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La sfida vinta da Corbyn: portare il Labour a sinistra

epa06226289 Britain's opposition Labour Party leader Jeremy Corbyn gestures at the Labour Party Conference in Brighton, Britain, 25 September 2017. Labour's annual party conference takes place in Brighton from 24 to 27 September 2017. Over 11,000 people are expected to attend. EPA/NEIL HALL

Le nuove generazioni britanniche sono le prime dal dopoguerra a dover subire un peggioramento delle condizioni di vita rispetto a quelle che le hanno precedute. Genitori e fratelli maggiori hanno potuto laurearsi gratis o con tasse universitarie bassissime, mentre i cosiddetti millenials escono dalle università mediamente con 57mila sterline di debito accumulato. Il fiore all’occhiello dello Stato sociale britannico, l’Nhs, il Servizio sanitario nazionale, è ridotto al lumicino: le liste di attesa e la scarsità dei servizi sono ormai a livelli emergenziali, laddove prima rappresentavano una eccellenza di cui il popolo britannico andava fiero. Per i giovani, nelle grandi città (ma non solo), poter anche solo sognare di acquistare una casa di proprietà appare impossibile. Per i prezzi esorbitanti certo, ma anche perché i livelli salariali sono talmente bassi da rendere impensabile poter mettere dei risparmi da parte. Di fatto, sebbene la disoccupazione in Gran Bretagna sia a livelli bassissimi, sono moltissimi i working poors e cioè lavoratori con stipendi talmente bassi da non riuscire ad abbandonare la soglia di povertà; questo soprattutto perché spopola lo strumento degli zero hour contracts e cioè contratti di lavoro a chiamata senza la certezza effettiva di un numero minimo di ore di lavoro settimanali.

Questa è la dura realtà che le fasce medio basse della popolazione britannica si trovano ad affrontare, soprattutto le nuove generazioni, con un livello di disuguaglianza spaventoso ed in continua crescita. Di fronte a questo panorama drammatico sino a qualche anno fa i due principali partiti del Paese, quello conservatore e quello laburista, avevano sostanzialmente una posizione comune: non c’è alternativa all’austerità perché, per usare una delle battute più infelici di Theresa May durante la recente campagna elettorale, «There is no magic money tree» e cioè “i soldi non crescono sugli alberi”. Nel Parlamento britannico era questo il mantra, fatta eccezione per qualche timido tentativo di “radicalizzare” il dibattito da parte di Ed Miliband, duramente contrastato dall’ala moderata del Labour.

Non c’è dunque molto da stupirsi se quando Jeremy Corbyn….

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola


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Die Linke che resiste contro razzismo e precarietà

New elected leader of German party's Die Linke (The Left Party) Katja Kipping poses for photographers during a party meeting in Goettingen, central Germany, on June 3, 2012. AFP PHOTO / JOHANNES EISELE (Photo credit should read JOHANNES EISELE/AFP/GettyImages)

Il voto tedesco del 24 settembre segna la fine della Bundesrepublik, la Repubbica federale tedesca così come la si è conosciuta nelle sue fasi storico-politiche dalla sua fondazione nel 1949 (Bonner Republik, con capitale Bonn) e nel dopo riunificazione-annessione della Germania Est in seguito alla dissoluzione della Ddr nel 1989-90 (Berliner Republik, con capitale Berlino). L’ingresso con il 12,6 per cento di un partito di destra razzista e nazionalista, Alternativa per la Germania (Afd) nel Bundestag, il Parlamento federale, per la prima volta dal 1945, rappresenta una cesura che scuote violentemente l’intero sistema politico tedesco e la sua celebrata stabilità. Un governo tra Cdu, Liberali e Verdi appare ancora lontano, c’è chi osa l’ipotesi di nuove elezioni. Si aspetta il 15 ottobre, quando la Bassa Sassonia, il Land di Volkswagen, vota il parlamento regionale. La cancelliera Merkel non vede «perché si debba cambiare qualcosa», dopo il crollo del suo partito – la Cdu – in totale estraniamento dalla realtà. Nel frattempo, una Spd al minimo storico (20,5 per cento) sembra per ora puntare su opposizione e cooperazione con la Linke, la sinistra.

In un quadro simile il risultato di quest’ultima è quindi motivo di soddisfazione. Non era per niente scontato aggiudicarsi il 9,2 per cento dei consensi (+ 0,6) e oltre mezzo milione di voti assoluti in più, in particolare quelli di persone giovani (11 per cento) e con elevato livello di istruzione (12 per cento). Votano a sinistra molti delusi della Spd alleata di Merkel, senza una politica autonoma, insieme a ex elettori Verdi, alla ricerca di un’alternativa sociale, per i diritti umani e accoglienza contro discriminazioni e razzismo. A Berlino, Die Linke (La Sinistra) raggiunge il 18,8 percento, unica forza politica al governo della città insieme a Verdi e Spd che aumenta i consensi (+ 0,3), diventando il secondo partito della capitale. La Linke si piazza prima in sei circoscrizioni su dodici e in centro compensa ampiamente le perdite della periferia, recuperando qui come altrove il “non voto”.

