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Elezioni comunali, M5s decisivo ai ballottaggi. Voteranno a destra o a sinistra?

Il leader del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo al voto al seggo di sant'Ilario, sulle colline a levante di Genova, 11 giugno 2017. ANSA/LUCA ZENNARO

L’unico a vincere al primo turno è una “vecchia volpe” della politica, Leoluca Orlando. A 70 anni – li compirà ad agosto – è stato riconfermato sindaco di Palermo, per la quinta volta. Aveva esordito quando ne aveva 38 e da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Orlando ha acquisito una grande esperienza, è stato parlamentare, ha fondato un movimento politico, la Rete, e la sua capacità di tessere alleanze “dal basso” è certamente uno dei motivi della sua vittoria sul candidato di centrodestra Fabrizio Ferrandelli e su quello pentastellato Ugo Forello. Non ha voluto simboli di partito, Leoluca Orlando, ma è riuscito lo stesso a mettere insieme sette liste civiche: oltre alla sinistra, che lo aveva sostenuto cinque anni fa, anche il Pd, i centristi di Casini, buona parte di Ap e Sicilia futura dell’ex ministro Totò Cardinale. C’è da dire che ha vinto però grazie a una modifica alla legge elettorale della Sicilia, Regione a statuto speciale, votata nel 2016. Il candidato che avrebbe preso il 40% più uno dei voti – questa in sostanza la legge – non avrebbe avuto bisogno del ballottaggio. Nonostante i pentastellati avessero gridato alla “legge truffa”, la norma è passata e grazie a questa Leoluca Orlando ha ottenuto il suo quinto mandato.

Per il resto, le elezioni amministrative dell’11 giugno, che hanno interessato 1014 comuni, sono state caratterizzate da una forte astensione. È andato a votare il 60,7 % degli elettori, mentre nella precedente tornata elettorale a esprimersi era stato il 66,85 dei votanti. E poi ci sono state le sorprese, come lo smacco dei candidati M5s e la riproposizione dello scontro bipolare tra centrodestra e centrosinistra. Il giorno dopo i commentatori hanno parlato molto di “volatilità” o “volubilità” dell’elettorato. Ma se fosse invece, come ha detto, Nadia Urbinati ai microfoni di Tutta la città ne parla su Radio tre, di “secolarizzazione” della politica? Cioè è finita la fede in un partito, o in un capo e adesso quello che conta è la fiducia, anche sulla base della realtà, su ciò che effettivamente è stato fatto da quel capo e dal quel partito. La prova che hanno dato i pentastellati sulla legge elettorale naufragata la scorsa settimana alla Camera non è stata molto positiva. Così come del resto non era molto piaciuto alla base l’accordo a quattro che vedeva il M5s insieme con quei partiti, la casta, oggetto di tante battaglie negli anni precedenti. Il fatto poi che il M5s sostenesse la possibilità che il Parlamento fosse costituto da almeno il 60% dei nominati, è stato un rospo troppo duro da digerire. Ecco, questa potrebbe essere una chiave per comprendere la disaffezione per il M5s degli elettori delle amministrative. Sostenere anche, come continua a fare la stampa mainstream che il M5s è un movimento che va bene per le politiche, a livello nazionale, e non per gli enti locali, significa ancora negare l’intelligenza dei cittadini i quali adesso, “secolarizzati” guardano più ai fatti, anche locali, che non alle opinioni dall’alto. Grillo, nelle sue dichiarazioni a caldo, sostiene che quella del movimento sarà “una crescita lenta”, ma sembra più una scusa.

Del resto, che il M5s sia andato male lo si è visto anche a Genova dove al comizio dello stesso Grillo, erano presenti poche centinaia di persone. Nel capoluogo ligure hanno pesato anche le polemiche sulle primarie annullate dallo stesso leader, che avevano visto vincente Marika Cassimatis. Insomma, non si gioca sulla democrazia o sulla contraddizione tra il dire una cosa e il farne un’altra. Il messaggio “dissociato” di Grillo forse non è passato inosservato. E infatti il Mss si è presentato spaccato a Genova e il candidato sponsorizzato dal comico, Luca Pirondini, è arrivato terzo con il 18,07% delle preferenze dietro a Gianni Crivello del centrosinistra (33,39%) e a Marco Bucci, centrodestra, con il 38,80%. Genova, storica città di sinistra, la patria dei camalli, potrebbe avere un sindaco di destra.

