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Caso Don Milani, perché la sua idea di scuola cattolica e privata è da rifiutare con forza

Un ulteriore approfondimento di Giuseppe Benedetti sulla figura di don Milani dal punto di vista pedagogico. 

Provo a replicare alle rare critiche, tra i tanti insulti. L’articolo (vedi Left del 17 giugno ndr) non è l’analisi con gli occhi di oggi di una realtà vecchia di 50 anni, ma la riflessione sul senso di una celebrazione che porta inevitabilmente con sé l’influenza della Lettera di una professoressa nel dibattito pedagogico e nella realizzazione di riforme scolastiche anche recentissime. L’articolo non corrisponde alla già vista autoflagellazione di una parte della sinistra che vuole distinguersi preparando così l’ennesima sconfitta, ma un tentativo di far chiarezza su un mito che ha relegato la sinistra a un ruolo subordinato rispetto al cattolicesimo nell’elaborazione di idee da sostenere e diffondere per diventare forza di governo. Avrei condiviso il contenuto della Lettera se si fosse limitata a denunciare le storture della scuola classista del tempo invece di aggredire un sistema che, con la riforma della media unica, cominciava a tradurre in realtà il dettato costituzionale. Per don Milani, l’unica alternativa era nell’educazione cattolica, come si può leggere nel florilegio seguente (le pagine tra parentesi, dopo ogni citazione, si riferiscono alla pubblicazione della Libreria Editrice fiorentina, 1996, Firenze).

«La maestra è difesa dalla sua smemoratezza di mamma a mezzo servizio […] Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire» (41-2).
«Certe scuole di preti sono più leali. Sono strumento della lotta di classe e non lo nascondono a nessuno. Dai barnabiti a Firenze la retta d’un semiconvittore è di 40.000 lire al mese. Dagli scolopi 36.000. Mattina e sera al servizio d’un padrone solo. Non a servire due padroni come voi» (65)
«La buona fede degli insegnanti è un problema a parte. Siete pagati dallo Stato. Avete le creature davanti. Avete studiato storia. La insegnate. Dovreste veder chiaro. Certo delle creature vedete solo quelle scelte. La cultura v’è toccata farvela sui libri. E i libri sono scritti dalla parte padronale. L’unica che sa scrivere. Ma potevate leggere tra le righe. Possibile che siate ancora in buona fede? Cerco di capirvi. Avete un aspetto così rispettabile. Non avete nulla del criminale. Forse qualcosa del criminale nazista. Cittadino onestissimo e obbediente che registra le casse di sapone. Si farebbe scrupolo a sbagliare una cifra (quattro, quattro meno), ma non domanda se è sapone fatto con carne d’uomo» (77-8)
«La scuola a tempo pieno presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario […] L’altra soluzione è il celibato» (86)
«il vostro orario è indecente […] La scusa che avete da rivedere i compiti a casa e da studiare non vale. Anche i magistrati hanno da scrivere le sentenze. Voi poi i compiti potreste non darli. E se li date potreste correggerli coi ragazzi nel tempo che li fanno» (88)
«Finora si diceva che la scuola statale è un progresso rispetto alla privata. Ora bisognerà ripensarci e rimettere la scuola in mano d’altri. Di gente che abbia un motivo ideale per farla e farla a noi» (89)
«I maestri valgono perché son stati poco a scuola. I professori sono quello che sono perché son tutti laureati» (114).
«Tre anni su Dante. Neanche un minuto solo sul Vangelo. Non dite che il Vangelo tocca ai preti. Anche levando il problema religioso restava il libro da studiare in ogni scuola e in ogni classe. A letteratura il capitolo più lungo toccava al libro che più ha lasciato il segno, quello che ha varcato le frontiere. A geografia il capitolo più particolareggiato doveva essere la Palestina. A storia i fatti che hanno preceduto accompagnato e seguito la vita del Signore. In più occorreva una materia apposta: scorsa sull’Antico Testamento, lettura del Vangelo su una sinossi, critica del testo, questioni linguistiche e archeologiche. Come mai non ci avete pensato? Forse chi v’ha costruito la scuola Gesù l’aveva un po’ in sospetto: troppo amico dei poveri e troppo poco amico della roba» (120-1).

Nel fine settimana abbiamo salvato una banca

Cos’è la politica? La messa in pratica della custodia delle nostre priorità. In generale, voto un partito politico perché credo che si occuperà dei temi che mi sono cari: se sono oppresso voterò il partito che mi promette di occuparsi di diritti, se sono mafioso voto il partito che si batte per salvare mafiosi e corrotti, se sono ricco sfondato e con poco talento voto il partito cha mi garantisce il rafforzamento dello status quo, e così via.

È semplice, la politica. Banale, talvolta: il partito degli oppressi sarebbe di gran lunga il partito di governo se non fosse che si fatichi così tanto nel trovare un oppresso in giro.

La politica, appunto. In questo fine settimana ha rinunciato al sole, il mojito e l’ombrellone ha deciso di salvare le banche. Ancora, sì, lo so.

“È stata decisione importante, urgente e anche necessaria – ha detto il premier Paolo Gentiloni – confido ora in un sostegno ampio da parte del parlamento”. Il decreto entra subito in vigore per garantire la normale operatività bancaria e la regolare apertura degli sportelli domani mattina. A stretto giro arriveranno, poi, il decreto del ministero dell’Economia per la liquidazione e la nomina dei commissari da parte della Banca d’Italia. “Le risorse mobilizzate dallo Stato a favore dell’operazione di salvataggio delle banche venete hanno un valore fino a un massimo di 17 miliardi”, ha spiegato Padoan annunciando per Intesa”risorse per 4,785 milioni” che serviranno a coprire “le operazioni necessarie a mantenete la capitalizzazione e il rafforzamento patrimoniale di Banca Intesa a fronte dell’acquisizione delle due banche”. Altri 400 milioni, devieranno per le “garanzie attivate per fronteggiare i rischi legati al completamento della due diligence nei confronti dello stock delle sofferenze”.

