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Tante parole, ma il lavoro non c’è

ROME, ITALY - NOVEMBER 15: Demonstration of students and temporary workers in front of McDonald's, protesting against the use of vouchers to pay workers arguing that this impacts on job insecurity and ignores workers rights on November 15, 2016 in Rome, Italy. (Photo by Stefano Montesi/Corbis via Getty Images)

La vicenda dei voucher, reintrodotti con un atto di forza da parte del governo e della maggioranza parlamentare, è la rappresentazione della direzione politica, nei confronti del mondo del lavoro e dei lavoratori, esercitata da chi negli ultimi decenni ha governato il Paese. L’impoverimento del lavoro e la sua frantumazione sono stati e rimangono indiscutibilmente gli obiettivi fin qui perseguiti. Mentre la narrazione dominante – per cui le riforme del lavoro fin qui adottate migliorano condizioni e prospettive lavorative – muore nei fatti, il nuovo, una prospettiva politica che abbracci l’intero mondo del lavoro e ribalti i rapporti di forza al suo interno, stenta a nascere. Per dare una spinta affinché il nuovo si affermi, conviene sempre partire dai fatti. Secondo l’ultimo rapporto trimestrale sulle Forze di lavoro, pubblicato dall’Istat, tra il primo trimestre del 2017 e quello del 2016, il tasso di occupazione in Italia sfiora appena il 57,2 per cento con un divario di oltre venti punti percentuali tra Nord e Sud, mentre quello di disoccupazione è sostanzialmente stabile. La nuova occupazione è composta per il 70 per cento da lavoratori con contratti a tempo determinato (231.000 su 326.000 totali) e si concentra in generale tra gli over 50 (+ 328.000). Guardando alle informazioni rilasciate dall’Istat è inoltre possibile smentire quanti ancora sostengono che il lavoro a termine sia solo un passaggio verso la stabilità – comunque non più garantita nemmeno dal contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act – e non, invece, uno strumento a disposizione delle imprese per ridurre il costo del lavoro, potendo agitare senza troppe difficoltà il ricatto sui lavoratori la cui alternativa è quella di ingrassare le fila dei disoccupati. Stando ai dati Istat, il 60 per cento di quanti lavoravano a termine nel 2016 non hanno modificato la propria condizione contrattuale e, allo stesso tempo, la durata dei contratti tende via via a diminuire, come mostrano i dati del Ministero del lavoro. Inoltre, la transizione dal lavoro a termine a tempo indeterminato diminuisce dal 24,2 al 19,6 percento: la stabilizzazione millantata dal Jobs Act è venuta meno una volta terminati gli sgravi contributivi.
L’aumento relativamente consistente degli occupati a termine, accompagnato da una stabilità dei posti vacanti – espressione della domanda di lavoro – nelle imprese, caratterizza …

L’articolo di Marta Fana prosegue su Left in edicola


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Donald Trump, presidente inesauribile (come il muro al confine con il Messico)

«Fence or wall? Sarà un recinto o un muro?» chiede il giornalista. Sean Spicer, il portavoce della Casa Bianca, è in difficoltà mentre mostra diverse barriere sullo schermo durante la conferenza stampa a Washington. «Questo si chiama muro bollard, muro a colonnette, questo levee wall, muro argine, questo proteggerà il nostro Paese».

Che muro sarà quello di Trump al confine con il Messico? Duemila miglia da recintare e un budget di 341 milioni di dollari. Andrà a sostituire la “barriera porosa” dell’amministrazione Bush, costruita con il Secure Fence Act del 2006, anche se in parte quella costruzione fu terminata sotto mandato di Barack Obama, quando un altro progetto è stato avviato ad El Paso.

Trump avrà il suo «big, beautiful wall» e sopra ci attaccherà dei pannelli solari: «Così il Messico pagherà meno», anzi, così «il muro si ripagherà da solo». «Parliamo di qualcosa di unico» dice il presidente degli Stati Uniti d’America gesticolando come un venditore di strada: «Parliamo del confine meridionale: tanto sole, tanto caldo! Parliamo di un muro che creerà energia! Più alto sarà il muro, più varrà! Questa è una mia idea, io ho una buona immaginazione». Intorno a lui la folla con i cartelli al Cedar Rapids, Iowa ride e non la smette di applaudire. Alzano cartelli su cui c’è scritto “America is with you”, l’America è con te.

Il muro contro la migrazione clandestina dal Messico è stato il suo cavallo di Troia per vincere la battaglia elettorale contro Hillary Clinton alle elezioni presidenziali, quelle per cui lui a Washington ora è sotto assedio per la Russian connection.

La tv della discordia, ventuno anni vissuti pericolosamente

Doha, QATAR: A general view shows the newsroom at the headquarters of the Qatar-based Al-Jazeera satellite channel in Doha 14 November 2006. The English-language version of Al-Jazeera's launches 15 November 2006 after a year-long delay. The pan-Arab TV station is out to capitalise on the strategic importance of London as a European capital when it kicks off its English-language service tomorrow. AFP PHOTO/KARIM JAAFAR (Photo credit should read KARIM JAAFAR/AFP/Getty Images)

