatile in un posto dove l’orda di europei bianchi ansima verso di loro con un po’ di odio in meno».

Andrzej Stasiuk (Varsavia, 1960) è considerato uno dei più importanti reporter e scrittori polacchi. La sua biografia si recupera facilmente online: qualche mese di carcere a scontare il reato di pacifismo nella Polonia socialista della legge marziale del Generale Jaruzelski, i viaggi, poi il ritiro nella piccola Czarne e la fondazione dell’omonima casa editrice, i viaggi. Stasiuk non ha mai subito il fascino dell’Europa occidentale; dopo il crollo del sistema comunista, non si è affrettato a visitare Madrid e Parigi, né tantomeno ha meditato di cercarvi fortuna come molti connazionali. È rimasto innamorato delle terre del defunto blocco orientale, quell’“altra Europa” che ha solcato indefesso in lungo e in largo, cercandole l’anima, rifuggendone le capitali patinate, irridendone ogni confine, passando lunghe giornate nelle bettole fumose di quei villaggi contadini di cui ha cantato la coriacea resilienza ai regimi e alle stagioni. In italiano sono stati tradotti alcuni suoi diari di viaggio e qualche saggio, ma non quello Jadąc do Babadag (On the road to Babadag, in inglese) da cui provengono entrambi gli estratti qui presenti (traduzione libera dell’autore). Tra il 2007 e il 2012 sono apparse le traduzioni di alcuni suoi brevi interventi a tema vario su L’Espresso.

Fedele al manuale dell’estrema destra perfetta, l’attuale esecutivo italiano ha iniziato ad attaccare i rom fin dai suoi primissimi vagiti, nel contesto della tradizionale crociata contro il diverso necessaria a distogliere l’attenzione dalle roboanti promesse elettorali che non potranno essere mantenute. Nella competizione per l’affermazione più meschina e ripugnante, è brillato, ça va sans dire, il ministro dell’Interno con il suo «Quelli italiani purtroppo dobbiamo tenerceli». Bordate di dati oggettivi probabilmente non servono a disinnescare questo meccanismo di discriminazione così collaudato: si è già scritto, e più volte, che i rom in Italia sono pochissimi (non raggiungono le 200.000 unità), che sono per la maggioranza cittadini italiani, e sono dunque a casa loro, che inoltre sono in diminuzione e particolarmente discriminati. Quello che serve, forse, è una nuova narrazione, uno sguardo differente.

La riflessione di Stasiuk si inserisce qui. Si posiziona al centro di quello spettro di posizioni che va dalla repressione della destra all’integrazionismo della sinistra, quell’approccio paternalista e ben intenzionato che informa i vari progetti di coesione sociale che abbiano come oggetto i rom, stanziali o meno. Iniziative lodevoli e comprensibili, specie di fronte al repulisti reazionario invocato dall’altra parte, che tuttavia rifiutano di confrontarsi con la diversità intrinseca degli zingari, che non di rado intendono preservarla. Stasiuk ha gli occhi dell’innamorato, non ragiona sulle policy necessarie e si perde a contemplare la differenza, quello stupendo e spaventoso disinteresse che gli zingari, l’Altro per antonomasia, esibiscono per lo stabile, il pianificato, il progresso e anche il progressismo di cui si fregia l’Europa. In fare questo, il bardo polacco riesce a fermarsi sulla soglia del romanticismo smielato, uno sguardo così popolare quando si parla delle doti musicali, dell’arte, dei riti comunitari antichissimi degli zingari e dei rom in generale ballando sulle note di Goran Bregović. Nei reportage di Stasiuk gli zingari sono le cicale del continente, un crogiolo di culture che si specchia in loro scoprendoli immancabilmente irriducibili, ineffabili, effimeri. Stasiuk colloca gli zingari a pieno titolo nel continuum della famigerata cultura europea, pur negli interstizi che scelgono di coltivare, spingendosi a sostenere che l’Unione Europea dovrebbe finanziarli e pagare le loro scorribande e a fantasticare di uno stato rom al posto della Slovacchia. Una posizione provocatoria, irrealistica, impopolare. In direzione ostinata e contraria rispetto all’agghiacciante “buon senso” odierno.

«Osservavo questo villaggio decadente, la spazzatura nel centro della piazza, la canonica e la piscina chiusi così timorosi dietro ai cancelli e decisi che era la vittoria degli zingari. Fino dal 1322, quando l’Europa notò per la prima volta la loro presenza nel Peloponneso, non erano cambiati. L’Europa aveva allestito nazioni, regni, imperi e governi, che erano ascesi e decaduti. Assuefatta all’ideologia del progresso, dell’espansione, della crescita, non poteva immaginare che la vita potesse essere vissuta fuori dal tempo, fuori dalla storia. Intanto gli zingari guardavano con un sorriso sardonico i parossismi della nostra cultura, e se si presero qualcosa per loro, furono la spazzatura, le case diroccate, l’elemosina. Come se tutto il resto non avesse alcun valore».

I rifugiati di via Scorticabove propongono un progetto di co-housing. E il comune li sgombera

È passato più di un mese da quando la Comunità di rifugiati sudanesi di via Scorticabove a Roma è stata sfrattata (senza alcun preavviso) dallo stabile nel quale viveva dal 2005. Una vicenda di cui Left si è occupato sin dal primo momento e che, durante questo periodo, ha visto tre incontri tra Comune e Comunità, nei quali l’amministrazione capitolina ha proposto perlopiù posti in strutture di accoglienza. Soluzione che non riconosce il valore di una comunità unita e portatrice di un’esperienza esemplare di autogestione, per la quale il ritorno nei centri di accoglienza sarebbe nient’altro che una regressione.

Soluzione di fronte alla quale la Comunità, già nel secondo incontro (del 23 luglio), ha risposto rilanciando con una proposta, presentata con maggiori dettagli nell’ultimo vertice del 6 agosto: l’assegnazione di un bene pubblico per partire con un’esperienza di co-housing e rigenerazione di uno spazio urbano. Un progetto che sta prendendo forma, realizzato dalla Comunità stessa con l’apporto delle tante, tantissime realtà solidali, non ultima Alterego-Fabbrica dei diritti, che presenterà a giorni un parere legale per sostenerne la fattibilità. Un’idea che muove le fila da una legislazione che permette esperienze di questo tipo, a cominciare dalla «Legge regionale n.11 del 2016 – come spiega a Left Federica Borlizzi di Alterego – dove si parla della possibilità di attivare esperienze di co-housing per le persone soggette a sfratto e la Legge regionale n.7 del 2017 nelle cui finalità si parla di favorire forme di co-housing per condividere spazi e attività».

Un progetto che ha le idee chiare anche riguardo alla copertura economica, con tre voci di finanziamento: il Fondo sociale europeo, il Pon (Piano operativo nazionale) e il Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione), con quest’ultimo che vedrà uscire un nuovo bando in autunno. Un progetto per il quale è stata chiesta al Comune una ricognizione dei beni pubblici inutilizzati dai vari municipi, nell’attesa della quale è stata comunque fatta una proposta riguardo ad alcuni immobili della Tenuta del Cavaliere, «un bene inutilizzato ma dato in gestione al dipartimento delle politiche sociali del Comune di Roma», come spiega Borlizzi, che oltre ad essere vicino al luogo in cui la Comunità risiede da anni, ha anche un terreno agricolo, che permetterebbe un’altra delle finalità del progetto: quella di fornire servizi e attività che valorizzerebbero le competenze dei ragazzi della Comunità.

E quindi agricoltura biologica, una futura start-up di agriturismo o ristorazione, magari specializzata nella cucina sudanese, perché «ci sono tanti ragazzi qualificati – come racconta, in un perfetto italiano, Adam, uno dei portavoce della Comunità – che magari in Sudan studiavano o non facevano questo, ma qui hanno imparato e conseguito attestati». Servizi e attività che si inserirebbero perfettamente nella logica del progetto, con il quale la Comunità, sulla base della legislazione in materia di rigenerazione urbana e recupero edilizio, richiede alle istituzioni l’assegnazione di un bene per renderlo fruibile anche alla collettività. Svolgendo al suo interno, oltre alle attività sopracitate, anche sportelli di orientamento legale, sanitario e lavorativo per richiedenti asilo, scuola di italiano, nonché un lavoro di recupero dello spreco alimentare.

Un’idea che sta ricevendo il supporto anche del mondo accademico, con la disponibilità a collaborare da parte di alcuni docenti della facoltà di Architettura dell’università Roma Tre. Un progetto di fronte al quale il Comune, rappresentato tra gli altri dall’assessore Laura Baldassarre, nell’incontro del 6 agosto si è dimostrato «disponibile in merito alla fattibilità di una co-progettazione finalizzata all’assegnazione, tramite bando o convenzione, di un bene pubblico in auto-recupero alla comunità», come recita il Comunicato della stessa Comunità.

