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Lo Yemen non è un Paese per i bambini

Con questo reportage, pubblicato su Left n. 11 del 18 marzo 2017, Laura Silvia Battaglia ha vinto il Premio Luchetta 2017 (sezione Stampa italiana). Il riconoscimento le viene consegnato questa sera a Trieste (diretta tv Rai Uno)

 

Aisha al Samer alle cinque del pomeriggio inizia a guardare ossessivamente l’orologio. è l’ora del maghreb, la preghiera della sera. Se Mohammad non arriva, dopo una ventina di minuti, si attacca allo smart phone. «Ho già spiegato a Mohammad che dopo quest’ora non deve andare in giro e gli raccomando di farsela alla larga da ceckpoint e cattive compagnie». Aisha abita ad Hatarish, periferia Nord di Sanaa, con il marito e quattro figli. Gli altri tre sono già sposati. La casa è un palazzetto di famiglia su una strada sterrata che costeggia l’arteria che porta fuori città, in una terra di mezzo tra il caos dei mercati urbani e la campagna brulla, che alterna fichi d’india a filari di zibibbo rinsecchiti. Mohammad rientra a casa appena il sole cade obliquo sulle ultime galline che razzolano nel cortile e sui sacchi di spazzatura sparsi dappertutto fuori casa e che nessuno, da quando la guerra si è aggravata, raccoglie più. Infila la porta di casa e si distende sul divano. Se l’elettricità è ancora attiva e nel generatore c’è abbastanza gasolio, inizia a chattare su whatsapp. «Sono preoccupata per Mohammad e per i ragazzini della sua età», dice la madre, facendo cenno al figlio di 15 anni, non più totalmente bambino, non ancora abbastanza uomo. «Il nostro quartiere è tranquillo ma le famiglie sono preoccupate: arrivano spesso notizie di ragazzi della sua età rapiti, che spariscono nel nulla. Qualcuno lo rivedono nei check point dei ribelli, strafatto di qat. Se va male, le famiglie hanno notizia direttamente della loro morte: gli houti li portano al fronte». Gli adolescenti yemeniti come Mohammad, infatti, sono in potenza truppe fresche, giovani, inesperte, temerarie e senza alcun costo. Le parti in guerra lo sanno e fanno del loro meglio per cooptarli. Mohammad non commenta le preoccupazioni della madre ma conferma a cosa può portare l’horror vacui di un adolescente in guerra: «Per fortuna la scuola adesso è di nuovo aperta, ma per sei mesi non c’è andato nessuno. Mi annoiavo a morte. Non hai alternative: o vai in strada a giocare o, se ci credi, fai sul serio. Qualche mio amico ha fatto sul serio e non lo vedo da tempo». Un rapporto recente di Amnesty International sul reclutamento di bambini-soldato sulla linea del fuoco, da parte delle milizie huthi conferma le preoccupazioni di Aisha e delle madri come lei. Secondo le testimonianze raccolte dall’organizzazione internazionale, molte famiglie acconsentono al reclutamento, dietro la promessa di un pagamento di 20mila-30mila yemeni rials al mese (pari a 80-120 dollari), se il bambino diventerà un “martire”. Il pacchetto del reclutamento promette anche dei poster da esibire permanentemente nel quartiere, in caso di decesso, e onori tribali. Va sottintesa la destinazione-paradiso, vuoi per la giovane età, vuoi per la morte eroica. Anche le agenzie Onu documentano più di 1500 casi di bambini reclutati da entrambe le parti dall’inizio della guerra, a marzo 2015, con il 60% dei bambini uccisi o feriti da azioni commesse dalla coalizione a guida saudita, e il 20% in azioni ascrivibili alla responsabilità dei ribelli huthi. Human Rights Watch rendeva conto del reclutamento dei bambini-soldato già prima dell’inizio del conflitto. Ma la guerra ha solo peggiorato una realtà che per i minori in Yemen – il Paese più povero del mondo arabo – è stata sempre piuttosto dura. Mancanza di accesso ad acqua e cibo, malnutrizione, condizioni sanitarie disastrose, bassa scolarizzazione, matrimoni precoci, sono solo alcuni degli aspetti più critici di una condizione di emergenza cronica, particolarmente per gli abitanti nelle campagne, negli slums, per i muhamasheen (i paria della società yemenita, quasi tutti scuri di pelle), per i rifugiati dal Corno d’Africa, per gli abitanti