Resta infatti l’incognita del ballottaggio del 25 giugno. E qui il ruolo dei pentastellati diventa decisivo. Dove andranno gli elettori del M5s? A destra o a sinistra? Anche a Taranto, il candidato del M5s Francesco Nevoli con il suo 12,36% potrebbe essere determinante nel ballottaggio tra centrodestra (Stefania Baldassarri) e centrosinistra (Rinaldo Melucci). A Taranto, però, sempre con il 12 % c’è un candidato dal cognome molto noto: Mario Cito. Altri non è che il figlio di Giancarlo Cito, proprietario di televisioni, ex sindaco di Taranto nonché ex deputato con una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Insomma, anche nella città dei due mari il ballottaggio del 25 giugno sarà da brividi e sarà determinante l’apporto degli elettori pentastellati. È andato bene nella sua Parma l’ex M5s Federico Pizzarotti arrivato primo con il 34,78% e che se la dovrà vedere con Paolo Scarpa del centro sinistra (32,73%). Anche questo successo conferma il fatto che là dove si è amministrato bene, poi si viene premiati. Cioè non sono tanto gli schieramenti ideologici a dominare quanto la realtà dei fatti nudi e crudi…

A Rignano, il paese natale di Matteo Renzi è stato riconfermato l’ex sindaco Daniele Lorenzini – eletto nel 2012 per il Pd – che si è presentato alla guida di una lista civica. Nel piccolo paese fiorentino si è consumata una significativa sconfitta per Tiziano Renzi, padre di Matteo e segretario del locale circolo anche se adesso autosospeso: la candidata Pd, Eva Uccella è arrivata seconda con un divario di voto notevole. Lorenzini aveva preferito corrrere da solo dopo la vicenda Consip.

Altro strappo dall’orbita di Renzi, migliaia di chilometri più a Sud. A Lampedusa, Giusi Nicolini, sindaco-simbolo dell’isola dell’accoglienza, premio Unesco per la pace, chiamata da Renzi nella direzione del partito democratico, è arrivata terza, battuta da Salvatore Martello, candidato Pd (non renziano) e dal giovane Filippo Mannino con una lista civica ispirata al M5s. Cosa è accaduto? Come abbiamo scritto nell’ultimo numero di Left, la sindaca era molto criticata per non aver saputo coinvolgere i cittadini nella amministrazione dell’isola. Incapacità personale? Oppure invidia dei locali? Nicolini è diventata un personaggio pubblico a tutti gli effetti, addirittura è andata alla casa Bianca da Obama insieme con Matteo Renzi. Vedremo se le politiche dell’accoglienza del nuovo sindaco saranno all’insegna dell’apertura o della chiusura.

Uomini, chiudete le gambe. Vietato sedersi in maniera scomposta sui mezzi pubblici

Le città che vivono sottoterra vogliono che le regole valgano underground come overground. Al “el mensprading” anche Madrid dice no: stop, stringete le gambe. Ciò che vuol dire mensprading (mensprading in spagnolo) lo riassume meglio il segnale di divieto che la sincresi delle due parole inglesi unite insieme: man e spreading, cioè “uomo” ed “espansione”. Perché ad occupare troppo spazio, più di quello che spetta ad ognuno, nel mondo sono soprattutto i maschi.

La campagna è stata lanciata dalle autorità dei trasporti della capitale spagnola, la EMT, con la figura di un uomo su un segnale di divieto, che occupa, ma non dovrebbe, due seggiolini al posto di uno. Questo segnale è apparso su bus, treni, mezzi pubblici con una grande croce rossa in alto.

Non accade solo in Spagna. A Seattle per spiegarlo hanno usato l’immagine di un polipo. Nel 2012 la metro di Tokyo, al posto della croce rossa, ha usato un punto interrogativo. È un problema dei riders dei mezzi pubblici ovunque, è “impolite”, maleducato ed è una “space issue”, una questione di spazio: il New York Times ne ha parlato la prima volta nel 2014, dopo la campagna lanciata dalla compagnia di trasporti di New York in quell’anno. La scritta sul segnale diceva “Dude it’s rude”, Hei tipo, è maleducato, e “Dude, close your legs”, “He tipo, chiudi le gambe”. La prima campagna di sensibilizzazione per lasciare lo spazio anche agli altri sui mezzi pubblici, nella città americana, risale al 1953.

Ci vuole costanza, per riconoscere i nuovi oppressi

Prende sempre più piede, anche a sinistra, un certo vendicativismo contro coloro che “non capiscono”, “non sanno” e “che non vogliono capire”. Mi è capitato qualche giorno fa, ad esempio, di ritrovarmi a una cena con persone di storica cultura di sinistra che mi hanno spiegato come sia “inutile” insistere nello smascheramento delle bugie su terrorismo e immigrazione e allo stesso tempo si raccomandavano di inaugurare un nuova “durezza” contro coloro che “si bevono le bufale di internet”.

Anche su certa politica mediorientale o per il dibattito sui vaccini sta crescendo una certa modalità per cui andrebbero dati per persi coloro che rimangono bloccati sulle loro posizioni. In un editoriale di qualche giorno fa sulla vicenda della presunta scarcerazione di Riina (che nessuna Cassazione ha mai scritto nero su bianco) si scriveva che “non bisogna avere più pazienza con questi mafiosi” adducendo una certa stanchezza nel “ripetere sempre le solite cose”.

