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Paul Ginsborg: «Corbyn sveglia la sinistra inglese. E quella italiana?»

ROTHERHAM, ENGLAND - MAY 10: Labour Party leader Jeremy Corbyn is presented a Rotherham United F.C. scarf by a supporter during a campaign event on May 10, 2017 in Rotherham, England. The South Yorkshire town of Rotherham voted to leave by 68% during last year's EU referendum and is traditionally a Labour held constituency. (Photo by Anthony Devlin/Getty Images)

Nella sua casa nel cuore di Firenze, invasa dai libri, Paul Ginsborg è un uomo decisamente contento. Ammette anche di essersi commosso di fronte al risultato del Labour. «Negli ultimi 40 anni abbiamo vinto pochissime battaglie, ma in sei mesi è accaduto per ben due volte», dice con il suo modo calmo di parlare ma con un sorriso raggiante. «Il 4 dicembre con la vittoria del No al referendum costituzionale e ora la vittoria di Jeremy Corbyn», continua il professore, docente di Storia contemporanea per tanti anni all’ateneo fiorentino. Una doppia nazionalità, britannica e italiana, militante da giovane nella sinistra radicale inglese, arrivato nel nostro Paese stabilmente all’inizio degli anni 90 e da allora attento osservatore delle evoluzioni e dei travagli della sinistra italiana, oltre che protagonista al tempo dei girotondi nel 2000 e più tardi nella preziosa ma sfortunata esperienza di Alba, Ginsborg è il personaggio ideale per parlarci sia del cambio di passo del Labour, dato per spacciato, sia dei movimenti attuali in Italia a sinistra del Pd.
Il problema che lo interessa moltissimo in questo periodo è quello che definisce “la forma della politica” (non solo il contenuto), un «lavoro teorico e pratico» che ha affrontato insieme con Sergio Labate nel libro Le passioni e la politica (Einaudi). «Come si può cambiare la tessitura della nostra politica, farla diversa da quella delle altre forze politiche, denunciare le passioni politiche negative – il narcisismo, la ricerca del dominio, l’invidia, e valorizzare quelle positive?», questo l’interrogativo. Fa subito una premessa: «In Italia, nella sinistra terribilmente frammentata e personalizzata, c’è una grande incapacità di esercitare autocontrollo e soprattutto ascolto – che è fondamentale per una nuova riforma della politica».
«Jeremy Corbyn non è una figura naturalmente carismatica, non è un santo, ha molti difetti», continua Ginsborg. «Ma quello che ha Corbyn, per me molto interessante, è la sua capacità di ascolto e di risposta. Lui non si arrabbia, eppure è stato oggetto di una massiccia campagna denigratoria da parte della stampa popolare britannica. Al contrario, con grande tranquillità risponde punto per punto. La gente che si aspettava, per come lo avevano dipinto, uno con il fuoco rosso che usciva dalle orecchie – continua ridendo – invece trovava una persona pacata. Credo che è questa pacatezza, che non è una categoria politica machiavelliana e non rientra negli schemi della politica italiana, ad aver fatto veramente breccia tra le persone».
Nessuno avrebbe scommesso su Corbyn, tutti davano per scontato che «quest’uomo era un disastro» anche gli stessi amici inglesi dello storico. «Li ho chiamati, stamattina, li ho presi in giro, “adesso dovete mangiare i vostri capelli”, ho detto loro, perché per loro era impossibile che un estremista come Corbyn potesse vincere in un Paese moderato come l’Inghilterra. E invece ha vinto, certo, non ha stravinto. Ma il Labour invece di scomparire come i socialisti francesi è andato vicinissimo alla vittoria». Ginsborg spiega che poi il sistema maggioritario “pessimo” inglese che fa il gioco di due partiti escludendo il terzo, ha incrementato ancora di più i Tories mentre in realtà solo due punti percentuali (42% contro 40%) dividono le due forze politiche. «Corbyn è riuscito a conquistare anche le chattering classes londinesi, quelle che formano l’opinione pubblica. Ma soprattutto l’hanno votato i giovani». E poi c’è anche un elemento passionale che ha giocato la sua parte, ammette il professore. «Corbyn ha svegliato le passioni politiche di molte persone che si erano rassegnate, anche perché la sinistra inglese, diciamolo, era talmente inserita nel neo-liberismo da non apparire come un’alternativa».

L’intervista a Paul Ginsborg prosegue su Left in edicola


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E se il 18 giugno a sinistra nascesse un’alleanza non solo “di cartello”?

