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Il Mali, uno Stato polveriera che non trova pace

epa05974180 French President Emmanuel Macron (C) and Mali's President Ibrahim Boubacar Keita (C-R) visit the troops of France's Barkhane counter-terrorism operation in Africa's Sahel region in Gao, northern Mali, 19 May 2017. The French President's visit in Mali is his first trip outside Europe since his inauguration on 14 May 2017. Others are not identified. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON / POOL MAXPPP OUT

I segnali che arrivano dal lontanissimo Mali non sono buoni. Non si terranno più le elezioni che erano previste in questo mese, tra qualche giorno, prima dell’inizio del nuovo anno. La settimana scorsa il governo ha deciso di rimandare municipali e regionali, per “questioni di sicurezza”. Sicurezza è una parola che nello Stato africano occidentale viene usata in una variante tutta sua. Non andare alle urne è “un pessimo segnale per le prospettive a lungo termine”, dicono gli analisti. La scelta dei politici e dei governatori è stata rimandata ad aprile 2018, per permettere al governo «di creare i presupposti per elezioni assolutamente inclusive», ha detto Hubert Coulibaly, il ministro delle amministrazioni territoriali dello Stato. Gli abitanti volevano invece votare domenica 17, perché tutto il potere è concentrato nelle mani di pochi che non li rappresentano, pochi che siedono comodi nella capitale, Bamako, che tra la popolazione ha sempre meno legittimità, sempre più torti. Rimandare le elezioni vuol dire che nulla è ancora cambiato in Mali.

La sfida del Mali è ora questa: assicurarsi che tutti i partiti firmino l’accordo di pace tra lo Stato e vari gruppi d’opposizione ribelli che prendono parte al processo elettorale, un patto noto come l’accordo di Algiers, che risale al 2015 e prevede il disarmo, riforme costituzionali e il rispetto delle istituzioni dello Stato nel territorio del nord. Per il presidente francese Emmanuel Macron,  nel tour politico in Africa, è la migliore possibilità che ha il Paese per tornare se non alla sicurezza, alla stabilità. I fantasmi della rivolta del 2012, quando morirono in tanti e ancora di più furono sfollati, non hanno fugato timori di una nuova ondata di violenza, di un nuovo colpo di stato, del vuoto politico che si creò allora. Nemmeno le ombre delle orme lasciate sul terreno dagli stivali dell’esercito francese, in quella che è passata alla storia come “Operazione Serval”.

Anche la missione delle Nazioni Unite in Mali, nota come Minusma, è stata letale, la più letale di tutta la storia dell’Onu: 146 soldati degli 11mila spediti per riportare l’ordine hanno perso la vita dal 2013. Gli ultimi attacchi risalgono a pochi giorni fa. Il 24 novembre 4 soldati delle Nazioni Unite e un soldato maliano sono morti mentre decine sono rimasti feriti. È successo al confine del Niger, a Indelimane e Douentza. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha definito queste morti “oltraggiose” e un crimine di guerra. Prima ancora, ad ottobre altri peacekeeper dell’Onu in missione a Bamako sono stati uccisi mentre pattugliavano la zona. L’esplosivo usato era ad accensione remota. La missione francese in corso, l’Operazione Barkhane, è in corso dal 2014, ma ben poco è cambiato. Ancora un altro battaglione, un’unità multinazionale nota come G5-Sahel, con 5mila soldati provenienti dal Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger tenta di controllare la zona da almeno 3 anni, ma senza riuscirci.

Il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato eletto nel 2013, ma nelle aree che sono sfuggite al controllo del potere centrale l’ordine non è mai tornato e i gruppi armati , alcuni dei quali supportati e finanziati da Al Quaeda, sono ancora l’unica autorità presente nel territorio. Il futuro, sanno tutti che sarà difficile. I gruppi che dovrebbero sedersi al tavolo l’uno con l’altro per trovare un accordo comprendono la piattaforma dei Tuareg armati e dei movimenti filo-arabi, e il coordinamento del movimento Azawad. Le elezioni sarebbero state, secondo alcuni di queste organizzazioni, un modo per decentralizzare il potere e trovare una rappresentatività che è a lungo, se non sempre, è mancata nel Paese.