Chi non sa, insomma, non è “degno” di essere preso in considerazione. E fa niente che il “non sapere” molto spesso sia esso stesso un’oppressione: piuttosto che criticare chi si informa solo da qualche link su Facebook forse sarebbe il caso di pensare a quanto la disperazione, l’instabilità e economica e l’oppressione di un reddito sempre in bilico abbia spinto molti a non avere il tempo e la voglia di approfondire perché impegnati in una sopravvivenza quotidianamente in bilico.

Un padre di famiglia che lavora per dodici ore in cambio di qualche spiccio, un giovane non più troppo giovane che rimbalza tra lavoretti sottopagati e colloqui di lavoro o una madre che si arrampica in verticale per provare ad arrivare al fine del mese a fine giornata hanno ben poca voglia ed energie per approfondire, verificare e ascoltare diverse fonti. Mi spiace per il fior fiore di editorialisti ma qui fuori c’è qualcosa di più urgente rispetto allo studio dei fatti del mondo.

E forse coloro che danno sfogo alla pancia e al luogo comune spesso sono quegli stessi oppressi a cui dovremmo dedicarci. O no?

Buon lunedì.

Valerio Carocci racconta l’esperienza pilota del cinema America

I ragazzi dell’America ce l’hanno fatta! La rassegna di cinema, tra le più attese nella Capitale, il primo giugno ha acceso schermo e audio, per il terzo anno, per sessanta giorni, nel meraviglioso scenario di piazza San Cosimato. Grazie all’impegno di Sabrina Alfonsi, presidente del I Municipio e al suo staff tecnico, ma anche al sostegno di una sfilza di registi, attori e artisti che hanno firmato una lettera per tenere in vita la rassegna trasteverina. Dunque la programmazione sotto lo stelle si farà con un nutrito cartellone è consultabile sul sito: www.trasteverecinema.it.
Abbiamo chiesto a Valerio Carocci, tra i promotori degli eventi nati a sostegno dell’ex Cinema America, lo storico locale di via Natale del Grande fruibile solo in parte, quali intralci burocratici rischiavano di bloccare la manifestazione e quali ancora tengono in stallo l’apertura della Sala Troisi, di via Induno, per la cui rinascita operativa gli stessi ragazzi hanno vinto un bando più di un anno fa. «La questione è molto semplice – racconta – c’è una consigliera del M5S che abita in Piazza San Cosimato, Gemma Guerrini, che da anni protesta per tutte le manifestazioni che avvengono nella piazza» Negli anni scorsi, però, il Comune di Roma aveva sostenuto la rassegna. «Sì prima con il sindaco Marino, poi- aggiunge Carocci – lo scorso anno l’autorizzazione per l’occupazione del suolo pubblico è stata rilasciata, addirittura, dal gabinetto di Tronca, sotto commissariamento». Dopo l’autorizzazione del I Municipio, però, «il Comune ha messo nero su bianco che la manifestazione andava ridotta da 60 a 3 giorni.
Per una petizione, firmata da 22 residenti, su 3063 che abitano nei pressi della piazza, che sostengono di non riuscire a dormire a causa della proiezione del film. Il Campidoglio, dopo questa diffida, ha chiesto un esame dei pareri e Questura, Asl, Polizia municipale hanno dichiarato che non c’è stata alcuna problematica a riguardo. Il problema non esiste: abbiamo investito sull’audio, abbiamo sempre fatto attenzione a mantenere basso il volume e a programmare esclusivamente film che finiscono entro la mezzanotte. Né si può dire che abbiamo creato problemi igienico-sanitari e di pubblica sicurezza. Quella piazza, è riconosciuto anche dall’Ama, è mantenuta più pulita quando ci siamo noi perché la puliamo ogni sera, dopo la proiezione. Queste persone vorrebbero una piazza vuota, che potrebbe essere appannaggio della movida violenta, dello spaccio, ma prima di tutto senza iniziative culturali.
E il sindaco Virginia Raggi?
Abbiamo incontrato, più volte, per circa sei mesi, il vice sindaco Luca Bergamo. Ma una settimana fa è arrivata la richiesta di riduzione drastica della manifestazione. Ci siamo anche resi disponibili a spostare il progetto nei territori periferici, come loro hanno richiesto pubblicamente.
Forse questo non rientrava nei vostri programmi.
In realtà, abbiamo risposto che se c’era la volontà politica di andare in periferia, e noi siamo tutti ragazzi che vivono là, eravamo disponibilissimi, come abbiamo fatto a Casal Palocco o a Corviale.
Quanto alla Sala Troisi perché non lo avete ancora, materialmente, in mano?
Per un, chiamiamolo così, problema amministrativo (nel bando non c’era l’agibilità della sala, ma era un bando di servizio), nonostante la disponibilità economica a ristrutturarlo e le garanzie bancarie necessarie, sostenute anche dalla Indigo e da  Carlo Degli Esposti, mancherebbero trentamila euro per sbloccare la situazione, comunque aspettiamo un movimento da parte dell’amministrazione comunale.
Un altro spazio chiuso, come tante altre realtà a Roma.
Come poteva un’amministrazione comunale, pur in crisi di liquidità, rinunciare a una rassegna di cinema di sessanta giorni, a ingresso gratuito, sostenuta senza fondi comunali?
La nostra lettura è che ci sia la volontà di spazzare via tutto quello che non sia organico del M5S, anche se noi non abbiamo legami politici. Nonostante ci siamo posti con la volontà di aprire un dialogo con loro, la risposta non arriva, il dialogo ci viene negato, allora sì, chiamiamo Almodóvar e gli chiediamo di sostenerci, come dopo di lui hanno fatto tanti altri registi, immediatamente.
Sono tanti i cineasti, infatti, a sostenervi e che saranno ospiti della rassegna.
Avremo registi importantissimi: dal premio Oscar Farhadi ai giovanissimi italiani, Claudio Giovannesi, Edoardo De Angelis e moltissimi altri. E poi varie rassegne, di Antonioni, di Magni; la domenica sarà dedicata a Kubrick!
Piazza San Cosimato per Left ha un significato importante perché proprio lì, esattamente in via Roma Libera, si tenevano i seminari dello psichiatra Massimo Fagioli, che su queste pagine ha tenuto, fin dalla nascita del settimanale, una rubrica fondamentale, dal titolo Trasformazione. Come ha reagito il quartiere alla sua scomparsa?
Trastevere, nella accezione più positiva, è stato “colonizzato” da questa esperienza (dell’Analisi collettiva ndr) e credo che molte persone che andavano ai seminari si sentano legate a questo quartiere. La storia di Fagioli ha fatto parte e fa parte di Trastevere, lo sanno tutti.

