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Il No di un anno fa è ancora più forte

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 12-12-2014 Politica Sciopero Generale. Corteo di CGIL e UIL Nella foto la manifestazione Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 12-12-2014 Politic General Strike. Demonstration by CGIL and UIL In the photo the demonstration

Dare una prospettiva ai giovani, combattere l’ingiustizia sociale, sostenere sviluppo e occupazione, investire in ricerca, in conoscenza, per studiare vie di uscita dalla crisi, non solo economica, in cui versa il Paese. Sono alcune delle molte questioni dirimenti che vorremmo fossero affrontate in questa campagna elettorale già cominciata. Malissimo. Forse siamo ingenui, ma non ci saremmo aspettati l’oltraggio dell’elemosina di 80 euro proposti dal segretario del Pd, Matteo Renzi, alla Leopolda8. Un brivido è corso per la schiena alle sue parole: «Un Paese in cui non si fanno figli è un Paese senza futuro». Dare figli a dio e alla patria è il giogo a cui le donne sono state sottoposte in tutte le dittature. Il pensiero corre al clerico-fascismo con cui l’Italia non ha mai fatto davvero i conti.

Ma tornano alla mente anche tristi episodi del passato recente, come gli inaccettabili manifesti che il ministro della Salute Lorenzin fece realizzare a spese del contribuente per pubblicizzare il Fertility Day. L’ex premier Renzi che paternalisticamente incoraggia i Millennials a provarci rischiando di «battere boccate» fa da pendant a Berlusconi che propina narrazioni tossiche in prima serata nel salotto tv di Fazio: «Dell’Utri? Un padre della patria, un grande bibliofilo». Come se non fosse stato condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto garante dell’accordo fra il Cavaliere e Cosa Nostra tra il 1974-92. Come se non fosse stato rinviato a giudizio per peculato nell’ambito del saccheggio della Biblioteca Girolamini ad opera del direttore De Caro oggi anche lui in prigione. Un profluvio di fake news, senza che il conduttore di Che tempo che fa proferisca parola. Neanche quando Berlusconi lancia la bufala della pensione di mille euro per tutti e dice di voler togliere l’Iva al cibo per cani, pensando agli ottantenni; gli altri, poveretti, certo non lui che si sente un quarantenne. Vent’anni e passa di Drive in ci hanno rincoglionito tutti?

Oppure questa stolida pantomina, questo smaccato schiaffo al Paese reale che non ce la fa ad arrivare a fine mese (ma che non ha smesso di lottare) potrebbe nascondere una buona notizia…. Pensiero stupendo, nasce un poco strisciando, ma a poco a poco si fa sempre più strada. Fino a prendere forma e concretezza incontrando tenaci esponenti della pur frammentata sinistra italiana, laica e non arresa; non leader e leaderini cresciuti “in serra”, ma militanti che fanno politica nei territori, nelle associazioni anti razziste, per la difesa del paesaggio e dell’arte. Pensiero stupendo che prende forza tuffandosi nella manifestazione contro la violenza sulle donne organizzata da Non una di meno. E si libra quando veniamo a sapere che la Cgil ha rifiutato l’indecente proposta del governo sulle pensioni che punta a creare uno scrontro fra generazioni diverse.

Un “no” che è costato la rottura dell’unità sindacale, ma che con le mobilitazioni al via il 2 dicembre assume un senso che va ben al di là della pur importantissima questione pensioni. È un sonoro no alle politiche di questo centrosinistra che, invece di riformare il fisco, tagliare spese militari e recuperare l’evasione fiscale sceglie di reperire risorse a scapito dei diritti dei giovani, delle donne, dei soggetti più fragili. Un sonorissimo no che evoca quello che si levò un anno fa, il 4 dicembre, in particolare dai giovani riuscendo a fermare la controriforma costituzionale Renzi-Boschi-Verdini. Anche la Cgil fece campagna per il no.

E ora la segretaria generale Cgil, Susanna Camusso, commentando il tentativo di Renzi di bypassare sindacati e corpi intermedi dice: «Pensare che si possa governare società complesse, come sono quelle del secolo in cui viviamo, senza la rappresentanza è un’idea completamente sbagliata, sul piano democratico, sul piano del consenso, del riconoscimento, della partecipazione. Come spesso accade la realtà poi si incarica di togliere di mezzo le fantasticherie, come quella dell’uomo solo al comando. Le società complesse hanno bisogno di partecipazione, di collegialità, di collettività, di costruzione di meccanismi di solidarietà».

Pensiero stupendo: nonostante la truffa del Rosatellum passato a colpi di fiducia, la sinistra potrebbe ritrovare le gambe e correre. Qualcuno parlava di sindacato cinghia di trasmissione. Forse è solo un sogno. Intanto cominciamo a rimboccarci le maniche dedicando la storia di copertina al diritto alla salute con il contributo della Cgil funzione pubblica e del nuovo segretario generale Cgil medici, Andrea Filippi, a cui facciamo i nostri migliori auguri di buon lavoro.

I crimini nella ex Jugoslavia: 24 anni di udienze per il Tribunale dell’Aja

BOSNIA: MOSTAR, QUEL PONTE CHE DOVEVA RINASCERE. The famous Old Bridge in the southern Bosnia-Herzegovina's city of Mostar is officially reopened Friday, 23 July 2004, almost 11 years after it was destroyed during the country's 1992-1995 war. The 27-meter-long arched Mostar Old Bridge was built in 1566 by a Turkish architect during the Ottoman Empire rule in Bosnia-Herzegovina, and was destroyed on 9 November 1993, when Bosnian Croat troops shelled one of its legs. At that time the Old Bridge was under the UNESCO's protection as a monument of an exceptional artistic and structural value. ANSA - FEHIM DEMIR - KRZ

E ora, dopo il suicidio dell’ex comandante croato Praljak, si cerca di capire, si rifà la storia. E ritorna quella storia, infinita e tragica, della guerra nella ex Jugoslavia. Ritorna proprio a un mese dalla chiusura del Tribunale penale internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia. Ventiquattro anni per indagare e giudicare.

