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Ius soli, gli italiani senza cittadinanza: “Niente giochi politici su di noi”

Un momento della manifestazione al pantheon sull'approvazione della legge per la cittadinanza, 28 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

L’Italia è casa loro, parlano e pensano in italiano, la storia che hanno studiato è quella del Bel paese, però non sono italiani. Sono più di un milione, sono la generazione dei cittadini a metà.
Oggi finalmente arriverà in Aula il ddl sullo ius soli che riconosce la cittadinanza italiana ai figli di stranieri nati in Italia o arrivati da piccoli.
La senatrice Doris Lo Moro (Mdp), relatrice del provvedimento in commissione Affari costituzionali del Senato,  si è mostrata abbastanza ottimista sull’esito: “Il disegno di legge sullo ius soli arriverà in Aula anche senza relatore e sarà approvato”, ha detto il 13 giugno in conferenza stampa insieme con Loredana De Petris (Sinistra italiana) e Giorgio Pagliari (Pd). Sullo Ius soli, insomma, si è creato al Senato un “patto” allargato tra Pd e le forze a sinistra del Pd. Il M5s invece ieri sera ha annunciato l’astensione che al Senato in pratica equivale al voto contrario. E naturalmente il centro destra è compatto nel voto contrario.

Il disegno di legge “Disposizioni in materia di cittadinanza” che prevede la modifica della I.92 del 1991, è rimasto fermo per molto tempo al Senato, in Commissione Affari costituzionali, dopo che nell’ottobre 2015 era stato votato alla Camera. Nonostante Pierluigi Bersani durante la campagna elettorale del 2012-13 avesse dichiarato che la legge sulla cittadinanza sarebbe stata una delle norme da realizzare nei primi cento giorni del programma del Pd di Italia bene comune, alla fine è caduta nell’oblio e per due anni non se n’è più parlato.

“Speriamo che questa volta finalmente questa questione non venga usata solo per fini politici, ma venga pensata a livello umano perché ci sono 800mila bambini che stanno aspettando i propri diritti, vogliono essere riconosciuti per quello che sono e vorremmo che almeno per questa volta le forze politiche mettessero da parte le proprie lotte, capendo che si tratta di giovani e bambini nati o cresciuti in Italia”. Esordisce così Youness Warhou, 23 anni, tra i fondatori del movimento Italiani senza cittadinanza, molto attivo in questo ultimo periodo.
Youness continua: “Siamo molto positivi perché da quando è nato il movimento si è compiuto un enorme passo in avanti. Quando nell’ottobre 2013 abbiamo organizzato il primo flash mob c’era un silenzio mortale e sembrava che la legge fosse stata abbandonata del tutto. Invece da quando abbiamo cominciato a far sentire la nostra voce le cose sono cambiate”.

Quello sullo ius soli è un provvedimento necessario per l’integrazione delle cosiddette seconde/terze generazioni di immigrati. Ragazzi, laureati e lavoratori, che non possono veramente fare parte del nostro Paese, che vivono un presente a metà e un futuro che si prospetta nero. “Non mi piace usare il termine seconda generazione – fa notare Youness Warhou -. Noi infatti non abbiamo compiuto un’immigrazione vera e propria, per essere definiti immigrati di seconda generazione, anzi, siamo persone che fanno parte del territorio. Siamo nati qui o anche se siamo venuti perché immigrati, lo abbiamo fatto in maniera non decisa da noi perché eravamo minorenni, siamo stati portati dai nostri genitori”.

Per avere riconosciuto uno status che gli dovrebbe spettare di diritto, gli italiani senza cittadinanza si devono infatti imbarcare in un’odissea che sembra non avere mai fine. “Oggi se viviamo qui e facciamo parte di questo tessuto sociale, vorremmo essere riconosciuti come parte integrante della società e non più come vittime di alcuni partiti politici che non hanno nessun piano se non criticare e discriminare i ragazzi di nuova generazione sfruttando quella che è la situazione attuale a livello mondiale”, continua Youness mettendo in evidenza la partita politica che si gioca sul loro destino.