Ma adesso Ibrahim Boubacar Keita rimarrà presidente fino a luglio 2018, se i fucili del nord non compieranno di nuovo un colpo di stato prima delle future urne. Lutto, insicurezza, terrorismo appartengono alla storia del Mali, ma anche la Francia. Il presidente africano ha descritto così la vecchia colonia al suo omologo europeo in visita nella Franceafrique, quasi come una minaccia: «Il Mali è una diga. Se si rompe, l’intera Europa sarà sommersa».

Chissà che direbbe Salvo D’Acquisto, della bandiera neonazista nella caserma dei colleghi

Il fermo immagine tratto da un video di "Il sito di Firenze" pubblicato su Youtube mostra la bandiera utilizzata in tutta Europa da gruppi neonazisti in una camerata della caserma del VI battaglione carabinieri Toscana. ANSA/FERMO IMMAGINE VIDEO YOUTUBE/IL SITO DI FIRENZE +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++

Salvo D’Acquisto è nato il 15 ottobre del 1920, in una famiglia numerosa che abitava in una palazzina di quattro piani in via San Gennaro. Ha abbandonato il liceo per arruolarsi nei carabinieri dove diventa sottufficiale. Rimane ferito in missione, si ammala e torna a Fiumicino. Nel settembre del 1943 c’è il terribile rastrellamento fascista: 22 civili vengono costretti a scavarsi la fossa prima di essere fucilati, accusati del ferimento di due soldati fascisti durante una perquisizione. Il carabiniere Salvo D’Acquisto si auto accusa del ferimento, mette i piedi nella fossa, chiede e ottiene la liberazione dei civili e si sacrifica. Muore, fucilato. Le sue ultime parole prima di morire sono per l’Italia, che poi sarà liberata dal nazismo e dal fascismo.

L’Italia è quel Paese che nasce dal sacrificio di gente come il carabiniere Salvo D’Acquisto. La democrazia italiana è stata salvata, preservata e custodita da persone che hanno sempre avuto bene in mente il sacrificio che l’Italia è costata.

Chissà che ne direbbe, Salvo D’Acquisto del ventiquattrenne che nella caserma Baldissera che ospita il VI Battaglione carabinieri Toscana, a due passi dalla sinagoga di Firenze, ha pensato bene di esporre una bandiera del Secondo Reich, oggi diventata un simbolo di propaganda dei naziskin in tutta Europa. Chissà se non si sentirebbe piccolo, di fronte a D’Acquisto, consapevole di quanto la sua ignoranza non sia solo un’offesa alla storia (e alla legge) ma sia soprattutto l’evidenza di una fascismo di ritorno che spesso nasce dal fango dell’ignoranza. E se essere servi della propria ignoranza è già di per sei una vergogna pensate a quanto sia vergognoso esser servi nel ruolo di servitori dello Stato.

Forse sarebbe il caso di appendere le foto di Salvo D’Acquisto, nelle camere e sulle pareti delle caserme. Forse.

Buon lunedì.

Polveriera marocchina, la crisi a sud delle Colonne d’Ercole

Moroccans chant slogans in Casablanca on August 23, 2017, during a protest against sexual harrasment following the sexual assault of a woman on a bus. Six teenage suspects were arrested in Morocco on August 21, after video footage of young men reportedly sexually molesting a woman on a bus caused widespread outrage on social networks. A Moroccan police statement reported the arrests of the six aged between 15 and 17 after the incident in the kingdom's economic capital Casablanca. / AFP PHOTO / STRINGER (Photo credit should read STRINGER/AFP/Getty Images)