nelle aree del Nord, interessate a guerre locali nei primi anni Duemila. Mohsen viene da lì, da Sadaa. Un’area interessata a guerre interne già prima del conflitto attuale. è bloccato da due anni nel Centro per la protezione dell’infanzia ad Haradth, dove è finito dopo essere stato venduto e trafficato verso l’Arabia Saudita. L’avevamo già incontrato nel Centro nel 2014, ancora bambino. Oggi è un adolescente smilzo: «Mia madre è morta, mio padre si è trasferito in Arabia Saudita per lavoro. Ha lasciato me e le mie cinque sorelle da soli. Abbiamo solo una zia anziana che si prende cura di noi. Un giorno è arrivato un conoscente del villaggio e mi ha portato via, dicendomi che mi avrebbe fatto rivedere mio padre a Ryadh. Ma siamo arrivati qui, ad Haradth, al confine con l’Arabia Saudita e mi ha costretto a mendicare per strada. Il giorno dopo ho visto un uomo cieco dalla parte della strada dove mi ero riparato per la notte. L’uomo mi ha chiesto di attraversarla. L’ho aiutato. Appena l’abbiamo attraversata è arrivata una macchina. Mi hanno caricato e l’uomo cieco è spartito. Sono finito in Arabia Saudita dove un uomo mi ha insegnato a spacciare. Dopo un mese, una sera mi ha pizzicato la polizia. Mi hanno rispedito dritto dritto in frontiera e ho passato due notti in carcere. Poi mi hanno rimpatriato e mi hanno messo qui. Cercano i miei parenti da un anno per riprendermi ma nessuno si è fatto vivo. Poi è scoppiata la guerra e sono rimasto qui. A dire il vero, da qui non me ne andrei mai». Mohsen è soltanto uno dei 500 bambini al mese che, secondo Unicef, già nel 2013 venivano sottratti alle famiglie indigenti o venduti dalle stesse per un massimo di mille dollari, per attraversare il confine ed esercitare attività illegali in Arabia Saudita. La guerra non ha interrotto il business del trafficking di minori: l’ha soltanto dirottato altrove. Oggi Haradth, la Ciudad Juarez dello Yemen, ha il confine blindato. Non si passa più in Arabia Saudita. Piuttosto bisogna preoccuparsi di essere raggiunti da qualche bomba sganciata dagli aerei della coalizione. Il confine più trafficato è sul mare, nel porto di Mukalla, a Sud del Paese. Qui, secondo la Ong The Muna Relief Organization, centinaia di bambini tra i 6 e i 15 anni d’età sarebbero oggetto di rapimento per sfruttamento sessuale. Secondo l’organizzazione, i trafficanti si appoggerebbero alla rete di Aqap (al Qaeda nella Penisola arabica) che fino a poco tempo fa controllava la città e il porto di Mukalla, avendovi stabilito un califfato indipendente. L’Ong basa il suo rapporto su una serie di testimonianze dall’area di Abyan – città e governatorato nei quali ha avuto sempre ampio consenso – sia nell’area del porto di Mukalla, dove un graduato della polizia yemenita (Yemen Central Security Forces), la cui identità resta anonima per ragioni di sicurezza, avrebbe affermato che «i bambini trafficati nel mercato della prostituzione vengono destinati a ricchi committenti nei Paesi del Golfo persico, salpando dal porto di Mukalla verso l’Etiopia o Gibuti, e da qui verso i Paesi del Golfo, o direttamente da Mukalla alla destinazione del committente. Al Qaeda ha fatto milioni di dollari con questo traffico e la guerra ha accellerato gli affari». Nabil Fadel, direttore della Ong yemenita Yocht, nata per combattere il traffico dei minori, fa spallucce nel suo ufficio di Sanaa: «Prima della guerra questi reati non erano sotto i riflettori perché l’obiettivo delle forze di polizia era combattere il terrorismo; adesso è peggio che andar di notte. La guerra ha annullato una serie di emergenze che oggi vengono percepite come problemi secondari. Se prima le famiglie minimamente collaboravano, pur essendo recalcitranti alle denunce per paura di essere accusate di non essersi prese cura abbastanza dei loro figli o addirittura di avere acconsentito a certi crimini, vendendo i bambini cedendoli a terzi o ricavando dei benefit in denaro, adesso non rispondono nemmeno. è già tanto che siano tutti vivi, sotto le bombe. E poi, in questo Paese la paura dello stigma sociale è più forte della guerra».