A proposito di priorità. Appunto. Avete salvato una banca.

Buon lunedì.

Comunali, il fallimento del Pd di Renzi mentre il centrodestra esulta

Daniela Santanché (d) e Ignazio La Russa (c) durante i festeggiamenti di Marco Bucci, candidato del centrodestra, dopo i risultati dei ballottaggi alle Comunali di Genova, 26 giugno 2017. ANSA/ LUCA ZENNARO

Gli italiani hanno lasciato i loro Comuni nelle mani del centrodestra targato Berlusconi-Salvini, ma hanno rifiutato con uno schiaffo sonante la politica del partito democratico di Matteo Renzi. Il segretario appena eletto con primarie plebiscitarie è stato “respinto” in modo netto dagli elettori. Il Pd  ha perso Genova, dopo aver perso in precedenza la Regione Liguria. Una sconfitta fondamentale che provocherà reazioni a catena, dentro e fuori il partito. L’ennesima, dopo che alle comunali del 2016, il Pd aveva perso sia Roma che Torino. Ma è stata una frana generale per il partito democratico, soprattutto nelle aree “rosse”.
E’ stata anche la domenica della grande astensione, visto che la media dei votanti è meno del 50 per cento – i primi dati parlano di un 47 % rispetto al 58,9% del primo turno. A Trapani l’affluenza minima, circa il 30%, ha consegnato la città nelle mani del commissario, visto che c’era un solo candidato.

E al di là del caldo afoso forse ci sono altre ragioni che spiegano un allontanamento dalle urne così clamoroso.
Oltre alla sfiducia degli oltre 4 milioni di cittadini chiamati a esprimersi su 111 Comuni di cui 22 capoluoghi di provincia, gli elettori di sinistra non hanno creduto al partito democratico. Perché è davvero  il centrosinistra la principale vittima di questo turno elettorale. Nelle 22 città capoluogo 13 erano amministrate dal centrosinistra, 4 dal centrodestra, tre da liste civiche e due erano retti da commissari. Ebbene, ovunque ha dilagato il centrodestra, anche là, come L’Aquila dove il candidato del centrosinistra Di Benedetto si era presentato dopo il primo turno con un notevole risultato, il 47%. E invece ieri la débacle. Lo stesso sindaco uscente Cialente non riusciva a spiegarsi una tale sconfitta. La destra unita ha vinto anche a Sesto San Giovanni, la “Stalingrado” d’Italia, la città “rossa” per eccellenza. Nella città lombarda era arrivato anche Walter Veltroni a tenere un comizio, una delle rare uscite dei big del partito, visto che anche lo stesso Renzi si è defilato dalla campagna elettorale, forse presagendo il clima ostile. La destra, stando ai risultati delle prime ore dello scrutinio, ha vinto anche a La Spezia, a Oristano, a Como, a Piacenza, Pistoia, Rieti, Monza, Alessandria, Catanzaro. E anche a Verona dove Renzi aveva invitato i suoi a votare per la lista civica dell’ex sindaco Tosi con Patrizia Bisinella.
Per quanto riguarda il M5s ha vinto, nelle città, solo a Carrara dove De Pasquale ha battuto il candidato del centrosinistra. A Parma il successo è andato in maniera netta all’ex M5s Pizzarotti che si è presentato con una sua lista civica. E a proposito di liste “dal basso”, successo di Massaro alla guida di una coalizione di sinistra a Belluno, mentre la lista padovana di Lorenzoni, una delle sorprese del primo turno, ha appoggiato il candidato del centrosinistra Giordani facendolo vincere su Bitonci del centrodestra. Insomma, là dove il centrosinistra ha stabilito un’alleanza con forze di sinistra ce l’ha fatta. Ma sembrano esperienze sporadiche, locali, più che decise dall’alto. Esperienze di sinistra unita e civica. Giordani lo dice, appena dopo il risultato: “Non voglio più divisioni o liti. Il nostro può essere un esperimento politico interessante da esportare anche a livello nazionale”. Il Pd di Matteo Renzi ha perso in tutte le città dell’Emilia Romagna, a Sesto San Giovanni, a L’Aquila. Al Sud è andata meglio per il centrosinistra, a Taranto e a Lecce, e sembra quasi che sia accaduto più per l’influenza di Emiliano che di Renzi.

A questo punto il Pd di Matteo Renzi appare sempre più isolato in un suo dammatico arroccamento che ha dimostrato l’assenza di rapporto con la realtà dei territori. Non solo. Il Pd paga anche le scelte a livello nazionale, sia del governo Renzi che del suo erede Gentiloni. Dalla riforma costituzionale già sonoramente respinta al mittente al pasticcio della legge elettorale fino ad arrivare al ripristino dei voucher. Insomma, una serie di eventi che alla sinistra non è piaciuta per niente. Al di là del peso degli “scissionisti” del Mdp, sembra proprio che sia stata la base del Pd, la “pancia” del partito, che non ha risposto al suo segretario.

La destra ha sfruttato questa debolezza e ha stravinto mettendo insieme la Lega e Forza Italia, mentre il M5s rimane l’incognita. Ha vinto solo in otto comuni, ma cosa hano fatto gli elettori pentastellati? Avranno seguito l’indicazione di Grillo di astenersi o invece hanno dato il loro voto al centrodestra?

