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L’inglese sui musulmani a Londra è semplicemente un terrorista. Collega dei terroristi

Non sono molto d’accordo con chi in queste ore sta sventolando Darren Osborne, il quarantasettenne di Cardiff che ha investito a Londra un gruppo di fedeli musulmani all’uscita di una moschea a Finsbury Park uccidendone uno e lasciandone per terra feriti una decina, come “piccola vendetta” contro l’islamofobia che sta attraversando l’Europa. Non trovo nemmeno molto intelligente provare a raccontare che questa vicenda dimostri che “tutto è terrorismo” e quindi “niente è terrorismo”.

Il terrorismo e il terrore, in generale, sono temi troppo importanti per cadere nella tentazione di usare una tragedia a parti invertite come sponda per attaccare i fanatici al contrario: Darren Osborne è un terrorista. Ne ha tutti i connotati:

È un disperato. Innanzitutto. Preso dalla disperazione che rende ciechi e violenti. Come tutti i disperati odia il nemico che gli viene più facile.

È un ignorante. Convinto, come tutti gli ignoranti, che una fede o una razza o una provenienza sia una matrice umana. Il nemico è l’Islam, pensa a una moschea, si lancia contro gente sul marciapiede. Vive nella convinzione delle sue facili (e false) generalizzazioni che gli rendono semplice il quadro dei buoni e dei cattivi. Ed è una visione così squinternata che convinto di essere dalla parte del bene diventa una bestia che imita le modalità del male.

Crede di essere un simbolo. Nella sua pazzia ha pensato che il suo gesto avesse un significato universale, allo stesso modo di come quegli altri imprecano contro l’Occidente lui ha urlato contro i musulmani. Chissà come reagirà quando scoprirà (ma lo saprà mai?) di essere solo un criminale.

Crede in leggi al di sopra della legge. È rimasto talmente affogato nella melma dei suoi ideali da convincersi di avere un ruolo divino per imporre la propria idea di giustizia.

È stato “salvato” dai suoi nemici. Anche lui si è trovato di fronte a vittime che hanno avuto l’equilibrio e l’intelligenza di rispondergli con la violenza. L’imam Mohammed Mahmoud ha evitato che l’uomo venisse linciato a morte dalla folla inferocita. Ha tentato di distruggere una comunità che l’ha trattato nel rispetto della legge dimostrandosi migliore di lui.

Colleghi. Semplicemente.

Buon martedì.

Baobab, la persecuzione continua

Forze dell'ordine al termine delle operazioni di identificazione del presidio dei migranti del Baobab Experience nei pressi della stazione Tiburtina a Roma, 19 maggio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Il Baobab è stato sgomberato di nuovo ed è la ventesima volta in due anni. È accaduto questa mattina, alle 7.30, a Piazzale Maslax.

Ormai è routine: i migranti vengono portati via e i volontari rimangono lì, senza sapere più che fare e qualcuno smonta le tende. Ma questa volta c’è una notizia in più: alcuni parlamentari si sono decisi a intervenire rispondendo ad un appello dello stesso Baobab. Hanno “adottato” una tenda che ospitava i migranti e in questo modo ne hanno impedito la distruzione da parte dell’Ama.

Ma cosa è diventato il Baobab? Mentre c’è un leader di partito che a proposito dei migranti sbraita, tirando fuori la massoneria, i banchieri e tesi di complotto, nel mondo Baobab c’è ben altro. Persone che arrivano in Italia stremate, dalla fame e dalla povertà, e altre che spendono le loro giornate, senza percepire uno stipendio, ad aiutare chi arriva. C’è un’organizzazione, tutta retta da volontari, che dimostra che l’accoglienza dei migranti a Roma è possibile. Ecco, questo è il Baobab.

E il Baobab viene sgomberato, senza sosta e senza tregua, ininterrottamente da quando ha cominciato a funzionare.

Il Baobab di Via Cupa era un centro di accoglienza per migranti, una struttura retta da volontari, che riusciva a dare accoglienza a un gran numero di migranti in arrivo e in transito nella Capitale. Il Centro è stato fatto sgomberare nel dicembre 2015 dopo i fatti di Mafia Capitale, ufficialmente è stato chiuso per riconsegnare l’edificio al suo legittimo proprietario. Nella realtà dei fatti però nessuno della giunta successiva si è impegnato per ricollocare il Centro e ora i volontari, con l’aiuto dei cittadini romani, stanno ospitando i migranti sempre in zona Tiburtina facendo quanto possono con tende e sacchi a pelo.