Intanto loro, gli italiani senza cittadinanza, i sacrifici li hanno fatti e continuano a farli: c’è chi ha rinunciato agli studi universitari a 19 anni per cercare lavoro, per dimostrare allo stato italiano di essere attivo nel Paese; c’è chi ha scelto di studiare, e che una volta laureato a pieni voti, si sente chiedere costantemente il test d’italiano; c’è chi considera l’Italia come “una madre che non mi vuole come figlio”. Lo hanno raccontato Fioralba Duma, Tezetà Abraham e Bruno Leka, italiani senza cittadinanza che aspettano una risposta dalla politica. C’erano anche loro, come rappresentanti dell’Associazione Italiani senza cittadinanza alla conferenza stampa del Senato il 13 giugno, insieme alla senatrice Doris Lo Moro. Hanno raccontato le loro vite, simili a tante altre, di giovani sconosciuti che però sono a tutti gli effetti cittadini italiani.

E le cose, per fortuna, cambiano. Youness infatti aggiunge: “Nelle ultime elezioni amministrative hanno votato nuovi cittadini, nuovi giovani che sono nati o cresciuti in Italia e che hanno ottenuto la cittadinanza. Hanno potuto essere rappresentativi di quelle che sono le loro comunità e le loro città, hanno segnato una novità portando i loro valori, valori che vengono ignorati dalla nostra società. Noi ci ritroviamo sempre dalla parte dell’oppresso  che non ha possibilità di esprimersi, che non ha neanche la possibilità di esprimersi o di votare, di decidere sulle questioni del proprio paese. Questo è rilevante per noi e per la società italiana”.

Cosa accadrà oggi? Lo Moro e gli altri senatori il 13 giugno in conferenza stampa hanno detto di puntare all’approvazione del testo uscito dalla Camera senza modifiche, temendo un altro stop. O si va al voto o “si insabbia e non se ne parla più”, hanno detto.

Quello di oggi, 15 giugno, potrebbe essere un evento storico, un provvedimento da tempo sospeso che potrebbe ridare speranza a tutti quei bambini che crescono in Italia sentendosi “diversi”. Oppure potrebbe essere l’ennesima sconfitta di chi vuole difendere i diritti civili di chi adesso ne è privo.

Oggi comunque a presidiare Palazzo Madama alle 12:30 vi saranno anche i rappresentati della campagna “Italia sono anch’io”, di cui fanno parte tra gli altri Cgil, Arci, Legambiente, Comunità di Sant’Egidio. Tra il settembre 2011 e il marzo 2012 vennero raccolte più di 200mila firme per due proposte di legge di iniziativa popolare, una, appunto sulla riforma della cittadinanza e un’altra sul diritto di voto alle amministrative per i cittadini stranieri residenti. Ma come abbiamo visto in questi anni, sono rimaste nel silenzio.

Oh oh, mister President… Dopo l’happy birthday arriva l’inchiesta

epa06028234 US President Donald J. Trump enters the Diplomatic Room to make a statement on the Wednesday-morning shooting of Republican lawmaker Steve Scalise at a baseball field in Alexandria, Virginia, in the White House, Washington, DC, USA, on 14 June 2017. The Republican House majority whip Steve Scalise and at least four others have been shot at a congressional baseball game practice session, according to media reports. A suspect named James T. Hodgkinson of Belleville, Illinois, who was taken in custody has died, according to US President Donald J. Trump. EPA/Olivier Douliery / POOL

Il primo presidente degli Stati Uniti d’America osserva l’ultimo attraversare la stanza. George Washington dalla cornice dorata del ritratto lo guarda mentre, gamba tesa, punta accigliato lo sguardo verso il basso. Trump ha appena commentato pubblicamente la sparatoria di Alexandria, nei pressi della capitale: «l’uomo che ha sparato è morto». James T. Hodgkinson, ex sostenitore di Sanders, 66 anni, ha aperto il fuoco contro una squadra repubblicana di baseball che si allenava. Steve Scalise, deputato, a true friend and patriot, come l’ha definito Trump su twitter, è rimasto ferito insieme ad altre quattro persone nell’incidente al campo sportivo.

È questo il ritratto che Trump conserverà per il giorno del suo compleanno: una porta che è stata lasciata aperta, una bandiera vicino al camino e un padre fondatore della nazione a cui dà le spalle. Ieri era happy birthday, mister President. Oggi il regalo è arrivato con un giorno di ritardo, una prima pagina, uno scoop. Il presidente Trump, ormai 71 anni e un giorno, è indagato per ostruzione alla giustizia, per il licenziamento di James Comney, ex capo dell’FBI, e per aver fatto pressione affinché il caso russiangate fosse archiviato. Se ne occuperà il procuratore speciale Robert Muller III.