Anna Falcone, vice presidente del Comitato per il 'No' al referendum di Ottobre durante un' iniziativa organizzata a Napoli, 15 Giugno 2016. ANSA/CIRO FUSCO

Ogni giorno un cambio di casacca, un mito utile, un nuovo leader straniero da qualche parte del mondo qualsiasi per provare a risvegliare una fascinazione nutrita solo dall’emotività del protagonista. Nel giro di qualche giorno sono stati prima tutti Macron, poi tutti Corbyn e poi di nuovo Macron così come la destra italiana si è appesa nei mesi scorsi a Trump (prima di pentirsene) o alla Le Pen (prima di prenderne le distanze per il pessimo risultato elettorale). Così anche le analisi e gli scenari sembrano più figli di un’emotività corta piuttosto che di ideali o progetti dallo sguardo lungo: siamo passati dal patto del Nazareno tra Pd e Berlusconi (che anche qualcuno dai democratici cominciava a dare per scontato e che ha scatenato le ire addirittura del garbato Romano Prodi) fino a una presunta alleanza (meglio: un tentativo di alleanza) tra il Pd e Giuliano Pisapia.
A sinistra, intanto, l’appuntamento per il 18 giugno (a Roma, teatro Brancaccio, dalle ore 9.30) che nasce dall’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari e sembra avere raccolto l’iniziale disponibilità di un ampio fronte che parte da Rifondazione comunista passando per Sinistra italiana, Possibile, Mdp e diversi comitati civici sparsi sul territorio suggerendo l’inizio di un percorso che, nel caso in cui si realizzasse, sarebbe una buona notizia per la sinistra italiana troppo spesso arroccata e divisa. Se davvero si riuscirà a creare una condivisione di idee e di programmi senza infangarsi su leadership e cattivi propositi di preservazione del ceto politico fallimentare, il 18 giugno potrebbe essere il primo passo di un’alleanza non solo di “cartello”. Del resto le ultime elezioni amministrative hanno dimostrato che quando la sinistra (a sinistra del Pd) riesce a raggiungere un’unità credibile può raggiungere risultati davvero importanti.

Ma come sarà il futuro? Difficile dirlo. Certo Giuliano Pisapia e il suo Campo progressista (che dicono di voler presentare addirittura un simbolo e un programma per la loro convention del primo luglio) dovrà decidere se insistere nel tentare di modificare la natura renziana del Pd (perdendo così contatto con chi, a sinistra, ritiene il Partito democratico non più potabile) oppure se dedicarsi al progetto che vuole essere alternativo al renzismo e alle politiche di questi ultimi anni.

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola


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Noccioli, polpa e voucher

In occasione della grande mobilitazione della Cgil contro “il ritorno dei voucher” abbiamo chiesto a una scrittrice di talento di raccontarci la sua esperienza e quella di tanti suoi coetanei