La sindaca, che aveva promesso all’inizio del suo mandato, nel 2016, di risolvere il problema dell’accoglienza nella capitale entro ferragosto, non ha mantenuto le promesse. La Raggi che aveva fatto del dialogo uno dei suoi cavalli di battaglia in campagna elettorale, sembra però avere poca voglia di dialogare con i volontari del Baobab. Se il Movimento 5 stelle calca sempre più la mano sulla questione dei migranti, la Raggi non è da meno. La sindaca ha dichiarato diverse volte che la risposta a questa emergenza deve essere quella del pugno di ferro: Roma non è più in grado di accogliere migranti. Il 13 giugno infatti, con una lettera al Ministero dell’interno e al prefetto ha chiesto una moratoria all’arrivo di migranti nella capitale e all’apertura di nuovi centri a causa della “forte presenza migratoria e il continuo flusso di cittadini stranieri”.

Temo che gli sgomberi continueranno. Temo che, fra politiche nazionali, politiche locali e quello che dice la Raggi, il segnale sia chiaro, tant’è che non a caso oggi stesso c’è stato l’ennesimo sgombero”, dice Andrea Costa, responsabile del Centro, che si dice pessimista sugli sgomberi odierni e quelli futuri. Ma qualcosa forse sta cambiando. Costa, che ieri è stato ospite al Teatro Brancaccio durante l’assemblea promossa dall’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari per una sinistra unita, afferma di aver visto una sinistra aperta a risolvere questa emergenza umanitaria. Una sinistra che ha capito di “potersi distinguere dagli altri partiti politici. Una sinistra che si fa riconoscere non solo perché rispetto alla tematica migranti dice cose diverse, ma anche perché pratica a tutti gli effetti una solidarietà concreta, che vuol dire stare lì a aiutare, aiutare di persona a trovare acqua e beni di prima necessità per i migranti”, afferma. “Mi sembra che la sinistra abbia deciso di mettere il punto sulla solidarietà agli immigrati. Siamo più che soddisfatti, dato che oggi allo sgombero sono venuti alcuni parlamentari di Sinistra Italiana e ci sembra quindi di ricevere un segnale positivo in questo senso”.

Stamattina sono infatti intervenuti i senatori Luigi Manconi (PD) e Massimo Cervellini (SI) e il deputato Stefano Fassina (SI). Mentre invece altri parlamentari hanno partecipato all’iniziativa di “adottare una tenda”. Luigi Manconi, Stefano Fassina, Nicola Fratoianni (SI), Corradino Mineo (PD) e Maurizio Acerbo (RC) risultano infatti ora proprietari di alcune delle tende in cui trovano rifugio i migranti. In questo modo allo sgombero di questa mattina i volontari sono riusciti a scongiurare l’intervento dell’Ama, che avrebbe dovuto, come l’ultima volta, bruciare tutto ciò che era presente nell’area, compresi i pochi beni dei migranti, che l’ultima volta sono stati distrutti durante lo sgombero. Con l’iniziativa di “adotta una tenda”, lanciata dal Baobab, ora ogni tenda ha un proprietario e l’Ama non può più procedere con la distruzione.

Secondo quanto racconta una volontaria del Baobab, l’ennesimo sgombero è dovuto ad un rimpallo di responsabilità tra la polizia municipale, le Ferrovie e la Questura. Mentre scriviamo alcuni parlamentari di Sinistra italiana starebbero trattando con le Ferrovie.

Ancora una volta non si è compreso che dare un tetto sopra la testa e servizi di prima necessità ai migranti è anche il sistema migliore per stemperare le tensioni sociali che l’emergenza migranti ha generato a Roma.

Gli sciacalli del rogo di Londra

Smoke billows from a fire that has engulfed the 27-storey Grenfell Tower in west London. PRESS ASSOCIATION Photo. Picture date: Wednesday June 14, 2017. More than 200 firefighters were sent to tackle the blaze and London Ambulance Service said 30 people had been taken to five hospitals. See PA story FIRE Grenfell. Photo credit should read: Rick Findler/PA Wire

Fuoco, morte e social media. Un uomo di 43 anni è stato arrestato per aver postato su Facebook la foto di una vittima della Grenfell tower che a North Kensington, il 14 giugno, è andata a fuoco.

Si chiama Omega Mwaikambo e, per aver violato la sezione 127 del Communications Act, è stato condannato a 3 mesi. Uno dei corpi carbonizzati che ha postato on line è diventato uno dei primi identificati delle vittime del palazzo. «Stamattina abbiamo visto la foto del suo corpo sui social media, la polizia non ne sapeva niente. Quella foto non doveva essere diffusa. La polizia ci diceva che non poteva dirci niente finché non aveva più informazioni». Era un 23enne rifugiato siriano, Mohammad Alhajari e suo fratello l’ha scoperto così – accendendo il computer – che era morto nella torre. Via Facebook.