Nel medesimo incontro però, il Comune ha riproposto per l’immediato la soluzione dei posti in strutture di accoglienza, annunciando anche un imminente sgombero del presidio di via Scorticabove. Prospettiva di fronte alla quale la comunità ha risposto con una domanda: «Se l’istituzione riconosce l’enorme valore sociale della nostra esperienza di autogestione tanto da dimostrarsi disponibile ad un percorso di co-progettazione finalizzato all’assegnazione di un bene, come può poi quella stessa istituzione non tutelarci dinanzi a uno sgombero oramai dato per certo?». Domanda in aggiunta alla quale la Comunità ha dichiarato che proseguirà la battaglia per veder riconosciuta la propria esistenza «convinti che una “soluzione ponte”, – si legge sempre nel comunicato – in attesa dell’individuazione dell’immobile, si possa e si debba trovare».

Immobile che è parte integrante di quel progetto che, a ben vedere, non rappresenterebbe neanche una novità. Parlando di autogestione di spazi e di servizi alla collettività infatti, tale progetto servirebbe “solo” a riconoscere appunto istituzionalmente quanto la Comunità sudanese fa già da anni. Da quando infatti, nel 2015, la Cooperativa che gestiva lo stabile di via Scorticabove se ne andò (risultando poi coinvolta in Mafia Capitale) e i Sudanesi, già in parte autorganizzati, aumentarono il loro impegno, creando gruppi di cucina, di pulizia ma soprattutto riqualificando lo stabile «con i nostri soldi – come racconta Adam – facendo molti lavori all’interno perché tra di noi ormai c’erano dei professionisti».

Una comunità che nel passato ha sopperito da sola all’assenza delle istituzioni, svolgendo anche funzioni per la collettività, «dando ad esempio – prosegue Adam – tutto il supporto, anche legale, a chi come noi era arrivato in Italia dal Sudan». Un nucleo di persone capace di mettere in campo importanti pratiche di mutualismo, come la cassa di mutuo soccorso. «Ogni settimana – racconta Adam – tutte le persone che lavorano mettono una certa cifra che va a comporre una cassa comune per quelli di noi che magari al momento non lavorano. Tutto per non lasciare nessuno in una situazione di fragilità».

Una Comunità ben inserita nel tessuto sociale, che ha ricevuto e sta ricevendo il pieno sostegno di associazioni e cittadinanza. E che, nonostante il trattamento ricevuto dalle istituzioni, continua a portare avanti la propria lotta nel pieno rispetto di quest’ultime, cercando sempre il dialogo. «Nel 2015 – ricorda ancora Adam – la Cooperativa andò via senza dirci niente. Non sapevamo il perché. Un nostro portavoce andò a chiedere spiegazioni in Comune, e soprattutto a domandare cosa avremmo dovuto fare. Ci dissero di aspettare. E noi aspettammo».

Fino allo scorso 5 luglio, giorno in cui, senza preavviso alcuno, arrivò lo sfratto per Adam e i suoi compagni, gettati di colpo in strada. Quella stessa strada dalla quale ora rischiano di essere sgomberati e da dove continuano a lottare «perché noi siamo autonomi – ribadisce Adam – non vogliamo tornare nell’emergenza dell’accoglienza». Una lotta che, nonostante tutto, procede con una solida certezza. «Non abbiamo occupato la struttura e non la occuperemo mai. Non faremo mai una cosa illegale». Un approccio che dimostra quanto sia forte e concreto, in questo gruppo di rifugiati sudanesi, il senso della parola dignità.

Nominala invano: la mafia secondo Salvini

"Un saluto dalla Fiera di San Fermo a Nerviano (Milano), dove ho incontrato, abbracciato e ascoltato centinaia di persone! Ne ho trovato uno, uno solo, che mi ha detto ?razzista, fascista?. È stato compatito e spernacchiato da tutti". Così Matteo Salvini su facebook. +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++ ++ HO - NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Alla fine gli è toccato scendere a Foggia. Dodici braccianti morti (sedici in pochi giorni) sono troppi anche per lui che vorrebbe per decreto cancellare i negri quando sono vittime e ripopolare invece gli stranieri delinquenti senza i quali non saprebbe come esistere. Così il ministro dell’inferno Matteo Salvini ha impegnato tutta la sua propaganda che riesce a mungere per invertire la realtà a proprio uso e consumo ma la sua conferenza stampa è un perfetto esempio dell’ignoranza con cui si approccia al fenomeno mafioso (come a molti altri) da perfetto piazzista.

Per sconfiggere la mafia foggiana, dice il ministro, svuoterà i ghetti poiché ancora una volta gli viene comodo convincerci che un problema si cancelli intervenendo sulle vittime piuttosto che sui carnefici. Secondo Salvini, in sostanza, nel Paese che da sempre ha le mafie inserite nei più alti livelli della politica e dell’imprenditoria il problema sarebbero i braccianti. Probabilmente Salvini pensa che i boss mafiosi (prendete quello che vi ispira di più: il super boss Matteo Messina Denaro o per restare in zona  i Libergolis di Monte S. Angelo, gli Alfieri e i Primosa, i Romito di Manfredonia e le famiglie dei Tarantino e dei Ciavarella di San Nicandro Garganico solo per dire alcuni) si occupino della raccolta dei pomodori come attività principale per accumulare ricchezze. Nel Paese di Andreotti, di Berlusconi tramite Dell’Utri, di Cosentino e dei suoi rapporti con i casalesi, il ministro ha trovato la formula magica per sconfiggere la mafia: svuotare i ghetti. Poi probabilmente proporrà di chiudere in casa le vecchiette per debellare gli scippi agli anziani.

La mafia secondo Salvini è un’entità che gli hanno raccontato da bambino, un uomo nero che basta chiudere gli occhi e pensare a qualcosa di bello per scacciarla via e un fenomeno che interessa la manovalanza piuttosto che le dirigenze. Non contano niente gli imprenditori che preferiscono la mafia allo Stato per non doversi fare carico dei diritti dei lavoratori. Non contano nulla gli ipermercati che la mafia costruisce (e talvolta gestisce) per ripulire il denaro. Non gli interessa, no. Forte con i deboli e debole con i forti.

E invece ha ragione Di Maio: nel foggiano (come in molte altre zone d’Italia) bisognerebbe riuscire a far rispettare la legge. E indovinate un po’ chi è il ministro preposto al rispetto della legge? Sì, lui, Salvini.

Buon mercoledì.

Stranieri in carcere, anche l’emergenza criminalità è un falso problema

20081211 - ROMA - POL - GIUSTIZIA: ALEMANNO, BISOGNA COSTRUIRE NUOVE CARCERI. Veduta dell'interno del carcere di Regina Coeli della Capitale in occasione dell'inaugurazione della pavimentazione della rotatoria realizzata dai detenuti stessi. Attualmente nel carcere romano ci sono circa 950 persone, il 60% delle quali stranieri e il 30% tossicodipendenti. Il primo cittadino ha affermato che ''bisogna costruire nuove carceri " ed è necessario spostare la struttura in un luogo, non troppo periferico per rispondere alle esigenze di magistrati e avvocati. ANSA/ ALESSANDRO DI MEO/ I50 / SIM

Sono sempre tanti in rapporto alla capienza regolamentare ma sono sempre in diminuzione gli ingressi in carcere: 764 persone in meno rispetto al 2017 e anche il tasso di detenzione degli stranieri si è ridotto di oltre due volte negli ultimi dieci anni. E, gli stranieri detenuti, sono diminuiti anche in termini assoluti: rispetto al 2008, il cui tasso di detenzione era pari allo 0,71%, nel 2018 è lo 0,33. Tanto per avere un’idea, il numero degli immigrati extracomunitari regolari in carcere – circa tremila – è il 5% della popolazione detenuta, pari ai reclusi di origine lombarda. Stessa proporzione fra italiani e ucraini che hanno un tasso di detenzione più o meno identico; di poco superiore è quello dei moldavi, degli etiopi, degli ungheresi e dei romeni che, negli ultimi cinque anni, sono addirittura diminuiti di mille e cento unità, nonostante sia aumentato il numero degli immigrati (romeni) presenti in Italia, rappresentando una comunità longeva e ben radicata.

Segno che il patto di inclusione paga e garantisce sicurezza, contribuendo alla diminuzione del rischio di commettere crimini. E qualora li commettano, stando ai dati del Rapporto semestrale sulle condizioni di detenzione, elaborato dall’associazione Antigone, sono meno gravi di quelli di cui si macchiano gli italiani: considerando il reato di criminalità organizzata, il 98,75% dei detenuti condannati è italiano e solo l’1,25% è straniero come il 5,6% degli ergastolani. Nel 57% dei casi, i detenuti stranieri sono meno informati sui loro diritti, percentuale che, negli italiani, scende al 21%. E se per gli italiani, i colloqui col difensore che precedono le direttissime avvengono in troppo poco tempo e senza la necessaria riservatezza, per il 25% degli stranieri arrestati, il colloquio non è stato proprio fatto, anche a causa dei ritardi degli interpreti, quasi sempre poco formati e mal pagati.