Al Jazeera non si chiude. Il suo futuro non è in discussione nella crisi in corso fra una coalizione di Paesi guidata dall’Arabia Saudita, e il Qatar, accusato dai “fratelli” del Golfo di fomentare il terrorismo, anche attraverso il canale all-news più famoso del mondo. Il ministro degli esteri qatarino Sheik Mohammed bin Abdulrahman Al Thani ha fatto sapere che non accetterà intrusioni né tantomeno ordini: «Doha rifiuta di discutere dell’affare Al Jazeera poiché lo considera una questione di politica interna», dunque di sovranità nazionale. Gli ha fatto eco Mustafa Souag, attualmente direttore generale dell’Al Jazeera Network: «Al Jazeera continuerà nella sua politica editoriale». «Noi diciamo la verità», ha aggiunto, facendo intendere come la cosa non faccia piacere a tutti.
Sono passati vent’anni da quando l’allora presidente egiziano Mubarak, in visita in Qatar, esclamò attonito, dopo un tour nella sede dell’appena nata emittente all-news: «Tutti questi problemi da una scatoletta di fiammiferi!». Effettivamente, alla fine degli anni novanta, Al Jazeera non era che un piccolo compound nel nulla del deserto qatarino, in una periferia della capitale Doha oggi cresciuta a vista d’occhio. Una sola linea telefonica per l’estero, una tenda che fungeva da caffetteria, un parabolone satellitare piazzato nella sabbia per trasmettere. Eppure già all’epoca aveva fatto scalpore, nel mondo arabo prima ancora che in Occidente, dove bisognerà aspettare l’“Undici settembre” e la faccia di Bin Laden trasmessa con il bollino dorato della rete per accorgersi che qualcosa di rivoluzionario stava succedendo non solo nel mondo dell’informazione in lingua araba, ma nel mondo arabo tout court.
«L’opinione e l’opinione contraria» era la parola d’ordine ad Al Jazeera: colpevole, davanti ai “fratelli” arabi, di essere appunto non soltanto parola ma fatti. I talk show della fine degli anni novanta dove si dava spazio alle opposizioni taciute e invisibili di regimi come quello saudita; le news sulla seconda Intifada che scandalizzavano per aver offerto il microfono al “nemico” israeliano, dandogli l’opportunità di esprimere una voce diametralmente opposta a quella palestinese; il femminile Per donne soltanto condotto dalla bionda giornalista siriana Luna Shebel determinata nell’affrontare tutti i temi tabù per la donna araba; il programma religioso Sharia e vita di Sheikh al Qaradawi, esponente di spicco dei Fratelli musulmani egiziani esiliato in Qatar – uno degli oggetti del contendere nell’attuale controversia con l’Arabia Saudita e l’Egitto di al-Sisi. Un palinsesto rivoluzionario per un mondo arabo abituato a trattare l’informazione televisiva come una cenerentola dei palinsesti, schiava del potere, megafono dei regimi, lontana mille anni luce dagli eventi delle strade arabe. Già dal 1996, anno della sua nascita, Al Jazeera veniva accusata di aver infranto questa legge non scritta, e il governo del Qatar, in quanto suo finanziatore, ne pagava il prezzo in termini di rapporti diplomatici con i vicini, chiusure di uffici di corrispondenza, richiami agli ambasciatori.
Da sempre il rapporto più problematico è quello con l’Arabia Saudita, il “fratello più grande”, lo stato guida del mondo arabo-islamico, offeso per la sfrontatezza di questo piccolo Paese esteso quanto l’Umbria, eppure ambizioso, desideroso di farsi sentire sulle scene globali con progetti innovativi, da Al Jazeera ai mondiali del 2022, dalla base americana più grande del Medio Oriente allo scintillante Museo Islamico. Per anni la monarchia saudita ha negato ad Al Jazeera il permesso di aprire un ufficio a Riad, e di documentare l’hajj (il pellegrinaggio alla Mecca che è il piatto forte di tutti i palinsesti arabi): la punizione per aver concesso spazio televisivo alle opposizioni della casata al Saud. L’apertura, nel 2003, della all news Al Arabiya parte del gruppo saudita MBC, è stata la risposta mediatica di Riad a Doha, il tentativo di rispondere ad Al Jazeera in uno stile simile ma con contenuti politicamente non offensivi per la monarchia del Golfo. Ma nessuno è mai veramente riuscito a rubare le scene ad Al Jazeera, nel bene quanto nel male. Dopo una partenza alla grande, una reputazione di professionalità ed originalità costruita negli anni, libri, documentari, premi che hanno celebrato il logo dorato di Doha, è arrivato il 2011. L’anno che ha sconvolto il volto del Medio Oriente, l’anno delle primavere arabe. Al Jazeera riesce a fare il botto anche in questo caso: é la prima che dà l’annuncio del suicidio di Mohammed Bouazizi, la scintilla della rivoluzione tunisina, nel silenzio generale di tutte le altre reti arabe ed occidentali. è ancora la prima ad aprire le telecamere su piazza Tahrir e a tenerle accese 24 ore su 24, realizzando la copertura mediatica più spettacolare che si sia mai vista, centinaia di migliaia di citizen journalist volontari che mandano ininterrottamente immagini e testimonianze da tutto l’Egitto, nonostante il regime di Mubarak avesse impedito ai giornalisti della rete di lavorare sul campo. Poi é arrivata la Libia, l’inizio della guerra in diretta e, forse, anche l’inizio della fine per Al Jazeera, in preda ad una sorta di ubris, un sogno di onnipotenza che traduce le ambizioni del Qatar in quel 2011. Non si tratta più soltanto di riferire della rivoluzione, ma di pilotarne il corso in qualche modo, sia politicamente che mediaticamente. In Libia Al Jazeera non é più la rete che racconta l’opinione e l’opinione contraria, ma parte integrante del racconto, embedded negli eventi, il braccio mediatico che segue la volontà del Qatar di orientarli in una certa direzione politica. E poi la Siria, forse il punto più basso mai raggiunto dall’emittente qatarina: dopo un iniziale silenzio sulle prime manifestazioni nel paese, la decisione di supportare i “ribelli” anti-Assad. Ovvero una parte soltanto: quella armata, più violenta, che incita al conflitto settario. Come se i pacifisti, la società civile siriana scesa in piazza a mani alzate non fosse mai esistita. Lo scivolone professionale più grande, in linea con le manie di onnipotenza di poter orientare il conflitto in Libia in una certa direzione piuttosto che in un’altra.
Alla luce del post-2011, dunque, possiamo dire che l’Arabia Saudita e i suoi alleati abbiano ragione? Che Al Jazeera e il Qatar vadano messi a tacere, colpevoli di fomentare il terrorismo e incitare all’odio settario, sunniti contro tutto il resto del mondo arabo? A qualsiasi attento analista che segua la geopolitica della regione e i suoi media non sfugge il paradosso di questo quesito, soprattutto se viene formulato da una coalizione al cui capo c’è il Paese forse più contraddittorio di tutto il Medio Oriente, l’Arabia Saudita. Chi segue i media sauditi, sia quelli dentro il Paese che le miriadi di bracci mediatici che il capitale saudita ha disseminato negli Emirati, in Bahrain, sa che il pericolo, una volta messa a tacere Al Jazeera, sarebbe l’imperialismo assoluto – anche mediatico – della monarchia al Saud. L’azzittimento di qualsiasi voce contraria in nome del capitale del petroldollaro, tutto sommato non troppo scomodo per gli americani, anzi. Salvaguardare Al Jazeera vuol dire comunque conservare una voce contraria, nonostante gli suoi eccessi, le arroganze, e i pericolosi scivoloni post-2011. Ma che per una volta si lasci vivere questa sorta di sgangherato pluralismo, che vero pluralismo non è – piuttosto un duopolio, uno scontro fra i due più ricchi titani del Golfo. Che per una volta si lasci giudicare alle audience arabe, certo capaci, più capaci di ognuno di noi, di orientarsi nel ginepraio geomediatico di una regione in costante e velocissimo cambiamento.

