Home Blog Pagina 871

Pedofilia, premiato il docufilm italiano che inguaia papa Bergoglio

«Una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza; divieto di qualsiasi contatto con i minori; assidua sorveglianza da parte di responsabili individuati dal vescovo di Verona». È la pena più pesante inflitta ai sacerdoti pedofili protagonisti di una delle più agghiaccianti vicende di violenza su minori compiuti in ambito ecclesiastico mai emerse in Italia: gli stupri di decine di ospiti dell’Istituto per bambini sordomuti A. Provolo di Verona, perpetrati lungo tutta la seconda metà del secolo scorso. Uno dei destinatari di questo «precetto penale» comminato dalla Santa Sede è don Eligio Piccoli, come si legge nella lettera (di cui Left è in possesso) che fu inviata il 24 novembre 2012 dal presidente del Tribunale ecclesiastico di Verona, monsignor Giampietro Mazzoni, all’avvocato delle vittime riunite nell’associazione sordi Provolo. Per le violenze compiute nell’istituto, nel quale era educatore, Piccoli era stato riconosciuto colpevole al termine di una inchiesta indipendente affidata dalla Santa Sede a un magistrato “laico”, Mario Sannite. Si trattava in quel momento, nel 2012, dell’unica inchiesta mai avvenuta sul Provolo. A causa della prescrizione la magistratura italiana non era potuta intervenire. Come i nostri lettori sanno, all’epoca raccontammo questa storia su Left (aggiornandola successivamente diverse volte). Era l’ennesima puntata di una vicenda iniziata nel 2009 quando alcune delle vittime ormai adulte resero pubbliche le violenze subite, dopo aver preso coraggio sulla scia di situazioni analoghe accadute in tutta Europa (Irlanda, Olanda, Belgio, Inghilterra, Germania etc).

Oggi si torna a parlare nuovamente di don Eligio Piccoli in occasione dei “DIG Awards 2017”, i premi internazionali per le migliori inchieste e reportage video della scorsa stagione. È lui infatti il protagonista de Il caso Provolo, l’inchiesta realizzata da Sacha Biazzo per Fanpage.it che ha vinto il primo premio della sezione “Short”. Il docufilm di Biazzo dura circa 15 minuti e don Piccoli da un letto di ospedale conferma al bravo giornalista quanto emerse dall’inchiesta di Sannite parlando di almeno 10 preti coinvolti e confessando di aver abusato. Come è noto, molti preti della lista presentata dall’associazione Sordi Provolo al magistrato incaricato dalla Santa Sede oggi sono morti, alcuni sono stati trasferiti in Argentina e altri – come don Piccoli e don Pernigotti per citarne un paio – sono ancora in vita.

Riassumiamo in breve la storia. Le accuse formulate da 67 giovani ospiti dell’Istituto sin dalla metà degli anni 80 e inascoltate per quasi 30 anni, riguardavano 25 persone tra sacerdoti e fratelli laici. Al termine dell’indagine nel 2012 Sannite ravvisò elementi di colpevolezza solo per tre di loro: don Piccoli, don Danilo Corradi e frate Lino Gugole. Per Corradi le accuse «non risultano provate», ma «stante il dubbio», la Santa Sede formulò nei suoi confronti un’ammonizione canonica, vale a dire «una stretta vigilanza da parte dei responsabili dei suoi comportamenti». Corradi (come del resto don Piccoli) è pertanto rimasto prete ed è finito sotto il controllo di chi per anni aveva ignorato le accuse nei suoi confronti. Ancor più sconcertante, se possibile, il paragrafo relativo al terzo uomo.

«Gugole – si legge nel testo della Santa sede – è affetto da una grave forma di alzheimer che lo rende del tutto incapace di intendere e di volere. È ricoverato in una casa di riposo presso l’ospedale di Negrar. Nessun provvedimento, stante la sua condizione, è stato preso nei suoi confronti». In realtà sarebbe stato difficile anche solo recapitargli di persona un telegramma, poiché, come mi raccontò nel 2013 il portavoce dell’associazione, Marco Lodi Rizzini, «Lino Gugole è morto nel 2011, con tanto di necrologi pubblicati sui giornali locali e i gazzettini parrocchiali». Cioè un anno prima della “sentenza”.