Un altro anniversario è vicino. Era l’otto agosto 1974, quando, per evitare l’impeachment, la messa in stato d’accusa, Richard Nixon rassegnò le sue dimissioni. Il giornale che riportò allora lo scandalo del repubblicano alla Casa Bianca era lo stesso che oggi, per primo, ha dato la notizia dell’inchiesta aperta contro il primo cittadino americano, il Washington Post.

Quando non è “né destra né sinistra” è quasi sempre destra

In fondo rimane la consolazione che forse un po’ se ne vergognano anche loro di lucrare sul terrorismo xenofobo che inietta paure senza nemmeno bisogno di bombe. Mi illudo di credere che Grillo, quello che girava i teatri per aprirci gli occhi sul mondo, sappia in cuor suo di avere deciso di cavalcare una “cagata pazzesca” solo per uno’ di autopreservazione, buttandosi mani e piedi tra le braccia di un salvinismo che per sua natura ora gli chiederà ogni giorno di essere un po’ peggio, di urlare un po’ più forte, di sputare un po’ di bava.

E mi piacerebbe vedere l’orda di analisti politici della domenica pomeriggio che insistevano nel dirci che lì, dentro il M5S, ci sarebbero i voti della “sinistra delusa” oppure chi metteva il broncio ogni volta che si faceva notare come il Movimento 5 Stelle (com’è nella natura delle cose in politica) nonostante si sforzi di apparire al di sopra delle parti ogni volta che deve ritornare con i piedi per terra si sieda a destra.

Mi viene da pensare che questi, almeno, non sono fieramente razzisti come quelle quattro teste rasate che rimestano nei conati della nostalgia o come quei leghisti lepenisti da discount che strisciano da leoni da tastiera. Ma mi sbaglio, temo: essendo all’inizio del disvelamento i toni bassi potrebbero essere semplicemente l’inizio di un crescendo che non tarderà di passare dall’osceno al pubblicamente rivendicato.

Beppe Grillo dopo le elezioni amministrative (che dice di avere vinto, come tutti, ogni volta, così allineato anche in questo) ha sparato in sequenza strali contro i migranti, i rom, il Regolamento di Dublino e le solite multinazionali cattive. Il francescano che con l’acqua alla gola non trova di meglio che scalciare contro i deboli è la fotografia perfetta di una fede che più attenta al valore elettorale che ai valori. Quelli che volevano liberare i deboli dalle prepotenze dei potenti ora hanno deciso di dedicarsi alla liberazione degli sfoghi dei prepotenti deboli con i forti che fanno i forti con i deboli. Dentro, tanto per non farsi mancare nulla, ci hanno buttato anche una legge (quella sullo ius soli) che non ha nulla a che vedere con l’immigrazione ma torna utile per un po’ di propaganda sulla razza.

Chissà che ne direbbe, san Francesco. E chissà cosa direbbe, se potesse, Di Battista a guardarsi a braccetto con i beceri che ci aveva promesso di stanare.

Bene. Avanti così.

Buon giovedì.

Premio Strega ecco la cinquina finalista. La premiazione il 6 luglio

04/07/2016 Roma. Basilica di Massenzio. Letterature, Festival Internazionale di Roma, XV edizione. La scrittrice Teresa Ciabatti

La cinquina del premio Strega 2017 è squadernata, i cinque finalisti sono, nell’ordine: Cognetti, con 281 preferenze per le Le otto montagne,(Einaudi), Teresa Ciabatti con 177 per la La più amata (Mondadori), Wanda Marasco con 175 preferenze per La compagnia delle anime finte (Neri Pozza), Alberto Rollo con 160 per Un’educazione milanese (Manni) e Matteo Nucci con 158 preferenze per È giusto obbedire alla notte (Ponte alle Grazie). Dopo la scomparsa di Tullio De Mauro, Giorgio Solimine ne ha  preso il testimone. La serata finale è in programma giovedì 6 luglio, con lo Strega che tornerà al Ninfeo di Villa Giulia.