L’articolo di Donatella Della Ratta è stato pubblicato sul numero 25 di Left in edicola


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Ascanio Celestini: «Quel Pueblo che sta sempre alla finestra»

VENICE, ITALY - SEPTEMBER 07: Ascanio Celestini attends a photocall for 'Viva la Sposa' during the 72nd Venice Film Festival at Villa degli Autori on September 7, 2015 in Venice, Italy. (Photo by Elisabetta A. Villa/Getty Images)

Trascorrere del tempo con Ascanio Celestini, che sia un’intervista o una semplice chiacchierata, è un po’ come essere catapultati all’improvviso dentro le sue storie fatte di uomini semplici in lotta per la sopravvivenza. Che poi in realtà ci siamo già dentro, solo che non le vediamo. Ecco perché ascoltare i suoi racconti è come aprire gli occhi sul mondo. Zingari e barboni, baristi e cassiere, africani e cinesi: stavolta saranno loro al centro del nuovo spettacolo, Pueblo, che debutterà il 17 ottobre al Romaeuropa Festival. Nel frattempo lui ce lo presenta in anteprima a Napoli (19-20 giugno, Napoli Teatro Festival), Pistoia (23 giugno, Pistoia Teatro Festival), Sansepolcro (Kilowatt, 15 luglio), dove andrà in scena uno studio dello spettacolo: Che fine hanno fatto gli Indiani Pueblo?.
Ascanio, ti alleni per il debutto di ottobre?
La parola “allenamento” è perfetta. Lo spettacolo è come una maratona. I tempi sono più o meno quelli. Tra la maratona e la mezza maratona. L’inizio è decisivo, ma non troppo veloce perché bisogna avere il tempo per spezzare il fiato, poi è tutto un equilibrio tra te e quelli che ti stanno intorno.
Che fine hanno fatto gli Indiani Pueblo? è un titolo curioso, che ha come sottotitolo “Storia provvisoria di un giorno di pioggia”. Qual è stato lo spunto stavolta per la nascita di questo spettacolo?
Dépaysement, la seconda parte della trilogia che inizia con Laika e finirà con I Draghi tra un paio d’anni. Quello è il titolo in Belgio e Francia dove abbiamo già debuttato, mentre in Italia si chiamerà semplicemente Pueblo. Abbiamo debuttato al festival internazionale biennale di Liége e poi a Bruxelles e Parigi. In scena eravamo Gianluca Casadei, Violette Pallaro, Patrick Bebi e io. È un pezzo del lavoro che ci sta portando verso questa versione italiana che si chiamerà Pueblo.
Cinque anni fa stavo per debuttare con Discorsi alla nazione, un racconto sul potere (su chi ha il potere e chi non ce l’ha) e Marco mi ha chiamato per farmi incontrare i facchini che lavorano nei magazzini delle società che si occupano di logistica. Facchini africani che scaricano pacchi dai grossi camion, li misurano, li pesano e li fanno ripartire su autoveicoli più piccoli. Un lavoro alienante e sottopagato. Marco l’ho conosciuto dodici anni fa perché faceva parte di un collettivo che s’occupava del lavoro precario d’un grande call center. Anche allora m’aveva cercato per raccontarmi come si lavorava in quel posto. E adesso mi cercava per raccontarmi d’un altro luogo nascosto. Spesso quello che tu chiami “spunto” mi viene proposto da qualcun altro. E io ho bisogno di persone che mi chiamano per rimettere insieme le storie di quelli che non hanno la forza per farle ascoltare.
Anche questa volta ritroviamo i tuoi luoghi preferiti: le periferie, i bar, i marciapiedi… sei come gli assassini che tornano sempre sul luogo del delitto. Loro, però, sperano, forse, di cancellare qualche traccia, tu, invece, di tracce ne lasci tante nei tuoi spettacoli.
Io cerco sempre gli stessi personaggi animati da una vita che viene raccontata solo quando accade qualcosa di estremo (furti, stupri, omicidi), mentre a me piacciono quando si tengono sul confine della notizia. Un attimo prima che arrivino i giornalisti del telegiornale regionale.
Pueblo, come dicevi anche tu prima, è la seconda tappa di una trilogia partita da Laika, spettacolo bellissimo, che segna anche una piccola svolta nella tua carriera. Ti abbiamo conosciuto e amato come affabulatore, una specie di folletto che affascina con le sue storie, con Laika, invece, sei anche tu dentro la storia, sei un povero Cristo che ha vissuto sulla sua pelle le difficoltà della vita. Anche in Pueblo incarni un personaggio? E quali saranno i temi della terza e ultima parte della Trilogia?