Jim Estill: «Ai profughi diamo un lavoro, non elemosine»

La casa, dove I consume the news, dove – letteralmente – “consuma le notizie”. Ti risponde così Jim Estill, imprenditore canadese, 60 anni, se gli chiedi dove si trovava esattamente, quando ha preso la decisione che ha cambiato la vita di centinaia di rifugiati siriani senza più pace, senza più destino, senza più patria. Ora si trovano con una casa, una vita, un lavoro, una chance in Ontario, Canada. Loro gli hanno mandato una mail e Jim ha risposto non offrendogli falsa solidarietà, ma un lavoro.
Un giorno del 2015 c’è un telegiornale che parla in un salotto in Canada. Jim è lì dentro. «Ho visto questa enorme crisi umanitaria in corso. Quello che è successo a quel punto è che ho presto la mia lista delle cose da fare, la mia to do list, e quando aggiungo qualcosa alla mia lista, generalmente viene fatta. Ho chiesto alla mia assistente di organizzare un incontro con chiese, sinagoghe, moschee, l’Esercito della salvezza. Abbiamo fatto degli incontri di un’ora. Io non amo i long meetings». La prima famiglia siriana che la Danby, l’azienda di Jim, ha “adottato” è arrivata nel gennaio del 2016 e l’ultima nel maggio 2017, ma «molte altre famiglie sono in arrivo», dice l’imprenditore. «Finora siamo riusciti a far arrivare 58 famiglie, quindi circa 200 persone. Tutti nuclei familiari, con figli, anche adolescenti. Oltre alle 58 famiglie, lavoriamo e sponsorizziamo altri 200, 300 rifugiati che vengono aiutati dal governo o altre agenzie della zona».
Jim, come ha deciso di compiere questo percorso e far arrivare i rifugiati siriani nella sua azienda per permettere loro di lavorare?
Mi ha aperto gli occhi ascoltare un rabbino che ha detto che una delle ragioni per cui l’olocausto era accaduto era perché molte persone rimanevano ferme, senza fare niente. Quando ho visto i filmati provenienti dalla Siria, ho pensato che le persone non facessero abbastanza o non abbastanza velocemente e un imprenditore diventa frustrato per la lentezza. That is why I took things into my own hands. Entrepreneurs tend to do that. Ecco perché ho preso le cose tra le mie mani, gli imprenditori tendono a farlo. Ho anche pensato: e se succedesse alla mia famiglia, cosa vorrei? Io non vorrei solo essere nutrito. Non vorrei solo una tenda, un posto dove vivere. Io vorrei una chance per ricostruire la mia vita, un piccolo aiuto per ricominciare.
Quanto le è costata questa operazione?…..

L’intervista a Jim Estill prosegue su Left in edicola


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La pillola della libertà compie sessant’anni

Nel giungo del 1957, sessant’anni fa, la Food and Drug Administration (Fda) degli Stati Uniti d’America autorizza la vendita di un nuovo farmaco capace di contrastare i disturbi mestruali. Si tratta di una combinazione di due ormoni (un estrogeno e Nel giugno del 1957, sessant’anni fa, la Food and drug administration (Fda) degli Stati Uniti d’America autorizza la vendita di un nuovo farmaco capace di contrastare i disturbi mestruali. Si tratta di una combinazione di due ormoni (un estrogeno e un progestinico) messa a punto nel 1951 da Carl Djerassi, in collaborazione con Luis Miramontes and George Rosengkranz, e sperimentata clinicamente dai medici John Rock, Celso-Ramon Garcia e Gregory Pincus nel 1954. Nulla di eccezionale. Non fosse che ben presto si scopre che, per l’effetto combinato dei due ormoni, il farmaco inibisce l’ovulazione nelle donne.
Così, tre anni dopo, nel 1960, la Fda approva l’utilizzo della Combined oral contraceptive pill (Cocp), la prima pillola contraccettiva. A partire da questa data, il farmaco viene distribuito in tutto il mondo con il nome di Enovid e con effetti sociali e culturali enormi. Nota ormai semplicemente come la pillola, la COCP fornisce un contributo determinante a realizzare quella che molti considerano la più importante rivoluzione del XX secolo: la rivoluzione femminile.
Proprio per questo non è il caso di celebrare la ricorrenza fermandosi non più di tanto sui meccanismi di funzionamento, ormai ben noti, del farmaco. Conviene invece fermarsi sui suoi effetti sociali e culturali: enormi, appunto, e, ancora oggi, niente affatto esauriti.
E già perché la Cocp di Carl Djerassi…

L’articolo di Pietro Greco prosegue su Left in edicola


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Il rap rende tutti cittadini del mondo