Parla di luoghi fuori dal rincorrersi del calcolo e del guadagno  lo scrittore Paolo Cognetti, già vincitore del premio Strega giovani. Dal 21 al  23 luglio le sue narrazioni ” desuete” saranno festeggiate nei prati e nei boschi di Estoul, una piccola frazione di Brusson in Val d’Ayas (Aosta), dove si raccontano i diversi modi di vivere la montagna.

In questa Italia condannata dalla Corte europea dei diritti umani

Bisognerebbe chiedersi perché il Parlamento italiano abbia sempre scartato l’ipotesi più semplice, ossia il copia e incolla della definizione di tortura sottoscritta dal nostro Paese in sede di Nazioni Unite, nel lontano dicembre 1984 (all’epoca del primo governo Craxi), poi ratificata dalle Camere nel novembre 1988 (presidente del consiglio Ciriaco De Mita). La spiegazione prevalente è che si temeva di trasmettere la sensazione di voler “punire” le forze di sicurezza; perciò, non solo durante questa legislatura, si è aperto un cantiere di mediazione, non già fra destra e sinistra, bensì fra Parlamento e apparati di polizia, con il primo in timoroso ascolto dei secondi.
Ma i vertici delle varie forze dell’ordine italiane si sono sempre opposti all’inserimento del crimine di tortura nel nostro ordinamento e così il Parlamento ha di fatto riconosciuto agli apparati  un irrituale diritto di veto, segno di un grave e preoccupante deficit di autorità democratica. Le conseguenze sono note: in Italia la tortura è stata sovente praticata, soprattutto in carceri e manicomi, restando sempre impunita;  l’attività di prevenzione degli abusi è stata di conseguenza debole o inesistente; il potere degli apparati, e la loro dinamica autoreferenziale, si è via via rafforzato a spese degli organismi elettivi.

I fatti di Genova hanno un po’ cambiato lo scenario, poiché nel luglio 2001 gli abusi sono stati praticati su larga scala e su cittadini, diciamo così, normali, anziché a danno di brigatisti, detenuti comuni o altre persone considerate di seconda classe. Sono poi arrivate le clamorose condanne nei processi Diaz e Bolzaneto (definitive nel 2012) e infine la dirompente sentenza della Corte europea sui diritti umani (Cedu) nel 2015, che ha chiesto all’Italia – condannata nel giudizio promosso da Arnaldo Cestaro, umiliato alla scuola Diaz – di fare davvero giustizia, nonché una seria opera di prevenzione. La Corte ha indicato tre provvedimenti essenziali: una legge sulla tortura; i codici di riconoscimento sulle divise degli agenti; la sospensione o la rimozione, a seconda dei casi, degli agenti colpevoli di abusi. Di codici e rimozioni al momento nemmeno si parla (se non per la burlesca ipotesi dei “codici di reparto” promessi dal ministro Minniti), mentre la norma uscita dal Senato è frutto dell’ultima mediazione possibile: approvare un testo che abbia l’etichetta di “legge contro la tortura”, ma non la sostanza. Una legge feticcio. Di Cesare ha parlato di legge che si autonega. Ma nel negarsi, e non è un dettaglio da poco, finisce fatalmente per legittimare tutte  le forme di tortura che la contorta e ingannevole definizione non arriva a coprire. Amnesty International, esaminando casi conosciuti,  ha individuato oltre venti modi di praticare la tortura oggi nel mondo: la maggioranza di questi probabilmente sfuggirebbe al giudizio dei tribunali italiani, se questi dovessero applicare la norma licenziata dal Senato.
Il Parlamento è ancora in tempo per cambiare strada e potrebbe farlo in tempi brevi ricorrendo al copia e incolla dal testo dell’84, frutto di un’onesta ed equilibrata analisi dei bisogni normativi. Avrebbe fra l’altro il plauso di tutti, ma proprio tutti, gli esperti, i giuristi, gli attivisti “addetti ai lavori”, oggi invece schierati compattamente contro la scelta compiuta al Senato. Farebbe anche un grande favore alle forze di polizia, al momento chiuse in un anacronistico isolamento e irriducibili – questo dice in sostanza il voto al Senato dell’altro giorno – alle norme sugli abusi di potere tipiche delle democrazie moderne.
* Comitato Giustizia e Verità per Genova