Mia mamma avvicina le ciliegie e mi invita a prenderne ancora. Le ha divise per tipologia in distinte ciotole. Ci sono le bianchine, i duroni, le marasche. Da una parte ci sono quelle ammaccate, più mature, senza gambo, quelle insomma che vanno mangiate prima delle altre. È un lavoro preciso per non buttare via nulla e allo stesso tempo per individuare il proprio gusto. Quando è il momento di cogliere, non si può rimandare. «Vanno prese sennò se le mangiano gli uccelli”. Mentre assaporavo le prime ciliege scampate a storni e cornacchie, mamma ha fatto la domanda sui voucher. «Prima li levano, poi li rimettono. Non ho capito nulla. Cosa è successo?”. Vorrei solo prendermi la ciotola di ciliege e scappare. Le vorrei dire che potrebbe sfogliare il giornale, cercare su internet, darsi una mossa. Le vorrei dire che sono stanca di dare spiegazioni, che si deve lottare e basta, che si dovrebbe fidare delle cose giuste. La fiducia e i principi, tanto ti deve bastare. No. Mia mamma non molla. Non dice niente, ma dice tutto. Ora me lo spieghi perché io mi sono fatta il mazzo per te, ho riserve doc di sudore di decine di anni di fabbrica valide a rinfacciartele per tutto il resto della tua vita. Cosa ti si è fatto studiare a fare? Per capire prima di me, no? Me lo spieghi visto che ci avevi anche fatto firmare per il referendum della Cgil e poi non siamo andati a votare. Me lo spieghi anche perché sei stata proprio tu a raccontarmi dei voucher e io non sapevo neanche esistessero e mi hai preso in giro e s’è finito per litigare perché noi eravamo gli stronzi garantiti dalla pensione e tu la giovane precaria senza futuro. Ero già incavolata con questi voucher perché a metterci contro fra di noi non mi pareva normale. Dopo dieci anni di contratti a progetto, collaborazioni occasionali, contratti a termine, notule, diritti d’autore, varie spiegazioni, era arrivato il voucher e avevo fatto l’errore di mostrarne uno a mia mamma. Sono degli scontrini talmente sottili che temi di perdere o che si scoloriscano, uguali a quelle della Snai. Un voucher come una scommessa. Pensavo commentasse, bello schifo e si accontentasse. Invece no. «Come funziona?” Lei vuole sapere. Ha la quinta elementare, ma fa parte di quei mezzadri puzzolenti che nella fabbrica han trovato anche la capacità di leggersi ogni rigo della busta paga e di attrezzarsi a sapere per difendersi. Una nozione piccola, ma precisa come un martello. Sono stata pagata a voucher per dei corsi che ho tenuto. Non avevano sostituito il nero, ma un contratto a termine. L’avevo sfidata, mia mamma. Vuoi sapere? Bene, ti racconto. Sai come si riscuotono? Cerchi i tabacchi abilitati. Intanto qua da noi non ci sono, li ho scovati in città. Ho individuato i punti. Con in tasca due voucher, fiduciosa ero entrata. – No sono le 8.00 e la macchinetta l’accendiamo solo alle 8.30. (Me ne andai perché perdevo il treno). – No mi spiace non abbiamo tutti i soldi, posso pagarne solo uno. – No, oggi non funziona la macchinetta. – Eccoli ( con fare scocciato perché gli portavo via tempo e soldi e inceppavo la fila e il suo lavoro ). I tentativi grotteschi si sono ripetuti e avrei voluto dar fuoco a ogni scritta sali e tabacchi che vedevo a giro. Odiavo quella specie di scontrini custoditi come fossero diamanti. «Devi patire anche per riscuoterli” aveva detto mamma. Assegni familiari, malattie, ferie e permessi, maternità, disoccupazione, che insomma non c’erano le tutele, era stato facile spiegarglielo. Al mio primo certificato di malattia per un contratto vero, a termine, a 35 anni, avevo pianto. Lei mi aveva guardata sdegnata. «É il minimo e vi siete fatti fregare così”. Mi aveva rinfacciato tutti gli scioperi fatti e gli scatti di anzianità a cui aveva rinunciato pur di assumere. Io gli avevo detto che dal pacchetto Treu in poi, proprio la sua generazione, pure a sinistra, voleva convincerci di cedere per rispondere meglio al mercato. Eccolo il mercato. Parlaci te. «Questi nuovi? Perché rimetterli? Saranno differenti?” Una domanda dietro l’altra, come le ciliege. Ho preso una bianchina. «Intanto c’è la questione democratica. Si doveva votare il 28 maggio, ma il governo ha deciso di abolire voucher e ripristinare la solidarietà su appalti facendo così decadere il confronto alle urne. Appena passata la paura del voto, il governo li reintroduce senza confronto col sindacato”. Bel discorso, dice mia mamma. La scorrettezza la capisce al volo. Allora prendo un durone e gli tolgo un gambo. «Li chiamano libretto familiare, ma non sono rivolti solo alle famiglie. Possono infatti utilizzarli le imprese sotto i 5 dipendenti. Questa soglia riguarda l’80 per cento delle imprese italiane, non una manciata. In più i 5 dipendenti sono a tempo indeterminato. La soglia può salire? Un’azienda con 10 interinali, 5 a progetto e 5 indeterminati può utilizzare i voucher? Par di sì. Non ti pare un incentivo a precarizzare i lavoratori?”. Mia mamma tiene fra le mani il gambo e la ciliegia. La polpa dove sta? «Questa volta non dovrebbe essere un buono tabacchi, ma dovrebbe attivarsi da una piattaforma online dell’Inps. Si aumenta il netto: da 7,5 a 10 euro a buono. Per l’impresa passerebbe da costare 10 a 12 euro. Ti fanno credere di guadagnare di più. Di più cosa? Intanto rimane che non hai ferie, permessi e malattia. Non è un contratto e per di più rischia di sostituire gli altri, quelli con le tutele. Si taglia persino sull’assicurazione infortuni: dal 7 per cento a poco più del 2. Il tetto di utilizzo è di 5000 euro l’anno, ma sale a 6250 per studenti, pensionati e disoccupati. Non possono provenire dallo stesso datore di lavoro buoni oltre 2500 euro, ma a ore sarebbero di più: 280, ovvero vanno oltre i 3000. Insomma sulle soglie c’è parecchia confusione. Su controlli e sanzioni, che dire? Una piccola perla: per la pubblica amministrazione pare che debbano essere utilizzati per eventi spot, eccezionali, ma non sono previste sanzioni. Dunque possono superare tetti e ore di utilizzo? Voragini” «Bah. Poi possono prendere più lavoratori e stare sotto la soglia e allo stesso tempo sono pure più ricattabili” dice mia mamma mentre mette in fila altre ciliege. Io prendo una marasca. «Boeri dice che i nuovi voucher sono come il reddito minimo garantito”. «Garantito da chi? Svuotati i capannoni, messi i robot, ci paga Boeri per non far nulla? Questo è volerci convincere che i gambi sono meglio delle ciliege” dice mia mamma. Guardo le ciotole. Penso alla varietà dei contratti precari che ha superato la varietà di ciliege. Penso a tutti i contratti nazionali. Penso alla fatica di difenderli dai continui becchi, da decenni di riforme del mercato del lavoro. Tagli e sacrifici. I diritti? Ciuccia il nocciolo, è buono lo stesso. Non si può rimandare, le ciliege vanno colte. Con mia mamma, abbiamo cominciato a prenderne a manciate e a fare a gara a chi sputa i noccioli più lontano.