La scritta “Siamo cittadini del mondo” campeggia su una lavagna di ardesia, in una classe elementare di Tor Pignattara, Roma. È una foto, pubblicata su facebook, che ritrae una scena ormai familiare nelle nostre scuole primarie: alcuni bambini e poi un artista dai tratti somatici mediorientali. Sono tutti romani, tutti italiani. Cittadini del mondo, appunto. Il profilo social è dell’artista Amir Issaa, 38 anni. Lui a Roma c’è nato, da un padre egiziano arrivato per far fortuna, ma che poi ha avuto problemi con la giustizia, e una madre italiana che ha trasformato le difficoltà economiche in identità umana e professionale, quella dei suoi figli. Di questo e di molto altro ancora, di tutto quello che è Amir oggi, del fatto che è portavoce dei diritti delle cosiddette “seconde generazioni” di immigrati, parla in Vivo per questo, il suo libro autobiografico. Appena uscito per Chiarelettere, Amir lo porta nelle librerie, location cui è poco avvezzo, confessa, abituato com’è ai locali da concerto. Ma Amir, ancora una volta, si mette in gioco con la determinazione che da sempre lo contraddistingue, grazie all’ hip hop, che, attenzione, lui precisa, è un movimento culturale. Facile per lui parlare di Ius soli e delle battaglie contro il razzismo, un problema, dice, che tra i bambini non esiste. Musicista, cantante, è portavoce dell’integrazione e pur avendo lui la cittadinanza italiana, è pronto a combattere per chi non ce l’ha: quasi un milione di giovani italiani senza cittadinanza. È un problema culturale: «Bisogna accettare che non esistono Paesi in cui ci sono persone uguali, con lo stesso colore della pelle, ma bisogna godere di questa diversità, proprio come i bambini che non si pongono questi problemi».
Leggendo della tua infanzia, poi della tua gioventù, del tuo vivere il quartiere, della tua passione per l’hip hop, dove hai trovato, fin da piccolo, il coraggio per cambiare una condizione così disagiata, cercando una strada che ti desse una identità anche professionale?
Nella musica. Il rap è stato la chiave di tutto questo, mi ha dato la possibilità di esprimermi, di raccontare al mondo chi ero, di trovare un lavoro perché mi dà da mangiare da tanti anni. Sono stato fortunato, mi sono trovato subito un alter ego, una vita parallela dove nessuno ti chiede tutte le cose che ti chiede la società. È un mondo a parte, ti crei un nome, che non è il nome vero. Ho trovato il modo di incanalare quello che sentivo nell’arte, trasformandolo in quello che realizzo.
Il “questo” per cui vivi, dal titolo del tuo libro, che cosa è esattamente?
Il titolo è quello di una mia canzone, uscita nel 2004, molto conosciuta tra i ragazzi che seguono l’hip hop, in cui parlavo di quello che mi aveva fatto avvicinare a questo mondo, a questa cultura. Riportare quel titolo nel mio primo libro, a livello simbolico, è stato bello. Con la casa editrice abbiamo cercato un titolo non legato a un solo tema, come per esempio il discorso dello Ius soli o dell’integrazione, ma a tutta la mia vita.
Quando è iniziata la passione per la musica?
Avevo quattordici anni, mia sorella più grande ha portato a casa una cassetta dove c’era una canzone rap, io l’ho sentita e ho iniziato a cantarlo. Da quel giorno non ho smesso.
Il libro inizia con la descrizione di un momento familiare difficile: ci sono due bambini piccoli, uno sfratto imminente, si percepisce disagio, povertà. Naturalmente, parli della tua vita di anni fa, poi le cose come sono andate?
Non sono mai andate benissimo, ma c’è sempre stata mia mamma che ha bilanciato tutto quanto. Mio padre, quando è arrivato in Italia, ha avuto seri problemi con la giustizia, è stato fuori casa, diciamo, per un po’. Mia madre mi ha dato un’educazione, una strada da seguire, dei valori, soprattutto un esempio: si alzava la mattina presto, aveva due lavori e ha fatto tanti sacrifici. Io poi ho incontrato la musica, ma anche mia sorella sta bene, anche se lavora in un ufficio, e fa una vita totalmente diversa dalla mia.
Tu hai detto in una canzone: «Non mi sento discriminato, non mi sento un italiano di serie b, mi sento come tutti gli altri». Ma da piccolo non hai mai subito episodi di bullismo?
No, mai, mi viene da dire che l’unica che mi ha “bullizzato” è stata la vita all’inizio, proprio per quei problemi familiari. È stato l’unico bullismo che ho subito, ma mai dai compagni di scuola.
Sei un punto di riferimento per molti ragazzi che hanno, o hanno avuto, difficoltà di integrazione o problemi con l’ottenere la cittadinanza italiana. Tu da alcuni anni, grazie alla piattaforma Change.org, promuovi la petizione per il riconoscimento dello Ius soli: come sta andando?
Appena lanciata, la petizione è andata molto bene, poi il discorso si è arenato e, a periodi, come adesso, la rilanciamo. Sinceramente, non mi aspetto che passi la legge sullo Ius soli, non sono così illuso. Intanto, la società è andata già un pezzo avanti, quello che sta succedendo lo vediamo tutti quanti. In una qualsiasi scuola elementare o media vediamo che i ragazzi stanno crescendo tutti insieme, cittadinanza o non cittadinanza. È la politica a essersi fermata invece di seguire la società. Quello della cittadinanza lo usa come strumento elettorale, ma poi non fa nulla.
La cecità dei politici, come dici tu, di fronte a un contesto sociale che si trasforma, da cosa dipende?
La cittadinanza non la vedono come una priorità, come un tema importante, i politici sostengono che ci sono altre urgenze. In questo momento è un argomento scomodo anche se capisco che è un tema delicato, buttato in mezzo a un minestrone di altre cose che non c’entrano niente. Troppo facile fare un paragone tra quello che succede in tutto il mondo, basta pensare ai recenti fatti di Londra, e a quelle seconde generazioni, ma è un parallelismo sbagliato che i media usano tutti i giorni, io non ci voglio cadere. Sono certo che questa situazione sta creando solo confusione perché ci sono tantissimi ragazzi di seconde generazioni cattolici, protestanti, anche non religiosi, perché associarlo sempre alla religione islamica? Io, infatti, di religione non parlo proprio mai, non la trovo un argomento interessante.
Quando sei stato insignito dell’attestato di stima, in occasione della candidatura ai David e ai Nastri d’Argento per aver curato la musica del film di Francesco Bruni Scialla!, che cosa ti ha detto l’allora Presidente Napolitano?
Dopo quell’incontro al Quirinale, sì, ho lanciato la petizione e abbiamo invitato anche lui a firmare. Nel discorso di fine anno, in realtà, il Presidente ha parlato del diritto alla cittadinanza ai figli nati da genitori stranieri. Per questo ci piace pensare che lo stimolo eravamo stati io e gli altri ragazzi che si impegnano in questa battaglia, che come me contribuiscono ad arricchire la cultura italiana.
Hai un pubblico nutrito, lo si comprende dal seguito sui social, e adesso incontri la gente nelle librerie. Chi sono le persone interessate alle storie che racconti, anche rappando?
Il mio pubblico è eterogeneo: ragazzi giovanissimi, poi quelli che seguono la mia musica da anni, che vengono ai concerti, ma anche chi ha visto Scialla!. Quelli che condividono i miei messaggi sull’integrazione, contro la discriminazione. A un mio evento, possono venire adolescenti e anziani. I laboratori che faccio di scrittura rap, in questi giorni per promuovere il libro, sono frequentati da bambini che vengono insieme con i nonni: si mettono lì, scrivono le rime e si divertono.
Quale filo segue un tuo spettacolo?
Canto le mie canzoni e trattandosi sempre di storie importanti, profonde, mi piace spiegarle. Spesso racconto anche perché ho scritto quella determinata canzone, faccio lo storytelling. Devo dire che i miei lavori sono nati da un’urgenza, dovevo dire qualcosa. La mia performance si basa sul rap, che è una componente dell’hip hop, un movimento culturale in cui ci si esprime in varie forme: il rap che è quella vocale, poi c’è quella del dipingere, espressiva, artistica con i graffiti e poi quella del corpo che è la danza, la break dance. Ma io faccio rap, il modo nella mia vita per esprimermi.
Hai scritto un centinaio di canzoni. Se si possono definire, quali sono i contenuti più diffusi?
Da quelli più, diciamo, impegnati, ai classici sull’ amore, ma anche canzoni di protesta, di rabbia. Canto della mia ragazza, di mio figlio che ha diciassette anni, dei miei amici.
Da romano a tutti gli effetti, cresciuto proprio nel quartiere di Tor Pignattara, puoi dire come è cambiata questa città? Quali difficoltà ancora perdurano?
Per me, non è cambiata molto. Certo, si parla sempre delle questioni di tutti i giorni: i mezzi pubblici, l’immondizia, il caos, ma, per come l’ho vissuta io, la città è sempre stata “incasinata”. Lo avvertiamo di più in questo momento perché i social network amplificano il disagio, tanto. Sulla cultura però va detto che in passato c’erano più iniziative e si investiva di più, questo sì. Con la nuova amministrazione comunale non siamo ancora riusciti a capire in quale direzione stiamo andando, è un grande punto interrogativo.
Hai iniziato questo giro di presentazioni: a Roma e in tutta Italia…
Porto sempre la mia musica, faccio sentire i miei brani. Il libro è per me un pezzo del percorso che è iniziato con il rap: dalle storie in musica arrivare alla scrittura, dopo tanti anni. Direi che è solo una tecnica diversa.
Ti godi questo momento o pensi già a cosa fare per il futuro?
Sto lavorando a un disco che doveva uscire con il libro, ma poi ho pensato che avrebbe confuso le cose, che l’uno avrebbe azzerato l’altro. Ho preferito concentrarmi sul libro perché è una cosa nuova. C’è già un disco, però, tante canzoni nuove che vorrei far uscire in autunno e poi fare un tour. Portando naturalmente anche il libro dentro al mio live.