In Pueblo il narratore sta alla finestra e immagina le storie delle persone senza conoscerle, un po’ come fanno gli scrittori, sia quelli che cercano di capire come funziona il mondo, sia quelli che cercano di capire come funzionano nel mondo. Nella terza parte saranno i personaggi a tirare fuori lo scrittore dal monolocale in cui vive. Il monolocale del suo cervello.
Ma Pueblo vorrei che fosse il racconto di quelli che se ne stanno alla finestra. Una qualunque, la finestra dello smartphone, del computer… una qualsiasi finestra che ti fa credere di essere al centro del mondo mentre stai invece in una periferia sfigata qualunque. E da quella periferia che vive all’ombra del mondo vero (anche se ti fanno credere che il mondo vero sei tu perché hai l’App più performante, il software più democratico) senti di essere sufficientemente protetto per dire qualsiasi cosa. E allora c’è quello che dice “Noi paghiamo gli immigrati per starsene tranquilli negli alberghi” o “noi mettiamo gli zingari nelle casette che gli fa lo Stato sempre a spese nostre. E poi le hai viste le donne? Sono tutte belle grasse, mica patiscono la fame”. E poi “Per me ci vuole solidarietà e carità cristiana, ma se quelli non se ne vanno ci vuole pure la ruspa”. E ancora: “La guardia di finanza multa mia moglie perché non c’ha lo scontrino in mano quando esce dal bar. E a questi non torcono un capello anche quando è risaputo che rubano e non pagano un cazzo”.
E ancora: “In Italia ha fatto più il Gabibbo della guardia di finanza e senza andare oltre a parole”. Sembrano invenzioni letterarie, ma sono frasi che ho registrato da gente vera al bar o preso dai commenti che si trovano in rete. Il razzismo che spiegherebbe (se qualcuno ne tenesse conto) per quale motivo s’è azzerata la differenza tra destra e sinistra e perso l’istinto di solidarietà che sempre avevano le classi sociali più in difficoltà. E non vado oltre a parole!
Le tue storie partono spesso da Roma, una città oggi abbandonata in cui è sempre più difficile vivere. In cosa sta sbagliando la giunta Raggi?
Non ho un giudizio sulla Raggi. Ma so in cosa sbaglia M5s: è un partito. Dovrebbe essere un movimento. Non basta mettere quella parola nel nome.
E i partiti delle Sinistra, invece, secondo te cosa non vedono del nostro Paese?
Dobbiamo essere radicali. Faccio un esempio. Gli immigrati arrivano nel nostro paese come quelli che saltano dalla finestra di una casa in fiamme. Non hanno scelta. Una persona di sinistra non ha il diritto di parlare di “respingimenti”, non può dire “aiutiamoli a casa loro”. Queste parole sono come le bestemmie in chiesa.
Ascanio, parallelamente al teatro stai già lavorando ad un nuovo film?
No. Ho fatto due film (La pecora nera e Viva la sposa) e sono finito due volte all’ospedale con un infarto isterico. Per adesso mi basta.

Farinetti e la “signorina” Marta Fana: così si spegne lo storytelling del padrone

Cinque minuti di televisione che sono il manifesto di un’era. Cosa è successo lo vedete qui:



Da una parte c’è Oscar Farinetti, il mago dello storytelling di un capitalismo che traveste i poveri da “fortunati frequentatori” di supermercati ammantati di ottimismo e dall’altra c’è Marta Fana, una ricercatrice che come tanti se n’è andata dall’Italia per cercare un Paese all’altezza delle proprie aspirazioni.

Farinetti, al solito, ci mette la sua melassa narrativa per raccontare di un’Italia che deve ripartire grazie alla “fiducia”, come se con la fiducia, l’ottimismo e un po’ di letteratura funzionale alla promozione della frutta e della verdura i giovani possano costruirsi una vita dignitosa. Farinetti è uno di quegli imprenditori che sognano di essere ringraziati ogni ora tutto il giorno dai concittadini e dai dipendenti per l’opportunità di averlo conosciuto. Farinetti è il mago del senso del lavoro talmente bistrattato che alla fine diventa un privilegio: è perfettamente funzionale a questa epoca di schiavismo edulcorato.

In trasmissione però non trova i soliti vassalli pronti a bersi la sua narrazione. C’è una persona vera, di quelle che tutti i giorni frequentano una generazione tradita. E Marta Fana, tranquilla, sciorina tutte le contraddizioni di chi impoverisce i diritti e intanto raddoppia i prezzi dei legumi.