Crisi Qatar: Il prezzo amaro per il Medio Oriente (e per noi)

A picture taken on June 5, 2017 shows a Saudi woman and a boy walking past the Qatar Airways branch in the Saudi capital Riyadh, after it had suspended all flights to Saudi Arabia following a severing of relations between major gulf states and gas-rich Qatar. Arab nations including Saudi Arabia and Egypt cut ties with Qatar accusing it of supporting extremism, in the biggest diplomatic crisis to hit the region in years. / AFP PHOTO / FAYEZ NURELDINE (Photo credit should read FAYEZ NURELDINE/AFP/Getty Images)

L’attentato del 7 giugno a Teheran da parte dello Stato islamico manifesta un conflitto antico e radicato in Medio Oriente. Quella che si combatte dal cuore della Mesopotamia alle coste del Mediterraneo è una guerra epocale, che vede sì la contrapposizione settaria tra sciiti e sunniti – strumentalizzata per altro ogni qual volta è necessario – ma soprattutto una guerra di civiltà. Ed è in gioco la pretesa di influenza e supremazia in Medio Oriente da parte delle superpotenze, gli Usa e la Russia. È un’illusione ottica che sia l’Islam al centro del conflitto anche se questa è l’idea che vogliono accreditare i jihadisti, la destra occidentale ma anche gli stessi sauditi che reputano l’Iran una repubblica di miscredenti in attesa messianica che si manifesti sulla Terra il Dodicesimo Imam scomparso. La religione, di questi tempi, viene più usata che rispettata. Il cuore di questa guerra di civiltà è l’uomo stesso, che non vuole rinunciare alla sua terra, al suo diritto di sopravvivere, di decidere come scegliere il suo futuro senza che venga imposto da fuori.
Qual è il prezzo del sangue in Medio Oriente? Per comprenderlo, vale la pena ripercorrere cosa è accaduto in questi ultimi anni. Una storia che ci riguarda direttamente.

L’articolo di Alberto Negri prosegue su Left in edicola


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Maurizio Landini: «Vogliamo ricostruire il valore del lavoro»

Il leader della Fiom Maurizio Landini durante il suo intervento in occasione della manifestazione nazionale della Fiom, Roma, 28 marzo 2015. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