La Sinistra si afferma soprattutto nelle città, riesce addirittura a “sfondare” nell’ultraconservatrice Baviera (da 3,8 a 6,1 percento). Raccoglie così i frutti dell’intenso lavoro sul territorio contro il caro-affitti e la penuria di case popolari, con il volontariato solidale con i migranti, il precariato giovanile del mondo accademico e quello dei bassi salari nei servizi, in particolare nel settore sanitario contro i tagli al personale…

L’articolo di Paola Giaculli prosegue su Left in edicola


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Juan Carlos Monedero (Podemos): «La sinistra deve diventare sexy»

BARCELONA, SPAIN - OCTOBER 02: Students hold a silent protest against the violence that marred yesterday's referendum vote outside the University on October 2, 2017 in Barcelona, Spain. Catalonia's government met Monday to discuss plans to declare independence after the results of yesterday's disputed referendum. (Photo by Dan Kitwood/Getty Images)

Politologo e professore di Scienza Politica e dell’Amministrazione presso l’Universidad complutense de Madrid, Juan Carlos Monedero, 54 anni, è stato nel gennaio del 2014 uno dei fondatori di Podemos. Alle spalle ha un’esperienza di osservatore e analista per Izquierda Unida e per il Venezuela di Chávez. Insieme a Pablo Iglesias e Íñigo Errejón, ha costruito il partito che sta cambiando la Spagna, occupando la segreteria del Processo costituente e del Programma di Podemos. Nell’aprile del 2015, dopo una dura campagna di stampa contro di lui, ha deciso di dimettersi, ma continua a militare e ad offrire analisi necessarie per capire come la sinistra possa ritrovare la bussola. È autore di diversi libri, uno tradotto anche in Italia: Corso urgente di politica per gente decente (Feltrinelli, 2015).

L’internazionalismo ha futuro?
In un contesto di concorrenza dentro il mondo del lavoro tanto negli stati nazionali come in tutta l’Unione europea, credo che l’internazionalismo renda molto difficile il coordinamento che ha avuto la sinistra dopo la Seconda guerra mondiale. Soprattutto perché oggi non si riconosce l’avversario, che prima era identificato con una destra che si era fatta fascista. Pesa di più l’interesse particolare che porta a posizioni egoiste e individualiste e non il male che ci fa il modello neoliberista. Si fa molta fatica ad identificarlo come il responsabile di tutto quel che succede.

Quali sono i compiti urgenti per la sinistra?
Identificare il “nemico” in un modo chiaro. Rompere la selettività strategica dello Stato che converte l’idea della rappresentazione in uno strumento potente delle minoranze. E stabilire….

L’intervista di Steven Forti a Juan Carlos Monadero prosegue su Left in edicola


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Si prega di aprire gli occhi

Una foto è comparsa su tutti i mezzi d’informazione. In essa è ritratto l’assassino di Las Vegas, Stephen Paddock. È una foto molto strana. Tra le tante foto possibili tra cui scegliere quella selezionata dai media lo ritrae con gli occhi chiusi.
Al contrario di quanto si fa normalmente con le foto venute male quella non è stata gettata via. Forse perché dice qualcosa di quell’uomo e di cosa è accaduto a Las Vegas?
La tragedia è nota. Un uomo di 64 anni è entrato in una stanza d’albergo con 23 armi da fuoco. Ne aveva altre 19 a casa sua.
Ha ucciso 58 persone a caso e ferito diverse centinaia di altre sparando dalla finestra. Poi si è ucciso.
Nessuno riesce a capacitarsi. Nessuno riesce a trovare un motivo. Una persona normale che un bel giorno si sveglia e fa la peggiore strage della storia degli Stati Uniti.
L’unico problema che viene portato come unica e vera causa sarebbe la possibilità che c’è negli Stati Uniti di procurarsi facilmente delle armi.
Nessuno dice che le armi, senza qualcuno che le usi, sono oggetti inanimati. Chi uccide è sempre un essere umano. L’arma è solo uno strumento. So che è banale ma sembra che tutto il problema siano le armi!
Non si riesce a pensare e vedere che l’assassino era, anche se nascosto, un malato mentale gravissimo.
Non si vuole vedere e pensare che la malattia mentale ha in sé una violenza invisibile che può diventare manifesta in maniera improvvisa.
Le parole del presidente Trump sono state «an act of pure evil». Un atto di male puro.
Sarebbe l’incomprensibile. Sarebbe la natura umana impossibile da comprendere perché naturalmente cattiva. Sarebbe il fondo distruttivo e omicida degli esseri umani, il caos di pulsioni parziali, il peccato originale, il nulla originario, l’inconscio perverso. Nomi diversi che dicono tutti la stessa cosa: “Si prega di chiudere gli occhi”, non c’è niente da vedere, non si può comprendere.
È anche il pensiero di chi dice che il vero problema sono le armi. Perché l’idea è che se si mettono a disposizione di persone normali strumenti per uccidere, l’uomo qualunque, la persona normale, ucciderà.
Se non uccide è solo per il controllo della ragione che tiene a bada il mostro, che tiene a bada il luogo dove si annida il Male. Là dove non si deve vedere perché non si può comprendere e perché è vietato. “Si prega di chiudere gli occhi”.
Dicono che non si può comprendere. Invece si può pensare che era un malato.
È necessario avere il coraggio di pensarlo e dirlo.
Massimo Fagioli si incazzava ogni volta che accadevano queste tragedie. Sempre in America, sempre ad opera di americani, sempre senza un motivo. Sempre persone “normali”. E sempre tutti i media a dire del problema delle armi facili da ottenere. Diceva: “Lo scandalo non sono le armi ma è che nessuno dice che uccidere 27 persone è malattia mentale!”.
È necessario dire che la malattia mentale esiste perché solo così sarà poi possibile affrontarla. Il male non esiste. Esiste la malattia.
È necessario tenere gli occhi aperti, ribellarsi al comando della cultura, cattolica in primis, che dice “an act of pure evil”, un atto di puro male. È il comando della cultura che dice “Si prega di chiudere gli occhi”.
È il cartello del sogno di Freud di cui parla egli stesso. Racconta di averlo fatto in occasione della morte del padre.
Massimo Fagioli, in Teoria della nascita e castrazione umana, spiega come il chiudere gli occhi nei riguardi della morte del padre significa completa cecità verso la realtà psichica umana. Significa psicosi nella misura in cui il cartello con l’ordine di chiudere gli occhi compare prima della morte del padre. La pulsione di annullamento viene pensata come onnipotente perché essendo prima della morte del padre essa la determinerebbe. Significa non avere mai più la possibilità di scoprire la pulsione di annullamento. Significa obbedire all’ordine astratto che dice che non è possibile sapere. Significa obbedire all’istinto di morte e non poter conoscere l’istinto di morte. Significa credere nel peccato originale, non pensare possibile distinguere il bene dal male, il buono dal cattivo. Significa tenere gli occhi chiusi nei confronti della psiche umana. Significa credere all’esistenza del Male come realtà naturale degli esseri umani.
Significa aver annullato la nascita e volere impedire agli altri di vedere la verità di essa.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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Dare un senso nuovo alla parola “internazionalismo”