In mancanza della riforma dell’ordinamento penitenziario, che avrebbe consentito di trattare – almeno a livello normativo – la malattia psichica al pari di quella fisica, la presenza di persone detenute che necessitano di cure dei servizi di salute mentale è crescente: i disagi psichici sono le patologie più diffuse nelle carceri italiane. Un malessere così diffuso tanto che dall’inizio dell’anno sono stati trenta i suicidi dietro le sbarre. Compreso quello del 23 luglio, a Viterbo: Hassan Sharaf di ventuno anni, si sarebbe impiccato nella cella di isolamento, nella quale era finito per un reato compiuto (forse) quando era minorenne. E, quindi, caso mai, sarebbe dovuto essere in un Istituto di pena per minorenni. Nei quali, secondo i dati più recenti, sono detenuti quattrocentosessantuno ragazzi, di cui duecento stranieri, comprese ventinove ragazze. Non perché siano più delinquenti dei loro coetanei italiani ma perché sono la rappresentazione più tangibile della debolezza sociale del territorio in cui sarebbero dovuti essere presi in carico e dell’assenza di percorsi alternativi.

Ancora troppo pochi anche per gli adulti: per troppi detenuti, infatti, la pena si sconta tutta in carcere, riducendo all’osso i contatti con l’esterno e innalzando il tasso di recidiva. Su oltre 58mila reclusi, sono 28mila quelli in misura alternativa. Il numero è ancora insufficiente se si pensa, anche, che molti detenuti sono rinchiusi in luoghi lontani dai loro cari: a parte per la collocazione del carcere, che nel 56% dei casi è situato in aree extraurbane ed è difficilmente raggiungibile, le criticità nel collegamento si fanno insostenibili quando lo spostamento avviene dal sud al nord del Belpaese. E le pene alternative risolverebbero, pure, il problema della carenza di personale visto che il rapporto medio fra educatori e detenuti è pari a uno ogni sessantanove; i medici lavorano, mediamente, quarantotto ore ogni cento reclusi mentre per gli psichiatri le ore lavorate scendono a nove.

Nessuna emergenza in termini di criminalità tra gli stranieri, dunque. L’emergenza è tutta italiana.

iGod, quello che i fan di Apple non vedono (a Milano)

Apple store Milano

Apple ha aperto da poco, mirabilmente disegnato dallo studio Foster e in particolare dall’architetto Stefan Behling, un nuovo store a Milano. Si tratta del primo flagship store (negozio bandiera) in Italia della creatura di Steve Jobs e si insedia nella piazza Liberty al centro di Milano. Colpisce il pubblico la fontana dentro un prisma di vetro che porta luce al grande spazio ipogeo che ospita lo store. Essendo tutto sottoterra, il negozio lascia la piazza ad uso pubblico come lo è la grande scalea che dolcemente fa scivolare le persone dentro la grotta di Aladino con i luccicanti gioielli da Cupertino, California. Lungo la scalea Free wi-fi e spettacoli in occasioni particolari, quasi quasi come a Trinità dei Monti. Insomma i pellegrinaggi sono già partiti.
Dello store di Milano, da architetto, oltre la solita eleganza mozzafiato della costruzione e del ruolo così rilevante della pietra come nell’Ara Pacis di Roma di Richard Meier, colpisce quanto si può fare di intelligente con il sottosuolo! Pochi punti di emersione con lucenti corpi, intelligenti mosse di infrastrutturazione dello spazio pubblico, minimizzazione della cubatura emersa. Con poche mosse intelligenti si triangola. La chiave è una forte amministrazione che sappia contrattare e avere il massimo possibile dal privato.
Ora la questione pubblico/privato che l’Apple store qui presenta a piazza Liberty merita una domanda: Ma lo spazio pubblico è pubblico oppure intesse una relazione molto ambigua e molto particolare con il privato?
Nel passato lo spazio pubblico era spesso la proiezione fisica della potenza di una famiglia. Piazza Navona per esempio è incomprensibile nella sua attuale conformazione senza la presenza della famiglia papale dei Doria Pamphjli. Vi hanno sistemato tutta la parte ad occidente della piazza con il proprio palazzo, come non bastasse hanno costruito con Borromini, la chiesa di Sant’Agnese con tanto di enorme cupola, poi il sistema delle fontane, e sono intervenuti immobiliarmente in molti altri edifici della piazza. Hanno surclassato i Farnese ché non scherzavano a riverbo di potenza, nella piazza antistante il palazzo fortezza e anche i Barberini che sognavano una piccola Versailles sino a quella che sarà Fontana di Trevi. Ma non ci riuscirono e rimane solo il Tritone, a Piazza Barberini, appunto!
Quello che noi oggi chiamiamo spazio pubblico è il risultato formale che un privato dà alla sua idea di potenza, di conquista, di seduzione.
A volte una potente multinazionale crea spazi così pubblici e così belli che noi ne dimentichiamo “gli affari” dell’impresa. Il processo di fidelizzazione non l’ha inventato la Apple con i suoi store: è una lunga storia che ha tra le sue vette Santa romana chiesa. E il più geniale e grande momento di fidelizzazione si ha con il portico di Bernini a San Pietro.
Ora Milano con il nuovo spazio urbano che Apple “offre” alla città è un esempio di spazio pubblico fidelizzato come spesso, dicevamo, è stato. Ci vogliamo scandalizzare?

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L’architetto Antonino Saggio insegna Progettazione architettonica e urbana alla Facoltà di Architettura “La Sapienza” Università di Roma – www.arc1.uniroma1.it/saggio

È sangue, non è succo di pomodoro

+++ ATTENTION EDITOR GRAPHIC CONTENT +++ Un'immagine dell'incidente stradale avvenuto nei pressi di Lesina che ha provocato la morte di 12 braccianti, Foggia, 6 agoto 2018. I carabinieri hanno confermato all'ANSA che le cinque vittime dell'incidente stradale avvenuto nei pressi di Lesina, nel Foggiano, sono tutti extracomunitari di ritorno dal lavoro nelle campagne, dove avevano raccolto pomodori. ANSA

Ieri sulla strada statale 16, nella località Ripalta, nel territorio di Lesina, siamo nel foggiano, sono morti 12 braccianti in un incidente stradale. Lasciate perdere che siano migranti: l’unica razza qui è quella degli sfruttati, degli oppressi. Qualche giorno fa, sempre in quelle zone, erano morti in quattro, con una dinamica pressoché identica: gente sfinita, resa schiava dalla fatica pagata con pochi spicci e molti calci, ammassata in un furgone che li raccoglie come stracci dopo la raccolta di pomodori nei campi. Sono l’ultimo stadio del pendolarismo: si trascinano dai campi al letto e a un pasto sempre povero e il loro caporale è Caronte che li conduce nell’inferno. Anche questi dodici ieri li hanno estratti dalle lamiere, ogni tanto invece qualcuno si secca sotto il sole come accadde tre anni fa a Paola Clemente, 49 anni e tre figli morta di caldo per due euro a nero ogni ora.

Ora pensate alla bottiglia di passata di pomodoro che tenete nella vostra dispensa, quella che avete pagato sottocosto durante una delle tante offerte che urlano tra la carta della vostra cassetta della posta. La vostra passata di pomodoro (così come i trapassati di pomodoro morti in questi anni) è figlia di quella che gli addetti ai lavori chiamano aste al doppio ribasso. Funziona così: l’azienda della Grande Distribuzione Organizzata (molto probabilmente quella che risponde al nome dell’insegna del vostro supermercato di fiducia) indice un’asta chiedendo ai propri fornitori di pomodori di presentare un’offerta per l’acquisto di una grande quantità. Sulla base dell’offerta più bassa viene indetta una nuova asta in cui i fornitori hanno poche ore per ribassare ulteriormente il prezzo dei propri pomodori. Vince chi si prostituisce di più.

Ieri all’Eurospin una bottiglia di passata di pomodoro costava 39 centesimi. Chi ha pagato il resto? Il produttore strozzato strozza l’agricoltore, l’agricoltore strozzato strozza il caporale, il caporale strozzato strozza il bracciante. Figuratevi se rimane lo spazio per la dignità o i diritti, non scherziamo. Figuratevi se davvero c’è lo spazio per discutere delle nazionalità o del colore della pelle degli schiavi. E figuratevi quanto possano valere le vite di dodici persone che erano solo le loro ventiquattro braccia. Sottocosto.