 

L’intervista ad Amir Issaa prosegue sul numero di Left in edicola


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Il nodo palestinese

epa06015167 A view of Qatar Street sign at a Qatari-funded housing project in Khan Younis town, southern Gaza Strip, 07 June 2017. According to media reports, Qatar has been a major contributor to funding the rebuilding of Gaza infrastructure after the 2014 war with Israel, pledging one billion US dollars for reconstruction projects. Saudi Foreign Minister on 06 June urged Qatar to stop supporting Hamas in Gaza Strip, one day after his country along with Egypt, Bahrain, and the United Arab Emirates, cut diplomatic relations with Qatar, which they accuse of supporting terrorism and threatening regional security. EPA/MOHAMMED SABER

Dalla Nato araba ad un nuovo ordine mediorientale: la visita di Donald Trump nel Golfo, a fine maggio, ha rimescolato le carte nel fronte sunnita. Dopo aver alacremente lavorato ad un asse regionale contro l’Iran – formato dai Paesi del Golfo (Qatar compreso) e ufficiosamente Israele – il presidente Usa ha lasciato dietro di sé una resa dei conti che ha radici politiche e economiche ben più profonde.
Una crisi seria tanto che gli stessi Stati Uniti, dopo il plauso all’alleato saudita e la semi-rivendicazione dell’isolamento di Doha passati per i tweet entusiastici di Trump, mettono una pezza: in 24 ore, il 15 giugno, hanno prima mandato due navi da guerra per un’esercitazione congiunta con la Marina qatariota e poi hanno firmato un accordo di vendita di 36 caccia F15 (12 miliardi di dollari) al Paese fino a poco prima isolato per sostegno al terrorismo islamista.
Quello che resta, che la crisi rientri o meno, è la ridefinizione della rete di alleanze regionali con un asse sciita (Iran-Siria-Hezbollah e in parte Baghdad) opposto ad un fronte sunnita spaccato in due: da una parte l’Arabia Saudita e il suo stuolo di pretoriani (Emirati Arabi, Egitto, Bahrain) e dall’altra il Qatar a cui rimane la radicata amicizia con la Turchia, costruita sui legami con i Fratelli Musulmani. A monte della rottura c’è l’intenzione di Riyadh di ergersi a leader indiscusso della regione, velleità che passa obbligatoriamente per l’indebolimento del principale rivale, Doha.
Ovvi gli effetti che la rottura provocherà sui conflitti locali: in Libia dove il primo fronte guarda al generale Haftar come futuro leader e il Qatar lavora al rafforzamento del premier del governo di unità nazionale di stanza a Tripoli, al-Sarraj; in Siria dove i gruppi islamisti di riferimento di Doha e Riyadh non sono gli stessi e dove gli ufficiosi negoziati tra Assad e Qatar per la liberazione di alcuni ostaggi hanno riavvicinato i qatarioti al governo di Damasco, nella chiara intenzione di partecipare alla futura stabilizzazione/ricostruzione del Paese.
E poi c’è la Palestina….