E come reagisce lui? Promette querela. Al solito. Non risponde. Al solito. Ma soprattutto si rivolge a Marta Fana chiamandola “signorina”. Signorina. Come un padre di famiglia con una giovinastra che è troppo discola. Signorina come si usa per sminuire infilandola in una categoria non all’altezza, senza nemmeno meritarsi un nome e un cognome.

E in quel “signorina” lì c’è tutto lo sprezzo dei padroni che sembrano tornati padronali come potevano permettersi solo cinquant’anni fa.

Buon venerdì.

Una storia di sinistra

Forse la sinistra, una sinistra vera, avrà bisogno di un nuovo linguaggio. Dovrà imparare ad usare le parole esistenti per comporne di nuove. Per poter parlare a tutti quelli che avranno la sensibilità di ascoltare e capire il senso.
Prima di questo sarà necessario separarsi dalle parole che non hanno senso. O meglio forse dalle parole che contengono idee false sulla realtà umana.
Già perché la sinistra, se vuole esistere, deve avere idee certe e chiare sulla realtà umana.
La quale realtà umana comprende una realtà fisica e una realtà psichica che si forma alla nascita e scompare alla morte. La realtà fisica non scompare con la morte. I resti del corpo possono continuare ad esistere per millenni.
Quello che scompare immediatamente con la morte del corpo è la realtà psichica. Non c’è più la realtà non materiale. Non c’è più il pensiero.
Si dirà: è ovvio, lo sanno tutti. No. Non è ovvio per niente. Altrimenti non ci sarebbero così tanti credenti in una vita dopo la morte. Si dirà: è ovvio a sinistra. Lo sanno tutti. No. Nemmeno a sinistra è ovvio. Troppi a sinistra pensano ancora che l’unica realtà di cui occuparsi, in politica e non solo, sia il benessere del corpo.
In questo modo la Chiesa e le religioni dominano senza ostacoli la realtà non materiale.
Certo sono scelte private. Le scelte personali di ognuno non si discutono. Ma è importante che un partito che si propone di essere di sinistra abbia idee chiare: la religione non è pensiero. Le idee religiose sono un “non-pensiero” inteso come un pensiero opposto al pensiero umano. Perché la religione impone un rapporto con un essere che in realtà non è (dio) mentre gli esseri umani cercano il rapporto con un altro essere che è (un altro essere umano). La sinistra deve comprendere che la realizzazione umana non è solo una realizzazione del corpo. Il benessere del corpo è procurato da cose materiali. Il cibo per nutrirsi, una casa dove abitare, i vestiti per proteggersi dal freddo. Tutto quello che è necessario per il benessere del corpo.
La vita sarebbe tutta qui, nel benessere del corpo? Certamente no. Questo è ben chiaro a tutti.
La sinistra però non si occupa di cosa significa il benessere della realtà non materiale. Si interessa solo ai bisogni del corpo e a tutto ciò che può servire al bisogno del corpo.
Ma cosa altro è importante per la sinistra allo scopo di realizzare un benessere non soltanto materiale?
Massimo Fagioli chiamava la realizzazione di tutto ciò che non è materiale la realizzazione delle esigenze che si doveva accompagnare alla soddisfazione dei bisogni materiali.
Ma cosa sono le esigenze?
Alessia Barbagli, un’amica professoressa, qualche anno fa ad un convegno, raccontò una storia che è abituata a raccontare ai suoi studenti di prima.
«Se potete scegliere tra mangiare una torta o leggere un libro, cosa scegliete?»
Il più dei ragazzi, quasi tutti, risponde: la torta!
Poi c’è la domanda successiva: «Come siete cambiati in conseguenza della vostra scelta?»
Tutti i ragazzi capiscono che la scelta della torta è una buona scelta ma che ha vita breve. Dopo che l’hai mangiata non ti rimane niente. Sei uguale a prima. Magari meno affamato, ma uguale a prima.
Il libro, dopo che lo hai letto, ti cambia. Perché ti fa pensare delle cose che altrimenti non avresti pensato.
Questo piccolo esempio rende evidente che quello che fa cambiare e trasforma le persone è la trasformazione del pensiero. Il corpo deve invece mantenere il suo equilibrio, non deve cambiare. Il cambiamento del corpo è malattia. La trasformazione della mente è evoluzione e realizzazione.
La sinistra deve certamente perseguire politiche economiche per una maggiore distribuzione della ricchezza per una migliore soddisfazione dei bisogni di tutti.
Poi, soddisfatti i bisogni, l’obiettivo è la realizzazione delle esigenze. È questo che le persone vogliono. Realizzare se stesse. Ed è questo che la Chiesa cattolica e più in generale i monoteismi, non vogliono. Che la gente pensi. Che la gente legga. Che la gente si liberi dalle credenze.
La sinistra deve liberarsi della parola comunità. È una parola che intende uno stare insieme legato alla realtà materiale. La comunità condivide dei beni. Sono i beni che tengono insieme la comunità. C’è un interesse materiale in comune.
La sinistra deve invece riscoprire la parola collettività. La collettività è stare insieme senza un bene comune. È uno stare insieme fine a se stesso. Si potrebbe dire che c’è un fine di ricerca. Un fine di stare insieme per trasformarsi e realizzare se stessi.
L’Analisi collettiva di Massimo Fagioli non avrebbe mai potuto chiamarsi “Analisi comune”. Perché nell’Analisi collettiva non c’è mai stato uno stare insieme con un fine materiale. C’è sempre stato uno stare insieme per realizzare esigenze. Esigenze di cura, di formazione e di ricerca. C’è stato uno stare insieme che era una storia diversa… una storia d’amore. C’è stata una realizzazione collettiva che è diventata realizzazione personale di ognuno.
L’Analisi collettiva è stata una storia di sinistra.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto dal numero di Left in edicola