Riguardo gli altri accusati la Santa Sede liquidò la faccenda affermando che su alcuni di loro – quelli davvero rimasti in vita – avrebbero continuato a indagare. Ma, come vedremo, non risulta. Tra i “prosciolti” infatti figura il nome di don Nicola Corradi (che non è parente di don Danilo) finito in carcere nel novembre del 2016 a Mendoza in Argentina con l’accusa di aver abusato alcuni bambini nella più importante sede sudamericana del Provolo in cui fu trasferito a metà anni 80 dal Vaticano e di cui è stato direttore fino all’arresto. E c’è anche il nome dell’ex vescovo di Verona mons. Giuseppe Carraro, per il quale il 16 luglio 2015 papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto riguardante le sue «virtù eroiche», inserendolo tra i venerabili, primo passo verso la beatificazione. Il loro accusatore, Gianni Bisoli, nel 2012 era stato ritenuto inattendibile nonostante la minuziosa descrizione della stanza in cui era costretto a «masturbazioni, sodomizzazioni e rapporti orali».

In particolare, Bisoli ha sempre raccontato di essere stato violentato dal vescovo anche nel 1964, durante il suo ultimo anno di permanenza nell’istituto. Tuttavia, quando lo intervistai nel 2013 per uno dei miei libri su Chiesa e pedofilia, mi spiegò che il dottor Sannite gli fece vedere un documento firmato da don Danilo Corradi nel quale era apposta come data di sua dismissione dall’Istituto Provolo il 20 giugno 1963. La data quindi non coincideva con la ricostruzione fornita dalla presunta vittima. Ebbene, mi disse Bisoli, «sull’originale che mi fu mostrato la data ha un refuso, appare abrasa e modificata ed è scritta con una grafia diversa rispetto al resto del documento, ma soprattutto è antecedente a quella della mia ultima pagella a firma dell’insegnante don Eligio Piccoli, che ricordavo datata 27 giugno 1964». A nulla portarono le sue perplessità. Nonostante le evidenti manomissioni non fu creduto.

Ma proprio la grossolana manomissione potrebbe costar caro alla diocesi di Verona sotto la cui giurisdizione ricade l’istituto cattolico per sordomuti. A gennaio scorso è stata aperta un’inchiesta nei confronti dei responsabili del Provolo da parte della magistratura scaligera in seguito ad alcuni esposti presentati dall’associazione Rete L’Abuso. E in seguito, il 27 febbraio, anche l’associazione sordi Provolo e Bisoli – che nel frattempo ha ritrovato l’originale della pagella del 1964 – hanno depositato formale querela per la presunta manomissione del documento.

Inoltre, in riferimento all’arresto di don Nicola Corradi, il 29 marzo, la Rete L’Abuso e Bisoli, come riportano diverse testate locali e non, hanno chiesto tramite un esposto alla procura di Verona di accertare eventuali omissioni giuridicamente rilevanti «in capo ai soggetti preposti al controllo dell’operato dei sacerdoti pure in termini di insufficiente vigilanza o di negligenza nel mettere in atto le cautele necessarie ad impedire la reiterazione di gravi reati come quello di pedofilia». Vale a dire i responsabili dell’istituto di Verona. La sede legale dell’istituto Provolo argentino sito in Mendoza e diretto da Corradi fino all’arresto risulta infatti coincidere con quella italiana, in Stradone Provolo 20, a dieci minuti a piedi dalle più famose attrazione turistiche del capoluogo scaligero: l’Arena e la casa di Giulietta.

Nei confronti di don Nicola, oggi 80enne, la magistratura italiana non è mai potuta intervenire per via della prescrizione ma il presidente della Rete l’Abuso, Francesco Zanardi, mi ha spiegato che l’esposto serve ad appurare eventuali responsabilità della diocesi di Verona: «Abbiamo chiesto di verificare se ci sono state omissioni e negligenze, dal momento che Corradi era già stato denunciato dalle vittime italiane ben prima dei fatti di cui è accusato in Argentina, senza che venisse preso alcun provvedimento». L’obiettivo di Rete l’Abuso è far riaprire il caso anche in Italia. «Perché – si chiede Zanardi – don Corradi nonostante le accuse nei suoi confronti venne trasferito dalla Curia di Verona in un’altra sede, sempre a contatto con dei minori, invece di essere rimosso dai suoi incarichi?».

Questa domanda ci riporta a don Eligio Piccoli e al documentario di Sacha Biazzo. Ascoltando ciò che questo sacerdote afferma davanti alla cinepresa appare evidente che la condanna ecclesiastica a «una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza» non abbia sortito alcun effetto. Seppur affaticato dalla malattia fisica che lo costringe in ospedale, don Piccoli racconta di aver abusato con estrema naturalezza e che altri suoi “colleghi” preti lo hanno fatto (nel video esibisce un ghigno mostruoso).