Internazionalismo è una parola che è uscita da tempo dal vocabolario della sinistra. Oggi suona come un termine desueto, antico, buono soltanto per i manuali. Quale sia stato il suo significato e la sua importanza nella storia del socialismo lo abbiamo chiesto a uno studioso rigoroso e militante come Luciano Canfora, che aprendo la cover story invita a riflettere su quanto – purtroppo assai più della sinistra – il capitalismo abbia saputo sfruttare questo concetto a proprio vantaggio.

Di fronte ai risorgenti municipalismi, non solo di retrivo stampo leghista, ma anche di matrice indipendentista (come accade in Catalogna o in Scozia) a noi è parso che valesse la pena riprendere a interrogarsi su questo tema, guardando avanti a un’idea di «sinistra transnazionale» come la chiama Katja Kipping, leader di Die Linke. Nel drammatico quadro del crollo dell’Spd e dell’avanzata delle destre estreme e filo-naziste in Germania, l’unica nota positiva dell’ultima tornata elettorale è stato il risultato della sinistra che, a Berlino in particolare, ha raccolto consensi soprattutto fra i giovani e nelle fasce più istruite della popolazione. Un risultato interessante, lasciato quasi del tutto nell’ombra dai media italiani. E che in queste pagine, la collega e traduttrice Paola Giaculli, dalla capitale tedesca, documenta e analizza. Con il contributo del saggista Domenico Cerabona, invece, abbiamo cercato di approfondire il senso del Manifesto contro il neo liberismo lanciato da Jeremy Corbyn che è riuscito in un piccolo grande miracolo: spostare il Labour party a sinistra e fare breccia sull’elettorato giovane, facendo una campagna contro il debito universitario e avendo il coraggio di rilanciare ideali e valori di una sinistra antirazzista, che lotta per una società più equa, per il bene comune, per il diritto alla scuola e alla sanità pubblica, per i diritti civili e delle donne. Ce lo ha raccontato un appassionato Anthony Cartwright, scrittore impegnato nel Labour a livello locale, che con il suo ultimo romanzo, Iron Towns, narra la de-industrializzazione e la crisi dell’Inghilterra profonda, bacino del voto pro Brexit.

Lo scossone che il leader del partito laburista ha dato alla politica inglese ha “costretto” perfino il colosso Bbc a interrogarsi su una possibile fine del capitalismo, nota con soddisfazione lo scrittore Cartwright che rilancia il tema dell’unione a sinistra in Europa, contro i rigurgiti nazionalisti e il populismo dilagante. Di una possibile alleanza socialista nel Parlamento europeo con Syriza e con Podemos aveva parlato Jeremy Corbyn l’anno scorso prima del referendum inglese. Una alleanza internazionale a sinistra, anti austerità e anti liberista, è tanto più importante oggi per combattere gli effetti isolazionisti della Brexit. L’obiettivo, dice Corbyn, è provocare una «radicale riforma progressista». Mentre la sinistra italiana appare ancora divisa e in parte sedotta dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia (che dopo aver votato sì al referendum sulla riforma Renzi, tratta con il premier Gentiloni dichiarando apertamente di non voler guidare un partito di sinistra ma un ampio e moderato schieramento di centrosinistra), ci è sembrato interessante provare a uscire da un’ottica solo nazionale, andando a indagare ciò che di vivo e vitale si muove nella sinistra in Europa e non solo. Continueremo il nostro viaggio nelle prossime settimane, interrogando la sinistra francese di Mélenchon, tornando a indagare quel che accade in Grecia con Syriza (nato come federazione di sinistra), e altre realtà oggi in crescita. Perché come sottolinea il professor Canfora, se la sinistra fa davvero il proprio mestiere, vince. Se riesce a non perdersi in particolarismi e frammentazioni, aggiungiamo noi, se è in grado di fare proprio un pensiero nuovo basato sulla ricerca della verità della realtà umana, che non sta nella differenza del colore della pelle, ma nell’uguaglianza della nascita.