Buon martedì.

Giochi pericolosi: delocalizzare in Africa le frontiere Ue

Più di 25mila persone riportate nell’inferno e 600 morti nel solo mese di maggio 2018. L’esternalizzazione delle frontiere – ovvero la collaborazione con i Paesi di origine e transito per espellere facilmente i migranti o bloccarli prima dell’arrivo – nuoce gravemente alle vite dei migranti ma anche ai diritti dei cittadini dei Paesi in cui sono state delocalizzate le frontiere della Fortezza Europa e non fa certo bene alle “democrazie” che vogliono rendere invisibili i profughi messi in fuga dalle loro stesse politiche commerciali. «Esternalizzare significa spingere le responsabilità giuridiche e politiche dei nostri Paesi più a sud nella cartina del mondo, alla ricerca di una totale impunità o nel tentativo di farla ricadere su altri Paesi». A tre anni dal vertice della Valletta dove furono sancite le linee guida dell’esternalizzazione, l’Arci fa un bilancio dell’impressionante subappalto europeo a regimi come quelli nigerino, sudanese, tunisino (sono più famosi gli accordi con Libia, Egitto e Turchia) per richiamare l’attenzione di società civile e governi sugli effetti negativi di queste strategie e le loro implicazioni in merito alle violazioni sistematiche dei diritti fondamentali di migranti e popolazioni interessate. Si tratta di “La pericolosa relazione tra migrazione, sviluppo e sicurezza per esternalizzare le frontiere in Africa“, un documento d’analisi curato da Sara Prestianni dell’ufficio Immigrazione dell’Arci nell’ambito del progetto di monitoraggio Externalisation Policies Watch che ha previsto missioni sul campo tra il dicembre 2016 e luglio 2018.

Tanto è devastante per i diritti umani, quanto fa bene ai bilanci dell’industria militare del Nord del mondo e al destino politico dei governi populisti e xenofobi che, «con la guerra ai migranti, alimentano l’immaginario di un nemico da combattere alle nostre porte, e che con la loro presenza nel continente africano si giocano la partita dell’influenza territoriale». “Aiutarli a casa loro” significa fornire carri armati ed elicotteri, sistemi biometrici e satellitari, eserciti e truppe: il rapporto segnala come il processo di esternalizzazione del controllo della frontiera europea in Africa sembra evolversi verso una predominanza della dimensione militare e della sicurezza. EucapSahel, missione “civile” per “modernizzare” le forze dell’ordine di Niger e Mali, da forza antiterrorismo è diventata centrale nella politica di gestione delle frontiere – poi ci sono le missioni militari italiane in Libia e Niger, quindi la forza congiunta G5 Sahel che – oltre ad un contributo di 100 milioni di euro – si è vista attribuire ulteriori 500 milioni di euro nel summit del marzo 2018. Si tratta di cifre ingenti che potrebbero essere usate per una reale politica di cooperazione allo sviluppo o di integrazione, come ha detto proprio a Left Selly Kane, responsabile Immigrazione della Cgil nazionale.

La militarizzazione dell’esternalizzazione, però, non solo serve a bloccare gli arrivi in Europa ma coincide con gli interessi dell’industria italiana della sicurezza e con la concorrenza interna all’Ue per una presenza geostrategica in quelle aree. La trasformazione di Frontex nell’European Border and Coastguard Agency è solo una delle tante proposte “suggerite” dalle lobby militar-industriali alla Commissione europea. Avverte il rapporto Arci (dal quale attingiamo con ampi stralci): «L’attuazione del processo di esternalizzazione deve essere osservato anche come esempio di riduzione dello spazio democratico all’interno dell’Europa stessa e degli Stati membri. Per molte delle attività e dei fondi attribuiti per l’attuazione di tali politiche è stato aggirato il controllo democratico del Parlamento europeo cosi come, a livello italiano, si è evitata la ratificazione degli Accordi Bilaterali da parte delle Camere, in flagrante violazione dell’Art 80 della Costituzione».

Che poi «le procedure di selezione e monitoraggio dei progetti finanziati dal Trust Fund risultino «non trasparenti e i processi di valutazione privi di coerenza» (come denunciato nel rapporto Concord) non sembra scuotere la coscienza dei governi europei avvezzi a scandali di vario tipo. Per questo il rapporto sottolinea «il compito fondamentale delle associazioni della società civile di analizzare queste politiche, riportando le responsabilità giuridiche e politiche ai diretti responsabili».

L’analisi dell’uso dei fondi europei e italiani per attività di controllo delle frontiere – anche grazie alla retorica “aiutiamoli a casa loro” – evidenzia una parte dei progetti finanziati con l’Eutf (Centro operativo Regionale di supporto al processo di Khartoum e all’Iniziativa nel Corno d’Africa) prevede la formazione di forze di polizia e guardie di frontiera, la diffusione del sistema biometrico per la tracciabilità delle persone e la “donazione” di elicotteri, veicoli e navi di pattuglia, apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio, «aprendo cosi alla relazione sempre più strutturata tra migrazione, sviluppo e sicurezza». L’obiettivo dell’istituzione del Fondo fiduciario era quello di ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei Paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo le rotte. Una strategia europea «drammaticamente efficace»: nel 2017 il numero di ingressi irregolari in Europa è diminuito del 67%. Una diminuzione che si accompagna ad una pesante riduzione del rispetto dei diritti sia dei migranti, in mare e in terra, che della popolazione di molti dei Paesi africani coinvolti. Italia e Ue hanno calpestato tanto le Convenzioni internazionali di cui sono firmatarie che i diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita. La chiusura della rotta del Mediterraneo ha portato l’Italia, grazie al contributo europeo, a subappaltare le operazioni di salvataggio alla Guardia costiera libica, pur cosciente, come evidenziato dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del profondo legame di questo corpo con le milizie, nonché delle violenze perpetrate sia in mare che sulla terraferma. La campagna denigratoria delle Ong che salvano vite in mare è funzionale alle politiche di esternalizzazione delle frontiere.

Se i migranti vengono esposti a rischi sempre maggiori non se la passano meglio i cittadini dei Paesi di transito contro i quali vengono adoperati gli “aiuti a casa loro” gentilmente forniti dall’Europa. Una dinamica visibile sia nel Mediterraneo orientale, fra Turchia e Siria (l’Ue è particolarmente affabile di fronte alla deriva dittatoriale di Erdogan suo partner nel blocco di profughi afgani e siriani), sia sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Armarsi per diventare il gendarme d’Europa è una scusa per rafforzare l’arsenale nazionale, spesso a discapito dei loro stessi cittadini. Un accordo tra Italia ed Egitto del settembre 2017, nell’ambito del progetto Itepa, prevede l’istituzione di un centro di formazione per alti funzionari di polizia incaricati della gestione delle frontiere e dell’immigrazione dai Paesi africani presso l’Accademia di polizia egiziana. Con buona pace della battaglia per verità e giustizia per Giulio Regeni.

Ricapitolando: i governi Ue hanno firmato accordi per legittimare i governi di tali Paesi chiudendo un occhio sulle violazioni dei diritti umani e finanziando e formando aguzzini già abbondantemente specializzati nella repressione e negli abusi dei diritti umani.

Il Sudan è al centro dello scacchiere delle rotte migratorie, luogo di transito obbligato per i migliaia di rifugiati del Corno d’Africa ma anche paese di origine. La collaborazione della Fortezza Europa con Al Bashir «è uno strumento di repressione dei rifugiati obbligati a transitare da quel paese per fuggire, ma anche per i cittadini sudanesi in Europa, a rischio di sistematica e delle popolazioni rimaste nel paese che, con il ruolo rafforzato del dittatore sudanese, rischiano un ulteriore aumento della repressione». Un attivista incontrato durante la missione effettuata da Arci a Khartoum nel dicembre del 2016 spiega: «Non ci sarà mai giustizia per il Darfour fino a quando i vostri Stati considereranno Al Bashir un interlocutore credibile per il controllo dei migranti invece di chiudere ogni dialogo con lui. Per Al Bashir l’esternalizzazione delle frontiere è un modo per far vacillare l’embargo economico e politico imposto dopo i molteplici mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.