Con i capelli bianchi, il viso rubizzo, si alza in piedi. Il giudice intima: “Stop and sit down”. Si sieda e la smetta. Lui comincia a parlare di se stesso in terza persona: «Slobodan Praljak non è un criminale di guerra. Io rifiuto il giudizio della corte». Lo ha detto in croato. Senza esitare apre la bocca e beve. «Io ho bevuto il veleno». Sono le sue ultime parole. Gli occhi del giudice dell’Aja sono sgranati. Era l’atto finale di un processo durato decenni, con centinaia di testimoni, migliaia di ore di ricerca al tribunale internazionale per i crimini dell’ex Yugoslavia. Non ha vinto la pena della giustizia, la condanna a venti anni di prigione, ma la morte. Il suicidio.

Praljak, l’ex comandante croato della guerra balcanica, si è suicidato davanti agli occhi del giudice Serge Brammertz e del resto del mondo. L’aula della Corte, da culla della giustizia, è improvvisamente diventata una scena del crimine per la polizia e gli investigatori dei Paesi Bassi. “Please, the courtains” dice il giudice. Come a teatro, il sipario che divide l’aula dal pubblico, dove sedevano le vittime e i testimoni, è stato calato, dopo che la fiala di veleno è stata svuotata d’un colpo. Prima della guerra, era questo che faceva Praljak: lo scrittore, il regista, a teatro e per il cinema. Il sangue balcanico e la storia lo hanno reso un generale. Poi un imputato: di pulizia etnica, incitamento all’odio religioso, detenzione.

Nessuno sa ancora come è riuscito ad ottenere l’ampolla di veleno che si è portato alle labbra in un solo gesto convinto del braccio e ha ingoiato in un sorso, in una stanza ad altissima sicurezza. Se l’ha ottenuto lungo il percorso dalla prigione al tribunale, se famiglia, amici, avvocati sono riusciti a farglielo avere, nonostante i controlli della sicurezza durante le ore di visita. Il processo è stato sospeso, il generale è morto a 72 anni nell’ospedale olandese dove non sono riusciti a salvarlo, perché l’effetto del liquido è stato quasi istantaneo.

È il terzo suicidio del tribunale dell’Aja, la terza volta che un prigioniero sotto processo per la guerra degli anni 90 si toglie la vita, ma è la prima volta che un imputato lo fa nella maniera più plateale possibile. Negli ultimi 24 anni sono stati soprattutto i serbi ad ascoltare in cuffia il giudizio della corte, una decina i croati, nessuno delle forze bosniache, nonostante tutti abbiano partecipato, croati compresi, alla pulizia etnica orchestrata da ogni lato, su terra bosniaca quando la disintegrazione dell’utopia di Tito cominciò.

Praljak era entrato nell’esercito croato come volontario, era diventato comandante nel 1991, appena il Paese dichiarò l’indipendenza, per essere spedito a capo delle forze che combattevano in Bosnia. Da quella stessa aula è uscito pochi giorni fa Mladic, tra quegli stessi banchi doveva sedersi Franjo Tudjman, presidente croato, che è morto nel 1999, prima che il tribunale riuscisse ad emettere una sentenza. Durante il lungo assedio di Mostar, una delle città più multietniche dell’ex Yugoslavia, lo scrittore armato è stato una delle figure chiave nella distruzione della città bombardata, la cui caduta fu propagandata in Croazia come una vittoria nazionale. Quando il ponte del XVI secolo andò in pezzi, il simbolo di pietra diventò quello della distruzione di uno Stato intero, mentre i croati imprigionavano diecimila non-croati, soprattutto musulmani, ma anche serbi e rom, per stuprare, torturare e uccidere anche vecchi e bambini.

Il vecchio ponte di Mostar, lo Stari Most, ora è nuovo, riedificato in base allo stesso disegno originale nel 2004, come se gli obici del 1993 non l’avessero mai distrutto. L’ordine di farlo saltare in aria lo diede l’uomo che ha bevuto il veleno all’Aja. Ieri notte per le strade gelate della Croazia la gente marciava con il suo ritratto illuminato dalle candele, come se si trattasse di un martire. Perché la verità, nonostante i vent’anni passati, non è ancora una. Comincia l’ultimo giorno per il tribunale, istituito dalle Nazioni Unite nel 1993. Con 161 atti d’accusa, i giudici hanno sentito più di 5.000 testimoni e emesso 103 condanne, di cui 78 con molto anni di detenzione e 5 ergastoli, ma anche 19 sentenze assolutorie. Il suicidio di Praljak quasi come atto finale, aleggerà sugli ultimi trenta giorni di attività, poi la Corte chiuderà i battenti e il sipario calerà per sempre sulla guerra.

Andrea Filippi (Fp Cgil Medici): La salute non è una merce

La Costituzione parla di diritto all’accesso alle terapie, ma in molte aree del Paese è un diritto difficile da esercitare. Il sistema sanitario pubblico, grande conquista democratica, funziona a macchia di leopardo. Che fare per dare finalmente piena attuazione all’art.32?

«Nella Costituzione non si parla esclusivamente di accesso alle terapie, ma di tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo nell’interesse della collettività, garantendo accesso alle cure a tutti i cittadini», precisa lo psichiatra Andrea Filippi, neo segretario dall’1 dicembre di Fp-Cgil Medici. «Questo è un paradigma di grande valore culturale che – sottolinea Filippi – dobbiamo recuperare: la salute è un bene fondamentale che va protetto per lo sviluppo della persona e della collettività». A ben vedere, aggiunge «la legge di riforma sanitaria 833 del 1978 andava proprio in questa direzione; si costruivano le basi di un sistema sanitario che per prima cosa avrebbe dovuto promuovere e tutelare la salute come bene primario della società: prima la prevenzione su tutto il territorio nazionale e poi accesso alle cure per tutti secondo i principi di “equità”, “universalità” e “solidarietà”. Era un articolato molto ben congeniato e oggi in gran parte disatteso. La crescente preoccupazione della sostenibilità economica del Ssn ha stravolto il senso di quella riforma e la salute da bene primario è diventata una spesa. Con le riforme successive, l’aziendalizzazione e la deregulation, oltre a frammentare il sistema si è scelta la strada di anteporre l’economicismo ai diritti. Oggi è necessario recuperare i progetti, i programmi, ma soprattutto i valori della 883 del 1978.