La vicenda dei voucher illustra alla perfezione il pessimo stato del lavoro dipendente in Italia e la scarsa considerazione che ne ha la nostra classe dirigente, in particolare il governo. Anzi, i governi, vista la continuità con cui si sono mossi gli ultimi esecutivi in materia di relazioni sociali e lavorative.
Chiunque viva di lavoro – in tutte le sue forme, da quelle regolamentate a quelle più precarie – sa bene come i voucher abbiano portato al massimo livello la mercificazione della prestazione lavorativa. Nella forma introdotta dal Jobs Act – che ne aveva esteso a dismisura l’utilizzo – i voucher sono stati cancellati per evitare che il popolo italiano si esprimesse con un voto nel referendum indetto su iniziativa della Cgil, un voto che sarebbe stato anche un giudizio chiaro sul governo e sulla sua politica economica e sociale. L’esecutivo ha preferito cancellarli per evitare una nuova “botta” referendaria, dopo quella del 4 dicembre scorso, salvo reintrodurli – in forma sotanzialmente analoga – inserendoli nella cosiddetta manovrina economica. Ancor prima che per il merito si è trattato di un insulto alla volontà popolare e alla stessa sovranità del Parlamento, che mai ne ha potuto discutere nel merito: un atto pericoloso e antidemocratico anche in prospettiva, perché prelude a un futuro in cui qualunque governo potrebbe cancellare una legge per evitare il giudizio referendario e poi riproporne qualche giorno dopo i contenuti con una nuova legge. Quanto al merito, i “nuovi voucher” di diverso dai vecchi hanno il nome – ora si chiamano “buoni” per famiglie e imprese – e poco più. Infatti potranno essere usati non soltanto per il lavoro domestico ma soprattutto nelle imprese fino a cinque dipendenti, che sono la maggioranza delle aziende italiane. Inoltre, mentre la copertura previdenziale cresce in maniera quasi irrilevante, i controlli sulle prestazioni in nero e i vincoli sui massimi di retribuzioni e tempi sono facilmente eludibili.
Questa nuova violenza ai danni di chi per vivere deve lavorare è stata giustificata con l’esistenza di un presunto “vuoto normativo” che avrebbe paralizzato mezza Italia: una grossolana bugia, come ben spiegato anche dalla Corte costituzionale. Le imprese già oggi dispongono di strumenti normativi che hanno avuto discipline apposite nell’ambito dei contratti collettivi: la somministrazione di lavoro, il lavoro a chiamata con o senza indennità di disponibilità, il part time orizzontale, verticale e misto, la surroga e l’extra. Strumenti che già garantiscono la flessibilità necessaria e che sono al tempo stesso – a differenza dei voucher – strumenti contrattuali.

L’articolo di Maurizio Landini prosegue su Left in edicola


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La proposta di Corbyn: case di lusso vuote per i sopravvissuti della Grenfell Tower

A chi ha perso la casa nell’incendio della Grenfell Tower, a chi ha perso tutto per colpa del fuoco verticale di Londra, spettano le proprietà extra lusso vuote della capitale inglese. Questa è la proposta di Jeremy Corbyn.

Quel fuoco ci ha reso come il “racconto delle due città di Dickens: le proprietà vanno trovate, requisite se necessario, per far si che i residenti vengano ricollocati nella zona”. Lo ha detto durante un dibattito parlamentare in cui asseriva che “non è accettabile che ci siano edifici di lusso vuoti, mentre i poveri, quelli che non hanno una casa, non abbiano un posto dove vivere”.

A Kensington Corbyn ha incontrato i residenti, la premier Theresa May no, pur recandosi sul luogo della tragedia. Lui ha abbracciato i sopravvissuti piangenti, lei “forse ha pianto quando ha saputo dell’accaduto”, scrive il Times di Londra, “ma non mostra le sue emozioni in pubblico”.

Per la sua proposta Corbyn è stato tacciato dal conservatore Andrew Bridgen di “hard marxist views”, di visioni marxiste dure. “Ha mostrato il suo vero colore”, ha detto il conservatore, “Corbyn è deep red, profondamente rosso”.

Al di là del visibile. La nuova mostra fotografica di Gianpaolo Conti

Gianpaolo Conti

Ciò che il visibile non concede. È il titolo della nuova mostra fotografica di Gianpaolo Conti. L’artista visuale – da sempre impegnato nelle pratiche digitali oltre che nella regia e l’editing – presenta alcuni suoi lavori a Roma a distanza di due anni dalla mostra di via Margutta My Eyes on the Road. Due anni intensi e proficui, di riflessione, sedimentazione, riconfigurazione dei materiali e affinamento delle tecniche. L’artista, che precedentemente aveva indagato il tema dell’irrealtà nella realtà urbana, qui si dedica con misurata determinazione e slancio personale ai dettagli più minuti, quasi da leggere in filigrana; all’immagine non convenzionale della metropoli; a volti e figure percepite e restituite in modo non usuale; a tracce iconiche, sottratte alla nostalgia e reinventate alla luce di una densa, soffusa, malinconia.