Più istruzione per tutti

Spesso sentiamo dire che destra e sinistra sono due categorie politiche obsolete e prive di un reale significato. La confusione aumenta se poi osserviamo le politiche dei governi di destra e sinistra che si sono alternati nel nostro paese negli ultimi vent’anni. Tuttavia non è esagerato concludere che gli uni sono stati il prolungamento degli altri per molti aspetti che riguardano le politiche messe in atto. In particolare, un osservatorio privilegiato per capire in che direzione è stata diretta l’azione dei diversi governi che si sono ultimamente succeduti, è rappresentato dall’istruzione superiore e dalla ricerca: questo settore racchiude due punti chiave cruciali, l’uguaglianza e lo sviluppo o, meglio, la disuguaglianza e il sottosviluppo.

La grande crisi che stiamo attraversando da quasi dieci anni nel nostro Paese, come in molti altri a cominciare dai paesi dell’Europa meridionale, non sembra volgere a un termine e anzi permane una situazione di grande instabilità, incertezza e depressione. Uno degli effetti della crisi è stato d’amplificare le disuguaglianze economiche che sono oggi diventate insormontabili e sembrano aver annullato per il singolo la possibilità di migliorare la propria situazione attraverso il volano principe della mobilità sociale, l’istruzione superiore. Tuttavia, se l’università era il laboratorio d’idee nuove e originali, oggi l’università è diventata il territorio ideale per sperimentare come sopprimerle. Inoltre, se l’istruzione era considerata come il luogo principale per l’emancipazione sociale, ora sembra essere ostaggio di una casta auto-referenziale, racchiusa in se stessa e troppo dipendente dalla politica.

Questo è avvenuto perché una volta conquistata l’università, il luogo dove il pensiero critico, innovativo e indipendente dovrebbe essere sviluppato, tutto il resto cede senza problema. Basta ad esempio dare una scorsa ai consiglieri economici degli ultimi governi, demiurghi delle politiche che hanno precarizzato senz’appello le giovani generazioni annullando le tutele sul lavoro. Oppure è sufficiente osservare i vari apprendisti stregoni che, al servizio del potente di turno, cercano di cambiare ora la Costituzione ora la legge elettorale, sempre nell’interesse del particolare.

La ricerca subisce dunque in modo particolare la crisi economica e politica in cui siamo immersi. Da una parte la penuria di risorse è diventata un problema strutturale con tanti giovani scienziati che hanno risibili possibilità di continuare a svolgere l’attività di ricerca in modo stabile. D’altra parte l’esasperata competizione sta drogando il lavoro dei ricercatori con il risultato di cambiare completamente la fisionomia della ricerca scientifica: da impresa intellettuale e libera a produzione di risultati risibili ma utili immediatamente per qualcosa, o peggio, per qualcuno.