La salute, fisica e mentale, dei cittadini può essere trattata alla stregua di una merce come prevede l’aziendalizzazione in atto nella sanità?

È proprio questo il problema: con la legge 502 del 1992 e la trasformazione delle Usl in aziende sono stati introdotti meccanismi economico gestionali autonomi con l’unico scopo di amministrare e controllare la spesa sanitaria. In realtà si è prodotta una mercificazione della salute: da una parte le dinamiche concorrenziali proprie del mercato libero hanno mortificato la sanità pubblica a favore di quella privata, dall’altra è stata smarrita la visone d’insieme del sistema. Le aziende oggi ragionano come monadi che pensano solo al budget annuale e di conseguenza al risparmio. Nessuno vede più la salute come un bene su cui investire, si pensa solo a contenere il più possibile la spesa. Bisogna invertire la tendenza, ma per far questo è necessario recuperare l’idea, smarrita, della salute come valore fondamentale e non come merce.

Questo naturalmente è un discorso generale che riguarda anche l’istruzione, la cultura ed il lavoro. La Cgil è in prima linea su questo fronte, per questo il governo Berlusconi prima e Renzi poi, si sono tanto impegnati nel contrastare il lavoro dei sindacati che oggi rappresentano le forze sociali più vitali del Paese.

Quali modelli alternativi proporre?

La promozione della salute e la prevenzione in primis. Con l’aziendalizzazione si è prodotto un sistema sanitario per cosi dire “ospedalocentrico”, le risorse sono concentrate per il 90% sugli ospedali e sulle cronicità a scapito della prevenzione e dell’assistenza sanitaria territoriale, perché da un punto di vista strettamente gestionale, ma se volete anche elettorale, è più impopolare un pronto soccorso che funziona male, di un servizio di prevenzione chiuso. Riqualificare i servizi territoriali, rivedere l’organizzazione della medicina convenzionata, istituire programmi di prevenzione e di promozione della salute, integrare i distretti, i Comuni e le aziende sanitarie, ma soprattutto recuperare il valore delle professionalità del Ssn, ancora oggi tra i primi al mondo per competenza e dedizione. È solo grazie ai professionisti della dirigenza e del comparto che la nostra sanità è ancora tra le prime quindici al mondo nonostante l’inarrestabile definanziamento.

Ci sono già modelli o progetti pilota che funzionano?

Sono quelli messi in campo dalle iniziative proprio dei professionisti con la costituzione di reti di servizi territoriali ospedalieri ed universitari, attraverso i quali vengono coniugate prevenzione, cura e ricerca.

Esistono però modelli che per quanto non appartengano propriamente ai servizi pubblici, potrebbero rappresentare un esempio da mutuare dal nostro Ssn, per la loro offerta libera e realmente democratica: mi riferisco naturalmente ad Emergency che oggi è diffusa anche sul territorio nazionale e a quella esperienza unica nota come Analisi collettiva di Massimo Fagioli che in psichiatria ha saputo coniugare la cura con la formazione e la ricerca. Una sfida per il futuro?

A proposito di Scalfari. E Berlusconi

Silvio Berlusconi ospite della trasmissione "Che tempo che fa" condotta da Fabio Fazio su Rai1, 26 novembre 2017. ANSA / MATTEO BAZZI

Silvio Berlusconi è stato rinviato a giudizio a Siena. Il gup Roberta Malavasi ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla procura nell’ambito dell’inchiesta sulle “feste” in casa Berlusconi, che ha coinvolto la nota “Ruby Rubacuori”. A Siena, infatti, si sarebbe compiuto il reato secondo cui Berlusconi avrebbe pagato Danilo Mariani, pianista delle feste di Arcore, per indurlo a falsa testimonianza sul caso olgettine.

Mariani, in breve, ha dichiarato che alle famose feste in casa Berlusconi non c’era nessun contatto fisico, non c’era nulla di terribilmente alcolico e, soprattuto, ha raccontato come Silvio si comportasse da “buon padre di famiglia” e “padrone di casa”. Peccato che poi l’Immobiliare Dueville (al tempo controllata da Berlusconi e da alcune società del gruppo Finivest) abbia acquistato un’abitazione proprio al testimone Mariani. E resta da capire cosa fossero quei bonifici mensili (3.000 euro al mese) che arrivavano sul conto corrente del testimone.

Nulla di nuovo, comunque. Berlusconi fu quello che nel Processo Mediaset venne condannato per frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita, creazione di fondi neri (gestendo i diritti tv di Mediaset) con sentenza della Corte di Cassazione del 1 agosto 2013, a 4 anni di reclusione, di cui 3 condonati per effetto dell’indulto disposto dalla legge 241 del 2006. Questo per parlare delle condanne definitive, poi ci sarebbe da discutere dei reati estinti per prescrizione (Lodo Mondadori, corruzione giudiziaria;
Bilanci Fininvest 1988-1992, falso in bilancio e appropriazione indebita relativi ai bilanci Fininvest dal 1988 al 1992; All Iberian 1, 23 miliardi di lire di finanziamenti illeciti al Psi di Bettino Craxi; Consolidato Fininvest, falso in bilancio; Caso Lentini, falso in bilancio; Tangenti a David Mills, corruzione giudiziaria ecc.) oppure la falsa testimonianza P2 e un falso in bilancio sui Terreni Macherio che sono estinti per amnistia. Per non dire della condanna a Dell’Utri in cui si legge che l’ex senatore fu intermediario con Cosa Nostra per conto di Berlusconi.

Quindi il nuovo rinvio a giudizio non aggiunge nulla al giudizio etico e politico che solo un pessimo Pd poteva riuscire a riabilitare. Berlusconi e il berlusconismo sono indigeribili e non potabili da tempo. Finché i suoi voti non sono serviti al centrosinistra (!) al governo.