I piani del grattacielo, come è noto, sono 23. Bambini e famiglie: sono ancora 70 i dispersi. Al floor 23 Rania Ibrham, 30 anni e due bambini piccoli, ha uplodato, mentre le fiamme divoravano l’edificio, un video su Facebook live. Ora i suoi amici la cercano sui social media, ma è ancora tra gli scomparsi. Floor 20: all’appello manca Jessica Urbano, 12 anni e su Facebook la cerca Ana Ospina: «per favore continuate a condividere la foto di mia nipote, non sappiamo dove sia».

Dopo il disaster, è la Grenfell fury, la furia che scorre nelle strade: centinaia marciano per protesta fino a Downing street urlando «May must go» e «giustizia per Grenfell». I pannelli che hanno causato il diffondersi delle fiamme così velocemente costavano al metro solo due pound in meno della variante più resistente e meno infiammabile. Altre informazioni del report sulla torre Grenfell non verranno diffuse fino a che non terminerà l’inchiesta – potrebbero volerci anni.

Per descrivere quello che è successo gli inglesi scrivono inferno e non semplicemente hell. Lo fanno i quotidiani britannici che da giorni si occupano in prima pagina ancora del fire, del fuoco al London tower block, diventato un alfiere bruciato nel panorama della città, un simbolo politico per dire no alla premier. Theresa may, stay away ha scritto qualcuno sul lunghissimo muro del pianto della city, dove ognuno lascia un fiore, una parola, un oggetto in memoria del suo lutto o quello degli altri.

«Una leader che ha troppa paura di incontrare il suo popolo è finita» ha scritto sul Guardian Polly Toynbee. «Quella tomba nel cielo sarà per sempre il monumento di Theresa May». Indica la fine della sua carriera, lei che con la sua visita «ha evitato qualsiasi contaminazione di contatto con il lutto e i nuovi senzatetto» e ha così «sigillato il suo destino. Quella torre è l’austerità in rovina. Il simbolismo in politica è tutto e niente definisce meglio l’era May-Cameron-Osborne. L’orrore dei poveri bruciati vivi a due passi dalle ville dei più ricchi del paese, molte delle quali vuote. Simboleggia perfettamente la politica degli ultimi sette anni».

Sinistra, dall’assemblea al Brancaccio qualcosa di nuovo all’orizzonte

Definire fallite le prove di unione della sinistra al Teatro Brancaccio di Roma – come ha scritto ieri il Fatto quotidiano – è riduttivo e non tiene conto della realtà complessa dell’assemblea del 18 giugno, promossa dall’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari “per un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza”.

Ecco perché non si può parlare di “prove fallite”. Primo: la straordinaria partecipazione. Oltre 2mila persone dentro e fuori il teatro e 65mila collegamenti in streaming. Era tanto tempo che non accadeva qualcosa di simile per un incontro della sinistra. Poi l’attenzione e la passione: due parole assenti negli ultimi anni durante gli incontri a sinistra, spesso fiacchi, ripetitivi, con le persone sul palco che si esibivano in interventi tra il narcisistico e l’astratto e fuori capannelli di persone intente a commentare senza ascoltare i relatori. Ieri invece al teatro Brancaccio c’era una soglia di attenzione altissima. Con la sensazione che qualcosa di nuovo stava finalmente accadendo.

Un altro elemento da tenere in considerazione è la presenza di giovani, preparati, ognuno portatore di idee e pratiche maturate in associazioni e nei territori. E anche questa parola, “territori”, ieri ha acquisito una sua concretezza, lontano da formulette ormai abusate. Ragazzi e giovani adulti che rappresentanto quella metà di italiani come ha detto Tomaso Montanari nella sua introduzione, rimasta fuori dalle garanzie, “caduta a terra e che non si è rialzata”. Quelle nuove generazioni che nella stragrande maggioranza (l’80%) è andata a votare No al referendum sulla riforma Renzi-Boschi.

Giovani come Guido Cioni dei precari dei beni culturali, che ha comunicato la realtà di chi, dopo aver studiato e acquisito competenze notevoli, si ritrova invisibile, senza diritti. Oppure come Martina Carpani della Rete della conoscenza, una studentessa universitaria che ha lanciato la battaglia per la “democrazia cognitiva”, perché in tanti non possono studiare e questo è un crimine per la democrazia. “Servono parole semplici oggi, cento anni fa si diceva pane e pace, oggi bisogna trovare le nostre”, ha detto Martina invitando ad abbandonare logiche di “longitudine e latitudine con altre forze politiche” che giustamente non interessano quando diventano astratte e inefficaci. Infine, l’ultimo racconto – tra i molti – è quello di Marta Nalin, prima eletta della Coalizione civica di Padova alle ultime amministrative.