Di Battista e Di Maio intanto cominciano a mollare la Raggi

«Mi aspetto che dal secondo anno si mettano in atto quegli interventi che diano percezione del cambiamento», dice Di Maio su Virginia Raggi.

«L’errore più grave di Virginia sono state le nomine. Glielo abbiamo detto tutti, ma lei è andata avanti comunque», dice Di Battista sulla Raggi.

Tutte e due le dichiarazioni sono virgolettate mica per caso ma perché sono state dette esattamente così dai due “leader” del Movimento 5 Stelle. E, avviso per i tifosi sfegatati, non sono nemmeno frase decontestualizzate: sono due frasi dette esattamente per il senso che hanno. Compiuto.

Ma non è questo il punto. Virginia Raggi probabilmente verrà rinviata a giudizio per le spericolate nomine da sindaca di Roma; quando non si ha una classe dirigente purtroppo si deve pescare tra quello che c’è e “quello che c’è” a Roma era il percolato di Alemanno, evidentemente.

Virginia Raggi rinviata a giudizio (mica indagata per le calunnie di qualcuno, no, rinviata a giudizio) sarebbe una vicenda normale per chi non ha costruito su indagini e Procure lo spessore della propria vendetta ma risulta inesorabile per chi, come molti del M5S, sulle indagini ha piantato il timone della propria critica politica.

Dice la Raggi che Beppe Grillo “l’ha incitata a andare avanti” e, secondo lei, noi dovremmo essere a posto così. Ah beh, se lo dice Grilo,

E invece Grillo, anche sulla Raggi, sarà pronto a cambiare idea come successo sullo ius soli: Beppe ha già mostrato di avere imparato la resilienza politica. Si cambia idea quando serve. Si scrive qualcosa quando serve. Si scarica qualcuno se serve.

E, in tutto questo, fa tenerezza vedere l’aspirante intellettuale Luca Bergamo (vicesindaco in salsa sinistra capitato grazie alle decapitazioni della magistratura) assistere con aria da Truffaut alla Raggi che sciorina i risultati della sua amministrazione: ci si mette pochissimo a diventare docili.

Avanti così.

Buon giovedì.

Sulle tracce di Caproni. Con Il cappotto di lana di Luca Dal Canto

Chissà in quanti alla lettura dei versi dell’analisi del testo, per l’esame di maturità del 2017, quello del #Nopanic e ricette Miur, avranno sgranato gli occhi, ricercando il nome dell’autore, con la mente, in un anfratto del libro di testo. A voler essere proprio contemporanei, tralasciando appunto i classicissimi, ci si poteva aspettare, un rimando struggente a Svevo, forse un Montale, o ancora si poteva azzardare Eco, ma Giorgio Caproni proprio no. La ministra Fedeli, dal canto istituzionale, consigliava di andarsi a rivedere i filmati che il Miur aveva realizzato, con tanto di intervento di Alessandro Borghese, a proposito di ricette, che già facevano temere, per le tracce, (e non come clamorosamente scritto “traccie”) una scelta culinaria. Invece la buona notizia è che alla ribalta c’è la letteratura del Dopoguerra, di un autore che vide la sua maturità negli anni Sessanta, con una poesia tratta da “Versicoli” quasi ecologici, che fa parte di la raccolta postuma dell’autore, intitolata Resa Amissa del 1991. Ai rocamboleschi versi di Gadda, o alla pura cronaca di un Vittorini, è stato preferito un poeta che già parlava di “ecologia”: «Non uccidete il mare, la libellula, il vento. Non soffocate il lamento (il canto!) del lamantino. Il galagone, il pino: anche di questo è fatto l’uomo. E chi per profitto vile fulmina un pesce, un fiume, non fatelo cavaliere. L’amore finisce dove finisce l’erba e l’acqua muore. Dove sparendo la foresta e l’aria verde, chi resta sospira nel sempre più vasto paese guasto: Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l’uomo, la terra». Molte le riflessioni sull’uomo e il suo agire, si portano esempi da prima pagina come l’Ilva e il movimento No Tav, dai quali provano spesso  a distrarci con  traffici bancari e altri imbrogli del palazzo, mentre l’erba, scriveva Caproni, già sparisce e il pianeta oggi si fa guasto con l’America che si rimangia l’adesione ai protocolli sul clima e la Cina che soffoca nello smog. Al di là della tragica attualità, è la poesia che resta, regalandoci la possibilità di riscoprire un autore come Giorgio Caproni.  Livornese, classe 1912 fu letterato, ma anche musicista, imbracciando un violino.  