Ciò che nella precedente mostra era segno grafico, reiterazione di uno stilema, intensificazione del colore, immediatezza di approccio, qui diventa ricerca sofisticata sulla credibilità illusoria della profondità di campo, decostruzione della superficie bidimensionale, stratificazione sensoriale ed esperienziale, archivio della memoria, molteplicità di elementi da rimodulare con diversa maturità: la leggerezza orizzontale si trasforma in gioco combinatorio verticale, la danza dei cuori in solitudine sospesa, il rosso esibito in monocromia drammatica e drammatizzazione degli interventi. Partendo dagli scatti fotografici, attraverso il supporto di versioni elettroniche di pennelli, filtri, ingrandimenti ed elaborazioni cromatiche, Conti ci porta dentro il suo mondo remoto e moderno, naturale e artificiale, ritroso alla captazione e disponibile all’interpretazione. La semplicità immediata e gratificante del primo sguardo non tragga in inganno; le competenze del regista sugli obiettivi e la messa in quadro qui fanno la differenza, perché il processo di avvicinamento alle opere chiede un attento lavoro dell’occhio a identificare dettagli segreti e misteriosi e una progressiva adesione empatica a cogliere risonanze ed echi che affiorano da lontano.

Si guardi Nel volto di un gorilla che è insieme rendez-vous con la cultura cinematografica, la natura primordiale, le età dell’uomo, lo sguardo che racconta se stesso, e più sottilmente, l’ecosistema e le favelas di Rio de Janeiro; o In ognuno di noi che raccoglie contemporaneamente i sanpietrini, dove ogni giorno rischiamo di scivolare con il motorino, un volto dalla palpebre socchiuse, insieme silenzio e sogno, e geometrie di civiltà antiche, forse orientali; o anche Tra le nuvole, che è sì gasometro e archeologia industriale, ma anche traccia storica, riferimento urbano, reticolo funzionale, linea di demarcazione contro l’orizzonte incerto della città. Suggestioni interessanti.

La mostra è visitabile dal  22 giugno presso l’atelier di Alessandra Giannetti in Piazza Capranica 94, a Roma.

 

Zadie Smith: «E ora Corbyn dia spazio ai giovani»

Zadie Smith-c. Dominique Nabokov

Racconta di due ragazzine mulatte che cercano un riscatto ballando il tip tap in un sobborgo operaio di Londra all’inizio degli anni Ottanta. Torna nel suo North West londinese (al quale ha già dedicato NW e altre importanti opere) la scrittrice Zadie Smith con il suo ultimo romanzo Swing Time. Forse il suo romanzo più politico. Sotto il ritmo musicale della scrittura e la trama coinvolgente si scopre una profonda riflessione sulla blackness e sulle lotte operaie, femministe e antirazziste che negli anni Duemila sono andate incontro ad una profonda battuta d’arresto. Dopo la stretta thatcheriana ci ha pensato la terza via indicata dal blairismo a silenziarle. L’invenzione narrativa in Swing Time (Mondadori) dà corpo a una realtà che la cronaca non riesce a raccontare in profondità: la fine del multiculturalismo e la speculazione che ha fatto di quartieri come Brick Lane la nuova residenza upper class ostracizzando gli immigrati che da tempo lo abitavano. «La gentrification è un fenomeno macroscopico nel North West» racconta la scrittrice inglese Zadie Smith che abbiamo incontrato a Roma, alla vigilia della sua partenza per il festival degli scrittori che si tiene a Firenze e per Lignano dove  il 17 giugno riceve il Premio Hemingway.
Il North West di Londra da cui prende le mosse la storia di due ragazzine protagoniste di Swing Time, era un “villaggio” ancora vivo e vitale, nonostante tutto, come si presenta oggi?
I ricchi hanno invaso il quartiere, è un fenomeno che accomuna Brooklyn a New York con il quartiere londinese dove sono nata. La situazione immobiliare, la dice lunga. Negli anni Settanta-Ottanta era un quartiere abitato dalla classe media: i genitori dei miei amici nel 1980 potevano comprarsi una casa per 25-30mila sterline. Oggi la stessa abitazione vale 3mln di sterline e non sono neanche grandi. Sono piccole case tipiche. E questo dice che tipo di interesse ci sia. Prima vi abitavano giornalisti, medici, insegnanti, impiegati pubblici. Ora solo banchieri e chi lavora a livelli alti in finanza. È la storia recente di Londra. Andiamo ben al di là di una “normale” inflazione. Un quartiere va in pasto alla finanza e la collettività non esiste più. Non mandano i figli nelle scuole del quartiere. Vivono in mondi a parte. Assomiglia molto a quel che accade negli Stati Uniti dove vivo ora.
Nonostante la Thatcher, negli anni Ottanta la scena artistica inglese era molto vivace, nella musica, nel cinema, nella letteratura. Con esperienze politicizzate e di opposizione con il cosiddetto Red Wedge. Un’onda lunga che continua?
Anche venendo da fuori, oggi si coglie subito un fatto strano nel mondo dello spettacolo. Gli attori che sono sotto tutti i riflettori vengono dalla stessa classe medio alta degli esponenti di governo. E non era mai stato così in Gran Bretagna. Attori di qualsiasi estrazione sociale potevano tranquillamente emergere. Oggi non esistono più i corsi statali, non viene più data la possibilità a chiunque di entrare, tutto oramai è stratificato. L’unica cosa che è rimasta viva è la musica. C’è un forte hip pop nero, nato da quello che connotava l’East London, il North London. Non nasce più dalla periferia londinese ma dai quartieri che crescono ancora più lontano. Per fare hip hop non hai bisogno di nulla, nemmeno di uno studio. Puoi fare tutto in casa. Così continua a esistere. Per la scrittura, il discorso è purtroppo diverso. Non sono più riusciti ad emergere scrittori provienti dalla classe operaia. Oltre a me, Irvine Welsh e Hanif Kureishi non ci sono tante altre voci. Oggi emergono nuove voci solo dalle università. Anche lì c’è classismo. La scrittura inglese che viene dalla minoranza della working class è decisamente sempre meno forte, si sente sempre meno. Per una mancanza di possibilità di accesso. Non hanno la possibilità di farsi sentire. Questa almeno è la mia impressione, guardando da fuori. Tutte le volte che torno a Londra mio fratello mi dice: “Ma dai, non fare la depressa, ci sono cose che tutto sommato succedono lo stesso”. Però ho l’impressione che Londra viva di nostalgia, di remake del passato, è dominante nei programmi tv, dove addirittura spuntano serie che raccontano storie di nobili e dei loro servitori.
Come legge il forte segnale che hanno dato i giovani votando Jeremy Corbyn?