Finché alla fine anche Scalfari non ha pensato bene di dichiarare la sua preferenza all’uomo di Arcore rispetto a Luigi Di Maio.

E l’operazione “riabilitazione” è conclusa. E davvero pensate che il Cavaliere si preoccupi della mancia data a un pianista? Non scherziamo, dai.

Buon venerdì.

 

La sinistra unita nasce solo da una radicale rottura con il passato

Un progetto credibile, solido ed autonomo. Questo dice il documento presentato da Mdp, Possibile e Sinistra Italiana. Come non essere d’accordo nelle intenzioni? Ma non ci siamo nella sostanza. Per come sta nascendo la lista unitaria è condivisibile la riflessione di Besostri e Merisi pubblicata su Left. Una lista unica non basta e il partito unico non può esser costruito se non si parte dai territori e dalle vertenze locali. Entrambe le soluzioni, se praticate come operazioni verticistiche, rischiano di piegarsi su se stesse. I tre partiti non sono sufficienti a recuperare il mondo dell’astensionismo, neppure quello che si è risvegliato per il referendum. E così è giusto l’appello programmatico, ma carente di tanti temi, forse troppi. Soprattutto perché ci sono forti differenze tra quello che accade ogni giorno sui territori e la politica che si vorrebbe portare in Parlamento. Bisogna rompere col passato ed io sono d’accordo con Besostri e Merisi, con forza e senza tentennamenti.

Qualsiasi futuro soggetto passa indissolubilmente dal successo di una lista elettorale, che ad oggi, pare più finalizzata a garantire il posto a chi già c’è, senza dare rappresentanza ad una parte del Paese che non si rispecchia in nessuno. Sia chiara una cosa però, che non è possibile mirare alla ricostruzione del centrosinistra, con o senza trattino. E nemmeno che sia contemplata un’interlocuzione o una possibile alleanza con il Pd sui territori.

La mia autosospensione dagli incarichi in Sinistra Italiana e dell’intero gruppo consiliare comunale a Firenze, voleva essere un segnale, un tentativo di far accendere un allarme a chi sta costruendo l’appuntamento del 3 dicembre, sfruttando ambiguità e sorvolando sulla realtà. Pensate un po’ a come stanno le cose nel Comune di Firenze o in Regione Toscana, dove i posizionamenti rispetto al Pd e al governo sono opposti tra i soggetti che vogliono dare vita alla lista unitaria di sinistra. Una situazione difficile e già vista, proprio quando c’era quel centrosinistra di cui parlavamo prima.

Pensiamo davvero che il popolo che non vota più o che vorrebbe avere una alternativa di sinistra, credibile, solida ed autonoma, possa essere interessato ad una lista il cui collante più forte è l’antipatia per il leader Renzi? Non abbiamo imparato niente dall’antiberlusconismo?

Quello di cui abbiamo davvero bisogno è una lista e un partito unico di sinistra. Questo non significa sacrificare, sull’altare di una tornata elettorale, la radicalità sui contenuti o ad essere l’alternativa di sinistra ai governi delle destre, del Pd e del M5S. E tutto questo lo sostengo perché abbiamo allontanato ed escluso i singoli e quelle collettività presenti intorno a noi, come chi ha seguito con entusiasmo il percorso del Brancaccio, o chi ha fatto battaglie comuni con Rifondazione Comunista o L’Altra Europa, fino ai tanti gruppi, associazioni o comitati che abbiamo incrociato durante il referendum di un anno fa, dai comitati per la difesa della Costituzione a coloro che si sono riuniti la scorsa settimana a Roma su iniziativa di Je so’ pazzo. E tutto quello a cui stiamo rinunciando pur di stare insieme.

Un altro Maldonado in Patagonia: Rafael, 22 anni, che lottava per i Mapuche

This photo released by Noticias Argentinas shows Mapuche indigenous people and other activists taking part in a protest at the Plaza de Mayo square in Buenos Aires on November 26, 2017, after Rafael Nahuel was killed during an eviction of Mapuche people commanded by the Naval Prefecture in Villa Mascardi near Bariloche, Rio Negro province on November 25. / AFP PHOTO / NOTICIAS ARGENTINAS / DANIEL VIDES / Argentina OUT (Photo credit should read DANIEL VIDES/AFP/Getty Images)

La Patagonia grida ancora Maldonado e lo grida forte al suo funerale, con una scritta sui fiori bianchi: “los dinosaurios van a desaparecer”, i dinosauri scompariranno. Mercedes Inigo porta la corona tra le mani: era la sua fidanzata. I dinosauri scompariranno: sembra una promessa, mentre un altro, ennesimo Maldonado è morto.

Giustizia lo gridava ad alta voce, con coraggio, anche Rafael Nahuel, 22 anni, deceduto durante le ultime proteste per colpi d’arma da fuoco. Secondo la polizia, erano solo spari d’intimidazione contro “violenti”. Rafael un giorno e mezzo fa era con gli altri ragazzi del gruppo del Resistencia Ancestral Mapuche, la Ram, e della comunità Lafken Winkul Mapu, quando la Gendarmeria ha aperto il fuoco a una manciata di chilometri da Bariloche, nella regione dei sette laghi. È deceduto sulla via dell’ospedale, mentre i suoi compagni tentavano di salvarlo. I ragazzi della Ram volevano occupare una piazza dove costruire alloggi, senza essere appoggiati dall’intera comunità, per la loro scelta della lotta armata, che mira a creare una nazione Mapuche.

Anche nella provincia di Buenos Aires, intorno alla bara di Maldonado, dopo che il suo cadavere è stato ritrovato il 17 ottobre a Rio Chubut, ci sono stati scontri seguiti al blocco stradale represso dalle stesse divise armate. Juicio y castigo a los culpables era la scritta sui muri e tra le mani della comunità indigena. Asfissia, annegamento e ipotermia. All’autopsia di Maldonado hanno preso parte 50 periti e avvocati: gli ha dato la morte quel fiume che voleva attraversare scappando dalla Gendarmeria di Macri.