Capì che la letteratura era il suo diletto, provando meraviglia per le opere antiche, rifuggendo, invece, ogni insegnamento religioso. Alla sua Livorno, «malata di spazio nella sua mente» preferì, negli anni Venti, Genova, dove proseguì la sua formazione, nutrendosi di Shopenhauer, Machado, Lorca. Si appassionò a tutti i suoi contemporanei: da Ungaretti a Montale, non tralasciando Cardarelli. Fu critico, traduttore e, soprattutto, poeta, tra le sue opere Ballo a Fontanigorda, Il passaggio di Enea, raccolta quest’ultima che riguarda la sua esperienza di combattente durante la seconda guerra mondiale, pubblicata a ridosso degli anni Sessanta. Caproni nulla tralascia interrogandosi sui ciò che lo circondava con reiterata pazienza, imprevedibile garbo, sempre con stile ricercato. Morirà a Roma nel gennaio del 1990.
Per sapere di lui, del suo amore per Livorno, che si coglie nei suoi versi, c’è un cortometraggio dal titolo Il cappotto di lana, per la regia di Luca Dal Canto, che abbiamo raggiunto al telefono per farci svelare l’idea di realizzare un corto sul suo concittadino.
Oggi, quando hai sentito le tracce dell’esame, avrai fatto un sobbalzo.
Sono felice perché Caproni è uno dei più grandi poeti del Novecento, se lo meritava! Coincidenza incredibile poi è che il protagonista del cortometraggio, Lorenzo Aloi, proprio quest’anno fa la maturità e quindi mi sono immaginato il suo stupore, alla lettura dei temi.
Quando è nata l’idea di realizzare questo cortometraggio?
Quasi per caso, nel 2012, per celebrare i cento anni dalla nascita di Caproni, il Comune di Livorno ha organizzato un piccolo festival. Io lavoro in questo settore, faccio l’aiuto regista nel cinema e come filmaker indipendente realizzo, oltre a spot, cortometraggi, perché mi piace scrivere e spero prima o poi di fare un lungometraggio. In questa occasione, insieme ad Anita Galvano, che è la sceneggiatrice, chiamati dal Comune, abbiamo deciso di scrivere una storia ispirata all’autore: il corto trae spunto da una sua poesia, ma è una storia inventata da noi, è una fiaba, una commedia di formazione. Al di là del festival in cui fu presentato, negli anni successivi il corto ha girato parecchio in tutta Europa, ottenendo più di cinquanta selezioni, in festival internazionali, vincendo sedici premi. Il protagonista ha vinto quattro premi come miglior attore. Nessuno ci avrebbe mai scommesso, soprattutto perché temevamo che fuori Livorno non fosse neanche compreso, anche se il mio obiettivo era far conoscere il poeta e la sua, la mia, città.
A Livorno è vivo il ricordo di Caproni?
Poco, come gran parte della cultura e della storia di Livorno, nel senso che Caproni è recente, ma ci sono anche artisti come Modigliani, Mascagni, Fattori, ma sono solo quelli del Novecento. Purtroppo, a Livorno si fa poco non solo per questi personaggi, ma per la cultura, in generale; è una città che non riconosco più. Mi ricordo che quando ero adolescente, una ventina di anni fa (lui è del 1981 ndr), la mia città era più viva da un punto di vista culturale, aveva un’identità forte, c’era l’orgoglio di essere livornesi.
Non ci sono state più iniziative per il poeta, quindi.
In realtà, quest’anno, a gennaio, l’assessorato alla Cultura, per il giorno del suo compleanno, ha organizzato un altro micro festival in suo onore, ma sempre a livello locale, che non guarda al di fuori della città. Il difetto di Livorno è che pur avendo spunti, non osa uscire al di fuori e promuovere i propri personaggi.
In questo momento, a cosa stai lavorando?
Sto realizzando un progetto fotografico sui luoghi di Modigliani, tra Livorno e Parigi. Ho immortalato 45 luoghi dove Modigliani ha vissuto, lavorato, appunto tra le due città, soprattutto per vedere come sono cambiati questi luoghi in oltre cento anni di storia, anche per scoprire le trasformazioni urbanistiche delle due città perché, purtroppo, molti di quei luoghi oggi sono edifici abbandonati o diventati banche. Probabilmente, a ottobre sarà a Bordeaux con un libro catalogo con foto e racconto della vita intensa e geniale dell’artista. Sempre su di lui, sto sviluppando un documentario, che sarà prodotto in Francia.
Per la Maturità hanno attinto a temi ecologici, quali sono i tuoi versi preferiti?
“Anima mia, fa’ in fretta. Ti presto la bicicletta, ma corri”, che, a mio dire, sintetizza la poetica caproniana fatta anche di nostalgia e riflessione sulla fugacità della vita.