Così la parola “internazionalismo” potrebbe essere ricreata assumendo un significato nuovo e rivoluzionario.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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Luciano Canfora: «La sinistra, più va a sinistra più vince»

Il professor Luciano Canfora presenta La schiavitù del capitale (Il Mulino) alla Libreria Feltrinelli di Udine il 23 ottobre, nell’ambito del festival Mimesis

«Il concetto di “internazionale” è molto bello e venusto, si potrebbe dire con un sussulto estetico. Ma è attuato solo dal grande capitale finanziario. L’unico internazionalismo possibile oggi è quello che un clic di computer rovina un Paese e ne innalza un altro, fa speculazioni in Borsa, lancia lo spread da Singapore a Toronto passando per Roma, Milano, Francoforte», dice il filologo e storico Luciano Canfora (che ha di recente ha pubblicato La schiavitù del capitale, Il Mulino). Il capitale è una bestia gigantesca diceva Marx, è «lo stregone». «Però si illudeva quando scriveva che suscita forze che non sa dominare. Ci riesce benissimo, mi pare. Ricorre alla forza militare per dominarle. E ha i governi ai propri piedi. Anche quando fanno retorica. Il governo italiano – continua Canfora – ne è un campione, ma vende le armi in tutto il mondo provocando guerre. Il che fa un tantino schifo. Però dirlo è faticoso e lo fanno in pochi».

Quando Marx lanciò il famoso “Proletari di tutto il mondo unitevi”, a quali Paesi pensava?

Si potrebbe immaginare, data la sua esperienza di vita, che pensasse alla Germania più progredita, alla Francia settentrionale, all’Inghilterra, forse a un pezzettino del nord Italia, al Belgio, insomma ai Paesi più industrializzati, alcuni perfino colonialisti, dove  c’era una classe operaia piuttosto omogenea. Così un collegamento internazionale era pensabile. Ma le due volte in cui si tentò di avviarlo ci fu un fallimento. La prima Internazionale fondata da Marx si esaurì in pochi anni. La seconda fu un prodotto tardivo, sembrava più solido, ma bastò la guerra del 1914 per farla andare in pezzi. La terza, quella più aggressiva e militare, fu sciolta nel maggio del 1943 da Stalin: nella guerra mondiale era stato alleato di due Paesi capitalisti come gli Usa e l’Inghilterra, e avere al contempo una organizzazione internazionale volta a fare una rivoluzione comunista sia in Inghilterra che in Nord America era una contraddizione in termini. Ne prese atto e la sciolse. D’altra parte anche un grande pensatore di sinistra come Antonio Gramsci, pian pianino, arrivò a pensare che fosse necessario considerare i fattori nazionali, studiare specificamente la situazione dell’Italia, con il problema dei cattolici, della Chiesa, dove c’erano i contadini; una situazione completamente diversa da quella della Francia, della Svizzera o del Benelux o dell’Argentina. Contro l’Internazionale si schierarono le forze più diverse, compresi i fascismi che si fingevano socialisteggianti mentre ponevano l’accento sull’aspetto nazionale. Lo stesso Togliatti lanciò la formula: «Le vie nazionali al socialismo». Questa è la storia che abbiamo alle spalle, quanto al presente… del segretario del Pd Renzi non parliamo nemmeno perché non appartiene alla cultura della sinistra.

Un problema che si ripropone oggi è quello dei nazionalismi mentre si riaffacciano istanze indipendentiste, come in Catalogna.

Mi permetta una considerazione: quando i Paesi baschi si mettevano in luce, con una lotta anche terroristica per l’indipendenza dalla Spagna, tutta la sinistra di vario colore, specie se estrema, era con loro. Ricordo che qui all’università i corridoi erano tappezzati di scritte per Euskadi (Paesi baschi in basco). Quei poveri giovanotti insipienti e ignoranti pensavano che, finito il franchismo, la questione basca fosse ancora aperta. Anche allora si diceva che la parte ricca della Spagna se ne voleva andare per i fatti propri, per egoismo. Quando soggiornai a lungo in Spagna nel 2008 in molti mi dicevano che i Paesi baschi non volevano condividere il loro star bene con altri; la stessa cosa viene detta oggi della Catalogna. I fattori storici comunque vanno considerati: entrambe quelle regioni, del Nord e del Sud della Spagna, hanno patito il franchismo, si sono ribellate, hanno subito terribili repressioni, hanno una memoria storica ferita. Il continuismo incarnato da Mariano Rajòy è evidente. Dall’altra parte anche i socialisti sono divisi e Sanchez alle elezioni è andato maluccio. Il premier Rajòy ha un governo di minoranza, non sarà come don Adolfo Suárez González franchista diventato primo ministro sotto Juan Carlos, ma conservatore certamente sì, ed ha il suo puntello nella monarchia, che in Spagna è tutto meno che una garanzia di democrazia. Allora il fatto che la Catalogna dica basta, dispiace a quel genio di Giorgia Meloni e quindi piace a me.

Evoca gli anni Trenta il pugno duro di Rajòy sui catalani che pacificamente cercavano di votare, seppur a un referendum  non riconosciuto dal governo centrale. Di chi è la vera responsabilità di questa situazione?