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Prove tecniche per una sinistra unita

Anna Falcone durante la presentazione del comitato per il NO al referendum sulla legge costituzionale Renzi Boschi, Roma, 11 gennaio 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

«Finalmente, ecco la parola che oggi ho sentito dire da tutti». Anna Falcone insieme con Tomaso Montanari ha scritto l’appello “Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza”, in cui si lancia un programma di massima per «una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista». Una grande lista di cittadinanza e di sinistra «aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile». La giovane avvocata, vicepresidente del Comitato per il No al referendum contro la riforma costituzionale e lo studioso d’arte, presidente di Libertà e giustizia hanno scelto una espressione «a titolo personale e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati», di cui fanno parte. Ma le idee sono molto chiare. «Noi non abbiamo messo paletti per escludere nessuno», dice Anna Falcone a Left. «L’unico punto che riteniamo fondamentale è quello di riconoscersi in questo progetto che abbiamo delineato a grandi linee, cioè partire dal voto del 4 dicembre e dall’attuazione della Costituzione». Il programma è di massima, perché Falcone e Montanari vogliono che siano i cittadini a scriverlo. L’appuntamento è per il 18 giugno al Teatro Brancaccio di Roma (dalle ore 9.30).

Il progetto, si legge, mette «al centro il diritto al lavoro, il diritto a una una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione». E poi il futuro costruito sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile piuttosto che sul profitto, con priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca. E ancora: equità e progressività fiscale, non austerità e politiche recessive, lotta all’elusione e all’evasione per affrontare i problemi di bilancio.
Il processo di partecipazione al progetto, si legge ancora nell’appello, deve essere attuato «con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati»
Anna Falcone lo spiega ancora meglio: «Oltre al programma di massima bisogna intendersi anche sul metodo, perché, io che sono una elettrice come tanti, sono stanca di sentire che tutto il dibattito politico ruota attorno alla leadership. Quindi bisogna intendersi sul percorso e sul metodo – avverte Falcone -. Il percorso è: progetto, programma e poi indicazione democratica dei candidati e delle leadership». Controcorrente rispetto al berlusconismo e al renzismo, «a me piacerebbe una leadership diffusa, non un singolo capo», aggiungendo: «È evidente che se il percorso è questo, i candidati e le leadership devono essere i migliori candidati coerenti con il percorso che si è democraticamente scelto».



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Lutero servo della Chiesa

Il V centenario della Riforma offre l’occasione per tornare a studiare la sua traduzione della Bibbia e il ruolo che ebbe nella nascita del tedesco moderno. Senza però dimenticare le parole di Marx: «Lutero ha distrutto la fede nell’autorità per ripristinare l’autorità della fede»

Se si pensa a Lutero si pensa alla Riforma protestante e alla rivolta contro la Chiesa di Roma; si pensa alla traduzione della bibbia e alla nascita della lingua tedesca moderna. Forse si sa anche che Lutero, con la sua rivolta a Roma, ebbe un ruolo basilare per la successiva storia culturale della Germania e per tutto il futuro pensiero tedesco, ma raramente viene colto il senso di duplicità che questa ribellione comportava. Per comprenderlo dobbiamo tener presente che Lutero è un uomo di Chiesa e tale rimarrà sempre, è un uomo del Medioevo e non del Rinascimento, è l’uomo che teorizzò nel De servo arbitrio l’impossibile conciliazione fra libertà interiore ed obbedienza all’autorità. Una teorizzazione che divenne esplicita condanna in occasione della Rivolta dei contadini nel 1525. Infervorati dalle parole del monaco sassone che condannava i soprusi di Roma, i contadini dettero vita alla loro ennesima insurrezione convinti che questa volta gli esiti sarebbero stati a loro favorevoli. La realtà, lo sappiamo, fu assai diversa: essi furono trucidati e Lutero non solo non li appoggiò ma ne prese le distanze formulando la scissione fra uomo interiore soggetto ai disegni divini e uomo esteriore soggetto ai padroni del mondo. I contadini erano cioè liberi solo in qualità di uomini interiori ma non potevano pretendere la libertà per l’uomo esteriore che deve invece, sempre e comunque, obbedienza all’autorità. Una frattura che pervade tanta cultura futura. Secoli dopo Marx scrisse nella Critica della filosofia del diritto in Hegel : «Lutero ha distrutto la fede nell’autorità per ripristinare l’autorità della fede; ha trasformato i preti in laici per fare dei laici preti; ha liberato l’uomo dalla religione esteriore per fare della religione l’uomo interiore».
Teniamo presente questo aspetto e apparirà esplicito il complesso percorso della Riforma, la nascita di un’etica protestante che caratterizza le popolazioni del Nord e la storia della lingua tedesca, lingua dall’anomalo sviluppo che ha dominato in ambito filosofico e psichiatrico e a cui, all’interno dell’Analisi collettiva, abbiamo dedicato ampio spazio.
1517. Quando cinque secoli fa Lutero pubblicò le sue tesi non aveva alcuna intenzione di provocare uno scisma: fino al 1521, anno in cui con la bolla di Leone X fu condannato come eretico hussita, cercò di scongiurare la rottura affinché la riforma rimanesse un fenomeno interno alla chiesa. Lutero era uomo di Chiesa. Tuttavia la miccia era stata accesa e l’esplosione non poteva essere evitata. Veri artefici della scissione della cristianità furono la politica dei principi elettori laici che videro la possibilità di affermare il loro potere su più di un quinto dell’impero in mano ai principi ecclesiastici, rappresentanti papali, e la stampa a caratteri mobili di Gutenberg che diffuse, con una rapidità mai vista prima, sia le lettere d’indulgenze vendute sulla pubblica piazza secondo precise regole di mercato da venditori itineranti, sia le 95 tesi luterane che le condannavano.