Shakespeare al Central Park vietato per la paranoia di Trump

Ha i capelli di Trump. Gesticola come Trump. È vestito come Trump. “Cesare è Trump?”. Lo chiede il giornalista del New York Times al regista del dramma shakespeariano in questi giorni sul palco del teatro di Central Park, New York. “Certo che no. Giulio Cesare è Giulio Cesare” risponde Oskar Eustis. Eppure.
Eppure è stato accusato di istigare alla violenza, più precisamente, di fomentare l’assassinio di Trump perché ha messo in scena la tragedia dell’autore inglese, adattata ai tempi in cui viviamo, e il tiranno dell’autore britannico dei libri assomiglia troppo al tycoon americano alla Casa Bianca. Le critiche dei conservatori sono arrivate a valanga. A qualcuno questa vicenda ha ricordato quella della campagna fotografica dell’attrice Kathy Griffit a cui i contratti sono stati cancellati, con pubblico ammonimento e rimprovero collettivo, per le immagini che la ritraevano con le mani che reggevano la testa sanguinante del presidente americano. Ma Eustis ribatte che non stavano facendo niente del genere: “stavamo solo facendo Shakespeare nel parco, for God’s sake!”.
Gli sponsor, tra cui Bank of America, stanno cominciando a ritirare i loro fondi alla produzione. “Ventimila persone l’avevano già visto prima che finisse su Breitbart”, il sito di notizie di estrema destra che ha supportato e fatto campagna elettorale per Trump prima delle elezioni, ha fatto notare il regista. L’American Express ci ha tenuto a specificare con un tweet che loro finanziano il Public Theatre, ma non la produzione del Cesare di Eustis. I soldi li ha ritirati anche la compagnia aerea Delta.
“Questa produzione non odia Giulio Cesare, si prende gioco di lui”. Ma Eustis non è stato il solo. Dopo le elezioni presidenziali, “in tutto il paese, dall’Oklahoma all’Oregon, i teatri hanno scelto la tragedia di Shakespeare per parlare di democrazia, politica, potere, autoritarismo”. Si è fatto ricorso al Giulio Cesare ogni volta che la democrazia era in pericolo. Lo fece Orson Wells con la sua compagnia, il Mercury Theatre: Wells era Bruto, Cesare era un attore che ricordava Mussolini, l’ambientazione era quella dell’Italia fascista. Il secolo era lo scorso.
Nel suo discorso di apertura Eustis ha provato a spiegarsi ancora: “né Shakespeare né il teatro pubblico sostengono la violenza. Questo spettacolo al contrario, vi avverte su cosa succede quando si tenta di salvare la democrazia in maniera non democratica. Non finisce bene”.

Reato di tortura, Luigi Manconi: «Ecco perché questa legge non va bene»

Legittimare la tortura? Oppure tortura legittima, come ha titolato Left del 27 maggio? Il tema è sempre lo stesso: la legge approvata alcune settimane fa al Senato che rischia di essere inefficace e inutile. Oggi ne parleranno giuristi, attivisti per i diritti umani, parlamentari (Roma, Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro, piazza Capranica 72). Tra gli altri: Enrico Zucca (pm Scuola Diaz), Roberto Settembre (Bolzaneto), Ilaria Cucchi, Luigi Manconi, Tomaso Montanari, Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova). Pubblichiamo di seguito l’intervista a Luigi Manconi, il senatore Pd che era stato colui che aveva proposto la legge nel 2013 e che adesso si è rifiutato di votarla.