Non siamo più nel 1936-39. Ci sono anche altre questioni da considerare. La più macroscopica è questa ridicola Unione europea, che è solo una unione monetaria, punto e basta. È uno strano agglomerato di governi nazionali. Non esiste una Costituzione europea che si possa dire veramente tale. C’è una Carta comune in cui non si parla dei popoli, si parla dei governi che ovviamente tutelano la propria unità nazionale. Ma i popoli, indipendentemente dagli Stati nazionali, hanno il diritto di far valere il proprio punto di vista all’interno di una unione di tutti i popoli europei. Gli Stati nazionali sono una formazione tardiva, che è nata nella storia e che finisce nella storia, c’è poco da fare. La Francia ci è arrivata prima, l’Italia e la Germania tardissimo. L’Inghilterra, che dà la lezione a tutti, ha il problema della Scozia e ha perfino una colonia interna, l’Irlanda del Nord. Si continua a parlare di intangibili Stati nazionali ma, torno a dire, sono un prodotto storico che ha un inizio e, piaccia o meno, una fine.

Ci interroghiamo su come questa sinistra dispersa possa avere rappresentanza in Europa, quando, come lei dice bene, la Ue è un’unione di egoismi, non fa circolare le persone, tanto meno i migranti, ma solo le merci.

È molto peggio. La Ue è una costruzione aberrante e ogni volta che ha un problema lo risolve con le botte come è accaduto nel caso della Grecia. È sotto gli occhi di tutti. Facciamo una piccola parentesi storica. La Catalogna apparteneva al Regno di Francia al tempo del cardinale Mazzarino nel Seicento. Noi italiani ci siamo presi un pezzo di Tirolo ad un certo punto. L’Alsazia è francese o tedesca? Possiamo fare seminari interminabili su questo, probabilmente non è né l’uno né l’altro; è alsaziana con un proprio patois.

Dunque che deve fare la sinistra?

La risposta l’ha già data Paolo Mieli.

Prego?

Inaspettatamente sul Corsera ha scritto che la sinistra può vincere solo se è veramente tale, più va a sinistra, più vince. Vedete la Linke in Germania, lo “spirito” spira ovunque.

In questo quadro come legge la rimonta di Corbyn?

Se la sinistra fa il proprio mestiere ha un insediamento sociale dignitoso. Naturalmente non sarà mai la maggioranza assoluta dei votanti. Non lo è mai stata in nessun Paese. Quando Lenin fece la Costituente guardò i numeri e la sciolse; l’Urss poi è durata 70 anni. Noi dobbiamo sapere che la sinistra è un pezzo della società che pesa nell’equilibrio delle forze, se fa veramente il proprio mestiere, se svolge il proprio compito facendo da contrappeso. La democrazia non è un ballo in maschera, è un conflitto, bisogna avere un ruolo preciso altrimenti non si conta nulla.

Possiamo dire dunque che il governo Renzi e quello Gentiloni non hanno praticamente nulla di sinistra, pensiamo alle politiche sui migranti e al codice Minniti.

È talmente patetica la facies del governo italiano che è anche inutile parlarne. È un governo che è stato commissariato da quello precedente, che ha ordinato come dovesse essere fatto. Il premier Gentiloni fa le stesse cose del precedente, senza la violenza verbale di Renzi, ma la pappa è sempre la stessa. Il ministro Minniti è andato a trovare Giorgia Meloni al festival dei Fratelli d’Italia e ha citato Italo Balbo. È stato un abbrassons nous colossale, i giornali non l’hanno detto. La sua strada per farsi apprezzare è stata citare Mussolini e Balbo. Poi si è giustificato dicendo: ma io vengo da una famiglia militare…

L’intervista di Simona Maggiorelli a Luciano Canfora è stata pubblicata su Left del 7 ottobre 2017

Versione integrale dell’intervista di Simona Maggiorelli a Luciano Canfora uscita su Left in edicola


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Stefano Incani (Uaar): Viviamo in uno Stato ipotecato dalla Chiesa

20090216 GENOVA -HUM- CAMPAGNA ATEI BUS: PARTITO ATTRAVERSANDO CENTRO GENOVA. Dopo le polemiche delle scorse settimane, e la modifica del messaggio, sulla linea 36 stamattina è partito ufficialmente l'ateobus. -ANSA/LUCA ZENNARO/JI

«Le battaglie culturali che portiamo avanti come Uaar da ormai trent’anni sono per un’Italia più consapevole e più aperta, certo, ma anche meglio attrezzata per difendersi da certe letture reazionarie che concepiscono la partita dei diritti come un gioco a somma zero: ciò che tolgo ai disoccupati lo do agli omosessuali. Non è così. La nostra è certamente un prospettiva di lotta di amplissimo respiro, che fa della laicità un principio cardine: per l’inclusione e il riconoscimento di diritti intangibili, ma anche perché questi siano realmente esigibili, sostanziali, e non subordinati ad appartenenze di ceto». Uscito vincitore dall’undicesimo congresso, da un anno e mezzo Stefano Incani è il segretario della Unione atei e agnostici razionalisti. Lo abbiamo incontrato per ragionare insieme su due parole chiave per una “sinistra” ideale: laicità e ateismo.

La modernizzazione dell’Italia, l’evoluzione della società sia in termini culturali che di equità sociale, può prescindere dalla laicità dello Stato?