Nel 2016 il dittatore sudanese ha dispiegato una nuova forza paramilitare – i Rapid support forces (Rsf) – alla frontiera nord con la Libia per il controllo dei migranti in uscita. Tra le fila dei RSF ci sono molti capi della milizia Jan Jaweed, tra le forze che più si sono sporcate le mani di sangue per l’eccidio nel Darfour e ora riciclati dallo stesso Al Bashir. Dalla fine del 2017 è stato annunciato il dispiegamento dei RSF anche nella regione di Kassala, nella zona di confine con l’Eritrea. «Di fatto la presenza di questi miliziani non fa altro che aumentare il numero d’interlocutori a cui i migranti sono obbligati a pagare tangenti e le violenze che sono costretti a subire». Refugees Deeply denuncia come personaggi chiave del regime sono i principali complici del traffico di migranti. Coloro che fingono davanti ai funzionari europei di controllare le frontiere sono di fatto coloro che gestiscono il passaggio. Una formula che l’Europa già conosceva all’epoca di Gheddafi che chiudeva e apriva le frontiere libiche «lucrando sulla vita di chi cercava di trovare rifugio, in nome della collaborazione con la UE». A Khartoum il clima di terrore che vivono i rifugiati eritrei è palpabile, vivono nascosti per evitare di essere arrestatie sanzionati o dalla polizia “dell’ordine pubblico” (di matrice islamica) che in tribunali speciali giudica comportamenti considerati illegali, o per aver violato il Sudan’s Passport and Immigration Act per cui incombono multe fino a360$. Il contributo europeo in Sudan per il controllo della migrazione ammonta a 200 milioni di euro. Nei campi avvengono continue incursioni da parte di sicari del regime di Afewerky o di trafficanti che rapiscono gli eritrei obbligandoli poi a telefonare alla famiglia in Europa, promettendola liberazione solo in cambio di soldi e progetti (come BMM e ROCK) consentono al regime sudanese di aggirare l’embargo di armi.

Il report è un pozzo di informazioni. Per esempio quella dell’accordo di polizia firmato il 3 agosto del 2016 dal capo della nostra Polizia Gabrielli con il suo omologo sudanese che ha permesso di attuare il charter Torino-Khartoum del 24 agosto carico di sudanesi, molti provenienti dal Darfour, arrestati in retate a Ventimiglia. Le autorità italiane sarebbero rimaste totalmente impunite per questa violazione dei diritti umani se non fosse per l’importante azione di Asgi e Arci che, in collaborazione con i parlamentari europei della GUE, hanno incontrato alcuni dei sudanesi espulsi da Torino portando il loro caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le polizie di Francia e Belgio si comportano proprio come quella italiana.

Il Niger è il principale beneficiario del Fondo Fiduciario Europeo per l’Africa – quasi 200 milioni di progetti finanziati ad oggi a cui si aggiunge la recente promessa di ulteriori 500 milioni nella regione del Sahel – e del nostrano Fondo Africa – 50 milioni di euro in cambio dei quali il Niger si impegna a creare nuove unità specializzare necessarie al controllo dei confini e nuovi posti di frontiera – così come dei fondi allo sviluppo: è ormai la frontiera sud dell’Europa, «il laboratorio più avanzato della politica di esternalizzazione». La criminalizzazione del “traffico illecito dei migranti” sancito nel 2015 obbliga a nascondersi chi tenta di andare verso l’Algeria o la Libia e in alcuni casi di imbarcarsi poi verso Italia e Spagna. I ghetti si spostano sempre più alla periferia della città, le partenze si fanno di notte e alla spicciolata. I costi del viaggio aumentano. Un ex passeur, citato nello studio, dice: «Se prima andare in Libia costava 150mila FCFA e in Algeria 75mila, ora, con l’aumento dei controlli ed il rischio i farsi arrestare, i prezzi sono saliti: 400mila per la Libia e 150mila per l’Algeria». L’Algeria ha risposto con sistematiche e violentissime retate di migranti ed il loro abbandono alla sua frontiera sud senza distinzioni in base allo status dei migranti. Il Teneré, come il Mediterraneo, si sta trasformando in un deserto di morte. Ma come spiega in un’inchiesta Giacomo Zandonini, in Libia, nonostante la criminalizzazione, si è continuato a entrare.

L’Ue, con il Fondo Fiduciario, ha cercato di proporre delle alternative di riconversione per spingere i passeurs a lasciare l’attività, ma a una cifra che risulta ridicola a fronte dei milioni di FCFA che un passeur poteva guadagnare trasportando uomini e donne nel deserto.

In Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo seppure ricco di materie prime qualiuranio, oro e petrolio, si fronteggiano anche gli interessi italiani contro quelli francesi. Bazoum, ministro dell’interno nigerino sta negando all’Italia l’accesso dei suoi militari nel nord del paese. Annunciata prima come operazione Deserto Rosso, poi rinnegata, la missione militare italiana in Niger è stata infine ripresentata al voto al Parlamento a Camere sciolte nel febbraio 2018, con un budget di 30 milioni di euro per 9 mesi di presenza di 400 uomini nel nord del paese. Riproposta dalla neo ministra Trenta con riferimento ad un eventuale appoggio agli americani che proprio ad Agadez stanno costruendo un enorme base per i droni armati. Lo stop alla presenza armata italiana è probabilmente legata ad una opposizione francese che non cede tanto facilmente la roccaforte di Madama, al confine con la Libia.

Infine la Tunisia, collaboratore dell’Ue nel ruolo di intercettazione dei migranti partiti dalle coste della vicina Libia e perciò rifornita di mezzi navali. Un contributo del Fondo Africa, istituito nel 2017, per un totale di 12 milioni di euro, è transitato dal MAECI al Dipartimento di Sicurezza del Ministero degli Interni alla voce “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La Commissione ha annunciato lo stanziamento di ulteriori 55 milioni di euro in Marocco e Tunisia in un programma che sarà gestito dal Ministero degli Interni Italiano e ICMPD (InternationalCentre for Migration Policy Development). Se la Tunisia dimostra un alto grado di collaborazione nelle attività di monitoraggio delle proprie coste e di identificazione dei suoi cittadini in vista dell’espulsione, sembra però rigettare l’idea di costruzione di punti di sbarco dei migranti partiti dalla Libia sul suo territorio. Asgi, Arci e l’associazione tunisina FTDES, nel maggio 2018, hanno monitorato le procedure di espulsione dei cittadini tunisini dall’aeroporto di Palermo. Numerose le violazioni dei diritti di cui sono stati vittime durante la loro permanenza in Italia, ed in particolare detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura – l’hotspot – che manca di base giuridica nella legislazione italiana, nonché spesso vittime di trattamenti degradanti. I tunisini lamentano la presenza di sonniferi nel cibo e l’inganno usato per l’espulsione, facendo credere loro che dopo il trasferimento a Palermo sarebbero stati poi liberati. Lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, a seguito del monitoraggio effettuato sulle operazioni di rimpatrio, esprime viva preoccupazione per la «pratica di non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria». A nessuno è stato permesso difare richiesta d’asilo in una logica assurda per cui l’Italia considera i tunisini provenienti da un paese sicuro, in contrasto con la convenzione di Ginevra per cui lo studio di ogni caso deve essere fatto sulla base della singola storia personale e non sulla base del paese di origine. Con i polsi bloccati da fascette di plastica, i tunisini sono scortati da due poliziotti ciascuno fino all’aeroporto di Enfidha, più discreto di quello di Tunisi. Spesso picchiati e insultati, vengono poi rilasciati, senza neanche un centesimo in tasca. Molti sono al secondo, terzo viaggio.

Illegittimo chiudere i porti e respingere i migranti: Amnesty international e Asgi si rivolgono a Mattarella

epa06863481 Activists place a lifejacket on the arm of Columbus monument in Barcelona as the rescue vessel 'Open Arms' arrives to the city, in Barcelona, Spain, 04 July 2018. A total of 60 migrants arrived on board the 'Open Arms' after they were rescued on 30 June 2018 near Lybian coast. EPA/TONI ALBIR

La chiusura dei porti italiani è illegittima, in qualsiasi caso, se rivolta a navi che hanno a bordo persone soccorse in mare che necessitino di sbarcare per avere cure urgenti, o che potrebbero avere diritto a richiedere asilo; ed è illegittima a maggior ragione in mancanza di provvedimenti formali, firmati dal governo, ove sia motivata soltanto dalle esternazioni di singoli ministri, che facciano riferimento generico a non meglio precisate questioni di ordine pubblico, tipo l’“essere sostenuti in maniera occulta da potenze straniere”, da parte delle imbarcazioni che si vorrebbe fermare. Illegittimo è anche considerare la Libia un porto sicuro dove ricondurre dei naufraghi che ne stanno fuggendo, senza rispetto per la possibile procedura di asilo, come pure rifiutare, da parte della guardia costiera italiana, di assumere il coordinamento dei soccorsi perché questi siano svolti dai libici.

Questi i punti più importanti affrontati in una lettera di allarme e denuncia, che un gruppo di associazioni e ong, tra cui Amnesty International, Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), Intersos, Sos Mediterranée, Medici senza frontiere e Oxfam, ha inviato al presidente della Repubblica, al governo italiano e, per conoscenza, al responsabile Unhcr dell’Europa meridionale e al Commissario per i diritti umani dell’Ue.