Gli attivisti da una parte all’altra del territorio ora chiedono la scarcerazione del leader Facundo Jones Huala. «Prima, per questa oppressione, e per la perdita di un guerriero durante la battaglia, eravamo tristi, ma continueremo la nostra lotta, per difendere la nostra terra» ha detto il cugino di Rafael. La lotta continuerà, ha ripetuto, nonostante la repressione della polizia di Mauricio Macri è in aumento, come le sue divise nel territorio.

Il giovane Rafael è morto tra le montagne, vicino al parco sottratto alla sua comunità giovedì scorso per volere del governo. Secondo Moira Millan, oltre all’omicidio di Nahuel, anche molte altre persone sono state ferite e si trovano ora all’ospedale Ramon Carrillo. L’avvocato della comunità, Natalia Araya, ha detto che si batterà «per vedere garantita la sicurezza della comunità per strada». «Oggi piangiamo il caduto, è morto in una maniera dignitosa, nella sua terra, territorio Mapuche» ha ripetuto il cugino di Rafael alla comunità indigena.

Inquieta la normalità, del fascismo

Durante la riunione di Como Senza Frontiere, una rete che unisce decine di associazioni a sostegno dei migranti - al Chiostrino di Santa Eufemia - un gruppo di 15 militanti del VFS, associazione culturale Veneto fronte Skinheads, è entrato nella sala e ha imposto la lettura di un "proclama"che si concludeva con lo slogan "basta invasione". Le decine di partecipanti alla riunione - esterrefatti ? non hanno reagito alla provocazione. Il blitz segue le iniziative di tre giorni fa, sempre a opera del VFS, sempre a Como: sagome di migranti dipinte a terra di fronte alle sedi Caritas ANSA/YOUTUBE/ECOINFORMAZIONI ARCI ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Il fascismo di ritorno ha le facce un po’ beote e tutte strizzate per provare a incutere timore di quella quindicina del Veneto Fronte Skinhead che fa irruzione nel bel mezzo di una placida riunione di Como Senza Frontiere, una rete di associazioni che si occupano di migrazione.

Con i crani pelati, il bomber nero entrano con passo da parata militare nella stanza e il “capo” si mette a declamare, con ritmo da recita di fine anno alla scuola materna, un delirante comunicato su turbocapitalismo, sostituzione etnica, di migranti, di razza, di patria.

Stupiscono alcuni punti.

La normalità con cui i rappresentanti delle associazioni evitano di prestare il fianco alla provocazione. È una calma dei giusti che smutanda fin da subito i neofascisti. Di fronte alla fermezza gentile, lasciati a marcire nel sottovuoto spinto delle loro stesse parole alla fine coloro che vorrebbero apparire “duri” sembrano pulcini bagnati.

Peggio ancora stupisce la normalità con cui questi ceffi, invece, si sentono in diritto di manifestare le proprie opinioni (illegali) con modalità illegali. Questi si sentono in dovere di fare ciò che fanno ma, peggio ancora, credono di averne il diritto.

E se il fascismo diventa “normale” non è solo per colpa della recrudescenza di certi gruppi: è l’antifascismo che avrebbe bisogno di una rispolverata. Che poi, a pensarci bene, basterebbe applicare la Costituzione.

Buon giovedì.

Siamo disposti a lottare e a metterci in gioco. Ma per una sinistra vera

L’avvocato Besostri nel suo ottimo e analitico commento all’assemblea del 3 dicembre convocata da Mdp, Si e Possibile evidenzia alcune chiare criticità nell’appello che la ha lanciata, auspicando che le si superino e considerando quella data comunque una tappa importante per la costruzione di una sinistra autorevole in Italia.

Io sono molto più pessimista di lui.

Nel senso che condivido le sue critiche ma non ritengo siano superabili né che ci sia la volontà di superarle. Il percorso, convocato in fretta e furia, con quella lettera approssimativa e superficiale, da Fratoianni, Civati e Speranza, da consumarsi nei due week end di fine novembre e inizio dicembre, è stato messo in campo, a mio parere e a parere di molti, più con l’ansia di togliere dalla scena il prima possibile i fastidiosi Anna Falcone e Tomaso Montanari – i quali, pensate un po’, pretendevano persino che si rinnovassero le liste – oltre che con il malcelato obiettivo di bloccare il percorso di costruzione dal basso del programma, che rischiava di produrre risultati imbarazzanti per gli azionisti di maggioranza Bersani e D’Alema, come il no alle grandi Opere tanto sponsorizzate da Enrico Rossi, la critica alle privatizzazioni dei servizi pubblici, e infine la sconfessione di tutte le politiche del governo Monti, dalla Riforma Fornero al pareggio di bilancio in Costituzione.

Una convocazione che contiene in se dunque un vulnus, di merito e di metodo, e che ha prodotto una lacerazione grave, dall’interruzione del percorso guidato da montanari e falcone, a dimissioni e autosospensioni diffuse, in particolare dentro sinistra italiana, ma qualcosa anche in Possibile di Civati.

Si può recuperare questa non banale ferita? No, non si può, all’interno di quel percorso. Un percorso sostanzialmente blindato, con assemblee dalla presidenza predefinita, costituita dalle dirigenze locali delle tre forze politiche, che ha proposto delegati da votare in blocco, spartiti dalle tre forze politiche stesse, ai quali si potevano sì, opporre, altri delegati da votare, bastava avere il fegato di andare a fare i guastafeste e gli ospiti indesiderati in casa d’altri: mi piacerebbe sapere infatti in quante delle 158 assemblee che si sono tenute non sono stati votati esattamente i delegati proposti inizialmente … sfiderei non più di dieci, per non dire zero.
Un percorso che prevedeva la preadesione ad un preambolo programmatico già scritto, positivo in alcuni aspetti, reticente su molti altri.

Può nascere, lo domando all’avvocato Besostri e a tutte le persone intellettualmente e politicamente oneste, qualcosa di più di una raffazzonata lista elettorale, da una fusione a freddo condotta a questa velocità, senza pathos e senza passione, tranne quella negativa degli abbandoni e delle rotture, senza aver affrontato nessun nodo serio tra quelli in campo? Ad esempio, questa nuova forza si riferirà ai socialisti europei, dove guarda l’azionista di maggioranza Mdp e credo anche possibile, e che adesso in Germania stanno di nuovo trattando le larghe intese con la Merkel, o alla sinistra europea dove Sinistra italiana è osservatrice insieme a Rifondazione e Altraeuropa, con le quali si è premurata di rompere in Italia?