Arabia Saudita, cambia il principe ereditario per far asse con Trump

C’è fermento nella penisola araba. Il re dell’Arabia saudita Salman bin Abdelaziz Al Saud a sorpresa ha nominato principe ereditario suo figlio Mohammed bin Salman, 31 anni. A sorpresa perché il principe ereditario in carica era invece Mohammed bin Nayef, cugino 57enne del nuovo principe ereditario.
Un annuncio che però sembrava ormai nell’aria: nell’ultimo anno Mohammed bin Nayef era infatti quasi scomparso dalla vita politica saudita e dalle cerimonie ufficiali, mentre Mohammed bin Salman ricopriva ruoli sempre più centrali.
La scelta del più anziano cugino come principe ereditario era avvenuta lo scorso anno, una scelta favorevolmente accolta dalla politica saudita. Mohammed Bin Nayef è infatti il principe più rispettato fra quelli della seconda generazione, soprattutto per aver messo a repentaglio la propria vita – fu oggetto anche di un attentato – durante la campagna condotta contro i terroristi di Al Qaeda.
Mohammed Bin Salman, il principe ereditario in carica, era estraneo alla politica fino a due anni fa, ma si è velocemente distinto ricoprendo il ruolo di ministro della Difesa, dell’Economia e dei Giovani.
Sotto la sua guida l’Arabia Saudita è entrata in guerra con lo Yemen, conflitto che in due anni ha causato migliaia di morti, senza portare fino ad ora grandi risultati per il Paese.
Al contrario, come ministro dell’Economia e dei Giovani si è distinto per le sue idee innovative in politica interna. Il principe è infatti l’ideatore di Vision 2030, il progetto di innovazione che si propone di cambiare nei prossimi 14 anni il volto all’Arabia Saudita. L’economia del Paese dipende per l’80% dai profitti derivanti dal petrolio. Mohammed bin Salman con il suo piano vuole ridurre al minimo la dipendenza dell’Arabia Saudita dall’oro nero, privatizzando ampi settori dell’economia e inserendo giovani e donne nel mercato del lavoro.
Un piano audace e innovativo, che rappresenta una eventuale svolta per l’Arabia Saudita, il Paese più conservatore del mondo arabo, governato per decenni da ultrasettantenni. Del resto, in questo periodo, Riad sta ricoprendo un ruolo sempre più importante nella politica internazionale e del Medio Oriente.
Basti ricordare che il mese scorso al vertice sunnita “contro il terrorismo” tenutosi proprio a Riad, Donald Trump aveva affidato all’Arabia Saudita il compito di guidare i Paesi del Medio Oriente. Se negli ultimi decenni la monarchia sunnita aveva mantenuto un basso profilo politico, da tre anni a questa parte ha invece cambiato rotta, sposando una politica più aggressiva e indirizzata ad un forte cambiamento del Paese. Un cambio che viene “premiato” dalle parole di Trump e da questo improvviso cambio di ruolo del principe ereditario. Probabilmente questo cambio sarebbe avvenuto comunque, ma sicuramente il sostegno di Trump verso l’Arabia Saudita ha accelerato la decisione di re Salman.

Festa della musica, per ripartire nell’area del terremoto

Oggi è la Festa della Musica, un evento europeo. Ma abbiamo deciso di raccontarvi una esperienza che parte da un’area particolare, quella del centro Italia devastata dal sisma del 2016. Siamo a Matelica dove la festa comincia nel pomeriggio e avrà il suo culmine nella sera, grazie ai ragazzi di Furgoncinema.

È un progetto lanciato da studenti universitari e precari – storici, economisti, architetti, filmaker – originari delle province di Teramo e Macerata, tra le aree più colpite dal terremoto, ma anche dell’Abruzzo e del Lazio. D’estate, tra luglio e agosto, porteranno il cinema nei paesi distrutti o comunque segnati profondamente dal terremoto. Proiezioni itineranti utilizzando il video mapping, cioè proiettando le immagini sulle facciate dei palazzi o magari sui teloni dei cantieri, «se gli edifici hanno la fortuna di essere in ristrutturazione», dice Lorenzo Montesi, presidente dell’associazione culturale Aristoria che ha promosso l’iniziativa.

Il nome Aristoria è tutto un programma e racconta bene l’elaborazione di un progetto dal forte impatto civile oltre che culturale. Aristoria viene da aristo, anagramma di storia (ma anche nel significato “per pochi” dal greco) e porta con sé un ribaltamento totale. La storia è di tutti, dicono i ragazzi di Aristoria, ma «andava rifatta in un certo senso, riaffrontata e ristudiata». Ed ecco che al progetto di Furgoncinema se ne affianca un altro che deriva anche dalla vocazione per la public history di alcuni dei soci. Durante le serate lungo l’Appennino marchigiano gli abitanti saranno intervistati in modo da creare un database «per creare memoria sul sisma».

Pensieri, ricostruzioni, racconti e tanti volti per non disperdere un patrimonio umano fatto di resistenza e di amore per il proprio territorio. Non è un caso che il progetto di Aristoria sia patrocinato da tre università, quella di Camerino, di Macerata e di Modena, oltre che dall’Istituto storico della Resistenza di Macerata. Al progetto ha aderito anche Giometti Cinema che aiuterà nella consulenza per recuperare i film.

Il via il 21 giugno, giorno della festa della musica, a Matelica, un paese ricco di beni artistici e architettonici, da dove il sindaco Alessandro Delpriori, storico d’arte, sta facendo una battaglia per i paesi colpiti dal sisma proprio in nome del patrimonio culturale, il loro futuro sia dal punto di vista culturale che economico. Nella piazza centrale di Matelica (sopra), tra bellissimi palazzi, la prima proiezione. Gli spettatori di Furgoncinema potranno vedere il film muto Nosferatu del 1922, capolavoro del maestro espressionista tedesco Friedrich W. Murnau con le musiche dal vivo del gruppo jazz di Tolentino, gli Inventio. Dopo il 21, via al calendario delle proiezioni. Tutto gratis, i comuni dovranno solo fornire le sedie e una piazza.
Per informazioni www.aristoria.it.