A volte ci sono immagini che parlano più di tanti proclami e promesse della politica mostrando lo stato reale delle cose. Quanto accaduto due settimane fa nella cittadina marocchina di Sidi Boulaalam, 8mila anime nella provincia costiera di Essaouira, rientra in questi casi. Sulla stampa locale e internazionale si è parlato di «tragedia»: 15 persone morte schiacciate contro le transenne mentre tentavano di ottenere del cibo che un’associazione benefica, finanziata da un magnate locale, stava distribuendo alla comunità duramente colpita dalla siccità e dal crollo della produzione agricola. Erano in tanti, circa un migliaio, nel suq cittadino attirati da quei banchetti-miraggio che distribuivano beni di prima necessità (pane, farina e grano), immagine emblematica del crescente impoverimento che ha colpito la popolazione dell’area. Quelle barriere si sono rivelate però una prigione infernale, quel cibo sui tavoli trappola velenosa.

Ma questa «tragedia» non è una calamità naturale, non è frutto del caso. Ha un nome preciso: povertà. Secondo la Banca mondiale, il Marocco ha registrato ultimi anni dei segnali positivi in campo economico. Tuttavia, se il tasso di povertà ufficiale nel 2014 era stimato al 4,8%, i dati continuano ad essere inquietanti: almeno il 16% dei 35 milioni di marocchini vive con soli 3 dollari al giorno. Le statistiche ufficiali affermano che la disoccupazione complessiva è al 10%, ma è molto più alta tra i giovani (29,3%).

Non sembrano funzionare le politiche economiche volute dal governo: se da un lato, infatti, il Marocco ha vissuto un rapido (ma irregolare) sviluppo grazie a grandi progetti infrastrutturali, al miglioramento dei trasporti (autostrade e, recentemente, treni ad alta velocità comprati dalla Francia), dall’altro lato, però, il congelamento delle assunzioni nel settore pubblico, il taglio dei sussidi alle classi povere e la radicata corruzione non hanno portato alcun giovamento ai più giovani che continuano a non avere…

L’articolo di Roberto Prinzi prosegue su Left in edicola


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Watergate dublinese, trema il governo di Varadkar

Frances Fitzgerald, Tánaiste and Minister for Justice and Equality, attends a Funeral Mass of renowned public servant TK Whitaker, at Church of the Sacred Heart, in Donnybrook. On Thursday, 13 January 2017, Donnybrook , Dublin, Ireland. (Photo by Artur Widak/NurPhoto via Getty Images)

In Italia l’approvazione della legge sui whistleblowers non sembra aver causato particolari reazioni nell’opinione pubblica. Dall’Irlanda tuttavia arriva un esempio chiaro dell’importanza di una norma che regoli la denuncia di attività illecite o fraudolente all’interno del governo, di un’organizzazione pubblica o privata o di un’azienda. La segnalazione di un whistleblower nel novembre del 2012 ha infatti causato una serie di reazioni a catena ancora in corso che a Dublino hanno portato alle dimissioni di un vicepresidente del consiglio, un ministro della Giustizia e due capi della polizia.
La vicenda è iniziata ormai un lustro fa, nel novembre del 2012 quando l’allora ministro della Giustizia Alan Shutter ha ricevuto un rapporto che denunciava atti di corruzione all’interno della polizia. Il sergente Maurice McCabe parlava di mancati incassi da parte della polizia per due sistemi che non sono ignoti neppure alle latitudini italiche: il numero dei controlli per la guida in stato di ebbrezza sarebbe stato falsificato (erano in realtà molti meno di quelli dichiarati) e i punti patente persi a causa delle infrazioni venivano restituiti in cambio di denaro. Il danno all’erario ammonterebbe a milioni di euro. L’inchiesta porta, il 25 marzo 2014, alle dimissioni del capo della polizia Martin Cullinan, che lasciando critica duramente le denunce di McCabe. Un paio di mesi dopo anche il ministro Shutter si dimette, dopo aver ricevuto un rapporto nel quale si critica il modo in cui sono state gestite le denunce di McCabe.