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Elezioni amministrative: Ventotene e Lampedusa, isole nella corrente (renziana)

Italian Premier Matteo Renzi with mayor Giusi Nicolini in Lampedusa, 25 March 2016. Renzi said after a migrant management meeting on the island on Friday that the EU can't ignore "great emergencies". He said "a message goes out to Europe from Lampedusa: this is not periphery, far from the eyes of Europe but a place of beauty that has enabled thousands of lives to be saved". ANSA / US PALAZZO CHIGI - TIBERIO BARCHIELLI - PRESS OFFICE +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

Tra i 1021 comuni alle urne l’11 giugno per il rinnovo del consiglio comunale ci sono anche due isole, Ventotene e Lampedusa. Piccole comunità (6mila abitanti Lampedusa e 700 circa Ventotene), in luoghi con problemi diversissimi tra loro ma con alcuni punti in comune. Il loro nome infatti è legato all’Europa: Ventotene come luogo simbolo dove l’unione è stata pensata da Spinelli e Rossi nel loro celebre Manifesto; Lampedusa, come porta d’Europa, terra di accoglienza per i migranti ma anche luogo testimone di immani stragi del mare. Non solo. Sono due isole nella corrente “renziana”, potremmo dire, legate alla storia recente della politica. Per Ventotene, o meglio, per l’isolotto prospiciente di Santo Stefano, Renzi aveva proposto – con tanto di finanziamenti – la scuola di alta formazione per dirigenti europei. Ma anche per Lampedusa il segretario Pd in qualche modo ci ha messo la faccia, visto che la sindaca uscente Giusi Nicolini, che si ricandida, pochi giorni fa è stata chiamata nella direzione del Partito democratico.

Il carcere di Santo Stefano, manna per Ventotene

L’isola pontina nell’agosto scorso fu lo scenario del summit con Matteo Renzi, Angela Merkel e Francois Hollande. O meglio, i tre premier si limitarono a una rapida tappa sull’isola per deporre i fiori sulla tomba di Altiero Spinelli, perché il vertice si svolse su una portaerei. Ma prima di quella che si rivelò essere solo una passerella mediatica, a gennaio 2016 era arrivata una buona notizia per Ventotene. Matteo Renzi insieme al ministro Franceschini e al presidente della Regione Lazio Zingaretti si era recato sull’isolotto di Santo Stefano e aveva lanciato la proposta di recupero dello storico carcere del ’700. Poi a maggio il Cipe ufficializzò lo stanziamento di 70 milioni di euro, con tanto di relativo tavolo tecnico costituito da Demanio, ministero dei Beni culturali, ministero dell’Ambiente, Regione e commissario prefettizio subentrato al sindaco Geppino Assenso, dopo la caduta della giunta che non era riuscita ad approvare il bilancio. Ma il tavolo tecnico, una volta dimessosi Renzi, ha rallentato il suo lavoro, anzi, nell’isola dicono che non si è più riunito. Nel suo discorso al Lingotto per la corsa alla segreteria Pd Matteo Renzi aveva tenuto a ricordare i 70 milioni per Santo Stefano. Ma nel frattempo non è successo nulla. «L’unica cosa che sta avvenendo è il completamento di un piccolo intervento finanziato dal Mibact prima dell’annuncio di Renzi, una sorta di puntellamento e messa in sicurezza dell’edificio», dice Salvatore Schiano di Colella, storica guida di Santo Stefano, che per l’associazione Terra Maris gestisce il museo archeologico di Ventotene. Intanto l’isolotto dal 25 agosto 2016 è off limits: dopo un sopralluogo dei vigili del fuoco, in seguito al terremoto di agosto, la commissaria prefettizia ha deciso di chiuderlo: niente più visite guidate. La speranza dei residenti di Ventotene è che il famoso tavolo tecnico possa riprendere anche grazie alle pressioni, questa volta di un sindaco. I segnali positivi ci sarebbero. Il genio militare dell’aeronautica sta costruendo a Santo Stefano una elisuperficie di emergenza, proprio in previsione dei lavori del cantiere. Intanto, i candidati alla poltrona di sindaco utilizzano il tema dei finanziamenti per ottenere più consensi alle urne.