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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Anna Falcone: «Bisogna costruire una sinistra che ancora non c’è»

ROME, ITALY - JUNE 18: Anna Falcone and Tomaso Montanari during the assembly to build a popular alliance for Democracy and Equality, a United Left Alternative to the Democratic Party at the Brancaccio Theatre on June 18, 2017 in Rome, Italy. The assembly was called by Anna Falcone and Tomaso Montanari with a view to creating a new movement in Italy, seeking to attract broad support from citizens as well as sympathetic political parties, movements, associations, committees and across all civil society. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images)

Martedì mattina quando il conduttore di Agorà su Rai tre ha sentito parlare Anna Falcone di “convergenza” le ha chiesto se si riferiva alle convergenze parallele di Aldo Moro. «Ma io intendevo Ada Colau e la sua esperienza di Barcellona! Quando ci si renderà conto che siamo nel 2017?», dice ridendo a Left. Questo per descrivere l’attuale momento di passaggio in cui si trova «non una sinistra da unificare ma la sinistra che ancora non c’è», afferma l’avvocata che insieme a Tomaso Montanari ha lanciato l’appello per “un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza”. Domenica 18 giugno oltre 1500 persone hanno partecipato al primo incontro al Teatro Brancaccio a Roma con 65mila collegamenti in streaming. Mondi diversi, diversissimi. Da Massimo D’Alema e Niki Vendola seduti in prima fila «che però non hanno parlato, così come la Lista Tsipras o Rivoluzione civile», sottolinea Falcone, a esponenti di Mdp fino ad alcuni segretari di partiti (Nicola Fratoianni per Si, Giuseppe Civati per Possibile e Maurizio Acerbo per Prc). Ma oltre ai nomi noti e alle sigle storiche della galassia di sinistra, al Brancaccio c’era un popolo sconosciuto sì, ma reale: comitati civici del Comitato per il No al referendum, centri sociali, associazioni di ambientalisti e dei precari, sindacati, comitati civici e anche freschi amministratori, come Marta Nalin prima eletta della Coalizione civica alle ultime amministrative, la terza forza di Padova. Un mondo che dai media mainstream è stato dipinto come litigioso, settario, «con furore iconoclasta» (D’Alema al Manifesto), con giornalisti di lunga data come Paolo Mieli che svuota di senso l’incontro incappando anche in errori (ha scritto che era stato organizzato da Libertà e Giustizia). «Il pezzo di Mieli mi ha dato veramente tanta fiducia, perché se ci attacca in quel modo vuol dire che abbiamo fatto qualcosa che mette in difficoltà il potere», commenta Anna Falcone. Le reazioni a caldo sono significative. «A parte il fatto di comunicare che “non esisti”….

L’intervista ad Anna Falcone prosegue su Left in edicola


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Quel sapere che fa paura al potere. La grande lezione di Rodotà

Stefano Rodotà in frame video al festival di filosofia di Modena

Grande difensore della Costituzione, dei diritti umani e della laicità dello Stato, Stefano Rodotà  ha dato moltissimo al nostro settimanale. Lo salutiamo con profonda gratitudine e commozione, riproponendo le sue parole in  una intervista del 2011 in occasione dell’uscita di un libro che rilegge la storia d’Italia e aiuta molto a capire il presente.

Restituire un pezzo di memoria assume inevitabilmente un significato politico e civile, oggi in Italia. Anche se il professor Stefano Rodotà a proposito del suo Diritti e libertà nella storia d’Italia (Donzelli) si schermisce: «non voglio salire su un cavallo bianco -dice- ho solo cercato di rinfrescare il ricordo di certi fatti. Perché negli ultimi dieci anni anche in Parlamento si raccontano cose che nessuno anni fa avrebbe osato, perché si conosceva la storia di questo paese». Un attacco alla storia, (vedi i manifesti scandalo sulle Br in procura) che va di pari passo con l’attacco del Premier alle istituzioni. E non solo. Su questi temi, in occasione della presentazione del libro abbiamo rivolto alcune domande al professore emerito di diritto dell’Università La Sapienza.

Professor Stefano Rodotà, dopo aver denunciato l’attacco alla Costituzione, ora lei parla di decostituzionalizzazione. Una deriva ulteriore?

Sì, si usa la riforma della giustizia per eliminare in radice garanzie che la Carta prevede. Là dove, per esempio, è detto che la magistratura dispone direttamente della polizia giudiziaria si leva “direttamente” e si dice “secondo le modalità della legge”. Così una maggioranza qualsiasi potrà far fuori le garanzie sancite dalla Costituzione e protette dalla sua rigidità. E si potrà passare una serie di poteri a maggioranze ordinarie come l’attuale: blindata, che vota qualsiasi cosa. Intanto il Parlamento è stato ridotto a luogo di registrazione passiva della volontà del presidente del Consiglio e l’altro sistema di controllo, di contropotere, di contrappeso necessario in ogni democrazia- la magistratura- è sempre più preso di mira».

Berlusconi parla di magistrati «eversori», stigmatizza la Corte costituzionale «covo di sinistra». Calunnia, altera la verità, anche quella storica. Perché una parte di italiani continua a credere alle sue falsità?

Questa è la domanda chiave. Di risposta non ce n’è una sola. Al primo punto c’è l’informazione in Italia. Non dobbiamo cadere nella trappola berlusconiana che addita alcuni talk show come eretici nei suoi riguardi quando tutte le ricerche dicono che l’opinione pubblica si forma soprattutto con il Tg1 e il tg5. Che non riferiscono una serie di fatti oppure ne danno la versione di Berlusconi. Perfino l’Autorità delle telecomunicazioni- che pure non brilla di attivismo in queste materie- ha dovuto dire che non si può diffondere ogni giorno un comunicato o un video di Berlusconi Secondo punto: il Premier ha costruito intorno a sé, non “un sogno” come è stato detto, ma un blocco sociale su interessi come l’evasione fiscale. Per lui «l’evasione fiscale è legittima difesa». Da qui l’abbassamento della soglia di tutte le regole. Così accanto alle leggi ad personam, ecco l’eliminazione del falso in bilancio, di cui Berlusconi si è servito. Una “semplificazione” che fa scendere la legalità nella stesura dei bilanci. Parlo di un blocco sociale, dunque, costruito sui peggiori aspetti della società italiana come il non pagare le tasse. Anche se qualcosa comincia a scricchiolare: con questa crisi le piccole e medie imprese non riescono a stare sul mercato, i problemi che devono affrontare sono assai più vasti. Poi a tutto questo va aggiunto un terzo elemento: la debolezza dell’opposizione che, a mio avviso, ha regalato forza a Berlusconi.