Parte un’inchiesta ufficiale, affidata all’ex giudice della corte suprema Kevin O’Higgins. Il rapporto finale viene pubblicato nel maggio 2016: si nega la corruzione, pur confermando molte delle denunce del sergente McCabe, e si afferma che il ministro Shutter non ha nessuna colpa.

Nell’ottobre 2016 però emerge un secondo whistleblower: l’ex capo dell’ufficio stampa della polizia sostiene che alcuni suoi superiori, compresi l’ex comandante Cullinan e il suo successore Nóirín O’Sullivan, lo hanno costretto a condurre una campagna per screditare McCabe agli occhi sia del corpo di polizia che dell’opinione pubblica. Parte una seconda inchiesta, nel frattempo si arriva a maggio di quest’anno e il primo ministro Enda Kenny si dimette. Fra i motivi che lo ….

L’articolo di Damiano Vezzosi prosegue su Left in edicola


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Tijuana, la vita oltre il muro

Tijuana, al muro di separazione tra Stati Uniti e Messico, 2017. Ogni domenica al "Friendship Park" le famiglie separate dal muro possono vedersi attraverso le barriere e parlarsi. Una donna dal lato della frontiera messicana si affaccia tra le barriere di metallo per parlare con i suoi famigliari che stanno dall'altra parte del muro in territorio americano.

«Aspettiamo la nebbia. Nella notte cala densa e fitta. Le telecamere di sorveglianza non riescono a vederci, scavalchiamo il muro e passiamo negli Stati Uniti». Juan è del Salvador, viveva come irregolare negli Stati Uniti. Ha commesso un piccolo reato e dopo aver scontato la pena è stato espulso perché non era in possesso di documenti regolari. È stato “deportato” da qualche giorno a Tijuana. È giovane, indossa una felpa scura con il cappuccio, jeans e scarpe da ginnastica. Non vuole saperne di restare qui, cercherà in tutti i modi di ritornare dalla moglie e dai figli anche a costo di varcare “il confine” illegalmente. «Vedi, si può scavalcare qui – urla Juan dall’alto, a cavalcioni sulla barriera di metallo dove si è appena arrampicato in poche mosse – è facile salire in cima e scendere dall’altra parte. Poi bisogna correre veloci sul bagnasciuga così le guardie non riescono a vedere le impronte perché l’acqua del mare le cancella». In alcuni periodi dell’anno, dalle dieci di sera fino all’alba, Tijuana viene avvolta da una fitta nebbia. Lì, dove il muro si perde nel mare, i migranti e i deportati tentano la fuga.
Juan è seduto sulla sabbia, al buio, con il cappuccio sulla testa. Ci sono le telecamere, cerca di non farsi notare. Mette la testa tra le mani e guarda tra le fessure. Dall’altra parte si vede il mare, la spiaggia, il territorio americano. Le onde passano tra le barriere di metallo del muro, l’acqua scorre da una parte all’altra del muro. «Di là ho la mia famiglia e i miei figli – dice – io qui non voglio stare. Voglio andare da loro a tutti i costi». Rimane lì, Juan, a guardare oltre le sbarre di quel muro che l’indomani cercherà di scavalcare. Come…

Il reportage di Cristina Mastrandrea prosegue su Left in edicola


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La scalata del Monte dei fiaschi

MATTEO RENZI SULLO SFONDO UNA FOTO DEL MONTE DEI PASCHI DI SIENA MPS

Sulla complessa vicenda del Monte dei Paschi di Siena, contrassegnata da inchieste giudiziarie e morti sospette, abbiamo alcuni fatti certi, su altri possiamo fare delle ipotesi, su altri ancora dobbiamo fermarci alle coincidenze ed essere prudenti su ogni considerazione. Vi sono infine circostanze su cui il mistero è così fitto da impedirci ogni riflessione. Non sappiamo anzitutto cosa abbia spinto il colosso Abn Ambro ad acquistare, nel 2006, una banca italiana nota già allora per il suo stato disastroso. Eppure il gruppo olandese scala l’Antonveneta spendendo 7,3 miliardi di euro. Quando Abn Ambro entra in difficoltà, intervengono tre grandi banche europee: nel maggio del 2007 lo spagnolo Santander, la Royal Bank of Scotland e il colosso belga Fortis acquistano Abn Ambro investendo 71 miliardi. Sono operazioni che coinvolgono, badate bene, le più grandi banche europee.