Un’esperienza che dovrebbe far riflettere i più scettici sulla politica dal basso. Laddove infatti la politica renziana ha tentato di distruggere i corpi intermedi, questi si sono ricreati grazie alla partecipazione collettiva tramite assemblea, gruppi tematici che hanno costruito il programma elettorale ed eletto il candidato sindaco, con una campagna elettorale finanziata con il crowdfunding. “Siamo la terza forza in campo adesso a Padova, con i partiti che hanno fatto un passo indietro e con un’attenzione al valore della partecipazione, al lavoro nelle periferie, per riavvicinare le persone alla politica”, ha detto Marta Nalin, augurandosi che questo processo locale possa essere replicato in tutta Italia.

Quindi, partecipazione, attenzione, storie e esperienze che hanno dato senso alla partecipazione politica. E su questo binario non si può non citare Andrea Costa di Baobab che ha focalizzato il suo intervento sul problema dei migranti. Questo deve essere il tema da cui partire a sinistra, ha detto. “Non esistono zone grige, bisogna essere per l’accoglienza e bisogna essere chiari. Basta parlare di flussi, statistiche, cifre, sono donne e uomini con nomi, vite vissute, amori, pregi e difetti come noi”, ha detto Costa.

A questa polifonia di voci e di interessi dal basso, come e cosa risponde la politica dei partiti? Quale rapporto è possibile? Questa è la grande sfida, il nodo cruciale, che si sono posti Falcone e Montanari che già nel loro appello avevano parlato di una lista unitaria. Il presidente di Libertà e Giustizia è stato netto: da questa fase costituente nascerà “una forza radicalmente alternativa al Pd”. Il Pd è ormai un pezzo della destra, ha detto, citando la costellazione di interventi fatti dal centrosinistra e dal Pd – dalla riforma Berlinguer dell’università all’intervento militare nella ex Jugoslavia, fino allo scempio del territorio con lo Sblocca Italia -. E a proposito di colui che potremmo definire il “convitato di pietra” di questo momento storico della sinistra, Giuliano Pisapia con il suo Campo progressista, Montanari ha citato la risposta lapidaria dell’ex sindaco di Milano di fronte all’invito a partecipare all’assemblea del Brancaccio: “Non ci sono le condizioni”. Fuori della sala Alfredo D’Attorre a Left ha detto che “Il compito di Mdp è quello di lavorare per una sinistra unita e di portare Pisapia da questa parte”. Illusione?

Il popolo accorso al Brancaccio se ha fischiato all’indirizzo di Pisapia, non è stato tenero nemmeno con Miguel Gotor di Mdp che sul palco è stato contestato da una ragazza dell’ex Opg occupato Je so pazzo di Napoli. Il clima si è acceso, la donna è stata invitata ad allontanarsi e lei ha continuato a protestare fuori della sala sia perché il suo collettivo non era stato fatto parlare – Anna Falcone ha parlato poi di una selezione di interventi sostenendo che non c’era il veto nei confronti di nessuno – sia per la presenza in prima fila di politici come Massimo D’Alema e Niki Vendola. In effetti era palpabile la freddezza che circondava questi volti storici di una sinistra fallimentare.

L’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza riuscirà a superare le delusioni di un passato che è lì che incombe e inquieta? Questo è un altro nodo cruciale. Montanari lo aveva detto all’inizio: “È il futuro che ci sta a cuore: non la resa dei conti con il passato”, ma quanto questo pensiero sarà radicato nel nuovo movimento? E’ proprio la separazione dal passato lo scoglio più grande. Ne sono consapevoli entrambi, Anna Falcone al termine dell’assemblea, tirando le conclusioni è stata esplicita: “Ognuno deve fare un passo indietro, per fare tutti insieme un passo avanti storico”.
I partiti presenti, Sinistra italiana, Possibile, Rifondazione comunista attraverso i loro segretari Fratoianni, Civati e Acerbo, hanno naturalmente ribadito la necessità di unità, pur con l’esigenza di essere credibili, nel senso che certi compromessi con chi ha accettato una politica liberista non è più possibile. Lo stesso Gotor che si era detto di “sentirsi a casa”, pur tra i fischi, ha incitato all’unità e “a non sciupare questo fiore che abbiamo tra le mani”.