L’intervista alla scrittrice Zadie Smith prosegue su Left in edicola


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Un piccola storia ignobile

Italiani senza cittadinanza

C’è un bambino. Chiamiamolo Andrea. Immaginatelo scuro o con i capelli più folti rispetto agli Andrea che avevate per nonni. I suoi, di nonni, come i suoi genitori sono di un Paese qualsiasi in giro per il mondo, non importa quale: anche Andrea non c’è mai stato, non l’ha mai visto, non conosce nessuno. Andrea è nato a Milano. Poi è cresciuto. Parla milanese, pensa milanese, si siede ad aspettare sugli scalini del Duomo, litiga con i ghisa, mangia nebbia tutti gli inverni, ha in camera il poster di Zanetti, frequenta con buoni risultati il Liceo Parini (anche se si impegna sempre troppo poco) e organizza barbecue di nascosto all’Idroscalo.

Andrea ha 16 anni. Ed è apolide. Senza nazionalità. Non può avere la cittadinanza fino all’età di 18 anni. Per la legge italiana (lo “ius sanguinis” della legge 92 del 1991) deve avere un genitore italiano e invece i suoi sono di qualsiasi altro Paese del mondo. Se non avesse avuto i genitori invece (abbandonato) sarebbe italiano. Deve aspettare la maggiore età. La maturità, la chiamano. E fa niente che il disagio maturi molto prima.

Ora immaginate una legge fin troppo tiepida che dica ad Andrea che può acquisire la cittadinanza se almeno uno dei suoi genitori ha un diritto di soggiorno permanente, quindi con un periodo di residenza di almeno 5 anni, un alloggio adeguato e dopo aver superato un test di lingua. Il genitore va all’anagrafe e chiede la cittadinanza per il figlio, visto che la norma si applica per i minorenni (la novità per i maggiorenni è che avranno due anni e non uno per scegliere la cittadinanza italiana).

Bene. In questa storia ora metteteci dentro “l’invasione”, “la sostituzione di razza”, “gli sbarchi” e un po’ di “terrorismo” che ci sta sempre bene. Provate a capirci cosa c’entri con Andrea. Spiegateglielo, anche.

E capite di cosa stiamo parlando. Capite su cosa stanno facendo baccano questi squallidi squadristi che si infervorano in Parlamento. Decidete voi chi sono gli ignobili in questa storia.

Buon venerdì.