Il Banco di Santander, legato all’Opus Dei, è interessato al ramo italiano e sudamericano del gruppo olandese, che nel complesso paga 19 miliardi (di cui 6,6 per Antonveneta). Antonveneta però è vicina al fallimento, cosicché i dirigenti del Santander (Botin e Gotti Tedeschi, personaggio di cerniera di tutto l’affare noto per essere stato dal 2009 al 2012 presidente dello Ior) contattano il Monte dei Paschi di Siena per verificarne la disponibilità all’acquisto. L’operazione avviene tra il 2007 e il 2008 e si conclude rapidamente, cosicché il Santander può, con i soldi ricevuti dal Monte, perfezionare l’acquisto di Antonveneta girando la cifra incassata ad Abn Ambro. In sostanza, Mps versa 9 miliardi per una banca – che ha anche più di 7 miliardi di debiti nei confronti di Abn Ambro, i quali ora sono a suo carico – che era appena stata acquistata, senza pagarla, per 6,6 miliardi. Abn Ambro, Fortis e la Royal Bank of Scotland falliscono subito dopo. Santander si salva, forse perché al suo posto fallisce Mps. Non è pensabile che operazioni di questa portata avvengano all’oscuro degli organi di vigilanza nazionali e internazionali. Più nello specifico, non è pensabile che l’operazione Mps-Antonveneta non sia stata vagliata dagli organi stessi, o che questi siano stati tenuti all’oscuro o messi di fronte al fatto compiuto. E c’è un particolare che merita attenzione: Mps accetta la condizione imposta dal Santander che l’Antonveneta venga acquistata senza effettuare la due diligence cioè senza il controllo dei conti della banca stessa. Cosicché si trova sul groppone, oltre ai 9 miliardi spesi per l’acquisto, altri 7 miliardi di debiti da onorare. Al tempo il governatore della Banca d’Italia, cioè dell’istituzione che avrebbe dovuto vigilare sull’operazione, era Mario Draghi. Quest’ultimo era anche presidente del Financial stability board, massimo organo di controllo del sistema finanziario internazionale.

Capo della vigilanza della Banca d’Italia era Anna Maria Tarantola, cattolica, giunta in quella posizione su chiamata di Draghi nel 2006, mentre direttore generale era Fabrizio Saccomanni. Tutti personaggi promossi in seguito ad incarichi assai più prestigiosi. Difficile pensare che quelle promozioni, come la nomina di Draghi a presidente della Bce, siano state ottenute per aver vigilato con attenzione sulla gigantesca operazione. Regista dell’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps è stata dunque la finanza cattolica. In particolare la banca vicina all’Opus Dei – che solo per aver trasferito una banca sull’orlo del fallimento, l’Antonveneta, da Abn Ambro al Monte dei Paschi – ha guadagnato quasi 2 miliardi e mezzo di euro. Forse anche per questo gli inquirenti sono alla ricerca di una presunta tangente di oltre un miliardo che potrebbe essere transitata in parte sui conti dello Ior, conti che, come è noto, risultano quasi del tutto inaccessibili alle autorità giudiziarie extravaticane. Quanto sommariamente qui ricostruito si trova descritto nei dettagli nel volume di E. Lannutti e F. Fracassi, Morte dei Paschi. Dal suicidio di David Rossi ai risparmiatori truffati. Ecco chi ha ucciso la banca di Siena (PaperFirst, 2017), al quale rimandiamo. Veniamo ora all’aspetto più…

L’articolo di Andrea Ventura prosegue su Left in edicola


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Ex Jugoslavia, la guerra non è finita