Nella lettera viene posto con forza e chiarezza il problema della mancanza, finora, di atti formali firmati di pugno dal governo italiano, in cui la chiusura dei porti, e le sue eventuali motivazioni, siano stabilite per filo e per segno; della possibilità di considerare la non tempestiva indicazione di un porto sicuro da parte della nostra guardia costiera come una violazione del diritto internazionale dei mari, e precisamente della convenzione Sar par. 3.1.9; della sicura violazione, in caso di permanenza prolungata sulla nave di persone che abbiano diritto a cure urgenti, in condizioni di promiscuità e sovraffollamento, dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (Cedu) – trattamento inumano e degradante cui possono essere sottoposti soggetti che si trovino in situazione di oggettiva dipendenza da un’autorità di polizia o simili- e, nel caso di minori a bordo, dell’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza- sulla prevalenza, in ogni situazione, del superiore interesse del minore-; della possibilità di configurare come un respingimento collettivo- vietato, ai sensi dell’art. 4 del protocollo n.4 del Cedu- il divieto di attracco a navi di ong cariche di migranti, in particolare per quello che riguarda la violazione delle norme sulla procedura che regola la richiesta di asilo politico, valide per Convenzione di Ginevra, Diritto comunitario, Costituzione e legge italiana; della dubbia legittimità delle motivazioni di ordine pubblico addotte per l’interdizione ai porti delle navi ong; delle svariate ragioni per cui, a tutt’oggi, non è possibile considerare la Libia un porto sicuro.

Facendo solo un breve accenno, e di sfuggita, ai casi forse più noti dell’estate, quelli della nave Aquarius e della Lifeline, la lettera propone all’attenzione tre casi esemplari: quello dell’interdetto ai porti per le imbarcazioni Proactiva e Abstral di Open Arms, del 28-30 giugno scorsi; quello della permanenza in rada a Trapani, tra il 14 e 15 luglio, della nave Protector di Frontex e del pattugliatore Monte Sperone della nostra Guardia di Finanza, entrambi partecipanti ad una missione di sorveglianza del Mediterraneo dell’Unione Europea, con 450 persone soccorse a bordo; quello della permanenza in porto senza permesso di sbarcare dalla nave Diciotti, a Pozzallo, tra l’11 e il 12 luglio scorsi, alle 67 persone soccorse a bordo, che erano state salvate giorni prima dalla nave Vos Thalassa.

Mentre nei casi di Aquarius e Lifeline si configura la mancata assegnazione tempestiva di un porto di sbarco, lasciata in sospeso con trattative infinite, che hanno costretto appunto i naufraghi – persone provate, traumatizzate, fra cui ci sono sempre donne incinte e minori, accompagnati e non – ad una permanenza a bordo, in condizioni di sovraffollamento e promiscuità, maggiore del dovuto, nel primo caso esemplare- quello delle navi Open Arms-, il divieto di accesso ai porti, anche solo per rifornimento o scalo tecnico, è stato disposto prima che le navi potessero raggiungere la zona operativa di soccorso nelle acque libiche, sembra proprio per impedire appositamente che potessero operare. Per la cronaca, tra il 29 e il 30 giugno, risultano più di cento dispersi, mentre la Proactiva ha salvato 59 persone il 30, e la Abstral 65, naufraghi che sono stati poi portati a Barcellona, rinunciando a qualsiasi logorante trattativa col governo italiano, che, nel frattempo, aveva già iniziato a rimpallarsi la responsabilità del coordinamento dei soccorsi con Malta, nonostante il salvataggio fosse avvenuto più presso a Lampedusa. La chiusura dei porti, nel caso in questione, era stata annunciata dal ministro dell’Interno Salvini il 28, quando le navi stavano facendo rotta verso la zona SAR al largo delle coste libiche, con motivazioni “di ordine pubblico, legate al fatto che queste navi sono finanziate in modo occulto da potenze straniere”. Tra il 29 e il 30 poi, mentre la Open Arms si ostinava a chiedere uno scalo tecnico alla guardia costiera di Roma, veniva diramata in serata una nota del Viminale, a firma dell’uomo di fiducia di Salvini, Piantadosi, in cui venivano ribadite con urgenza tutte le motivazioni di ordine pubblico addotte in precedenza, suffragate, se possibile, dall’eventualità di proteste di piazza per la presenza delle navi ong. Fatto sta che, costretta a procedere al minimo dal carburante ridotto, senza scalo tecnico per fare rifornimento, la Proactiva Open Arms non è potuta giungere tempestivamente sul luogo dell’Sos segnalato dalla capitaneria di Malta, nella mattinata del 30 giugno. E fatto sta che, al momento, ancora non risulta da nessuna parte il testo di un Ddl, a firma del ministro dei Trasporti Toninelli, che disponga, con le motivazioni del caso, la chiusura dei porti alle ong. Pare proprio, insomma, che un provvedimento tanto gravido di conseguenze, sia stato messo in pratica sulla sola scorta di mere esternazioni. Tra l’altro, fonti del ministero dei Trasporti avrebbero riferito che “Il decreto era in formazione la sera del 29, quando è arrivata la nota di Piantadosi, ed è evidente che sarebbe decaduto di lì a poche ore, quando Proactiva ha preso naufraghi a bordo, perché il decreto poteva valere solo per l’assetto della nave con il solo equipaggio a bordo”. Dichiarazioni importanti, che, se eventualmente confermate, porrebbero implicitamente un limite oggettivo alla chiusura dei porti. Il ministro Toninelli aveva già, in un precedente question time, dedicato alla vicenda Aquarius, dichiarato che “non c’è stata chiusura dei porti, ma solo la presa d’atto della disponibilità di Valencia ad accogliere la nave”, come se questa soluzione non fosse arrivata dopo ore e giorni di estenuante trattativa, giocata sul ricatto del divieto di approdo, con la nave in alto mare senza una destinazione, e con i suoi naufraghi tutti ancora a bordo, provvisti di viveri dalla guardia costiera, che nel frattempo aveva portato rifornimenti per gentile concessione del governo.

Avere disposto dei divieti così intransigenti, persino al solo fare rifornimento, a navi cariche di naufraghi soccorsi in mare, o che si accingevano a salvare persone in pericolo, sulla base di nessun atto scritto di legge, peraltro con motivazioni tanto strumentali quanto deboli, in fondo, potrà forse un domani essere motivo di azioni legali presso qualche corte di giustizia internazionale contro il nostro Paese. Che non ha l’obbligo legale di accogliere nei suoi porti navi che battano bandiera straniera, ma non quando queste trasportino naufraghi che necessitino di immediato soccorso. Per il diritto dei mari, inoltre, le imbarcazioni straniere hanno diritto al cd. passaggio inoffensivo, che implica, tra l’altro, che non si possa vietare uno scalo tecnico per fare rifornimento di carburante, adducendo pretesti strumentali come le non meglio precisate questioni di ordine pubblico che abbiamo visto sopra.

Da ricordare inoltre che, secondo quanto dichiarato dal responsabile di Open Arms Oscar Camps, alcuni giorni prima della vicenda descritta, domenica 24 giugno, sempre nella prima mattinata, la guardia costiera di Roma aveva segnalato, insolitamente, la presenza di sette gommoni al largo di Al-Khums, dove ha sede la guardia costiera libica e dove hanno base operativa le motovedette donate dall’Italia, in un’area, anche qui insolitamente, piuttosto limitata, di sole 5.7 miglia, come se i gommoni fossero partiti più o meno nello stesso momento dalla stessa località libica. Ebbene, anche in questo caso a Proactiva è stato impedito di giungere in zona tempestivamente, anche in questo caso tramite il divieto di uno scalo tecnico per fare rifornimento. Non solo: è stato impedito anche all’aereo che supporta solitamente l’ong nelle operazioni di ricerca in mare di fare rifornimento a Lampedusa. Il bilancio finale della giornata è stato di più di un centinaio di dispersi, perché pare che non tutti i gommoni siano poi stati recuperati dai libici.

Nel caso delle due navi Protector e Monte Sperone, invece, l’Italia sarebbe venuta meno all’obbligo di fornire porto sicuro e sbarco immediato addirittura nei confronti di navi partecipanti ad una missione regolata da accordi internazionali. Né rappresenta un’attenuante il fatto che ciò sia avvenuto per dar modo di esplicarsi alla trattativa con 8 diversi Paesi europei, circa il punto che ognuno di loro avrebbe dovuto prendere in quota 50 dei 450 naufraghi. Le associazioni che fanno capo alla lettera, pur condividendo il principio della ripartizione per quote dei richiedenti asilo tra paesi europei, definiscono il modo di procedere del governo italiano occasionale ed aleatorio. Infatti la ripartizione per quote dei richiedenti asilo dovrebbe essere un meccanismo permanente, il cui obbligo dovrebbe scattare con carattere di necessità, non essere affidato di volta in volta ad estenuanti trattative, sulla pelle di profughi ancora in mare, in situazione sovraffollata e promiscua, e urgentemente bisognosi di cure mediche, per cui la permanenza prolungata ad libitum in tale situazione può senz’altro costituire trattamento inumano e degradante.