Detto questo, dall’assemblea del Brancaccio la sfida, quella vera, sembra molto più vasta dell’appartenza a questo o quel partito: si tratta di superare storiche divisioni, sì, ma soprattutto di iniziare una ricerca a sinistra nuova. “L’unità si costruisce sulla discontinuità”, ha detto Falcone alla fine dell’assemblea. Da non ripetere poi, tre errori, ha detto l’ex magistrato Livio Pepino. Il primo: “smettiamo di preoccuparci delle alleanze e della soglia di sbarramento, cerchiamo di evitare il realismo di piccolo cabotaggio come hanno fatto Sanders e Corbyn nelle loro campagne elettorali. Quindi riusciamo a immettere una nuova voce di speranza”. Secondo errore: la non chiarezza nelle idee che poi con il tempo sono state abortite nella pratica politica. Terzo, infine, la storia che grava sulle spalle. “E’ il punto più delicato. Non abbiamo dimostrato abbastanza discontinuità con il passato. I buoni progetti non bastano se non sono sostenuti da attori credibili e coerenti”, dice Pepino che cita poi il “voto di vendetta” di cui parla Marco Revelli a proposito della delusione del mondo di sinistra.

La coerenza deve quindi essere capillare e il programma – da costruire da qui a settembre dopo assemblee nei territori – netto e chiaro. Senza contraddizioni. Per questo motivo il richiamo alla laicità dovrebbe essere dominante, poiché riferirsi al papa o ai valori della Chiesa poi porta a una fragilità interna del progetto – al di là dello specifico della religione – dettata dalla stessa realtà storica.

Nell’assemblea si è toccato anche il tema della liberazione della donna, ma come si concilia questa con l’esaltazione di Bergoglio che detta anche quanti figli deve avere una donna? Come si concilia l’appellarsi alla Chiesa con i diritti negati dagli obiettori della 194? O con la difesa dei diritti civili ancora in fieri, come il biotestamento? Insomma, per arrivare a quella “sinistra felice” tutta da costruire di cui ha parlato con passione Anna Falcone, bisogna tener conto anche di questi aspetti non secondari di un progetto politico a sinistra. Ma ieri è stato il primo incontro e se la ricerca non viene azzoppata da polemiche sterili ma alimentata invece da continue domande e stimoli, allora forse quella “società diversa con un tempo per vivere, studiare e amare” non sarà un’utopia, ma qualcosa di reale.

Bene gli appelli, ma la sinistra si costruisce sulle istanze

Sono le “real issues” di Corbyn ma in italiano li chiameremmo bisogni. I bisogni di un Paese che, nonostante l’indicibile sforzo della corazzata filogovernativa per ostentare un’Italia ridens, sta sempre peggio, è sempre più diseguale, continua a perdere occupazione, si sfilaccia nel welfare, si atrofizza nelle cure mancate, incespica ogni volta che deve organizzare un sistematico trasporto pubblico, non riesce a governare la finanza piuttosto che esserne governato, non è capace di recuperare chi è scivolato nell’indigenza, subisce la ferocia di chi non vede rispettati i suoi diritti, non può aspirare nel mondo ad altri ruoli che non siano da cameriere, instilla battaglie tra poveri per non disturbare i potenti, continua a chiedere “di chi sei” o “chi ti manda” piuttosto di “cosa sai fare”, insiste nel temere i diritti degli altri piuttosto che incaponirsi per il rispetto dei propri, ha trovato nell’indignazione una pericolosa pratica consolatoria, ha creato un conflitto tra genitorialità e lavoro come se non fosse affar suo, sta con i banchieri e non con i risparmiatori, preferisce i trivellatori ai custodi di un luogo, mercifica bellezza ma non educa alla bellezza, commemora i morti di mafia ma non studia le mafie, tratta con i grandi evasori ed è inflessibile con i piccoli, scrive dappertutto di energie rinnovabili ma non ha mai l’energia per rinnovarsi, perpetua una classe dirigente che non paga mai i suoi fallimenti, non riesce a pensare a un modello che non sia turbocapitalismo e sta con gli oppressori piuttosto che con gli oppressi.

La base per costruire invidiabili altezze (e voti) è fuori, per il Paese, ad arrancare pendolare tutte le mattine. La base sono quelli che al Brancaccio ieri ci sono andati per ascoltare e possibilmente essere capaci di sentire. La base sono quelli che non hanno mai incrociato un programma che gli assomigliasse, che abbia la forma di qualcosa che riesca a invertire la rotta dei processi della propria quotidianità.

Questo è il tema. Questi sono i temi.

Buon lunedì.