«Volontà di degradazione della persona, mortificazione della sua identità, annichilimento della sua dignità». Con queste parole il senatore Pd Luigi Manconi definisce la tortura nella seduta del 17 maggio. È il giorno in cui se ne andrà dall’aula del Senato e non voterà il disegno di legge che introduce il reato di tortura, lui che il 15 marzo 2013 a inizio legislatura, aveva proposto un testo di cui, dice, adesso «non rimane praticamente nulla». In pratica, una legge che sarà difficile da applicare, come ha fatto notare anche l’ex magistrato Felice Casson che si è astenuto. Mentre altri senatori del Pd come Giuseppe Lumia esultano per l’allargamento del reato a reato comune, Manconi accusa i partiti di essere subalterni «prima ancora che ai corpi dello Stato, alle loro rappresentanze politico-sindacali, alle loro potenti pulsioni corporative e alle loro irresistibili tendenze alla connivenza». Il presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani cita anche Primo Levi quando parla della tortura come «intenzionale riduzione della “materia umana” alla sola dimensione del dolore fisico, schiacciando e annullando quell’umano» nel corpo brutalizzato. Certo, una politica che non garantisce in toto il diritto a “restare umani”, dove trova la sua legittimità per tutto il resto?
Senatore Manconi, lei ha presentato il testo del disegno di legge il 15 marzo 2013. Che cosa è accaduto in questi 4 anni?
Si è messo subito in discussione il mio disegno di legge che si rifaceva nella sostanza alla Convenzione delle Nazioni unite. E soprattutto conteneva il senso più profondo che tutta la giurisprudenza e il diritto attribuiscono a un reato di tortura. Cioè il fatto che questo reato non sia misurabile sulla base dell’efferatezza, della crudeltà o dell’intensità delle sofferenze che infligge, bensì sulla sua origine. Questo è il nodo che nessuno vuol comprendere: non è un atto tra due individidui capace di produrre sofferenze fisiche o psichiche, ma è l’atto commesso e realizzato da chi detiene legalmente il potere di tenere sotto controllo un’altra persona. Questa parola “legalmente” è cruciale.
Mi faccia un esempio.
Spostiamoci su un campo meno abusato e parliamo di un caso classico di possibile tortura che ho seguito passo passo: la contenzione di 87 ore inflitta a Franco Mastrogiovanni ricoverato per un Tso. I medici e gli infermieri che avevano legato il maestro elementare ai quattro angoli del letto lo privavano della libertà legalmente. Oppure, per fare altri esempi, il poliziotto che porta in caserma il clochard lo fa legalmente, così come il poliziotto penitenziario che tiene in cella un detenuto. La tortura, quindi, nasce dall’abuso di potere legale. Se non si capisce questo, non si capisce nulla! La tortura, per intenderci, non è quella di Er Canaro contro l’usuraio, quella è un’altra roba.
Perché non si è capito tutto ciò in Senato?
Questa mia impostazione è stata sconfitta da un’alleanza, non così rara, tra componenti sinistriche e destriche. Le prime sono tornate a farsi sentire nel dibattito finale sostenendo testualmente che questo era più efficace come reato comune e non come reato proprio perché allarga il campo… Ma non è vero che se tu un reato lo puoi attribuire a più persone sia più figo! È una scemenza colossale. Dopo di che si rende ancora più impervia la possibibilità di identificarlo perché la Convenzione delle Nazioni unite parla di “ogni violenza” e qui diventano subito “le violenze”. Ancora: “le violenze” diventano “le violenze reiterate”. Quando nel luglio 2016 riuscimmo a far saltare quel “reiterate” salta anche la discussione. Quando riprende, al posto di “reiterate” troviamo le parole “più condotte”. Io ora arrivo a dire che “reiterate” sarebbe stato meglio di “più condotte” perché nel senso comune“reiterate” richiama una successione di violenze concentrate in uno stesso tempo che può essere più o meno lungo ma è lo stesso tempo. Invece, “più condotte” sembra persino estendere la violenza a più giorni, quindi la tortura c’è solo se e solo quando la condotta fatta oggi viene ripetuta.
Poi c’è la questione della violenza psichica.
Sì e questa cosa mi ha proprio turbato. Perché il trauma psichico, secondo la letteratura scientifica internazionale, non è qualcosa che si rileva con una tac, tanto più realizzata dopo tre anni. I processi di tortura si fanno dopo dieci, venti anni, ma cosa si può rilevare? Ho fatto una piccola ricerca e ho scoperto che la roulette russa, forse la più famosa tortura sotto il profilo dell’immaginario e dell’iconografia, non è rilevabile clinicamente.