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Legge sulla tortura, così gli apparati militari rendono subalterna la politica

Secondo il sociologo canadese Denis Szabo: «la polizia? La si approva o la si critica, non la si studia». Si rende necessaria questa premessa per entrare nella discussione relativa all’introduzione nella nostra legislazione del reato di tortura, quale strumento di tutela dei cittadini e dei poliziotti nei confronti di eventuali deviazioni comportamentali da parte degli operatori e ricercare altresì alcune risposte nel merito di dichiarazioni fatte dai responsabili delle polizie contrari alla sua formulazione. La massima dello studioso canadese è sacrosanta; nel nostro Paese va registrata nell’ambito dell’erogazione dei diritti prioritari quali salute, scuola, sicurezza interna ed esterna una continua verifica da parte dei cittadini della funzionalità delle strutture sanitarie e dell’istruzione, ma difficilmente si pone attenzione a quelle preposte alla sicurezza. A cavallo degli anni 70-80 le nostre istituzioni repubblicane sotto la spinta dei grandi movimenti e degli stimoli provenienti dall’interno di alcuni dei cosiddetti corpi armati, al fine di contrastare meglio il terrorismo, che martoriava il Paese, misero mano alle riforme degli apparati. Il legislatore formulò la legge 1 Aprile 1981 n. 121, che smilitarizzava la Polizia, trasformando il Corpo delle guardie di Pubblica sicurezza in Polizia di Stato. Solo nel 1990 con la legge n. 395 si giunge alla smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia con la creazione della polizia penitenziaria: quindici anni dopo la riforma carceraria del 1975. Dopo questi appuntamenti progressisti il Paese e la legislazione in generale hanno prodotto solo iniziative culturalmente “regressive” e di indirizzo specialistico come la Dia (direzione investigativa antimafia ) e la Dda (direzione distrettuale antimafia). Il blocco delle riforme di settore sono coincise con il tracollo della cosiddetta prima Repubblica e del sistema di rappresentanza proporzionale e dei partiti di massa e con l’avvento della seconda Repubblica attraverso il sistema elettorale maggioritario avente come sfondo lo stragismo di Cosa nostra. Il riposizionamento della politica, la scoperta a Bologna nel novembre del 1994 dei criminali della cosiddetta Uno bianca composta in maggioranza da poliziotti, faceva traballare la riforma. Il 12 maggio 1995, con un governo tecnico in carica, si delineava il revanchismo dei comandi dei corpi militari e il tradimento del patto riformista all’interno della polizia mediante l’emanazione di tre decreti legge: la 195 e 197 in materia di rapporti di impiego e di riallineamento delle carriere fra le polizie a status civile e quelle a status militare e forze armate. La legge 196, invece, incentivava il reclutamento di personale volontario nelle forze armate, prevedendo per la prima volta la possibilità di uno sbocco nelle forze di polizia per coloro che avessero terminato la ferma volontaria. Di fatto, i principi culturali che avevano ispirato la riforma di polizia venivano risucchiati dalle esigenze di tutti gli altri corpi militari. Il non-studio delle polizie e delle forze armate porterà la politica a essere presa per mano da questo o da quell’altro responsabile di apparato in un rapporto di totale subalternità: un neo cadornismo, ovvero l’autonomia delle gerarchie e degli apparati militari e della sicurezza dalla politica. Dunque, il peso degli apparati di difesa interna ed esterna è tale che possono coi loro legami inficiare progetti di legge non graditi. La legge di riforma di polizia 121/81 è la vera vittima di questa auto rappresentazione politica delle gerarchie. Il protagonismo culturale dei corpi dello Stato trova il momento più importante nel 1999 con l’intervento a fianco delle truppe Nato nella guerra dei Balcani. Con la legge 31/3/2000 n. 78 si prevedeva la collocazione autonoma dell’arma dei carabinieri a rango di forza armata, provocando un ulteriore riassetto delle carriere direttive e dirigenziali della Guardia di finanza e della Polizia di Stato. Mentre le gerarchie dei corpi facevano le proprie riforme, i ruoli esecutivi stavano a guardare. In questa cornice storica si inseriscono le battaglie per le verità su Genova, il fallimento per l’insediamento della commissione d’inchiesta parlamentare 2007, la bocciatura di Lidia Menapace alla presidenza della commissione Difesa e nel 2012 l’insediamento a ministro della Difesa di un ammiraglio. Sarebbe opportuno riequilibrare il peso politico di questi apparati, i quali giungono fino ad esprimere una sorta di veto non scritto all’approvazione della legge sul reato di tortura presentata in parlamento, obbligando “pezzi” di società a schierarsi in una sorta di appello, di richiesta di voto di fiducia ai cittadini in un momento di particolare insicurezza sociale.