 

I diritti della donna, discrimine tra due mondi

«Questi attentati sono una vendetta contro la democrazia». Così venerdì 9 giugno il presidente dell’Iran Hassan Rouhani ha commentato il doppio attacco sferrato dall’Isis appena due giorni prima a Teheran al parlamento e al mausoleo di Khomeini. Si è trattato del primo attentato messo a segno da Daesh (il nome arabo dell’acronimo Isis) sul territorio della Repubblica islamica. Oltre al tragico bilancio di sangue (17 morti e 42 feriti), questi attentati costituiscono un cambio di passo del sedicente Stato islamico che costringe anche gli osservatori occidentali più superficiali a interrogarsi sui perché di una simile operazione.
Ecco allora che quelle di Rouhani sono tutt’altro che parole di circostanza e anzi sembrano indicare in modo implicito causa e mandanti dell’aggressione. Il presidente iraniano parla infatti di «vendetta contro la democrazia». Se per molti è difficile identificare nella Repubblica islamica una “democrazia”, è ancora più nebuloso il senso della “vendetta” a cui si riferisce Rouhani.
Facciamo un passo indietro, di appena tre settimane. Il 19 maggio, mentre 40 milioni di iraniani si recavano alle urne per rieleggere il presidente dell’accordo sul nucleare e dell’apertura all’Occidente, Donald Trump era a Riyad per siglare un accordo di vendita di armi all’Arabia Saudita di 110 miliardi di dollari e accusa l’Iran di essere la principale fonte di instabilità del Medio Oriente.
Ecco quindi che gli avvenimenti tragici di questi giorni sembrano ricordare il destino bizzarro di due Paesi e di due popoli vicini eppure molto diversi. Persiani indoeuropei i primi, arabi i secondi.

L’articolo di Antonello Sacchetti prosegue su Left in edicola


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Cuba tra passato e futuro. Nel segno del Che

Oggi gli Stati Uniti hanno un presidente che mette a rischio l’esistenza della umanità. A Cuba non ci aspettiamo nulla di positivo da parte sua». Figlia di rivoluzionari dal nome pesantissimo, Aleida Guevara March, ne ha ereditato la vitalità e un profondo senso di rifiuto contro le ingiustizie e le diseguaglianze provocate dai fautori e dai seguaci del capitalismo. Non solo. Dalla madre ha preso il nome di battesimo, mentre da Ernesto “Che” Guevara ha ereditato l’interesse per la salute delle persone, le più deboli in particolare, facendone la propria identità professionale. Attivista e medico pediatra, Aleida è la prima dei quattro figli del Che e della March che insieme entrarono a L’Avana l’8 gennaio del 1959. Sei mesi dopo si sposarono e il 24 novembre del 1960 nacque lei. Nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario dell’omicidio del Che, avvenuto in Bolivia il 9 ottobre 1967, Aleida Guevara March è stata invitata in Italia per un ciclo di conferenze organizzate dall’associazione Amicizia Italia-Cuba. Left l’ha incontrata e le ha rivolto alcune domande.

[..]

Salute e istruzione per tutti sono due punti fermi della Rivoluzione cubana. Cuba “esporta” scoperte scientifiche e insegnanti, come modello.

Essere rivoluzionari è anche quello che ho appena descritto: saper sentire sulla propria pelle qualsiasi ingiustizia, commessa contro qualsiasi persona, in qualsiasi parte al mondo. Tra vent’anni Cuba potrà diventare uno dei Paesi più importanti al mondo riguardo il progresso scientifico in medicina. Stiamo lavorando per questo, e fa parte della rivoluzione.

Cosa significa per lei la parola “rivoluzione”?

C’è questo articolo intitolato Militanti pubblicato su un nuovo giornale cubano . Una frase ha immediatamente catturato la mia attenzione (e mostrando le pagine aperte inizia a leggere, ndr): “Siamo militanti perché abbiamo imparato una volta – ed è bastato con una volta – che l’impossibile è possibile. E perché sappiamo che possiamo perdere ma non essere sconfitti, che niente è capace di vincere l’ostinazione di un uomo o una donna che credono nei loro ideali, perché anche sapendo che possediamo solo una vita, non ci arrendiamo. Siamo militanti perché non ci vergogniamo dei sogni dei nostri nonni, dei nostri genitori, dei nostri figli, perché non cediamo, perché sentiamo irrimediabilmente il dolore altrui come nostro, perché sappiamo che la nostra tristezza è possibile quando gli altri sono tristi e che la vera solitudine è quella di chi rinuncia ad amare.

Il testo integrale dell’intervista ad Aleida Guevara March è disponibile su Left in edicola


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Chiesa e mafia, unite dalla cultura della morte