Assolutamente no. Sono inseparabili. Faccio un semplice esempio. Questioni come la mancanza di una legge sul fine vita o di una normativa organica sui diritti riproduttivi sono considerate afferire in primo luogo ai diritti civili individuali e sono considerate tra le principali battaglie laiche da combattere. E fin qui non ci piove. Eppure allo stesso tempo sono fondamentali battaglie di eguaglianza: sia sul piano evidente della lotta alle discriminazioni, sia sul piano economico. Per rimanere sugli esempi di cui prima, chi ha mezzi economici adeguati può recarsi in Svizzera per ottenere una morte dignitosa, o in Spagna per accedere a pratiche di inseminazione artificiale. Chi non ne dispone, no. Ecco, per me non possiamo permetterci di separare, neppure solo sul piano teorico, le questioni dell’avanzamento culturale e civile, dell’equità sociale e della laicità. Dovrebbe essere scontato, ma così non è.

Dando un’occhiata ad alcuni dati significativi che emergono anche da inchieste della Uaar, emerge uno scollamento tra il Paese reale e le istituzioni. Nel senso che i cittadini pensano e vivono in maniera molto più laica di quanto vorrebbe quel Palazzo che per es. apre le scuole pubbliche all’ora di religione e ricopre di denaro la Chiesa.

Questa è, si può dire, una specificità italiana. La sinistra europea ha completamente abbandonato ogni riferimento al mondo del lavoro. In questo ambito, riforme feroci sono state portate avanti in Germania dai socialdemocratici, mentre in Francia la Loi Travail è “merito” dei socialisti. Ma questi Paesi, se non altro, hanno visto un avanzamento sul fronte dei diritti civili (il che non risarcisce alcunché, sia chiaro): in Germania addirittura è stata approvata quest’anno la legge che sancisce il diritto a matrimonio ed adozione congiunta per coppie dello stesso sesso (con un governo di centro-destra al potere). In Italia ci siamo dovuti accontentare di una legge mutilata, gravata da un grottesco dibattito sulla stepchild adoption, totalmente irriguardoso nei confronti dei bambini che sosteneva di voler tutelare. Che su tutto questo gravi l’ipoteca ecclesiastica è innegabile.

C’è chi si dice di sinistra e al tempo stesso acclama come (presunto) innovatore papa Francesco.

Non si può nascondere che, in un sistema politico da sempre ossequioso nei confronti del clero, l’irruzione di un personaggio “pop” come Bergoglio abbia dato nuovo fiato alle trombe del confessionalismo più retrivo. La Curia romana è riuscita a costruire un personaggio pubblico estremamente popolare, come avvenne per Giovanni Paolo II: in ambo i casi ciò è servito a travestire di modernismo riformista le inscalfibili pulsioni misogine, sessuofobe e reazionarie del Vaticano.

Dopo la morte di Stefano Rodotà chi ci rimane?

La morte del professor Rodotà ci ha addolorato enormemente, e ci ha privato di un intelletto lucidissimo. Ma è sintomatico che egli fosse rimasto sostanzialmente da solo a rappresentare un fronte laico che in Italia si regge sulla volontà e sulle quotidiane pratiche di libertà di tanti cittadini, persino di molti cattolici non più disposti ad appaltare la propria esistenza a dogmi insensati e pratiche non di rado inumane (basti pensare all’enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI largamente disattesa dai fedeli). Per questo, la Uaar oltre ad impegnarsi nella tutela dei diritti di atei e agnostici e nella valorizzazione sociale e culturale delle concezioni del mondo non religiose, lotta perché a tutti i laici sia data dai mezzi di comunicazione visibilità, e dalla politica ascolto e rappresentanza, come le statistiche dimostrano siano loro diritto. L’Uaar fa di tutte queste cause, senza incertezze, la sua ragione fondante. A iniziare dalla corretta applicazione della Legge 194, disattesa in alcune sue parti da quarant’anni.

Si può fare a meno della laicità in società multietnica (nonostante la caccia all’immigrato aperta dal Pd e dalle destre, e l’affossamento dello Ius soli)?

Il fatto che la nostra società si confronti con sempre più numerose comunità di immigrati è un dato del massimo rilievo, problematico e complesso come tutti i fatti sociali. Ma questo non fa che rendere più urgenti delle soluzioni politiche laiche a problemi che però sono preesistenti ai flussi migratori e al dibattito sullo ius soli. La laicità, cioè il principio di neutralità dello Stato in fatto di religione, è una garanzia costituzionale che deve essere data a tutti, italiani o no. Perché le leggi dello Stato valgono per una società nel suo insieme, non solo per le singole comunità che la abitano. E non ha a che fare solo con la possibilità di costruire una moschea (e noi, atei e agnostici, riconosciamo che quello ad avere un luogo per pregare è un diritto fondamentale), ma con la libertà di decidere della propria salute, dell’educazione dei propri figli, della propria vita affettiva senza gravami confessionali.

Come mai la Uaar ha sentito l’esigenza di festeggiare il suo trentennale?

Perché trent’anni sono un traguardo importante e noi abbiamo pensato potesse essere una bella occasione per incontrare le persone, scegliendo di festeggiarli dentro uno spazio di interazione con la cittadinanza. L’Uaar esiste anzitutto per questo: generare dibattito e confronto, aprire a nuove riflessioni, costruire coscienza politica. Però, ci tengo a sottolinearlo, è una festa che paradossalmente non avremmo voluto celebrare: perché noi, in un Paese normale, non dovremmo esistere.