Berlusconi dice che la sinistra è triste ed «ha una ideologia disumana e crudele». E alla convention dei Liberal del Pd Bill Emmott risponde che non va sottovalutato: «la sinistra ha una cultura del dolore». Così Enzo Bianco rilancia: «dobbiamo sorridere di più». Perché continuare a rincorrere Berlusconi. sul suo terreno?

Per lungo tempo è stata sopravvalutata la capacità di comunicazione di Berlusconi. E si è pensato che adeguandosi al suo modello lo si sarebbe sconfitto. Non è accaduto. Proprio per l’asimmetria di potere: se io scelgo il modello media e i media sono di un altro, lotto con una mano legata dietro la schiena. Intanto si è persa la strada storica del rapporto con la società. Qualcosa, però, sta cambiando. La manifestazione delle donne, degli studenti, del lavoro e del precariato ci dicono di una ripresa di reazione sociale. E non sono più «i ceti medi riflessivi» di cui parlava Paul Ginsborg all’epoca dei girotondi. Ora la reazione che ci si deve aspettare dall’opposizione è che trovi i giusti canali di comunicazione con questo mondo che va in piazza e che ha bisogno anche di una sponda politica. Fin qui le reazioni sono state vecchie, impaurite e sbagliate. Si è detto non possiamo arrenderci al movimentismo. Come se non fosse qualcosa che sta avvenendo nella società…

Dal suo libro emerge l’abisso fra uno Stato ancora in formazione che paventava lo strapotere della Chiesa e gli ultimi quindici anni in cui lei scrive: «si è assistito a pratiche politiche e a leggi che quanto più si avvicinavano alle richieste della Chiesa tanto più si allontanavano dalla Costituzione». Siamo sempre più lontani dal resto d’Europa?

Nettamente e non è una valutazione preconcetta o ideologica. Prendiamo un dato di realtà: si discute in Parlamento di testamento biologico lasciando strada aperta a una posizione della Chiesa veramente violenta che parla di «indisponibilità della vita e di limiti invalicabili». Ora se noi andiamo in Germania, Francia o in Spagna non solo lì le norme sul biotestamento ci sono e da tempo, ma sono in forme tali che in Italia l’opposizione neanche penserebbe di proporle perché verrebbe accusata di chissà quali nefandezze. Siamo prigionieri di questo meccanismo: da noi vengono presentate come questioni di fede questioni che evidentemente di fede non lo sono come il diritto a rinunciare a idratazione e nutrizione forzata. Quelli della Chiesa diventano da noi punti di vista che pesano nella discussione politica al punto da frenarne l’autonomia e l’intelligenza. Perché c’è una presenza della Chiesa più intensa che altrove, ma anche per una politica debole. Per cui il Pdl si presenta come fedele braccio secolare delle volontà del Vaticano e non per reale adesione culturale, ma per averne sostegno. La debolezza della politica italiana ha aperto varchi enormi all’iniziativa della Chiesa.

Il vice presidente del Cnr, Roberto de Mattei ha organizzato un convegno contro l’evoluzionismo e uno sul fine vita in cui si attacca il protocollo di Harvard. Cosa ne pensa?

De Mattei è libero di dire ciò che vuole ma rivestendo una carica istituzionale – perché il vertice del Cnr è nominato dal Governo – ha il dovere di rispettare l’opinione altrui e di non usare il denaro e il ruolo pubblico per fare propaganda a tesi che, per usare un eufemismo, hanno uno statuto scientifico molto debole. Ormai non c’è più confronto, si rifiuta il punto di vista dell’altro quando non lo si ritiene conforme alla propria particolare situazione. È il dato devastante introdotto dalla logica del berlusconismo che ha come regola la negazione dell’altro. Lei lo ricordava all’inizio: “tutti comunisti”, “tutti nemici della famiglia”; con questa premessa non è possibile guardare alla società italiana tenendo aperta la discussione. Il punto drammatico è la regressione culturale, che è anche regressione del linguaggio. Uno non si scandalizza moralisticamente della barzelletta di Berlusconi ma della degradazione dell’altro che c’è nel suo linguaggio, che poi è quello leghista. Non a caso si attacca un luogo di formazione del pensiero critico come la scuola pubblica: si vuole azzerare la capacità dei cittadini di valutare. Ma cattiva cultura produce cattiva politica, ed è ciò che stiamo vivendo. Anche per questo quando Donzelli mi ha proposto di rimettere in circolazione quel libretto aggiornandolo ho accettato. In una altra situazione avrei detto no, ci sono già molti materiali. Ma oggi si va perdendo anche la memoria dei fatti elementari. Il Premier, per esempio, lamenta di non poter fare provvedimenti. C’è un travisamento della realtà istituzionale tanto che si imputa alla Costituzione e al Parlamento l’impossibilità di muoversi. Ma basta pensare che in un solo anno, il 1970, sono stati approvati l’ordinamento regionale, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, le norme sulla carcerazione preventiva, in sequenza rapidissima… E negli anni successivi le norme sulle pari opportunità sul lavoro, l’aborto, la riforma dello stato di famiglia. C’era una cultura politica e in Parlamento si andava per discutere davvero. Non mi meraviglia che un periodo come quello, in cui si attuava la Costituzione per i diritti e le libertà, oggi venga demonizzato.