Basta nomi all’occidentale, così l’Egitto tutela le proprie radici culturali

Nessun Sam, nessuna Lara. Basta con John e Mark, ma anche Malek. Sono banned baby names, nomi vietati per i bambini nell’Egitto 2017 di Al Sisi.

Oggi al Parlamento egiziano dibattono questa proposta di legge: nessun nome straniero, specialmente occidentale, verrà dato ai neonati «per salvare le nostre radici sociali e culturali, per non abbandonare i nomi arabi». Lo ha detto il membro del Parlamento e promotore della legge, Bedier Abdel Aziz, che ha aggiunto che le generazioni future senza nomi arabi «potrebbero non essere legate alla loro vera identità».

Solo la minoranza copta predilige nomi stranieri, differenziandosi dalla maggioranza sunnita che usa quelli arabi. Se qualcuno però volesse comunque provare a chiamare i suoi figli come vuole, dal Cairo ad Alexandria, per chiamare i suoi figli Sam o Vanessa, rischierebbe una multa di di migliaia di sterline egiziane o peggio, sei mesi di prigione. «Non posso credere che al Parlamento non abbiano niente di meglio da fare» ha scritto Anthea Gould sui social, ribattuta dall’Egypt Indipendent, e riassume la voce della maggior parte degli egiziani sulla questione.

Verdini e Formigoni: gli ingredienti (da non dimenticare) del governo che fu di Renzi

Italian Prime Minister Matteo Renzi (R) shakes hand with Loris Verdini of the Forza Italia party during a debate for a confidence vote at the Senate on February 24, 2014 in Rome. Renzi called for a "radical and immediate change" in recession-hit Italy as he outlined his new government's reform agenda before winning a crucial confidence vote in the Senate early February 25. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

Roberto Formigoni è stato condannato: a 6 anni di carcere il 22 dicembre, anche se ne hanno parlato in pochi. Nelle 719 pagine di motivazioni della condanna che sono state depositate ieri il presidente Gaetano La Rocca con Angela Laura Minerva e Marco Formentin dedicano tutto il decimo capitolo “le utilità percepite dal Presidente Formigoni, suddividendole in alcune macrocategorie per comodità espositiva: imbarcazioni; vacanze di Capodanno ed altri viaggi; villa in Arzachena – Località Li Liccioli; denaro contante; finanziamento elettorale di 600.000 euro“. Oltre a questo ci sarebbero anche le “cene in ristoranti di lusso organizzate da Daccò in onore del Presidente della Regione. Pur avendo tali cene, indubbiamente, un ritorno in termini di immagine per Formigoni – si legge – esse rispondevano anche al tornaconto di Daccò, che in questo modo accreditava (soprattutto agli occhi dei funzionari della Regione e dei Direttori Generali) la sua immagine di imprenditore del settore Sanità molto vicino al Presidente”. Non appare dunque “congruo considerare tali cene come parte del sinallagma corruttivo”. Secondo i giudici Formigoni avrebbe incassato 6 milioni di euro in 5 anni. Soldi, ovviamente, sottratti ai malati.

Il 2 marzo scorso invece era arrivata la condanna a 9 anni per Denis Verdini per la bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino. Nella sentenza si legge la ricerca “nell’individuazione di una pena congrua ed adeguata al fatto concreto, dalle dimensioni della vicenda, dalla gravità enorme del fatto ricostruito, dalla patologia dei finanziamenti concessi, dall’indifferenza verso la vigilanza e dallo spregio delle regole”. Scrivono i giudici che “il danno è stato enorme…“, ma non solo secondo il Tribunale “non si può certo partire dai minimi edittali, salvo porre sullo stesso piano l’amministrazione di una società che distrae la macchina aziendale, percepisce illecitamente compensi, ruba la cassa e crea un danno di poche migliaia di euro e chi, invece, ha posto in essere le condotte precedentemente esposte”.

Sia Formigoni che Verdini sono stati voti fondamentali in Senato per la tenuta del governo di Matteo Renzi, il “nuovo”, quello che doveva rottamare tutto e svelarci il futuro. Sono stati gli uomini fondamentali nel percorso di riforme (poi ripetutamente bocciate dagli elettori e da chi controlla il rispetto delle regole) che Renzi rivendica come punto di partenza della sua prossima candidatura.

Insomma Renzi, che in questi giorni fa il puro che vuole epurare la sinistra, è stato a braccetto di questi qui. Nient’altro da aggiungere. Solo per ricordarsene.

Buon mercoledì.

Naomi Klein e il presidente brand

No is not enough. No non è abbastanza è il titolo del suo ultimo libro, che doveva essere scritto «prima che le cose si mettessero così male». «L’esponente più influente e più visibile della sinistra americana», come la chiama il New Yorker, è tornata. Non è mai andata via, in realtà e ha le idee sempre più chiare da quando ha scritto No Logo 17 anni fa, pubblicato prima che i social media rendessero «il brand la nostra seconda natura».