*

L’APPUNTAMENTO – Trent’anni incredibili

Era l’ottobre del 1987: presidente del Consiglio era Giovanni Goria, in Vaticano comandava Wojtyla, il muro di Berlino era ancora in piedi e nessun Bush era ancora arrivato alla Casa Bianca. Nacque in quei giorni la Uaar. In questi trent’anni di cose ne ha combinate tante: ha lanciato la campagna per lo sbattezzo e quella per l’ora alternativa, ha dato vita a una rivista bimestrale e ha fondato un progetto editoriale, ha creato un premio cinematografico, ha lottato per l’autodeterminazione delle donne, per i diritti delle persone Lgbtq e per una legge sul fine vita, ha organizzato centinaia di eventi culturali su tutto il territorio nazionale, grazie anche alla costruzione di una rete capillare che, fra circoli e referenti, coinvolge 60 province. Ha denunciato, informato e contro-informato, ma soprattutto ha raccontato e dato voce a una parte di Paese spesso taciuta o inascoltata. Per ripercorrere le tappe di questa storia, ma soprattutto per festeggiare i risultati raggiunti e per immaginarne di nuovi la Uaar ha organizzato a Senigallia il primo Festival laico umanista: “Trent’anni… da non credere” (piazza del Duca dal 6 all’8 ottobre). Info: www.uaar.it

Venerdì 6 ottobre ore 22 – “Liberi di scegliere: dibattito su direttive anticipate di trattamento e Fine-Vita” con Mina WelbyBeppino Englaro Stefano Incani. Modera Simona Maggiorelli, direttore di Left

 

L’intervista al segretario Uaar, Stefano Incani, è stata pubblicata su Left del 30 settembre 2017


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Ghetto di San Ferdinando, i migranti si oppongono al business dello sgombero forzato

Foto dalla pagina Facebook "Comitato lavoratori delle Campagne"

San Ferdinando (RC), la polizia ha tentato venerdì mattina di sgombrare definitivamente quello che è stato uno dei ghetti più grandi d’Italia. Potrebbe sembrare una buona notizia per i lavoratori stranieri costretti a vivere nella baraccopoli, a poca distanza dai campi in cui raccolgono agrumi per pochi euro. Ma – come siamo abituati dalle cronache – anche in questo caso il piano B della Prefettura prevede una sistemazione peggiore della precedente. Stando almeno a quanto dicono molti “ospiti” di San Ferdinando. Che, per questo motivo, si sono opposti allo sgombero forzato.

La polizia ha tentato di convincere i lavoratori rimasti a trasferirsi nel “magazzino Rizzo”, una struttura da poco resa disponibile per ospitarli, che conta 250 posti letto. Per entrare in questo “ghetto legalizzato”, che di fatto prolunga la gestione emergenziale della questione abitativa (ed esistenziale) dei lavoratori, occorre però avere i documenti in regola. Una parte dei numerosi migranti che ancora risiedono nella baraccopoli hanno rifiutato di spostarsi, e per il momento lo sgombero è stato rimandato.

Un migrante di San Ferdinando, intervistato da Radio onda rossa, ha dichiarato che la polizia aveva precedentemente posizionato dei volantini in cui informava che oggi sarebbe stato l’ultimo giorno in cui la presenza degli ospiti della baraccopoli sarebbe stata tollerata, e che essi si sarebbero dovuti trasferire nel magazzino Rizzo oppure nella nuova tendopoli della Protezione civile, costruita questa estate.

Una parte degli “ospiti” di quello che era conosciuto come “ghetto di Rosarno” – infatti – era stato precedentemente trasferito in questa nuova tendopoli, una struttura con 464 alloggi, telecamere e badge per l’ingresso, ma molti migranti avevano comunque preferito continuare a vivere nella baraccopoli, senza l’invadente controllo delle telecamere, l’obbligo di avere documenti in regola, e con la possibilità di cucinare autonomamente ciò che preferiscono.

Il testimone intervistato, via etere, prosegue poi la denuncia specificando che «non sono stati resi disponibili posti per tutti i migranti», e che «la gente non ha voluto accettare la nuova soluzione anche perché si può accedere al magazzino Rizzo solo previa identificazione forzata», inoltre alcune persone avrebbero dichiarato di non voler fare parte di quello che viene considerato un «business» fatto sulla loro pelle.

Presente stamani anche un delegato della Cgil, in funzione di mediatore tra le autorità e gli ospiti della baraccopoli. Secondo la segretaria della Piana di Gioia Tauro Celeste Logiacco, contattata da Left, il sindacato «sta riconoscendo gli sforzi delle istituzioni affinché si superi la vecchia baraccopoli, una situazione di assoluto degrado» aggiungendo poi che «la soluzione della nuova tendopoli non può essere una soluzione definitiva ma solo transitoria, un passaggio per arrivare ad una accoglienza vera». Logiacco specifica che la Cgil aveva infatti richiesto che venisse trovata una soluzione per tutti, non solo per chi ha il permesso di soggiorno.

Per il momento, però, dalla Prefettura arriva solamente l’offerta del capannone Rizzo e di qualche posto in più nella nuova tendopoli della Protezione civile. Non per tutti è previsto un tetto, insomma. «Non è una soluzione ottimale, abbiamo proposto soluzioni alternative come i containers, ma è comunque meglio della vecchia baraccopoli», prosegue la sindacalista. «Alcune tra le persone che dichiarano di opporsi al trasferimento, comunque, potrebbero essere vicine ai caporali, e per questo non vedere di buon occhio la Cgil, che invece combatte il caporalato», chiosa.