Tipica dei pedofili è la totale assenza di emozioni. Come ho potuto riscontrare più volte, nel caso dei preti l’unica preoccupazione è di aver peccato. Questa idea distorta è figlia di una cultura secondo la quale in fin dei conti è il bambino, diavolo seduttore, a indurre in tentazione il sant’uomo. E questo cede, offendendo Dio.

La realtà però è un’altra e dice senza appello che la pedofilia non è un’offesa alla castità, non è un delitto contro la morale, non è il Male. Non è un atto di lussuria come peraltro scrivono certi giornalisti affermati citando il canone 2351 del Catechismo della Chiesa cattolica. L’abuso non è un rapporto sessuale tra due persone consenzienti che si lasciano andare ma è pura violenza agita da un adulto nei confronti di un bambino “scelto” con “cura” dal suo violentatore. Il pedofilo non prova alcun desiderio, è una persona anaffettiva. La vittima, in quanto in età prepuberale, non ha e non può mai avere né sessualità, né desiderio.

Chi abusa un bambino è un grave malato mentale ma non occorre essere psichiatri per comprendere che non può guarire invocando la madonna. Basta un minimo di buon senso. A meno che non si pensi – come fanno i religiosi cattolici, pedofili e non – che l’abuso è un “atto impuro” (VI Comandamento), cioè, appunto, un peccato. Seppur annoverato tra i delitti più gravi, secondo la visione degli appartenenti al clero si tratta di un crimine contro la morale. “Abuso morale” lo ha definito Benedetto XVI nel 2013 e di recente anche papa Francesco nella premessa all’autobiografia di una vittima di sacerdote pedofilo. Di conseguenza i responsabili devono risponderne a Dio, nella persona del suo rappresentante in terra, e non alle leggi della società civile di cui fanno parte. È sempre stato così ed è così anche oggi sotto il pontificato del presunto innovatore argentino.

Appena eletto, papa Francesco ha messo in cima alla agenda pontificia la lotta contro la pedofilia. Dedicando a questo tema almeno un annuncio a settimana, non mancando mai di farsi fotografare con atteggiamenti affettuosi – a volte ricambiati, a volte no – in mezzo a dei bambini, emanando una serie di decreti volti ad accentrare in Vaticano tutte le indagini e le decisioni sui casi più scabrosi e ad avvicinare le norme della Santa Sede alle indicazioni della Convezione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza siglata nel 1991 e ratificata nel 2014. Segnali forti, amplificati dalla parola d’ordine spesso pronunciata dal pontefice argentino e diligentemente rilanciata dai media italiani: «Tolleranza zero». Un passaggio epocale, sulla carta, è avvenuto il 5 settembre 2016, con l’emanazione del decreto Come una madre amorevole che prevede, oltre all’inasprimento delle misure anti-abusi, la rimozione dei vescovi responsabili di condotta negligente del proprio ufficio nei casi di violenza su minori o adulti vulnerabili. Vale a dire, di insabbiamento delle denunce relative a preti pedofili. Poco più di un anno prima, il 5 giugno 2015 al fine di rendere possibile l’individuazione e la punizione di vescovi negligenti, secondo quanto si legge sul sito della Santa Sede, al papa era stata sottoposta, da una commissione consultiva appositamente insediata, la proposta di creare un Tribunale apostolico all’interno della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf) alla quale già spetta il compito di giudicare i sacerdoti accusati di pedofilia. Si trattava solo di un suggerimento ma la stampa italiana annunciò il tribunale dei vescovi come cosa fatta descrivendolo come l’ennesimo segnale di svolta rispetto al passato compiuto da Bergoglio. In realtà la stessa pena, ossia la rimozione del porporato insabbiatore, colmava un vuoto procedurale poiché era già disciplinata sin dal 1962 dalla legislazione canonica vigente per cause gravi (Crimen sollicitationis) e rinnovata nel 2001 da un provvedimento di Giovanni Paolo II (De delictis gravioribus). Ma senza essere mai applicata. E cosa ancor più interessante, il tribunale seppur annunciato e osannato non è mai entrato in funzione né mai accadrà perché il papa non lo ha mai creato. A dare la smentita – con quasi due anni di ritardo rispetto ai titoli a nove colonne dei media nostrani – è stato il 5 marzo scorso niente meno che il prefetto della Cdf, card. Gerard Müller, il quale intervistato dal Corriere della sera ha precisato che il tribunale per i vescovi «era solo un progetto».