È una forza che vuole ricostruire un nuovo centrosinistra, come dicono ogni giorno Bersani, D’Alema, Speranza, Enrico Rossi, e che il giorno dopo le elezioni riparlerà col Pd, come dicono sempre i quattro, o una forza che si farà carico di ricostruire l’identità e il radicamento di un pensiero di alternativa in questa società, ricostruendo una solida rappresentanza di classe e quindi i rapporti di forza reali prima di calarsi subito nel gioco delle tattiche, delle alleanze e del governo? Non mi sembrano domande banali, che non si possono affrontare così in fretta anche perché, se si affrontano, si sa già che le risposte saranno totalmente opposte, quindi meglio sorvolare. Altro che rinascita della sinistra in Italia.

Siamo di fronte ad una pessima operazione elettoralistica, di basso profilo, che punta tutto sulla leadership mediatica di Grasso, uomo bravissimo ma fino a ieri nel Pd di Renzi, il cui nome si troverà sul logo elettorale: logo che, si viene a sapere, viene deciso in queste ore nelle segrete stanze da pochi dirigenti, e che verosimilmente sarà lanciato e acclamato il 3. Per me la sinistra così muore, altro che rinascere.

Io il 3 Dicembre non ci sarò, mi spiace.

Mi considero persona flessibile, ma, condividendo le valutazioni di Anna Falcone e Tomaso Montanari, ritengo che tutto questo vada ben oltre il mio limite di accettabilità. Sarò invece alle assemblee locali convocate da coloro che hanno partecipato al percorso del Brancaccio, e che vogliono rivedersi per non mollare, e alla conseguente assemblea nazionale di gennaio, e seguirò questo interessante progetto di potere al popolo, lanciato dai ragazzi di Je so’ pazzo al teatro di Roma, dove sono andato rimanendo molto positivamente impressionato. Tutte cose ancora in parte ingenue e sicuramente insufficienti, ma belle e genuine, con persone vere che hanno ancora voglia di lottare e di mettersi in gioco.

Sarò lì con loro. Perché se rinasce qualcosa, è più facile che rinasca in questa maniera.

Cittadini del mondo, nel quartiere romano della Resistenza

Nel cuore di uno dei quartieri romani simbolo della resistenza partigiana, denominato anche “Nido di vespe”, per il disprezzo nutrito, dalle genti del posto, per i tedeschi, che il 17 aprile 1944 misero in atto il nefando rastrellamento, quel coraggio di allora e quell’identità sana refrattaria all’idea nazista, sono ancora oggi simbolo di una comunità viva e fiera, ma anche luogo dove pullula un certo fermento culturale. Il Quadraro è territorio di accoglienza, di incontro di culture, ambiente di scambio, atteso l’alto numero di stranieri che qui ha scelto di vivere o aprire attività commerciali.

Tra le varie realtà anche una biblioteca, espressione di una associazione culturale che si occupa dei migranti, dei rifugiati e dei richiedenti asilo, denominata per l’esattezza “Cittadini del mondo”. Dal settembre 2002, inizia il percorso nella difesa dei diritti dei migranti e degli stranieri presenti sul territorio. L’idea fu di un uomo, di cui oggi non si ha più notizia, poi supportata da altri volontari, sempre più numerosi nel tempo. Con il desiderio di di vivere insieme ai migranti senza farli sentire ospiti, ma parte integrante di una società. Perché le persone, come dice Paolo Guerra, uno dei tanti attuali volontari dell’associazione, non devono integrarsi forzatamente, ma convivere. Le persone del quartiere, o di quelli limitrofi, che iniziano a guardarsi intorno, a capire che c’è un fenomeno, come quello della presenza di immigrati da gestire, sono molti.

Tra loro, sempre agli inizi del nuovo millennio, anche un medico chirurgo, specialista in medicina interna con indirizzo immuno-ematologico, che lavorava a La Sapienza: Donatella D’Angelo. Con lei, che è la presidente dell’associazione, mi ritrovo a parlare, nei locali dove sta sorgendo la nuova biblioteca di “Cittadini del mondo” ossia nei piani seminterrati della scuola primaria “Damiano Chiesa”, in viale Opita Oppio n. 45, che da anni giacevano in stato di totale abbandono. Per raggiungere Donatella, e tutti gli altri volontari, che in questi giorni stanno ultimando i lavori di ristrutturazione, mi lascio alle spalle il buio di un pomeriggio di autunno per immergermi in un luogo pieno di luce, reso particolare dalle pareti azzurre composte da tante mattonelle, ex refettorio della scuola. Se un tempo queste erano, anche, le vie per sfuggire alle furie naziste, oggi ritrovarsi in questa sorta di acquario fa bene alla mente, ma soprattutto al cuore.

Un sottoterra pieno di libri e buoni propositi, tenendo sempre a mente l’obiettivo della realizzazione di contesti di riparo dall’ignoranza, dal razzismo, da ogni forma di discriminazione. Donatella racconta, con passione, come si è arrivati fino a oggi, partendo da un’altra emergenza, quella sanitaria. L’associazione ha, infatti, all’attivo lo sportello socio-sanitario a “Selam Palace”, ubicato nel palazzo di via Cavaglieri n. 8, abitato da 800 persone titolari di protezione internazionale del Corno d’Africa, dove lei e alcuni volontari effettuano un intervento socio sanitario, garantendo le cure sanitarie necessarie e le vaccinazioni contro i virus influenzali, ma anche l’iscrizione al medico di base.