Nel caso Vos Thalassa e Diciotti, come nel più recente caso Asso 28, torna il motivo della possibile intimazione a cedere i naufraghi salvati alle autorità libiche. A tal proposito la Libia, secondo l’IMO (International Maritime Organization), ha ora una guardia costiera, ma non un MRCC, un centro di coordinamento dei soccorsi, pertanto la sua aspirazione a rivendicare una zona Sar di proprio controllo è ancora una pretesa del tutto aleatoria. Secondo gli autori della missiva il respingimento in Libia, diretto od indiretto, ossia avvenuto tramite il rifiuto di assumere il coordinamento delle operazioni Sar, e consegnando di fatto il compito di tale coordinamento alla guardia costiera libica, si configura come un respingimento di gruppo, in cui, oltre a non dar modo al profugo di fare istanza di domanda, non viene fatto sì che ogni domanda possa essere valutata separatamente.

Molte sono, le ragioni per cui la Libia non è e non può essere considerata un porto sicuro: è un Paese nei cui campi profughi vengono compiuti soprusi sistematici, come più volte sottolineato da sentenze di tribunali, in particolare una, del 2012, della Corte di Giustizia Europea, che condanna l’Italia per avere attuato dei respingimenti di massa; è Paese ancora sconvolto da una grave guerra civile; non è dotata di infrastrutture particolarmente efficienti, ed in grado di accogliere in tempi ristretti un elevato numero di persone bisognose di soccorsi; non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra, e non dispone nemmeno di una procedura per la richiesta di asilo politico.

Si potrebbe ricordare ancora il caso dell’USS Trenton, di metà giugno, sia per le difficoltà – un iter di giorni – della nave militare americana nell’ottenere un porto di sbarco, sia per il tentativo delle autorità italiane di convincere tutti che quell’operazione di soccorso andava coordinata con la Libia.

Per quello che riguarda nave Diciotti tra l’11 e il 12 luglio scorsi a Pozzallo, come si ricorderà, i 67 migranti soccorsi erano accusati di avere dirottato il rimorchiatore Vos Thalassa, intenzionato a riportarli in Libia. Il ministro dell’Interno Salvini ha rifiutato il permesso di sbarcare alla nave già in porto, fintanto che non sono stati identificati gli autori del presunto ammutinamento. Anche qui, ci si può chiedere se la pretesa di Salvini giustificasse il supplemento di trattamento degradante inflitto alle persone rimaste a bordo. E se il suo atteggiamento non rappresenti un’indebita interferenza con le competenze della magistratura.

Solo il tempo ci dirà se i problemi evidenziati in questa lettera saranno materia di ulteriori controversie, sui mari, tra navi, barconi, guardacoste e capitanerie di porto, e a terra, tra procure e tribunali, avvocati e giudici, da una parte, e i palazzi delle istituzioni e del potere dall’altra.

Il sindaco Nardella e l’operazione “piazze vivibili”: Firenze diventa un fortino

Una delle scene più commoventi del film Amici miei di Mario Monicelli è quella del funerale del giornalista Perozzi, uno dei quattro amici compagni inseparabili delle famose “zingarate”, celebrato nella basilica di Santo Spirito che biancheggia sopra l’omonima piazza nel cuore del quartiere dell’Oltrarno a Firenze. È il 1975, e l’immagine restituisce la bellezza antica di quella che diventerà una delle piazze più frequentate dai turisti e dai residenti in cerca di svago serale, soprattutto nelle calde estati fiorentine. Il quartiere di Santo Spirito ha perso nel tempo il suo carattere popolare per diventare turistico e alla moda, dove ogni centimetro quadrato degli edifici è predisposto per soddisfare i palati, non troppo raffinati a dire il vero, dei visitatori.

Capita così che sempre più spesso i residenti, o i meno abbienti tra gli stessi turisti, si concedano una birra, o una pizza nel cartone, seduti semplicemente nei gradini del sagrato. Anche quest’anno il rituale delle serate a Santo Spirito si è ripetuto uguale a se stesso. Se non fosse che la giunta Nardella ha deciso di porre un freno alla “movida molesta” e al degrado firmando un’ordinanza con l’obiettivo di “restituire ai cittadini” alcune zone della città. A ben guardare l’ordinanza è solo l’ultimo tassello della campagna elettorale del sindaco in vista delle amministrative del 2019, giocata tutta sulla contrapposizione “legalità contro degrado”.

«Con il provvedimento ‘Piazze vivibili’ restituiamo le piazze ai fiorentini e sconfiggeremo degrado e malamovida» hanno annunciato l’assessore alla sicurezza Federico Giannassi e la vicesindaca Cristina Giachi alla presentazione dell’ordinanza, entrata in vigore lo scorso 28 luglio, e che riguarda cinque piazze degli altrettanti quartieri fiorentini, più Santo Spirito, e tre giardini particolarmente frequentati in città. L’ordinanza, in vigore per tre mesi, vieta tra le altre cose di sedersi sulle panchine e di dormire per strada quando si è ubriachi e di bivaccare nelle piazze e nei giardini per consumare cibo o bevande dalle 22 alle 8 di mattina.

Le reazioni delle opposizioni in Palazzo Vecchio non si sono fatte attendere: «Con un’ordinanza che dura tre mesi e poi svanisce, che riguarda solo nove tra piazze e giardini su oltre cento chilometri quadrati del territorio comunale, si crede davvero di risolvere i problemi dell’alcolismo molesto, dell’abbandono dei rifiuti e della maleducazione?».  tuona Tommaso Grassi, di Firenze riparte a sinistra.  «Si sposta il problema scimmiottando le proposte della Lega e delle destre. Se continuerete a rincorrere le emergenze, persino inventandone alcune,- conclude Grassi – ci sarà chi in campagna elettorale proporrà l’esercito ad ogni angolo. E sarete spazzati via». Potere al Popolo ha rincarato la dose: «Per noi il degrado è una città senza case per chi ne ha bisogno e una piazza senza gente».

Il sindaco Pd Dario Nardella in realtà non è nuovo a ordinanze sui generis di contrasto al cosiddetto “degrado”: nell’estate del 2017 aveva deciso di innaffiare d’acqua i sagrati delle chiese per evitare gli assembramenti  dei turisti. Con l’unico risultato, in realtà piuttosto prevedibile, di rinfrescare gli scalini e migliorare le condizioni di seduta ai visitatori stupiti. Rispetto ad un anno fa la situazione politica è però piuttosto cambiata. Non solo a livello nazionale, ma anche in Toscana, dove si è assistito alla débacle di tutte le amministrazioni di centrosinistra alle elezioni di giugno. È quindi con particolare timore che anche a Firenze si guarda alle elezioni comunali previste per fine maggio del 2019. In questo scenario da campagna elettorale anticipata, e che si preannuncia già tesissima, il sindaco Nardella ha iniziato a strizzare l’occhio a politiche fino a qualche tempo fa impensabili a sinistra.

A maggio di quest’anno ha proposto quella che è stata ribattezzata la «scala mobile della toscanità», ovvero l’idea di riconoscere ai nuclei familiari fiorentini la precedenza nell’assegnazione delle case popolari «per riequilibrare una concentrazione eccessiva di famiglie straniere». Con il risultato di ottenere il plauso delle destre, e un deciso stop dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Neanche due mesi dopo, a luglio, si è fatto immortalare vicino ad una ruspa mentre veniva sgomberato il campo nomadi del Poderaccio, nella periferia cittadina, salito tristemente agli onori della cronaca dopo la morte di un giovane ragazzo, Duccio Dini, investito dall’auto in corsa di due abitanti del Poderaccio. Nelle dichiarazione alla stampa, Nardella ha tenuto a precisare, stuzzicando il ministro Salvini: «Lui chiacchiera, mentre noi le cose le facciamo davvero» con tanto di video con la ruspa in azione.

Intervistato sull’argomento dal Corriere della Sera ha poi dichiarato: «Il ‘buonismo’ dei salotti di una certa sinistra ha lasciato il campo al “cattivismo” degli estremisti. Nel mezzo c’è un’autostrada che il Pd deve imboccare senza remore: non c’è solidarietà senza legalità». In molti si chiedono tuttavia dove sia la solidarietà nelle ordinanze e nelle dichiarazioni del sindaco. Il consigliere regionale di Sì Toscana a sinistra, Tommaso Fattori, ha obiettato: «Leggo che si vuol ‘restituire le piazze ai fiorentini’, ma in cosa consiste questa restituzione se non è possibile radunarsi fuorché ai tavolini a pagamento? Che cosa si dovrebbe fare in piazza? Ma questa ordinanza è anche rivolta contro le comunità straniere che si ritrovano nei parchi, a partire da quella peruviana che si riunisce alle Cascine nei giorni di festa. Allora ‘restituire le piazze ai fiorentini’ significa una cosa precisa: toglierle agli stranieri. Il bello è che Nardella, sempre più leghista, nel 2019 ci chiederà il voto per arginare i leghisti».