Dimenticare o annullare

Questa settimana la nostra pagina facebook e il nostro sito sono stati molto visitati, in particolare per un articolo del 2011 di Annelore Homberg, che abbiamo ripubblicato in riferimento al caso della bambina abbandonata in macchina dalla madre. Come sempre più spesso capita che c’è chi vuole intervenire per dire la sua a prescindere dalle competenze e dalla formazione degli esperti che interpelliamo su argomenti così complessi.
Si dirà: ma cosa c’è di complesso in una madre che abbandona il proprio bambino in macchina? È una dimenticanza, è come lasciare una cosa sul tavolo, è la stessa cosa! Per questo motivo tutti si sentono autorizzati a dire la propria. Perché a tutti è capitato nella vita di dimenticarsi le chiavi di casa.
Quale sarebbe la differenza con il dimenticare un bambino?
La differenza è sottile, ma enorme. Il bambino è un essere umano. Con il bambino c’è (o ci dovrebbe essere) un rapporto. Con le chiavi di casa non c’è nessun rapporto. Sono una cosa.
Allora dimenticare un bambino non è la stessa cosa di dimenticare le chiavi di casa. Perché, nel primo caso, si annulla il bambino, la sua esistenza e il rapporto con il bambino. Se si dimenticano le chiavi di casa non si annulla niente.
Le chiavi si ritrovano lì dov’erano. Il bambino muore.
La pulsione di annullamento, scoperta da Massimo Fagioli e teorizzata in Istinto di morte e conoscenza, che fa sparire l’immagine e l’idea di una realtà esterna a se stessi, senza lasciare nessuna traccia, è una cosa complessa da comprendere. Non ci si accorge quando la si agisce, perché è una dinamica non cosciente. Serve il rapporto con un altro per comprendere di aver annullato qualcuno o qualcosa. Tipicamente uno psichiatra che interpreta, ossia rende evidente, spiega e verbalizza, l’annullamento e la pulsione che lo determina.
La dimenticanza invece si risolve ritrovando l’oggetto perduto. È sufficiente la realtà materiale per frustrare la dimenticanza. Non serve un’altra persona. Ma perché è così complicato capire che cos’è l’annullamento?
Possono esserci diverse ragioni, ma penso che sia importante evidenziare due motivi. Il primo è che bisogna comprendere che l’annullamento non corrisponde ad una passività di chi lo agisce. Annullare significa agire la pulsione. Non significa non agire un pensiero di esistenza. Cioè l’esistenza dell’oggetto come immagine e pensiero è eliminata, fatta sparire dalla pulsione di annullamento. Non il contrario, ossia non faccio il pensiero e quindi c’è l’annullamento. Il non fare un pensiero non è detto che corrisponda ad un annullamento. Allora dimenticare un bambino in macchina non è pensare ad altro e quindi dimenticare il bambino ma è prima annullare il bambino e poi pensare ad altro. Il secondo motivo è che proprio per il fatto che non è una cosa che capita a tutti, è difficile da comprendere. Si tenta di mettersi nei panni della madre e non si riesce a comprendere come possa aver fatto una cosa del genere. L’unica spiegazione plausibile è si è dimenticata. Potrebbe capitare anche a me. Va detto con chiarezza che questo non è vero. Non può capitare a chiunque. Capita solo a chi ha una patologia grave anche se magari molto nascosta e non diagnosticata. La difficoltà di comprendere è la difficoltà di comprendere la malattia mentale, che esiste e va vista nella sua stranezza. Il malato di mente fa cose che non si comprendono perché ha perso il rapporto con gli altri esseri umani. Il malato di mente fa paura perché non si riesce a spiegare quello che fa con quello che si conosce. Non bisogna annullare la malattia mentale. Bisogna tenere gli occhi aperti. Perché è possibile comprendere e poi affrontare e curare la malattia mentale.
Nessuno oggi ha paura di una malattia come l’otite. Basta un antibiotico e si cura. Una volta si moriva per l’otite. Se si nega che esiste l’otite e si nega che esistano medici in grado affrontare e curare quella malattia si può morire, come è capitato di recente ad un bambino “curato” con l’omeopatia. Allora non annulliamo la medicina e la psichiatria. Perché l’annullamento si porta dietro la paura. La paura è verso ciò che da sconosciuto è diventato inconoscibile. Lo sconosciuto si può conoscere. L’inconoscibile no. Ma l’inconoscibile è tale perché è stata annullata la possibilità di conoscere.
Non esiste nulla di inconoscibile perché l’inconoscibile è un’invenzione dell’essere umano.

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola


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