«Nel 2002 – inizia a raccontare la dott.ssa D’Angelo – abbiamo cominciato a lavorare con i migranti. Siamo partiti con l’intenzione di lavorare con la migrazione che stava prendendo piede. Abbiamo notato che dentro ai palazzi occupati, a Roma ce ne erano molti, la percentuale dei migranti era importante. Abbiamo iniziato a fare uno sportello all’interno di un appartamento di uno dei palazzi. Hanno chiamato me, io ho deciso di lasciare la vita di reparto, anche se sono rimasta in contratto con l’università, ma ho iniziato a interessarmi della realtà sanitaria dei migranti; ho cominciato a informarmi di quello che faceva l’Italia per il diritto alla salute e si è aperto un mondo. Ho scoperto che tutti, compreso il migrante, abbiamo il diritto alla salute: la legge c’era, ma non veniva applicata».

Da quel momento, Donatella si rende conto che, effettivamente, tutti i migranti che incontrava, in realtà, non avevano accesso alle cure: «Abbiamo iniziato ad andare a parlare con i dirigenti delle Asl ed è nato in breve tempo uno sportello, che doveva servire agli stranieri temporaneamente presenti sul territorio italiano. Tutti gli stranieri erano migranti economici, quindi avevano residenza, un lavoro, avevano diritto all’iscrizione al sistema sanitario». Anche se la situazione non sembrava critica, almeno agli occhi delle istituzioni italiane, Donatella non si scoraggia e va avanti: «A quel punto, abbiamo lanciato una sfida, facendo notare alla Asl che loro avevano uno sportello che era inutilizzato perché dicevano che in questa zona non c’erano stranieri, quando gli stranieri cercavano un ambulatorio. Abbiamo scoperto che, in realtà, c’era una stanza preposta nell’ambulatorio, ma era l’ultima, quasi nascosta; il servizio non aveva un orario, un’insegna, il collega era assente».

Lei e altri due medici volontari propongono, all’allora dirigente, di lavorare gratuitamente per un anno, dimostrando alle istituzioni che avrebbero riempito i tre ambulatori che intendevano allestire. L’operazione ebbe un successo enorme: «Accoglievamo gli stranieri, anche gli europei non iscrivibili al nostro servizio sanitario, i senza fissa d’ora, i rom. Stavamo alla Asl di via Cartagine e, dopo un anno, abbiamo iniziato a ‘battere cassa’, visto che supplivamo al collega che non svolgeva il servizio. Per quasi tre anni, abbiamo avuto una convenzione con la Asl che ci pagava, anche se poco, e con questa cifra abbiamo costruito la prima biblioteca».

Donatella è un fiume in piena, desiderosa di far capire, soprattutto, come solo l’opera di medici volontari si sia presa cura di una realtà di fronte alla quale le istituzioni chiudevano gli occhi. Oggi, quindi, il suo servizio, prestato tutti i giovedì pomeriggio, prosegue a “Selam”, dove è stata chiamata per i rifugiati politici che, nel 2006, abbandonato l’“Hotel Africa” sulla Tiburtina, occuparono gli edifici, che poi apparterebbero alla Facoltà di Lettere di Tor Vergata. Per loro il Comune di Roma pagava un canone all’Enasarco, ma poi non lo ha più fatto. C’è una disputa in corso con l’ente, ma gli occupanti sono rimasti e necessitano di cure. Chi passa i vaccini e il materiale sanitario che occorre, le chiedo. «Lotte, lotte e lotte col Sistema Sanitario. Io faccio richiesta come medico di base, facendo presente che qui abitano migliaia di persone, che la promiscuità è elevata, e ottengo così gli strumenti necessari».

Poi un giorno, superato il bisogno delle cure, Donatella si chiede come avrebbe potuto un genitore straniero, che vive in una terra straniera, leggere una favola della sua lingua al proprio bambino. E, mentre parla, mi accorgo che ci troviamo proprio nella stanza delle letture per i bambini e, accanto a quelle italiane, campeggiano fiabe in cinese, arabo, in tutte le lingue del mondo.

La biblioteca nasce nel 2010, sempre nei locali della scuola primaria, ma al piano terra, in uno spazio più piccolo di quello odierno in piena realizzazione. A raccontarmi la storia è quel Paolo Guerra che citavo prima, che mi fa da cicerone per i nuovi ambienti. Lui è uno dei tanti volontari che permettono l’attività della biblioteca. Paolo è in pensione, ma prima si occupava di restaurare mobili antichi, adesso ha, invece, a cuore l’acculturamento delle persone, soprattutto di coloro che lamentano la scarsità di luoghi di studio: «C’è la Raffaello ad Anagnina, la Nelson Mandela a San Giovanni, ma in questa zona non c’era una biblioteca; questa sarà anche la casa di tanti studenti, che da anni cercano uno spazio dove studiare, senza necessariamente arrivare fino all’università».

Paolo mi elenca numeri e dati della biblioteca: 20 mila libri in più di 25 lingue, un settore multimediale con più di 1300 dvd, rete WiFi e postazioni internet, il riconoscimento come biblioteca di interesse culturale locale da parte della Regione Lazio. Tutto è stato possibile anche grazie alle numerose donazioni ricevute: dal New York Times, alla casa editrice Nottetempo, ma anche generose elargizioni da parte di fondazioni che hanno a cuore, soprattutto, Selam: Open Society Foundation e Nando Peretti Foundation. Autofinanziamenti attraverso cene svolte con il, tacito, consenso del municipio che ha sempre agevolato le attività della biblioteca. Oltre alla possibilità del prestito, ci sarà quella di frequentare corsi di storia dell’arte, di italiano per stranieri tenuti da docenti volontari; di partecipare a presentazioni, proiezioni, per contenuti sempre rivolti al sociale.

La curiosità sta nella tipologia dei testi, che è la più svariata, a eccezione dei libri religiosi, che qui dentro non sono presenti: «La cultura non ha bisogno di paletti, che le religioni mettono» sentenzia Paolo. E nemmeno quelli di Bruno Vespa, tiene a sottolineare. Questi sono, soprattutto, luoghi di incontro e scambio. Ed è così che mi presenta Khadim, un senegalese volontario, anche egli parte attiva della gestione della biblioteca. Il “reclutamento” dei volontari è semplicissimo, incalza Paolo: «Minimo di intelligenza, essere antifascisti e antirazzisti».