A protestare contro l’ordinanza “Piazze vivibili” non sono solo le opposizioni. A Santo Spirito, nei giorni passati, sono state organizzate una serie di cene in piazza contro l’ordinanza, anche ribattezzate “bivacchi resistenti”: «Questo provvedimento non è che l’ultimo di una serie di scelte politiche dirette a rendere il centro di Firenze sempre più invivibile per quegli individui che non sono vettori diretti di flusso di profitto, in sostanza per tutti i non ricchi e i non turisti» spiegano gli organizzatori. Nel libro Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza (Laterza 2013) Tamar Pitch, docente di Filosofia e Sociologia del diritto all’Università di Perugia, ha spiegato bene il senso ultimo delle ordinanze dei sindaci: «Esse sono in primo luogo esercizio di protagonismo, spesso del tutto simbolico, giacché la polizia municipale non è materialmente in grado di fare forse neanche la metà di quello che le viene richiesto. Ma sono anche e soprattutto messaggi da cui possiamo ricavare quale sia lo sporco che si deve eliminare o nascondere alla vista».

Il sospetto è che lo sporco siano sempre di più i poveri e i migranti.

Domenico Lucano: «Salvini non mi fa paura. Difendiamo il modello Riace»

TO GO WITH AFP STORY BY FRANCOISE KADRI The mayor of Riace, a village in the southern Italian region of Calabria, Domenico Lucano, awarded the "third best world's mayor", poses in his office in Riace on June 22, 2011. The village of 1800 inhabitants greeted a few years ago some 200 refugees and some 130 more will arrive in the next days with the mayor creating a special scheme for them and helping saving the village from a mass exodus. AFP PHOTO / MARIO LAPORTA (Photo credit should read MARIO LAPORTA/AFP/Getty Images)

Il sindaco di Riace Domenico Lucano protesta dal 2 agosto con uno sciopero della fame per il mancato trasferimento di fondi al paese che è diventato in tutto il mondo un modello di accoglienza dei migranti. A rischio la sorte di 165 rifugiati di cui 50 bambini. Pubblichiamo l’intervista uscita su Left del 29 giugno 2018.

Provo ad avvicinarmi alle prime file durante il suo intervento in occasione di una manifestazione che si è tenuta di recente a Reggio Calabria in ricordo di Soumayla Sacko, il sindacalista maliano ucciso il 2 giugno scorso. Si emoziona, sorride, incespica con le parole, preferisce leggere. La sua voce sottile, protetta dalla chiarezza interiore, è sommersa da una serie ininterrotta di applausi. Pochi lo ascoltano con attenzione ma non importa. Importa esserci. Importa la biografia, la sostanza, l’intima certezza che si è di fronte a un uomo che, sulla scia del poeta Robert Frost, ha scelto di percorrere «la strada meno battuta». Una scelta che arriva da lontano, perché Domenico Lucano «fin dai primordi ha lottato per un mondo migliore». Una frase solenne che in bocca a qualche intellettuale soft potrebbe suonare come vizio retorico, ma se a dirlo è il sindaco di Riace tutto cambia. Neppure il più fanatico reazionario potrebbe attribuirgli la patente di radical chic. “Mimmo” Lucano, che di certo non ha bisogno di presentazioni, ha inventato una vera e propria filosofia dell’accoglienza. Il «modello Riace» continua a stupire e innervosire l’establishment e i seguaci del cinismo. Nel piccolo paese che amministra c’è davvero posto per tutti: gli ultimi, gli sfruttati, i senza voce. Il suo obiettivo, infatti, è costruire una famiglia sempre più inclusiva, dove le differenze di sesso, di nazionalità e del colore della pelle perdono di significato. Ecco perché colui che è stato insegnante del laboratorio di chimica, da anni «sorvegliato speciale», è stato offeso dall’attuale ministro degli Interni che lo definiva uno «zero», e quando in un attimo di pausa gli chiedo dove trova il coraggio, si limita a indicarmi con il dito i volti della sofferenza.
Ma Salvini le fa paura?
Non ho paura di lui. È un uomo con le sue fragilità. Non l’ho mai incontrato né ci tengo a farlo. Però sono terrorizzato dal suo pensiero. Anche perché viene salutato con entusiasmo da una buona fetta della popolazione. Tanta gente della mia terra, com’è noto, ha premiato alle urne l’odio e l’intolleranza, e le politiche leghiste continuano a mietere successi. Non so dove andremo a finire di questo passo.
Che fare?
Difficile rispondere. È tutto così frantumato, disarticolato, atomistico. Non esiste una degna opposizione in Parlamento che possa contrastare la deriva xenofoba di queste ultime ore. Non dimentichiamo le scelte adoperate dai precedenti governi in tema di sicurezza e immigrazione, penso all’indirizzo muscolare di Minniti. Ciò che possiamo fare è combattere in favore degli oppressi e con ogni mezzo lecito. Insomma, siamo soli e abbandonati. La parola “resistenza” viene praticata da quattro gatti. Il resto è chiacchiera.
Quattro gatti che non hanno vita facile?
Mi indagano, mi controllano. La mia immagine dà fastidio. Lo trovo incredibile. Mi impegno per il bene, per l’«amore umanitario», per la pace, per asciugare lacrime innocenti che bussano con insistenza alle nostre porte e mi trattano come un criminale. Per questo oggi bisogna lottare non solo contro la «mafia ufficiale» ma anche contro quella mafiosità che serpeggia nelle istituzioni.
…E contro l’indifferenza.
Sì. I tristi episodi di razzismo, sempre più dilaganti, che a volte ci suggeriscono di unirci e protestare collettivamente, ci obbligano a scegliere. Non è più tempo per coltivare una zona grigia o sedere dietro le quinte. Non è il tempo di una terza via, di tiepido moderatismo, di neutralità. Dobbiamo dire che stiamo dalla parte delle nuove vittime. Dobbiamo urlare con forza che prima di ogni bilancio, di ogni numero, di ogni affaire vengono le persone senza stupide classificazioni.
Il problema, quindi, è «prepolitico»?
Siamo arrivati a un punto in cui occorre rivisitare i nostri fondamenti, rispolverare le pagine della Costituzione, riprendere le parole e gli accenti di chi ha lottato contro le vecchie forme della dittatura. In breve, servirebbe riutilizzare quel lessico che viene quotidianamente sbeffeggiato dall’incultura che ci pervade. Contro la nuova idea di apartheid dobbiamo ribadire la verità dell’inclusione. Come dico spesso, essere nati in Italia non è un merito ma è frutto del caso. Quindi nessuno può dirsi migliore di un altro per motivi di nascita e curriculum.
Sta esplodendo un nuovo fascismo?
Se pensiamo al censimento dei Rom e ad altre porcate mi verrebbe di rispondere a bruciapelo di sì. Ci vuole, inoltre, un bel coraggio a voltare le spalle a uomini, donne e bambini in balia di loro stessi, in un mare che da un momento all’altro potrebbe ucciderli, come è già accaduto e come temo si verificherà in futuro. Nondimeno, siamo in un’altra epoca e con altre narrazioni. Ripeto: bisogna scegliere. E non tra un centro-sinistra e un centro-destra. Ma tra i fondamentali e la barbarie che imperversa. Solo dopo aver vivificato i principi è possibile ripristinare una proficua dialettica tra le varie forze in campo.
D’accordo la lotta quotidiana per gli oppressi. Ma cosa servirebbe per cambiare il vento e respingere l’egemonia culturale della destra razzista?
Credo che tutto parta dal linguaggio. La cosa inquietante è che le volgarità propagandistiche che ci hanno accompagnato in questi ultimi mesi e anni, hanno assunto una veste istituzionale. Forse è questa la vera novità. Di solito chi assume incarichi di governo e ricopre ruoli di una certa responsabilità prova a rispettare l’appuntamento con la serietà, con il buon senso e si rivela rispettoso delle opinioni e delle storie o tradizioni altrui, convinto che la repubblica e la comunità si nutrono di una cooperazione civile sempre rivolta verso le aperture e non le barriere. In questa fase, al contrario, da noi come in alcune realtà europee, soffia il vento del male e sarà molto difficile riaprire una partita finora dominata dall’inganno.

Per approfondire, Left in edicola dal 12 ottobre 2018


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