TOPSHOT - A man stands in front of a graffiti depicting former Bosnian Serb commander Ratko Mladic and reading "Serbia" written in Cyrillic, painted on a wall in Belgrade on Nocember 22, 2017. Ratko Mladic, who was convicted of genocide on November 22, 2017, believed himself to be a crusading defender of the Serbs but was dubbed the "Butcher of Bosnia" for mass slaughter at the hands of his forces. / AFP PHOTO / OLIVER BUNIC (Photo credit should read OLIVER BUNIC/AFP/Getty Images)

Mentre Ratko Mladić gridava ai giudici “Laž, laž” (bugia, bugia), un gruppo di una decina di persone si lasciava finalmente andare a un breve applauso e a un respiro profondo. Per tanti anni quelle parole “doživotna robija” (prigionia a vita) sono state pretese e attese ed ora, davanti alla televisione, nel mattino del 22 novembre a Sarajevo, vengono accolte con un giubilo pacato e un amaro sollievo. Il tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja ha sentenziato il generale delle truppe serbe bosniache Mladić, dichiarandolo colpevole di crimini contro l’umanità, del genocidio di Srebrenica del luglio 1995 che ha causato la morte di oltre 8mila persone, di terrore contro la popolazione civile di Sarajevo, della presa in ostaggio del personale dell’Onu. Con questo giudizio, si chiude dopo 530 giorni di processo e 591 testimoni, l’ultimo atto del tribunale speciale dell’Aja.

«Forse oggi posso mettermi l’anima in pace» sussurra Bahra Hodžic, alzandosi stremata dalla sedia dove è rimasta incollata ad ascoltare la sentenza, con gli altri genitori appartenenti all’associazione dei bambini vittime della guerra. «Il dolore e l’ingiustizia sono arrivati all’improvviso, la giustizia ci ha messo molto di più» aggiunge. In mano una foto di suo figlio, sul tavolo con la coperta verde delle biglie da gioco e un peluche, che si confondono alle foto di altre vittime e a oggetti che a loro appartenevano. A Bahra la guerra ha portato via tutto: casa, figlio, marito, madre. Solo chi ha patito la medesima sorte può capire la sua pena.

Le persone nella sala non hanno molta voglia di chiacchierare dopo il verdetto, hanno fretta di tornare a casa, sedersi tranquilli, lasciar scorrere il dolore di una ferita aperta, che questa condanna aiuterà per lo meno ad alleviare. Ne è convinto Ramiz Holjan, un signore di 65 anni, che non ha trovato pace dal 16 dicembre 1992. Era una giornata di sole, suo figlio Admir si era comportato bene a pranzo dai vicini. Aveva voglia di giocare. «Posso uscire?» chiese al padre. «Certo» gli rispose Ramiz. Pochi secondi dopo la casa tremò per un’esplosione. Ramiz e tutti i vicini scesero in strada a vedere ciò che era successo. Non potevano…

Il reportage di Nicola Zolin prosegue su Left in edicola


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La salute non può essere ridotta a una merce

Un momento della protesta dei giovani medici in Piazza Montecitorio che rivendicano il loro diritto di accedere alla specializzazione, Roma, 2 Aprile 2014. ANSA/ UFFICIO STAMPA +++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY +++

La Fp Cgil medici e dirigenti sanitari si è riunita il 1° dicembre a Roma per parlare della crisi del sistema sanitario pubblico, e per ritrovare, nella partecipazione e nella condivisione nuovo vigore, per proporre strategie di governance sanitaria che superino la mercificazione del diritto alla salute. Ci aspettano sfide difficili e importanti perché lo sappiamo, la nostra sanità, “la più bella del mondo”, è in declino. Per comprendere la situazione attuale e le sfide che ci attendono è necessario ripercorrere la storia della sanità in Italia.