Naomi Klein all’epoca aveva 30 anni e ora ride di quanto sia stata ingenua allora: quelle teorie valevano prima di Facebook, Twitter, Instagram. Anche il brand è tornato più forte di prima ed è diventato il presidente degli Stati Uniti.

L’autrice del libro The shock doctrine, che risale al 2008, dice che Donald Trump è il primo «presidente brand» e «tiene tutti in uno stato di reazione costante, non sfrutta lo shock esterno, è lui stesso lo shock. Ogni dieci minuti ne crea uno». Con twitter plasma la politica a sua immagine e somiglianza. Si è circondato di alcuni «dei più grandi approfittatori mondiali della crisi», come Willbur Ross, il «re della bancarotta» e in altri momenti della storia americana «il semplice fatto che l’amministratore delegato della Exxon fosse segretario di Stato sarebbe stato uno scandalo», dice la Klein.

«No non è abbastanza, resistere alla politica di Trump e vincere il mondo di cui abbiamo bisogno» sono titolo e sottotitolo della sua ultima opera. Le persone intorno a Trump stanno usando il suo caos per vantaggi personali ed economici, l’esatto contrario di quello che il presidente ha giurato nella sua campagna elettorale. Ma «la parte peggiore è che peggiorerà», dice la Klein. Questa amministrazione è da tenere a bada soprattutto quando avrà «uno shock esterno da usare, uno shock economico come quello del 2008. Come quello terroristico a Manchester o Parigi 2015. Una catastrofe naturale come l’uragano Sandy». Sarà un «con uno shock del genere, che potrebbero riscrivere la mappa politica in una notte. La squadra di Trump avrebbe mano libera per applicare le sue idee più estreme».

Non bisogna focalizzare sui capelli paglia che pigiano sui tasti. «Trump è uno showman e sa quanto distrae lo show. È la storia del suo business». Insomma, dice Klein, «Trump è un’idiota, ma non sottovalutate quanto sia bravo a farlo».

Giornata mondiale del rifugiato: L’Italia aiuta dittature che calpestano i diritti umani

Syrian internally displaced people walk in the Atme camp, along the Turkish border in the northwestern Syrian province of Idlib, on March 19, 2013. The conflict in Syria between rebel forces and pro-government troops has killed at least 70,000 people, and forced more than one million Syrians to seek refuge abroad. AFP PHOTO/BULENT KILIC (Photo credit should read BULENT KILIC/AFP/Getty Images)

Il 20 giugno si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale del rifugiato, appuntamento annuale voluto dall’Assemblea generale dell’Onu, il cui obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo. È lo stesso giorno in cui, nel 1951, l’Assemblea approvò la Convenzione di Ginevra.
Negli ultimi anni il diritto d’asilo è sempre più diventato oggetto di campagne diffamatorie e strumentali, che tendono a legittimare la non applicazione di quanto sta scritto nella nostra Costituzione e nella legislazione internazionale. Governi dell’Ue (si pensi ai cosiddetti Paesi di Visegrad: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) hanno affermato il loro diritto a bloccare i flussi di richiedenti asilo, negando così un principio cardine della Convenzione di Ginevra, cioè il diritto di ogni persona a chiedere protezione internazionale. Allo stesso tempo l’Ue ha firmato un accordo con la Turchia di Erdogan per bloccare il flusso di richiedenti asilo dal Medio Oriente, proprio mentre i siriani, che rappresentano il principale gruppo di rifugiati al mondo, scappavano dalle bombe della coalizione internazionale e da quelle di Daesh. Questa è una pagina vergognosa della storia del Vecchio continente, che ha deciso di scaricare sui Paesi limitrofi l’onere dell’accoglienza e dell’eventuale respingimento, in cambio di soldi e sostegno politico. Dopo quell’accordo, l’Unione europea, con l’Italia capofila, tenta di utilizzare lo stesso modello usato con la Turchia anche con altri Paesi, dove i diritti umani vengono regolarmente calpestati come in Libia. Un Paese dilaniato da una guerra civile che dura dal 2011 e con un territorio diviso per bande, viene così investito di una responsabilità che i nostri governanti non vogliono assumersi. Gli si chiede di impedire le partenze e di trattenere i flussi migratori sul loro territorio, nonostante le testimonianze di centinaia di migranti sulle violenze e i ricatti che lì subiscono. L’Ue, e l’Italia tra i principali protagonisti di questo indirizzo politico, ha anche scelto di condizionare gli aiuti allo sviluppo dei Paesi africani, alla collaborazione degli Stati di origine e transito dei flussi migratori. È una operazione ingiusta, assolutamente inefficace e, in molti casi, controproducente. Il sostegno a governi dittatoriali o sostenuti da bande di criminali che controllano il territorio aumenterà infatti le ragioni di fuga e quindi anche il numero di profughi, proprio a causa della situazione di crescente instabilità e conflitto di molte regioni del mondo. Le risorse per l’accoglienza dei profughi destinate all’Unhcr sono sempre di meno a fronte di quasi 70 milioni di persone nel mondo che fuggono in cerca di protezione: il numero più alto dall’approvazione della Convenzione di Ginevra. Il diritto d’asilo è dunque sotto attacco in nome della compatibilità economica e politica, in Europa come nel resto del mondo. Per questo ha fatto bene l’Unhcr a ribadire che è importante in questo 20 giugno 2017, più che in passato,  stare dalla parte dei rifugiati #WithRefugees. Gli Stati, i governi, mostrano di non voler perseguire più l’interesse generale e di avere abbandonato come obiettivo irrinunciabile il riconoscimento dei diritti umani per tutti e tutte. La società deve provare a riprendere in mano il proprio destino assumendo come prioritario questo obiettivo generale. Le organizzazioni sociali, le associazioni devono svolgere in questa battaglia un ruolo da protagoniste. Ed è quello che intendiamo fare nel nostro Paese e nell’Ue a partire da questa importante giornata del 20 giugno.