Il Comitato Lavoratori delle Campagne, che da tempo segue la vicenda, ha invece una linea molto più dura. «Le istituzioni insistono nella loro opera di repressione e controllo senza riuscire a trovare alternative valide ma continuando a spostare i lavoratori e le lavoratrici da una tendopoli all’altra – scrive in una nota – senza che nessuno abbia preso in considerazione realmente le loro richieste».

https://www.facebook.com/comitatolavoratoridellecampagne/posts/1587371914662261

Meglio conosciuto come il “ghetto di Rosarno”, nel 2010 è stato teatro di una celebre rivolta, e fino a poco tempo fa ospitava circa 2000 persone. Poi un incendio a luglio ha parzialmente distrutto la baraccopoli e ad agosto sono cominciati i trasferimenti verso la nuova tendopoli.

 

Questi temi sono stati approfonditi nell’inchiesta Caporalato, la rivoluzione mancata, su Left n°39


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Russia, il dissidente Navalny vuole “fare la festa” a Putin

Russian opposition leader Alexei Navalny records a video for his youtube channel in his office in Moscow, Russia, on Friday, July 7, 2017. Alexei Navalny, the Russian anti-corruption campaigner who is the most persistent thorn in the Kremlin's side, has been released from jail after serving 25 days for organising a wave of protests. (Evgeny Feldman/Pool Photo via AP)

Happy birthday, mister President. Firmato Navalny.

Il 7 ottobre in Russia tutti i cittadini fanno la stessa cosa. Sia quelli che lo combattono che quelli che lo osannano: pensano al presidente del Paese più esteso della terra, Vladimir Putin, che compie 65 anni. Tra gli oltre 144 milioni di cittadini della Federazione, ce n’è uno in particolare che può rovinare il compleanno del presidente. È il blogger ed oppositore politico dell’ex spia del Kgb, Alexei Navalny, che sta organizzando proteste di massa per sabato in 80 città della Russia. L’avvocato che combatte la corruzione ormai da anni, prima via web e poi con le marce in piazza che sfidano le divise, vuole candidarsi alla presidenza l’anno prossimo, a marzo 2018. Per Putin è “un traditore nazionale”. Per il governo è incandidabile, perché ha la fedina sporca per frode, imputatagli dopo un processo farsa a suo carico.

Se Putin ha quasi 70 anni, Novalny ne ha appena 41.

Putin diventa più vecchio ad ottobre, «dunque permettiamogli di godersi la meritata pensione», ha fatto sapere Navalny in un messaggio che ha spedito dalla prigione, dove è stato rinchiuso per la terza volta. Insieme a lui sono state 1750 le persone finite in manette per aver partecipato a una marcia di protesta a giugno. «È al potere da 18 anni, è abbastanza» ha detto Navalny del presidente. Putin non ha ancora ufficialmente ammesso che si ricandiderà a marzo, ma non c’è dubbio che tenterà di rimanere al potere almeno fino al 2024. Secondo i sondaggi per lui voterebbe l’82% dei cittadini, solo il 2% per Navalny.

Ma se scioperano i ministri, gli altri che dovrebbero fare?

Il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio durante il vertice sul dossier dei trasporti locali piemontesi presso la sede della regione in piazza Castello, Torino, 18 agosto 2017 ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Ho grande rispetto per la sofferenza (augurandoci che non sia simulata e elettorale) di chi in queste ore ha deciso di aderire allo “sciopero della fame” (pur con una fame molto blanda) per l’approvazione dello “Ius soli”. Deve essere terribile essere stati eletti per mettere in pratica un programma elettorale che è stato tradito se non addirittura sovvertito dopo la famosa “non vittoria di Bersani” e soprattutto dopo il ciclone Renzi che ha portato quel che fu Partito democratico ad essere il miglior esperimento di centrosinistra simulato degli ultimi vent’anni in Italia.

Del resto stiamo parlando di un governo che, per pugno di Minniti, ha “liberato” il Mediterraneo (o almeno così dicono, così credono, poiché manca poco vedrete alla normalizzazione dei flussi) sommergendo i diritti umani direttamente sulla terraferma libica evitando che sporchino in giro. Stiamo parlando di un governo che, su sanità e scuola e povertà, ha fatto ciò che sembrava irrealizzabile per il Berlusconi delle sue stagioni migliori. Parliamo di un governo che ha fatto impennare il bilancio di armamenti e delle amicizie con i guerrafondai.

Facile quindi immaginare che, se ti allei con la destra, anche lo “Ius soli” rimanga una bella intenzione. Non c’è bisogno di essere fini politologi. Del resto come poter spiegare che lo “Ius soli” non ha nulla a che vedere con la cittadinanza indiscriminata agli stranieri se tutte le mattine ti accompagni a braccetto con Angelino Alfano, quello che dice «la legge è giusta ma non dobbiamo perdere voti»?

Tuttavia la domanda vera, leggendo i giornali di stamattina, è un’altra: ma se componenti di primo piano di governo protestano contro se stessi (le alleanze che si sono scelti, la direzione politica che hanno loro stessi voluto prendere e tutto il resto) con lo sciopero della fame esattamente cosa dovrebbero fare le migliaia di persone senza cittadinanza?

Perché poi, attenzione, questi sono gli stessi che tengono lezioni sul populismo e sul senso della misura. Loro.

Buon venerdì.