 

Da Einstein on the beach al Leone d’oro. Incontro con Lucinda Childs

Lucinda Childs Portrait, Einstein on the Beach in Ann Arbor

Gli anni Settanta a New York…che periodo straordinario, quando gli artisti di diverse discipline si incontravano e collaboravano, quando l’arte usciva dai teatri e dalle gallerie per andare nelle strade, sui grattacieli ed entrare nei loft. Erano gli anni della pop art e del minimalismo, del Living Theatre e di Merce Cunningham. Erano gli anni in cui Lucinda Childs, la coreografa e danzatrice americana diventata un punto di riferimento, creava la sua compagnia. Era il 1973, ma già da una decina di anni si era avvicinata alla coreografia unendosi al gruppo di artisti del Judson Church Theater, realizzando brevi pezzi senza musica che rifiutavano i canoni della danza moderna, una tra tutte “Street Dance”, sei minuti per raccontare agli spettatori affacciati da un loft i movimenti dei passanti in strada. Le regole, si sa, lei non le mai sopportate. Ed è a Lucinda Childs, classe 1940, che è andato quest’anno il Leone d’oro alla Carriera consegnato in apertura dell’undicesima edizione della Biennale danza contemporanea (23 giugno – 1 luglio), “per la sua pratica fortemente autoriale e la purezza delle sue proposte formali che creano una profonda emozione, e annoverano le sue opere fra i nuovi “classici” della storia della danza”. Al Festival ha presentato “Dance”, titolo manifesto del minimalismo astratto, “Katema” e “Dance II”. E nei prossimi giorni la Biennale di Venezia ospiterà anche altri grandi nomi come quello di Louise Lecavalier, Benoît Lachambre, Robyn Orlin, Xavier Leroy, Mathilde Monnier e La Ribot, e new entry in forte ascesa come Dana Michel, Leone d’argento 2017, Alessandro Sciarroni, Lisbeth Gruwez, Daina Ashbee, Clara Furey, Ann Van den Broek.

Lucinda, nella sua lunga carriera ha realizzato oltre 50 coreografie. Lei è diventata un’icona della danza controcorrente: è salita sul palco indossando dei bigodini in testa, mangiando una mela, ripetendo gesti infinitamente semplici: all’inizio come ha reagito il suo pubblico?
“Nei primi anni ’60 la maggior parte degli spettatori che avevamo alle nostre prime opere ispirate a Merce Cunningham e a John Cage erano artisti della comunità d’arti visive, che, dunque, avevano esigenze estetiche simili alle nostre, in particolare era il movimento della pop art. Così, la reazione era davvero aperta e positiva, ma era un pubblico molto limitato”.
Spinta da quali esigenze è nata la danza postmoderna?
“La danza postmoderna segue la tradizione moderna, che si basa soprattutto sulla narrativa. Come nel lavoro di Martha Graham, capisci che c’è sempre una storia, una narrazione, un’azione drammatica che è rappresentata dalla danza. Con l’avvento di Merce Cunningham la danza è diventata completamente astratta, senza storia o narrazione di alcun tipo. Merce si sentiva molto forte che la danza in sé e in sé è ciò che dobbiamo guardare, piuttosto che preoccuparci della narrazione”.
Lei ha collaborato con grandi artisti, ad esempio Philip Glass e Robert Wilson. Si ricorda come è andato il suo primo incontro con quest’ultimo?
“Il mio primo incontro con Robert Wilson è avvenuto a Broadway dopo la sua performance del 1974 “A Letter for Queen Victoria”. Ero ispirata nel vedere un grande artista che lavorava in un ambiente teatrale tradizionale. Quando l’ho conosciuto, mi ha chiesto di collaborare con lui e io, ovviamente, ho detto subito di sì e abbiamo lavorato insieme per “Einstein on the beach” “.
La sua prima apparizione in Italia fu proprio con “Einstein on the Beach” a Venezia, giusto?
“Sì, mi ricordo che venimmo a Venezia per le messa in scena e fu un’esperienza incredibile, allo stesso tempo vedere la collezione Peggy Guggenheim e, naturalmente, far parte di quella grande comunità di artisti emergenti era entusiasmante, ma forse anche controverso in quel momento”.
Dance”, manifesto del minimalismo astratto di cui lei è una pioniera e destinato a influenzare generazioni di ballerini (musica di Philip Glass), è stato presentato ora in Italia per la prima volta, in apertura di Biennale, con il film-décor in rigoroso bianco e nero che l’artista americano Sol Le Witt aveva creato nel 1979. Dopo tanti anni è sempre così emozionante e attuale mostrare certe coreografie?
“ “Dance” ha ormai quasi 40 anni e naturalmente i ballerini del film di LeWitt provengono da un tempo diverso e hanno un diverso tipo di formazione e di background. È incredibile che molti dei danzatori che hanno iniziato con questa particolare rivisitazione di “Dance”, avvenuta nel 2009, stiano ancora ballando nella coreografia con me 8 anni dopo. Siamo davvero entusiasti di poter continuare a portare in giro il nostro lavoro. Nella messa in scena di oggi i danzatori ripresi nel film di LeWitt del 1979, tra i quali ci sono anch’io, dialogano con i corpi in scena degli undici interpreti della nuova compagnia, riattualizzando la coreografia alla luce del contrasto tra la fisicità dei danzatori degli anni 70’ e dei danzatori di oggi.”.
Lei, in effetti, si è esibita in tutto il mondo, ma forse molto più in Europa rispetto all’America.
“Sì, è vero che il mio lavoro in Europa è stato visto da molte persone e con una frequenza senza dubbio maggiore rispetto alle esibizioni della mia compagnia negli Stati Uniti. È grazie alle rivisitazioni del mio lavoro negli ultimi anni che i miei danzatori hanno avuto così tante repliche, ma è soprattutto nella comunità europea che le nostre opere vengono presentate. La coreografia, in generale, è una forma d’arte per me abbastanza imprevedibile. Non sono mai sicura di ciò che davvero accadrà quando entro in studio con i miei ballerini. Dico sempre che non sono realmente portata alla matematica, ma faccio molte misurazioni con i conteggi come modo per esplorare le opzioni possibili per organizzare le relazioni reciproche tra i danzatori nello spazio e nel tempo”.