A Rome mafia boss was given a send-off to remember on Thursday as rose petals were thrown from a helicopter and an orchestra played the theme tune of the celebrated mobster film The Godfather. Vittorio Casamonica, 65, was a prominent member of the Casamonica clan, which has been held responsible for drug trafficking, racketeering and prostitution in the area southeast of Rome. The funeral was held Thursday morning in Don Bosco church, on the outskirts of the capital. The coffin arrived in a black carriage with gilded bas-reliefs, drawn by six black horses. To welcome him, an orchestra played the theme song of the famous Francis Ford Coppola film. An image of Padre Pio adorned his coffin while posters with slogans such as "You have conquered Rome, now conquer heaven" and "Vittorio Casamonica king of Rome" appeared in front of the parish church. They portrayed Casamonica with a crown on his head and with the Colosseum and the dome of St Peter's in the background. A large crowd of people turned up to bid him farewell. "He was a good person," mourners said as they gathered at the end of the mass. After the service, the coffin was taken from the church in a Rolls-Royce and the band played the soundtrack of another famous film, 2001: A Space Odyssey. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Sono tutti religiosi i mafiosi. Se si esclude Matteo Messina Denaro, non si conoscono mafiosi atei o anticlericali. Sono cattolici osservanti i peggiori assassini che l’Italia abbia mai avuto negli ultimi due secoli. Credono in Dio, nella Chiesa di Roma, vanno a messa, si comunicano, fanno battezzare i loro figli, si sposano con rito religioso anche quando sono latitanti, fanno entrare il prete nei loro covi per confessarsi e comunicarsi, fanno da padrini di battesimo e di cresima ai tanti che glielo chiedono, ricevono l’estrema unzione (se muoiono nel loro letto) e pretendono il funerale religioso, organizzano le feste dedicate ai santi patroni e li si vede in prima fila nelle processioni a portare sulle loro spalle le statue benedette. E quando sono latitanti portano con sé bibbie e santini. Non li sfiora neanche lontanamente la percezione di assoluta incompatibilità tra l’essere dei feroci assassini e dei ferventi cattolici. Essi pensano di avere un rapporto del tutto particolare e speciale con Dio. Secondo un prete siciliano, il mafioso è addirittura un modello di religiosità, quasi il prototipo del cattolico perfetto: «Mi augurerei che tanti dei miei parrocchiani avessero quella passione per Dio e per le cose di Dio e per il Vangelo che hanno tanti mafiosi». È del tutto evidente, dunque, che la religione cattolica, così come si è originata e sviluppata nell’Italia meridionale, non è stata un ostacolo al dispiegarsi del potere mafioso, anzi. I fenomeni mafiosi si sono sviluppati in società e ambienti cattolicissimi pur rappresentando una violazione sistematica dei comandamenti e dei precetti dell’etica cristiana. E se i mafiosi praticano una credenza cattolica falsa e fatta solo di apparenze, come spesso le gerarchie cattoliche hanno evidenziato, è perché….

L’articolo di Isaia Sales prosegue su Left in edicola


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Paul Ginsborg: «Corbyn sveglia la sinistra inglese. E quella italiana?»

ROTHERHAM, ENGLAND - MAY 10: Labour Party leader Jeremy Corbyn is presented a Rotherham United F.C. scarf by a supporter during a campaign event on May 10, 2017 in Rotherham, England. The South Yorkshire town of Rotherham voted to leave by 68% during last year's EU referendum and is traditionally a Labour held constituency. (Photo by Anthony Devlin/Getty Images)