(…)

Giusi Nicolini e le infinite tragedie dei migranti

Quando venne eletta sindaca di Lampedusa nel 2012 con il 26% dei voti, Giusi Nicolini dovette subito affrontare problemi di dirigenti comunali indagati e illeciti amministrativi. L’elezione dell’attivista di Legambiente, per anni direttrice della riserva naturale che comprende l’Isola dei Conigli, sembrava davvero una svolta per la terra più a sud d’Europa. Era l’anno dopo il terribile 2011, quando sull’isola si riversò un’onda continua di giovani migranti in fuga dal Nord Africa dopo le Primavere arabe. Allora, il centro di accoglienza non bastò ad accoglierli tutti e in migliaia rimasero accampati per giorni nella zona del porto, con gli abitanti che in qualche modo cercavano di aiutarli. Con Borghezio che faceva la sua parata trionfale a fianco di Marine Le Pen e Silvio Berlusconi che voleva acquistare una casa a Lampedusa, la vittoria di Nicolini segnò davvero uno spartiacque nell’asfittico panorama politico isolano. Dal 2012 sono accadute molte, moltissime cose. Nel 2013 c’è stata la tragedia del 3 ottobre con i suoi 386 morti, le polemiche sui soccorsi, le bare all’aeroporto e la processione di politici. La sindaca allora e in seguito non mancò mai di chiedere interventi per far sì che Lampedusa non diventasse «il luogo dove finisce l’Europa, ma dove inizia». La sindaca, una delle quattro donne insieme con Matteo Renzi in visita da Obama alla Casa Bianca, ha ricevuto ad aprile il premio Unesco per la pace. E anche il cinema con Gianfranco Rosi e il suo docufilm Fuocammare, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, ha celebrato l’isola e il suo rapporto con i migranti. Ma dopo il grande clamore, cosa è successo a Lampedusa? Questa è la domanda cruciale. Al di là dei media e dei film, al di là dei personaggi diventati famosi come il medico Pietro Bartolo, al di là degli innumerevoli eventi organizzati nell’isola, come vivono i residenti? Qualche delusione c’è. La sindaca che, va detto, si è trovata subito a fronteggiare l’emergenza subendo anche minacce non velate, si sarebbe “chiusa” troppo dentro la macchina amministrativa non cercando un coinvolgimento “con” i lampedusani. Fatto sta che adesso le elezioni si presentano alquanto incerte.  Giusi Nicolini, pur essendo nella segreteria del Pd, è alla testa di una lista civica, “Per le Pelagie”, soltanto di ispirazione Pd. Anche perché nell’isola il Partito democratico si è spaccato e l’11 giugno si ripresenta un candidato storico, l’ex sindaco (Pd) Salvatore Martello. Anche lui con una lista civica, Susemuni, è forte dell’appoggio dei pescatori, mentre i renziani sostengono Nicolini.



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Ayse e le altre, in lotta per affermare la propria identità

ANTALYA'DAKI GEZI PARKI EYLEMLERINDE 'KIRMIZI FULARLI KIZ' OLARAK TANINAN AYSE DENIZ KARACAGIL'IN PKK'YA KATILARAK DAGA CIKTIGI IDDIA EDILDI.(FOTO:ANTALYA-DHA)