Articolo pubblicato su Left n. 21 del 27 maggio 2017

La Cina è sempre più vicina

HONG KONG - JUNE 04: Thousands of people take part in a candlelight vigil on the 24th anniversary of the Tiananmen Square protests during heavy rain on June 4, 2013 in Hong Kong, Hong Kong. Held to mark the crackdown on the pro-democracy movement in Beijing's Tiananmen Square on June 4, 1989.Pro-democracy groups hope to draw 150,000 people to the annual candlelight vigil in Hong Kong's Victoria Park, the only commemoration on Chinese soil. (Photo by Lam Yik Fei/Getty Images)

Il giorno stesso delle celebrazioni del ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese, il nuovo governo di Carrie Lam giurerà. Nessuno pensa che sarà più democratico, anzi. Ci sono forti possibilità che farà diventare legge l’articolo 23 della Basic Law, così la libertà d’espressione e quella di associazione saranno ulteriormente represse». A Hong Kong, Au Loong Yu è un attivista rivoluzionario di lunga data, tra quelli più in vista. Ha partecipato alla cosiddetta Rivoluzione degli ombrelli del 2014 (che rivoluzione non fu), ma è stato presente in qualsiasi sommovimento precedente a quella stagione di lotta. Oggi, mentre si avvicina l’anniversario del 1 luglio 1997, quando il Regno Unito “restituì” la propria colonia alla Cina, fa il punto sulla situazione della Zona Amministrativa Speciale.
L’articolo 23 della Basic Law – la mini costituzione di Hong Kong – prevede che il governo locale vari apposite leggi «per proibire qualsiasi atto di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il Governo centrale del popolo [cinese, ndr] o furto di segreti statali, per vietare a organizzazioni o organismi politici stranieri di svolgere attività politiche nella regione e per proibire alle organizzazioni o agli organi politici della regione di stabilire legami con organizzazioni o organismi politici stranieri».
Il varo di tali leggi restrittive è stato eluso per molti anni a causa delle proteste. «Ma ora si teme che lo faranno», dice Au.
Come ogni anno, in occasione dell’anniversario ci sarà la manifestazione di protesta indetta dal Civil human rights front, un raggruppamento plurale e moderato. «Tuttavia quest’anno si percepisce molto nervosismo da parte del governo, perché è stato ipotizzato che alle celebrazioni possa partecipare anche il presidente cinese Xi Jinping», dice Au. Ma se non ci saranno provocazioni, tutto dovrebbe svolgersi pacificamente. La gente è molto demoralizzata».
La presenza del capo di Stato e segretario del Partito comunista cinese sembra data ormai per assodata. Per il presidente sarà la prima visita nell’hub finanziario asiatico dalla salita al potere nel 2013 e quindi anche la prima dalle manifestazioni per il suffragio universale che bloccarono il centro della metropoli per 79 giorni, portando alla ribalta il malcontento contro la crescente influenza di Pechino sulla politica locale. Dalla piazza emerse soprattutto una nuova generazione di attivisti per la democrazia, impersonificati nella figura di Joshua Wong, all’epoca appena sedicenne. Le ragioni politiche si intrecciavano con quelle economiche. Non soltanto i dimostrati chiedevano il suffragio universale per l’elezione del capo del governo locale. Oggi infatti il chief executive, tanto per ricordare la preponderanza dell’economia, viene nominato da un comitato composto in parte da parlamentari locali e in parte dai rappresentanti delle professioni e delle élite industriali e finanziare. Le manifestazioni prendevano di mira la pretesa di Pechino di poter aver l’ultima parola sui candidati, di fatto ponendo un argine a possibili governi che andassero contro i desiderata cinesi…..

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Livio Pepino: «Per la lista unica di sinistra, volti nuovi e niente scheletri nell’armadio»