L’articolo di Filippo Miraglia, vicepresidente Arci, è tratto da Left in edicola


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Don Milani, un falso ribelle che odiava la scuola pubblica

Si prepara un evento mediatico assimilabile alle fiction televisive che propinano preti detective e suore psicologhe. Stavolta il soggetto, incredibile a dirsi, è un don Milani misconosciuto, protagonista di un racconto che, fin dalle anticipazioni, promette acrobazie dialettiche e funambolismi narrativi da scuola Holden. Tanto per cominciare, il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli propone che le scuole pubbliche italiane dedichino almeno una giornata al ricordo di don Lorenzo Milani, che come dovrebbe esser noto, si augurava il fallimento della scuola pubblica e la propagazione dell’istruzione privata cattolica. Per dare l’esempio, il ministro si recherà in pellegrinaggio a Barbiana il  20 giugno, in occasione dei 50 anni dalla morte dell’autore della famosa Lettera a una professoressa. La storia del don Milani misconosciuto rimbalza sui giornali e ne dà una lettura esemplare lo storico cattolico Alberto Melloni (la Repubblica, 5/6/17), secondo il quale la democrazia e il cattolicesimo si sarebbero accaniti contro il priore di Barbiana, colpevole di aver perseguito strenuamente la realizzazione dell’art. 3 della Costituzione, quello sull’uguaglianza sostanziale tra gli esseri umani. Come narrano i biografi, all’inizio degli anni 50 don Milani cadde in disgrazia presso la gerarchia ecclesiastica toscana, per un conflitto politico interno alla Chiesa. La tensione diventò scontro aperto nel 1965, quando la sua lettera contro alcuni cappellani militari che avevano condannato l’obiezione di coscienza alla guerra fu pubblicata da Rinascita. Dunque, il priore di Barbiana fu isolato e dileggiato, per imperscrutabili e infallibili motivi, dalle alte sfere ecclesiastiche. Che cosa c’entrano la scuola pubblica e la democrazia con questa faida interna alla Chiesa? A meno che non si voglia insinuare che la legge non è uguale per tutti e che hanno sbagliato i giudici che l’hanno applicata in seguito alla denuncia per apologia di reato da parte di alcuni ex combattenti. Eppure si sa che il processo di beatificazione di don Milani è iniziato al di fuori della Chiesa, in quel comunismo italiano che, per motivi imperscrutabili e fallibili, l’ha eletto a eroe popolare che lottava contro il sapere in mano alle élites. La Lettera a una professoressa è stata assunta come il vangelo della pedagogia moderna e futuribile ed è stata usata come una clava per tacitare ogni tentativo di opposizione alle cosiddette riforme che hanno demolito la scuola pubblica e l’università da Luigi Berlinguer ad oggi. Nonostante questi danni, tra i docenti di scuola, isolati e rancorosi come il priore nel Mugello, non sono pochi quelli ammaliati dalla prosa violenta e ultimativa di don Milani, pronti a identificare il bersaglio polemico della Lettera con il collega della classe accanto. Ma in quanti hanno letto davvero quel libro pieno di odio contro la scuola pubblica? Quanti si sono accontentati di qualche citazione sull’uguaglianza e sulla giustizia? Finalmente papa Bergoglio (anche lui a Barbiana il 20 giugno) ha fatto chiarezza, riportando don Milani tra le icone del movimento cattolico. Intervenendo, lo scorso aprile, in collegamento esterno con la Fiera dell’editoria a Milano, in occasione della presentazione dell’opera omnia di don Milani, ha citato alcune sue proposizioni per ricordare che non fu mai un ribelle nei confronti dei dettami della Chiesa, ai quali si piegò sempre, né un comunista mascherato, perché la sua idea di uguaglianza non era per questo mondo.

L’articolo di Giuseppe Benedetti è tratto da Left in edicola


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