Nella sua analisi del percorso travagliato della legge lei ha definito la classe politica italiana subalterna alle forze dell’ordine.
La penso proprio così. Qui si lavora per stereotipi. Se tu proteggi la polizia da qualsiasi tipo di imputazione, la devi proteggere tutta, come corpo, come istituzione. Da questo punto di vista, la classe politica è più arretrata di quanto lo siano le forze dell’ordine. Ricordo che ho accompagnato Ilaria Cucchi in una visita molto importante dal comandante generale dell’arma dei carabinieri Tullio Del Sette. In quel colloquio il generale riconobbe ciò che io vo dicendo e ho scritto, e cioè che se noi sanzioniamo i responsabili di tortura salviamo l’onore di quelli che responsabili di tortura non sono.
La storia di una legge sul reato di tortura è lunga. Il primo a proporla fu un comunista, Nereo Battello, nel 1989.
Era un garantista, amico di Massimo Cacciari, un rappresentante di una bella cultura politica di quegli anni e in quelle regioni, dove i comunisti non erano reazionari.
La Corte europea dei diritti umani sostiene che l’assenza di un reato di tortura dipende da un “problema strutturale” dell’Italia. Ma una politica che non riconosce i diritti umani, che politica è? Non le sembra che così si vanifichi tutto il resto?
Non è vero! Lo sa perché? Quello di cui stiamo parlando io e lei alla stragrande maggioranza di quella “roba” che si chiama opinione pubblica di sinistra, interessa pochissimo. A quella larga parte di opinione pubblica, ripeto, che si definisce di sinistra, interessa solo il caso Minzolini. È tutto qui, glielo giuro.
Quindi la responsabilità è anche dei giornali che non pongono l’attenzione sui diritti umani…
Mi spiego meglio: se lei chiede a un campione rappresentativo di militanti di sinistra qual è la vicenda che più li ha scandalizzati a opera della classe politica, ebbene, le risponderanno il caso Minzolini. Infinitamente di più della vicenda del reato di tortura, mi creda, è così. Il caso Minzolini, che è insignificante, scandalizza di più. Lo so benissimo, perché nella marea di complimenti per il mio lavoro, c’è sempre qualcuno che dice “certo che proprio lei, il caso Minzolini…”. Ma chi se ne frega, io ho votato a favore di Minzolini, totalmente e profondamente convinto, l’ho raccontato una volta e poi basta. È talmente, ripeto, un fatto insignificante che non posso concedere a chi mi critica questa possibilità di dare al caso Minzolini un peso che non ha…
Torniamo ancora sul binomio diritti umani e sinistra. Riccardo Noury di Amnesty qualche settimana fa a Left ha detto che la sinistra non ha fatto della garanzia dei diritti civili un principio delle proprie battaglie.
Qui bisogna fare un discorso di carattere storico. Il problema infatti è un altro: la sinistra nasce – e stiamo parlando di duecento anni fa – avendo come sua missione e priorità totale, incondizionata, il fatto di creare condizioni di uguaglianza sociale in un mondo disperatamente diseguale. Quindi è ovvio che la sinistra deve perseguire diritti sociali, garanzie collettive e soddisfare bisogni unificanti. È negli anni 60-70 che perde l’occasione, perché contribuisce in maniera determinante al successo delle battaglie sui diritti civili, spesso promosse da altri, ma poi non capisce la profondità e l’importanza del messaggio che quelle battaglie trasmettono. Successivamente si perdono almeno trent’anni. Comunque c’è stato un importante processo di maturazione: la legge sulle unioni civili quarant’anni fa sarebbe stata rifiutata non solo per ragioni di bigottismo etico-politico ma perché si sarebbe detto che in una fase così drammatica di crisi economico-sociale, con la disoccupazione e tutto il resto, non ci si può interessare di questi bisogni che oltretutto sono bisogni “borghesi”. Fortunatamente la gran parte della sinistra infine, ma proprio infine, ha acquisito la consapevolezza che non si tratta di bisogni borghesi e che oggi il diseredato e il disoccupato, il mortificato e il non garantito chiedono lavoro e reddito ma anche la possibilità di soddisfare i propri bisogni privati, le esigenze nel campo delle relazioni umane, della sfera sessuale e dell’autodeterminazione di sé e sul proprio corpo. Un passo avanti gigantesco ma, come abbiamo visto, non sufficiente.
(da Left n.21 del 27 maggio 2017)