Mentre ci si avvicina al secondo turno delle amministrative e diventa sempre più stretto il rapporto tra Mdp e Giuliano Pisapia che il 1 luglio convoca il suo Campo Progressista a Roma, continuano le reazioni dopo l’assemblea al Teatro Brancaccio del 18 giugno. All’appello per una lista unica di sinistra lanciato da Anna Falcone e Tomaso Montanari hanno aderito in molti, e tra questi c’è anche Livio Pepino, ex magistrato prestato all’editoria (cura le edizioni del Gruppo Abele). «Io sono uno dei molti che spera che sia questa sia la prospettiva giusta e cercherò di dare una mano» dice dopo l’incontro.
Durante il suo intervento aveva toccato tre punti, di cui uno era quello delle alleanze. Cioè, lei ha detto, non deve essere questa la principale preoccupazione per costruire una lista unitaria.
Bisogna partire dalle fondamenta e non dai tetti come ha detto anche Tomaso Montanari. Cioè bisogna partire dal programma, dalla forza delle associazioni che rispondono all’appello. E visto che c’è un po’ di tempo ancora, visto che la scadenza elettorale non sarà immediata, occorre stilare un un programma coerente e dopo di che procedere, senza fare l’esame del sangue a nessuno e senza fare recriminazioni sulle storie personali di ognuno. La cosa importante è che ci sia un’adesione convinta al programma, se non c’è, è inutile dire che mi alleo con Tizio, Caio o Sempronio. Ricordiamoci che nel passato questo modo di agire ha portato a sconfitte, come quelle della lista Arcobaleno.
Qual è la sensazione rispetto all’assemblea del 18 giugno?
C’è molto da lavorare, ma mi sembra una buona partenza, c’è stata un’ottima adesione, si sono ascoltati buoni interventi. Questa però è solo la premessa. Si gioca la prima parte della partita nei prossimi due mesi. A settembre bisogna capire se questo appello ha avuto nei territori delle reazioni positive, se c’è mobilitazione forte, voglia di costruire. Io credo che possa funzionare, ripeto, le premesse in qualche modo ci sono, anche se sono tutte le da verificare.
Nel secondo punto da lei toccato, ha parlato di chiarezza nel programma e nell’agire politico.
La chiarezza è collegata naturalmente al primo punto. La cosa importante è il radicamento nel territorio: ora questo potrebbe essere l’ennesimo slogan, ma per me significa che bisogna cercare di mettere insieme e di far ragionare tra di loro una serie di realtà che nel territorio ci sono, fanno cose interessanti e sono orientate verso prospettive egualitarie e però sono distanti dalla politica. Sono associazioni, sono persone che lavorano con i migranti, una parte dei movimenti studenteschi, pezzi del mondo del lavoro che non si sentono rappresentati, ma che però esistono. Ci sono tanti spezzoni che non hanno rappresentanza, il problema non è pensare alla sinistra come a un luogo del Parlamento, il problema è pensare a questi pezzi qui, che se si mettono in rete e in collegamento tra di loro possono fare molto.
Non saranno solo speranze?
Non sono un ingenuo movimentista che pensa che si possa realizzare tutto da un giorno all’altro, ma alcune esperienze ci sono nel mondo. Quello che ha fatto la differenza in Inghilterra con Corbyn e negli Usa con Sanders è stata la mobilitazione di una serie di settori che non lo facevano da decenni e che lo hanno fatto. Hanno trovato un riferimento. E al di là della distinzione vecchi-giovani, perché non è questo il problema, il problema è la coerenza del progetto, dire le parole giuste e avere una storia senza scheletri nell’armadio.
E a proposito di scheletri nell’armadio, lei ha detto al Brancaccio che è un errore non aver fatto una discontinuità con il passato.
Io parto da un’analisi sia del non voto che su quello che in parte, in Italia come in altre parti d’Europa, è diventato un “voto di vendetta” come l’ha chiamato Marco Revelli. In quel 20% delle classi subalterne che negli Usa ha votato per Trump, credo che nessuno pensasse che lui avrebbe risolto i suoi problemi ma che almeno con quel voto gliel’avrebbe fatta pagare agli altri. Anche il voto dei 5 stelle io lo vedo in quest’ottica. Lo si è visto sin dalle prime manifestazioni, quelle del vaffa. Ecco, questo è il sentire comune, io credo a torto ma in buona parte anche a ragione. Ora noi non bisogna cavalcare la demagogia, bisogna fare discorsi seri ma con modalità, facce, parole, forma di rappresentanza che dimostrino effettivamente che si è voltato pagina. E questo al di là delle responsabilità soggettive, perché non è vero che tutti sono uguali. In questi anni c’è chi ha sbagliato. E quando il ceto politico ha perso credibilità per una serie di ragioni, non è che glielo puoi riproporre agli elettori.
E allora cosa fare, come conciliare i vari pezzi dell’alleanza?
Il problema è che non bisogna escludere a priori nessuno. Ma se domani le liste possono anche comprendere pezzi che hanno fatto politica in passato tuttavia devono esserci in prevalenza volti nuovi, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Il senso deve essere quello di un’altra cosa, diversa dal passato. Certo, bisogna dare delle risposte giuste. Per esempio, nel dibattito sulla sicurezza, a chi ha paura non si può dire non devi avere paura, bisogna saper dare delle soluzioni. A chi dice che questo sistema non funziona, è marcio, non gli puoi dire non è vero, gli devi dare delle risposte che, se mai dimostri che su alcuni punti ha torto, ma deve essere una risposta diversa che lo deve portare da qualche parte. Se no, faremo dei programmi bellissimi e nessuno li sosterrà.
Come deve essere una politica seria di sinistra?
Chi è riuscito di nuovo ad aggregare è riuscito a fare una politica concreta: in una città deve aprire delle mense, ambulatori medici gratuiti ecc. Insomma bisogna dare risposte alle persone. Se lo fai, la gente si fida e allora puoi essere anche credibile nel momento in cui fai anche dei progetti più ampi. Oggi, siccome tutti promettono ogni sorta di cosa, e la realtà poi è estremamente deludente, la reazione dell’opinione pubblica è quella di sfiducia.

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Ispirò “Il ponte delle spie”. Morto a 91 anni Yuri Drodzov, il compagno Vympel del KGB

La spia leggendaria è morta, ha detto il presidente della Federazione russa. Il soviet spymaster Yuri Ivanovich Drodzov è sopravvissuto a molte guerre, di cui una fredda, molte operazioni del Directorat S, l’ala segreta del KGB, e si è spento a 91 anni. Con un tweet il servizio di intelligence russo ne ha comunicato la fine, senza specificare ulteriori dettagli: “Il leggendario Vympel e fondatore degli spetnaz è morto”. Yuri che ha ispirato sia Il ponte delle spie, film americano, sia Lo scudo e la spada, quello sovietico, era nato a Minsk, Bielorussia, nel 1925.

Nel 1956 entrò nel KGB. Oltre alle lingue, aveva studiato teatro, per imparare “l’arte della personificazione”. Come si legge nella biografie di molti agenti, era passato per l’istituto militare delle lingue straniere. Lì il futuro comandante studiò tedesco, come Vladimir Putin e come Putin, fu spedito sotto falsa identità in Germania Est per collaborare con la Stasi.

Nel 1975 fu attivo in America, nel 1979 in Afghanistan e a Kabul è una delle menti dell’operazione contro il presidente Hafizullah Amin. È un successo senza precedenti. Quando torna in patria, assume la direzione dello spezgruppa V, o anche Gruppo Vega, sempre V di Vymbel, che vuol dire vessillo. Le spie da lui addestrate erano i suoi “wunderkind”, bambini prodigio, i suoi agenti speciali, targati V, quella V con cui tutti indicavano lui.