Nella sua casa nel cuore di Firenze, invasa dai libri, Paul Ginsborg è un uomo decisamente contento. Ammette anche di essersi commosso di fronte al risultato del Labour. «Negli ultimi 40 anni abbiamo vinto pochissime battaglie, ma in sei mesi è accaduto per ben due volte», dice con il suo modo calmo di parlare ma con un sorriso raggiante. «Il 4 dicembre con la vittoria del No al referendum costituzionale e ora la vittoria di Jeremy Corbyn», continua il professore, docente di Storia contemporanea per tanti anni all’ateneo fiorentino. Una doppia nazionalità, britannica e italiana, militante da giovane nella sinistra radicale inglese, arrivato nel nostro Paese stabilmente all’inizio degli anni 90 e da allora attento osservatore delle evoluzioni e dei travagli della sinistra italiana, oltre che protagonista al tempo dei girotondi nel 2000 e più tardi nella preziosa ma sfortunata esperienza di Alba, Ginsborg è il personaggio ideale per parlarci sia del cambio di passo del Labour, dato per spacciato, sia dei movimenti attuali in Italia a sinistra del Pd.
Il problema che lo interessa moltissimo in questo periodo è quello che definisce “la forma della politica” (non solo il contenuto), un «lavoro teorico e pratico» che ha affrontato insieme con Sergio Labate nel libro Le passioni e la politica (Einaudi). «Come si può cambiare la tessitura della nostra politica, farla diversa da quella delle altre forze politiche, denunciare le passioni politiche negative – il narcisismo, la ricerca del dominio, l’invidia, e valorizzare quelle positive?», questo l’interrogativo. Fa subito una premessa: «In Italia, nella sinistra terribilmente frammentata e personalizzata, c’è una grande incapacità di esercitare autocontrollo e soprattutto ascolto – che è fondamentale per una nuova riforma della politica».
«Jeremy Corbyn non è una figura naturalmente carismatica, non è un santo, ha molti difetti», continua Ginsborg. «Ma quello che ha Corbyn, per me molto interessante, è la sua capacità di ascolto e di risposta. Lui non si arrabbia, eppure è stato oggetto di una massiccia campagna denigratoria da parte della stampa popolare britannica. Al contrario, con grande tranquillità risponde punto per punto. La gente che si aspettava, per come lo avevano dipinto, uno con il fuoco rosso che usciva dalle orecchie – continua ridendo – invece trovava una persona pacata. Credo che è questa pacatezza, che non è una categoria politica machiavelliana e non rientra negli schemi della politica italiana, ad aver fatto veramente breccia tra le persone».
Nessuno avrebbe scommesso su Corbyn, tutti davano per scontato che «quest’uomo era un disastro» anche gli stessi amici inglesi dello storico. «Li ho chiamati, stamattina, li ho presi in giro, “adesso dovete mangiare i vostri capelli”, ho detto loro, perché per loro era impossibile che un estremista come Corbyn potesse vincere in un Paese moderato come l’Inghilterra. E invece ha vinto, certo, non ha stravinto. Ma il Labour invece di scomparire come i socialisti francesi è andato vicinissimo alla vittoria». Ginsborg spiega che poi il sistema maggioritario “pessimo” inglese che fa il gioco di due partiti escludendo il terzo, ha incrementato ancora di più i Tories mentre in realtà solo due punti percentuali (42% contro 40%) dividono le due forze politiche. «Corbyn è riuscito a conquistare anche le chattering classes londinesi, quelle che formano l’opinione pubblica. Ma soprattutto l’hanno votato i giovani». E poi c’è anche un elemento passionale che ha giocato la sua parte, ammette il professore. «Corbyn ha svegliato le passioni politiche di molte persone che si erano rassegnate, anche perché la sinistra inglese, diciamolo, era talmente inserita nel neo-liberismo da non apparire come un’alternativa».

L’intervista a Paul Ginsborg prosegue su Left in edicola


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E se il 18 giugno a sinistra nascesse un’alleanza non solo “di cartello”?

Anna Falcone, vice presidente del Comitato per il 'No' al referendum di Ottobre durante un' iniziativa organizzata a Napoli, 15 Giugno 2016. ANSA/CIRO FUSCO

Ogni giorno un cambio di casacca, un mito utile, un nuovo leader straniero da qualche parte del mondo qualsiasi per provare a risvegliare una fascinazione nutrita solo dall’emotività del protagonista. Nel giro di qualche giorno sono stati prima tutti Macron, poi tutti Corbyn e poi di nuovo Macron così come la destra italiana si è appesa nei mesi scorsi a Trump (prima di pentirsene) o alla Le Pen (prima di prenderne le distanze per il pessimo risultato elettorale). Così anche le analisi e gli scenari sembrano più figli di un’emotività corta piuttosto che di ideali o progetti dallo sguardo lungo: siamo passati dal patto del Nazareno tra Pd e Berlusconi (che anche qualcuno dai democratici cominciava a dare per scontato e che ha scatenato le ire addirittura del garbato Romano Prodi) fino a una presunta alleanza (meglio: un tentativo di alleanza) tra il Pd e Giuliano Pisapia.
A sinistra, intanto, l’appuntamento per il 18 giugno (a Roma, teatro Brancaccio, dalle ore 9.30) che nasce dall’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari e sembra avere raccolto l’iniziale disponibilità di un ampio fronte che parte da Rifondazione comunista passando per Sinistra italiana, Possibile, Mdp e diversi comitati civici sparsi sul territorio suggerendo l’inizio di un percorso che, nel caso in cui si realizzasse, sarebbe una buona notizia per la sinistra italiana troppo spesso arroccata e divisa. Se davvero si riuscirà a creare una condivisione di idee e di programmi senza infangarsi su leadership e cattivi propositi di preservazione del ceto politico fallimentare, il 18 giugno potrebbe essere il primo passo di un’alleanza non solo di “cartello”. Del resto le ultime elezioni amministrative hanno dimostrato che quando la sinistra (a sinistra del Pd) riesce a raggiungere un’unità credibile può raggiungere risultati davvero importanti.

Ma come sarà il futuro? Difficile dirlo. Certo Giuliano Pisapia e il suo Campo progressista (che dicono di voler presentare addirittura un simbolo e un programma per la loro convention del primo luglio) dovrà decidere se insistere nel tentare di modificare la natura renziana del Pd (perdendo così contatto con chi, a sinistra, ritiene il Partito democratico non più potabile) oppure se dedicarsi al progetto che vuole essere alternativo al renzismo e alle politiche di questi ultimi anni.

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola


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