In realtà la riforma del 1978 (legge 833) con l’istituzione del Sistema sanitario nazionale rappresenta un punto di rottura completo con il passato, perchè introduce un’evoluzione nel pensiero e nella cultura come fondamento dell’assistenza sanitaria che, da quel momento in poi, si sarebbe concretizzata nel perseguimento di obiettivi di equità sociale. Ma ancora oggi, nonostante la realizzazione di un sistema sanitario che fa, anzi faceva, invidia a tutto il mondo, i principi di quella riforma rimangono in gran parte disattesi.

Le due riforme che seguirono quella del 1978 (la 502 del 1992 e la 229 del 1999) non avevano in realtà l’obiettivo di rendere completo il cammino della 833, venivano realizzate piuttosto per puri motivi economici dettati dalla necessità di risanare il buco del bilancio che risaliva ai tempi delle mutue. «Si è trattato – cito il professor Briziarelli dell’università di Perugia – di manovre basate più su interventi di ingegneria istituzionale e gestionale che di correzioni delle modalità complessive del governo dell’assistenza», con l’aziendalizzazione e con il pricipio della concorrenza. In particolare, si introducono meccanismi di mercato che non solo creano un’improbabile competizione tra pubblico e privato, ma anche tra le aziende pubbliche e tra le stesse regioni.

Dal 2011 la situazione poi è precipitata, il progressivo ed inarrestabile definanziamento del fondo sanitario nazionale, ha creato un corto circuito economico da cui è difficile uscire. È opinione largamente condivisa che la crisi della sanità del terzo millennio sia dovuta…

L’articolo di Andrea Filippi, segretario generale Cgil Funzione Pubblica Medici, prosegue su Left in edicola


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Susanna Camusso: La Cgil in piazza per il futuro del Paese

SUSANNA CAMUSSO CGIL

Il 2 dicembre la Cgil lancia una mobilitazione per difendere le pensioni e il futuro del Paese. Prenderà il via in contemporanea in cinque città – Roma, Torino, Bari, Palermo, Cagliari – con l’obiettivo di favorire la partecipazione a livello territoriale. Il nodo è la proposta avanzata dal governo Gentiloni sulle pensioni, proposta che è stata rigettata dalla Cgil e che è stata invece accettata da Cisl e Uil, anche se fa marcia indietro rispetto alle promesse dell’anno scorso. Nel settembre del 2016 il governo era infatti disponibile ad avviare un percorso che portasse all’attivazione di una pensione di garanzia per i giovani e per le donne valorizzando il lavoro “di cura”, ma oggi la trattativa segna un passo indietro su questi temi, mentre sono solo 14mila gli esentati dall’aumento a 67 anni nel 2019. Per capire meglio il quadro della situazione Left ha incontrato la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso.

Perché la Cgil ha detto no?
Ci sono due fondamentali motivi: il primo è che quando si assumono degli impegni vanno rispettati, altrimenti diventano irrilevanti gli accordi che si raggiungono. Questo, su un piano del rigore del comportamento e delle scelte. In secondo luogo al termine di quella che è stata a lungo chiamata la “fase due” i risultati auspicati non ci sono stati. Il sindacato deve tenere in considerazione questo fatto dirimente. È stata una occasione di cambiamento andata perduta. Dal governo è giunto un messaggio sbagliato. Manca il senso di una prospettiva in cui anche quelli che vengono sbandierati come elementi di crescita e di nuova condizione positiva dell’economia possano avere ricadute sociali significative. La proposta del governo non fa che rimarcare l’enorme distanza che c’è fra la lettura che viene data dagli eventi e il sentire delle persone, che si percepiscono ancora dentro la crisi.