Femminicidio: Marianna uccisa 12 volte prima di essere uccisa davvero

“Mi ha minacciato con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”. Diceva così Marianna Manduca quando implorava di essere ascoltata dalla Procura di Caltagirone, terrorizzata da un marito vigliacchetto e violento come ne leggiamo troppi nelle cronache italiane.

Dodici denunce. Dodici volte Marianna ha chiesto aiuto a un Paese che continua a derubricare i segnali di femminicidio a piccole beghe famigliari che non meritano attenzione, contribuendo al senso di impunità dei maschi che si arrogano il diritto di ritenere le proprie compagne proprietà private a cui dare un senso con le botte e con la morte.

Io non so nemmeno se si riesce a scrivere con che sguardo una donna possa uscire dalla caserma per la dodicesima volta. Non so nemmeno immaginare dove finisca la sfiducia e dove inizi la paura per chi poi alla fine di coltellate ci è morta davvero: il marito Saverio Nolfo l’ha uccisa con sei coltellate al petto e all’addome il 4 ottobre del 2007 a Palagonia.

La procura di Caltagirone per la morte di Marianna è stata condannata dalla corte d’Appello di Messina: hanno riconosciuto il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento di 260mila euro, e riconoscendo l’inerzia dei magistrati dopo una lunga trafila giudiziaria.

Dopo dodici volte insomma Marianna è morta per davvero. E dodici anni dopo le hanno chiesto scusa.

Perché non basta quasi mai solo un assassino per compiere un femminicidio.

Buon mercoledì.

Rapporto Ue sulle droghe: due italiani su dieci si fanno le canne, in Europa si muore ancora di eroina

The underside of a marijuana plant's leaves in a grow room.

Sul podio per consumo di cannabis, l’Italia arriva seconda, con una cifra che si aggira intorno al 19%: la usa il 14% delle donne e il 23% degli uomini della popolazione tra i 15 e i 34 anni. La precede solo la Francia con oltre il 22% di consumatori tra giovani e adulti. Per l’uso di oppioidi è quarta, per quello di eroina invece l’Italia è ottava. In generale, l’1% degli europei adulti fa uso quotidiano di cannabis e su circa 500 milioni di cittadini, più di 87 l’hanno provata almeno una volta.

In Europa si muore di overdose e sempre di più, aumenta il numero dei decessi e lo documenta il EMCDDA, l’Osservatorio europeo per le droghe nel Drug report 2017 appena pubblicato (link).

Nel 2015 i morti per overdose sono aumentati rispetto all’anno precedente – del 6% – registrando una cifra che supera gli ottomila. Accade dalla Lituania alla Svezia, dalla Gran Bretagna alla Germania per eroina, dalla Danimarca alla Croazia per uso di metadone. Ma se aumenta in Europa, in Italia cala, insieme alla diffusione dell’HIV.

I “fasci del lavoro” entrano in consiglio comunale. Eletti. Al 10 per cento.

Mentre si cercano fascismi un po’ dappertutto alla fine i fascisti quelli veri, che giocano vigliacchi e miseri sulle reminiscenze di un vomitevole passato e sulla scarsa memoria di un presente confuso, nel consiglio comunale di Sermide-Folonica (neo comune nato dalla fusione di quelli che erano due) entra la candidata sindaca della lista “Fasci del lavoro”, un partito ispirato alla Repubblica di Salò (con tanto di fasci in bella mostra nel simbolo).

Non stupisce che esitano furbi nostalgici sparsi per l’Italia che se ne fottono di una legge che vieta il fascismo in tutte le sue forme quanto piuttosto la distrazione di uno Stato che (vedrete) ora fingerà di indignarsi senza spiegarci come abbia potuto permettersi questa gravissima “distrazione”.

“Un risultato straordinario – dice Claudio Negrini, fondatore del lurido movimento e che ci tiene a rispondere alle polemiche suscitate dal simbolo della sua lista – : Quello non è il fascio littorio ma il fascio della Repubblica sociale; sono 15 anni che presento lo stesso simbolo in tutt’Italia e nessuno ha mai avuto nulla da ridire. Vorrà dire che la prossima volta lo cambierò”.

Intanto la candidata (guarda un po’) è l’esempio perfetto del familismo di chi starnazza sui valori e poi sistema la famiglia:  a rappresentare i fasci sarà Fiamma Negrini, 20 anni, studentessa figlia di Claudio. I Fasci hanno raccolto 334 voti, pari al 10,41%.

Ora tutti pronti all’antifascismo ritardatario e di maniera.

Buon martedì.