Un essere umano si fa umano quando si pone di fronte alla morte, ci dicono da secoli filosofi, poeti, antropologi, storici. La morte ci scuote e ci fa umani; e di conseguenza pensiamo che è proprio l’indifferenza nei confronti della morte a segnare la perdita di umanità da parte degli umani, degradati al rango di cose. La morte, però, per scuoterci deve essere visibile ai nostri occhi, presente ai nostri sensi. Dobbiamo, per così dire, toccarla con mano, nella sua concretezza.
Ma quando gli eventi si trascinano nel tempo indefinitamente, e per giunta accadono fuori dalla nostra portata, finiamo per assuefarci perfino alla morte, e non pensarci più. Ogni tragedia diventa una cosa normale, ridotta al rango di una quotidianità automatica, e scompare dall’orizzonte della nostra coscienza. Come un rumore di fondo costante che non udiamo più – e perciò, scomparso alla coscienza, smette di esistere del tutto.
Il solo modo per riportarla al nostra coscienza è tornare a toccarla con mano, nella sua concretezza, ovvero nella sua individualità. Così, quando una singola storia trapassa il muro del silenzio, ci ricordiamo che sì, in quel luogo del mondo si continua a morire, che una tragedia è in corso, che una lotta viene portata avanti, ed è un evento che merita la nostra attenzione, e il nostro sostegno.
Così è nel caso dei curdi, e delle curde. Per questo motivo avevo deciso, tre anni fa, di far romanzo della vita e della morte di una comandante guerrigliera curda, Avesta Harun.
Pochi giorni fa è arrivata la notizia della morte di una giovane guerrigliera di 24 anni, caduta nell’offensiva che i curdi di Ypj e Ypg (le unità combattenti dei curdi siriani) stanno portando avanti per riconquistare Raqqa, la città più importante del presunto “Stato islamico” nei territori siriani. Si chiamava Ayse Deniz Karacagil, ma era da tutti conosciuta come Cappuccio rosso, e in Italia era stata resa celebre dal fumetto di Zerocalcare Kobane calling. Lei non era curda, in realtà, ma una comunista turca che, durante i giorni di Gezi park, aveva resistito alla ormai evidente tirannia di Erdogan, e che, in carcere, aveva conosciuto donne curde che facevano parte delle unità combattenti del Pkk.
Una storia, dunque, che ci fa tornare con la mente e con il cuore in un luogo del mondo dove si vive per degli ideali, valori che si tratta di affermare a costo della propria vita, e ci fa comprendere che la lotta dei curdi non è solo la lotta di liberazione di un popolo, ma la lotta per dei valori universali, che riguardano tutta l’umanità, ed è per questo che persone come Ayse si sono unite a quella lotta. Tra questi valori, centrale – e senza dubbio determinante per la scelta di Ayse – è quello dell’emancipazione della donna come necessariamente preliminare all’emancipazione del genere umano.



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Renzi e Berlusconi? Che stiano insieme è naturale

Pare che l’intesa tra Pd, Cinquestelle, Forza Italia e Lega sulla nuova legge elettorale alla tedesca sia raggiunta. Una riforma che, con il passare dei giorni, diventa sempre di più il terreno su cui tessere le trame di quella che ormai in Europa è nota come la politica delle grandi intese, dei grandi centri, delle larghe coalizioni. Al di là dei vari aggiustamenti tecnici prodotti dagli emendamenti il risultato è quello di annoiare e allontanare il cittadino medio che, sempre più stanco di una politica che si riduce a “inciuci di palazzo”, si allontana dall’agone politico perdendo di vista il nocciolo sostanziale della questione in ballo. E allora, per cercare di comprendere meglio e per non farsi confondere o addormentare dai continui ripensamenti, cambi di rotta, aggiustamenti di tiro, abbiamo raggiunto al telefono un esperto di precisione filologica e chiarezza espositiva: il professor Luciano Canfora.
«Prima di tutto bisogna vedere se è davvero il modello tedesco, cioè il proporzionale con lo sbarramento al 5 per cento» ci risponde subito il professore che, se davvero fosse così, si dichiara contento in parte, vista la sua ostinata simpatia per il sistema proporzionale contro le alchimie maggioritarie.
«Non ho mai accettato questo criterio assolutamente iniquo della “governabilità” – aggiunge – perché questo vuol dire in maniera elegante: “sono minoranza, ma fingo di essere maggioranza”, quindi un assurdo, la negazione del principio del suffragio universale.
Sulla questione dello sbarramento il classicista sfodera subito la lente da storico e filologo e va alle origini di un sistema che fu inventato nella Germania Federale raccontandoci:
Fu instaurato nel 1953, nelle prime elezioni fatte nel ’49 non c’era ancora. Fu inventato per mettere fuori dal Parlamento, e dopo poco addirittura fuori legge, il Partito comunista tedesco, piccolo partito della Germania Occidentale il cui Segretario si chiamava Max Reimann. La Corte suprema, l’equivalente della nostra Corte costituzionale, mise fuori legge il Partito l’anno successivo nel 1954 dicendo che era un partito anti tedesco, anti patriottico, eversivo, i cui principi erano in contrasto con la costituzione. Allora “sbarramento” fu giustificato ipocritamente con la motivazione “non possiamo fare come nella Repubblica di Weimar dove la frantumazione dei partiti creò le premesse del nazismo!”. Ma era un’idiozia perché a Weimar i partiti in tutto erano 5-6 mica 35 o quanti sono i nostri oggi!
Dunque in origine era tutt’altro che democratica la motivazione dello sbarramento?
Non c’è una motivazione né logica, né politica dello sbarramento perché bisognerebbe dire che se un partito non supera una certa soglia quegli elettori non esistono, sono delle non-persone e non possono avere rappresentanza in Parlamento. Questa cosa non sta in piedi sul piano logico e, sul piano politico, è una sopraffazione. Siccome la lunga epoca del maggioritario ha devastato i cervelli e drogato le persone, non si coglie che il fatto che si torni al proporzionale è un bene e lo sbarramento passa quasi inosservato.
Come spiega le “scene isteriche” che ci regala il teatrino della politica nostrana di questi giorni?



L’intervista a Luciano Canfora prosegue sul numero di Left in edicola
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