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, dice che il piano del governo riserva attenzione ai giovani. Ma spostare sempre più in avanti l’asticella dell’età pensionabile aiuta i giovani?
Non li aiuta e non è utile a nessuno produrre divisione fra generazioni. C’è dietro una vecchia idea che sia necessario dividere il mondo di chi è più debole. Perché proprio di questo stiamo parlando: si continua a contrapporre gli interessi di qualcuno a quelli di qualcun altro, ma guarda caso tutto questo avviene nell’alimentazione costante di una guerra fra poveri. C’è di più. Non è giusto mettere al centro i giovani in una logica solo congiunturale. La logica deve essere, invece, quella di costruire una prospettiva. Io penso che quella lanciata dal governo non sia affatto una comunicazione attrattiva per i giovani. Penso sia profondamente sbagliata perché si basa sull’idea che si possa cancellare la dimensione sociale, il welfare, lo star bene delle persone. Non puoi prospettare una situazione fatta di contingenza e di dipendenza dalla stabilità finanziaria: un mantra che non si confronta mai né con le condizioni ambientali, né con quelle sociali; una litania che ha creato le condizioni per l’arricchimento di pochi e l’impoverimento di tanti.

Al corteo contro la violenza sulle donne, lo scorso 25 novembre a Roma, una manifestante aveva un cartello con una scritta: “Anche andare in pensione a 67 anni è una violenza sulle donne”.
Non c’è dubbio che le donne abbiano pagato il prezzo più alto…

L’intervista di Simona Maggiorelli a Susanna Camusso, segretario generale Cgil, prosegue su Left in edicola


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Quei tre milioni di malati cronici venduti ai privati

Dal diabete all’Alzheimer, dalla sclerosi multipla all’asma: sono 65 le patologie che in Lombardia, dai primi mesi del 2018, potranno essere curate non più dal medico di famiglia ma da cosiddetti “enti gestori”, scelti da una apposita lista che i cittadini possono consultare online. «Basta code, prenotazione delle visite mediche e ricerche dei luoghi di cura», con il nuovo modello «sarà il gestore a seguire e accompagnare il paziente, non il contrario», aveva annunciato l’assessore lombardo al welfare, Giulio Gallera, di Forza Italia, descrivendo quello che considera un successo per quanto riguarda la qualità del servizio.

Ma, dietro ad una apparente operazione di efficientamento, si nascondono rischi gravissimi per i pazienti ed interessi economici enormi. Che, ovviamente, fanno gola ai privati. Per comprendere fino in fondo questa vicenda, però, é necessario procedere per gradi. Innanzitutto, i potenziali interessati da questa riforma sono oltre tre milioni di cittadini, più del 30% della popolazione della Lombardia. Sono persone affette da malattie croniche che hanno bisogno di prestazioni complesse e prolungate che assorbono il 70% dei fondi destinati alla sanità regionale. Fondi che saranno dirottati ai 294 “enti gestori” ritenuti idonei in seguito a un’istruttoria delle otto Agenzie di tutela della salute (ex Asl) della Lombardia. I gestori, a loro volta, hanno già scelto di appoggiarsi a 1072 enti erogatori che forniranno materialmente le cure, anch’essi approvati dalle Ats lombarde.

Ma chi sono questi gestori? Si tratta di enti pubblici, certo, ma anche (e soprattutto) privati, oppure medici associati in cooperative. I quali non devono più solo essere in grado di offrire cure mediche. Il gestore, infatti, può arrivare a prendere in carico sino a 200mila pazienti contemporaneamente, e per ognuno di loro dovrà stipulare un contratto privato annuale, detto Patto di cura, sulla base del quale stilare un Piano di assistenza individuale (Pai), dove vengono specificate le prestazioni ritenute necessarie. Il tutto col sostegno di un case manager, un coordinatore che gestirà le richieste di tutta la mole dei pazienti.

Adesso, è plausibile immaginare che piccole cooperative di medici riusciranno a competere coi colossi multinazionali della salute nel fornire un servizio del genere? Che conseguenze potrebbero dunque esserci per i pazienti, per i quali si smaterializzerebbe il legame fiduciario col medico di base? E soprattutto, quale futuro prefigura questa riforma? «Solo una società privata può investire milioni in grandi compagnie di reclutamento, in spot televisivi per accaparrarsi pazienti, in manifesti pubblicitari esposti per strada. Quindi le cooperative di medici nel giro di un anno e mezzo saranno fuori dal mercato…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola


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