Camminando nelle varie sale, incontro tanti uomini e donne alle prese con gli ultimi preparativi: scatoloni da svuotare, i libri da posizionare sugli scaffali, una catalogazione da ultimare, ma anche la rifinitura dei, ben sette, bagni che, per legge, sono stati realizzati. Tra un volto e l’altro, incrocio quello di Simona De Santis, una delle insegnanti volontarie di italiano, la quale mi racconta della gioia immensa che si prova quando si insegna la propria lingua a chi, come i migranti che partecipano alle sue lezioni, hanno l’entusiasmo di impararla. I corsi sono già attivi e la frequentazione è assai elevata.

È quasi tutto pronto per sabato 2 dicembre, per l’inaugurazione di questi nuovi locali e per l’occasione saranno esposte le opere dell’architetto Lorenzo Sartori. Evento realizzato anche grazie a un crowdfunding presentato da un bellissimo videoclip: una bambina mostra i locali in rifacimento, chiedendo sostegno per la ristrutturazione. La giornata avrà inizio con le attività alle 10.30 con laboratori per bambini, videoforum per i ragazzi; alle 18, il taglio del nastro, con saluto delle autorità, ospite per l’occasione Margherita Buy. La serata sarà animata dal tango e dalla presenza di un’altra realtà culturale, vanto del quartiere: il “QuadraCoro”; a seguire, i “Destination West Africa” e i “Rosso Malpelo”. Per l’intero programma e tutte le altre informazioni della biblioteca, e dell’associazione, si può consultare il sito: www.associazionecittadinidelmondo.it

I volontari sono alle prese con le ultime faccende e con l’organizzazione dell’inaugurazione. Sono tante le informazioni, i racconti di questa sera. Esco dalla biblioteca/acquario con nuovo entusiasmo e tanti pensieri. Quello più bello è di un papà straniero che legge la fiaba a suo figlio nella lingua a loro più familiare, poi la mette da parte e ne prende una in italiano, che al bambino appartiene di diritto perché è nato qui.

Malati, denutriti e con i parassiti nello stomaco: profughi e soldati in fuga dal regime di Kim

Il leader della Corea del Nord Kim Jong-un con i soldati nei pressi del confine con la Corea del Sud EPA/YONHAP EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Scappano verso quella che credono sia libertà, l’unica che riescono a vedere oltre il confine grigio del filo spinato, dei soldati con i fucili spianati. Via dalle carceri del regime liberticida e dai lavori forzati a cui sono costretti. Ma corrono anche per lasciarsi dietro fame nera, tubercolosi, malnutrizione e infezioni. O l’epatite B contro cui non esiste vaccino. Corrono e arrivano tutti stremati e sotto peso. E se sbagliano attraversamento, vengono rispediti indietro, tra le fauci del regime di Kim. È quello che è successo a dieci nordcoreani che hanno tentato la fuga oltre confine, che speravano di ottenere lo status di rifugiati una volta su suolo straniero, lasciatisi dietro la patria a inizio novembre.

Non è stato così. Perché il suolo che hanno calpestato è stato quello cinese e lo Stato che li ha accolti in fuga da Pyongyang era quello di Pechino. E le dieci persone che erano riuscite a scappare sono state deportate indietro, anche se tra loro c’era un bambino piccolissimo. Sanno cosa li attende adesso. Perfino il bambino di 4 anni conosce il futuro destino di sua madre: il carcere a vita nella migliore delle ipotesi, nella peggiore e probabile, la morte. Suo padre, Lee, li attendeva in Sud Corea, dove è in esilio, dopo una fuga fortunata nel 2015.

Lee crede che al momento si trovino «in un centro di detenzione. Se passi un mese li dentro diventi incredibilmente fragile, senza mangiare. Manca il cibo. Perdi peso perché non c’è niente da mangiare. Se va bene, ricevi 20 germogli di grano al giorno. Non posso descrivere come mi sento, per me il mondo è un inferno, adesso». Se non ti uccide la volontà del governo, ti ammazza la fame.

Lee ha pregato il presidente cinese Xi Jinping e quello americano Donald Trump di intervenire contro il rimpatrio della sua famiglia che cerca asilo, che però è stata registrata sotto lo status di “disertore”. Insieme agli altri nordcoreani che tentavano di raggiungere il futuro in un altro Paese, la sua famiglia è stata arrestata il 4 novembre, a nord est della Cina, nella provincia di Liaoning. La Cina non ha nemmeno considerato la loro richiesta d’asilo come profughi, li ha trattenuti in un centro di detenzione e ora li ha ritrasferiti in un altro, non più cinese, ma nordcoreano, dove, dice Human Rights Watch, «verranno condannati».

Oltre all’ultimo soldato ferito durante le sua corsa rocambolesca in auto, raggiunto dai proiettili delle divise mentre varcava la dogana della Corea del Sud, negli ultimi tre mesi sono stati 49 i nord coreani che hanno abbandonato, rischiando la vita, il regime di Kim Jong Un. Secondo Human Right Watch, il numero di persone che tentano la fuga è in aumento, rispetto alle 51 persone fuggite nell’ultimo intero anno.

È stato proprio il soldato di 24 anni che ha raggiunto l’altra sponda, dopo che i proiettili del suo stesso esercito lo hanno quasi ucciso, a dare i dettagli a Seul su come si vive in Nord Corea. Durante l’operazione chirurgica, mentre i proiettili venivano estratti dal suo corpo, undici vermi sono stati trovati nel suo stomaco. È così che vive la maggior parte della popolazione nordcoreana, con i parassiti da fame e carenza igienica nello stomaco, in un Paese dove è difficile curare perfino l’epatite, per assenza di vaccini e un terzo dei bambini sotto i cinque anni è gravemente malnutrito.

Phil Robertson, direttore di How, che segue la faccenda del soldato e della famiglia di Lee da vicino, ha detto che facendo tornare indietro l’ultimo gruppo di richiedenti d’asilo «la Cina si rende complice delle torture, dei lavori forzati, incarcerazione e altri abusi che subiranno. Verranno condannati e Pechino si rifiuta di proteggerli, cioè si rifiuta di trattarli e registrarli come rifugiati che scappano dalle persecuzioni».