Questi sono solo alcuni esempi di come la Chiesa di papa Francesco stia affrontando la questione delle violenze sui minori al proprio interno. La strategia è collaudata e vincente: cambiare tutto per non cambiare niente. Alle parole del papa, alle sue intenzioni, ai suoi desiderata raramente, per non dire mai, seguono dei fatti concreti. E su questo i media sono disposti a chiudere un occhio, molto spesso tutti e due (come abbiamo avuto modo di dimostrare su Left n. 20/2017).

In questa ottica il lavoro di Sacha Biazzo andrebbe doppiamente premiato, in quanto contribuisce a mantenere viva l’attenzione sull’inerzia e sulla tolleranza (verso i preti violentatori) del Vaticano che dunque, anche sotto Bergoglio, continua a combattere la pedofilia solo a parole. Al più, a colpi di avemaria.

El torturador impunito che ha trovato rifugio in Italia

MONTEVIDEO, URUGUAY - MAY 20: Protestors march with the photos of people who disappeared during the military dictatorship (1973-1985), demanding justice and truth about the disappearances and the end to impunity in Montevideo, Uruguay on May 20, 2016. (Photo by Carlos Lebrato/Anadolu Agency/Getty Images)

«Caro Presidente Sergio Mattarella, è per me un onore incontrarla e consegnarle questa lettera, mediante la quale voglio darle il benvenuto in Uruguay, la nostra seconda patria. La ringrazio inoltre per essere oggi tra di noi italiani, in questa nostra casa. Mi chiamo Maria Bellizzi, sono nata a San Basile in provincia di Cosenza. Sono arrivata in Uruguay quando non avevo ancora compiuto due anni. Correva l’anno 1928. Mi ci ha portata mia madre per raggiungere mio padre che era già emigrato in questo Paese….».

Andrés Humberto Bellizzi aveva 25 anni quando fu sequestrato il 19 aprile 1977 a Buenos Aires. Si trovava in Argentina per sfuggire alla repressione della dittatura uruguaiana in quanto militante della Resistencia obrero estudiantil, un’organizzazione studentesca di sinistra, quindi clandestina. È uno degli oltre 140 desaparecidos uruguaiani vittime del Piano Condor, l’operazione segreta realizzata al di fuori di qualsiasi alveo costituzionale durante gli anni 70 in accordo tra le polizie militari dei sette Paesi del Cono Sud latinoamericano. Si presume che sia stato portato al centro di detenzione clandestino Club Atlético, dove è stato interrogato dai servizi segreti uruguaiani prima di scomparire. Maria Bellizzi, l’autrice della lettera, è sua madre. Il 12 maggio scorso si è rivolta direttamente al presidente italiano in occasione del viaggio in Uruguay durante il quale Mattarella ha siglato un accordo che potrebbe portare all’estradizione in Sud America uno dei presunti assassini dei compagni di esilio di Andrés: Jorge Nestor Troccoli, un ufficiale dei servizi segreti della marina uruguaiana durante la dittatura ma dagli anni Duemila cittadino italiano.
Dalla scomparsa di Andrés «per me e per mio marito è iniziata una battaglia senza sosta, nella denuncia e nella ricerca, dentro e fuori delle frontiere, di notizie che ci portassero a conoscere il destino del nostro figlio. Dalla notte alla mattina mi sono trasformata da casalinga in attivista e militante per i diritti umani», scrive Maria. Due giorni prima dell’arrivo di Mattarella a Montevideo, al di qua dell’Atlantico, a Roma, il pm Tiziana Cugini e il procuratore aggiunto Francesco Caporale depositavano l’appello contro la sentenza di primo grado del Processo Condor per la parte relativa ai 18 imputati per sequestro e omicidio assolti dalla sentenza emessa il 17 gennaio scorso nell’aula bunker di Rebibbia. Tra questi «repressori denunciati», scrive Maria Bellizzi, c’è anche Troccoli ora finito al centro dell’accordo tra Italia e Uruguay per l’estradizione.
L’ex militare è soprannominato “il torturatore” nel suo Paese d’origine ed è stato tra i primi a riconoscere l’uso della tortura negli interrogatori dei prigionieri, al punto di rivendicarne la necessità anche in un libro autobiografico, di scarsa fattura, pubblicato in Uruguay. Durante il processo di Roma ha affermato di non aver mai ucciso un detenuto. Fatto sta che in Italia il reato di tortura non è contemplato e Troccoli è nel nostro Paese che «dopo essere fuggito dalla giustizia uruguaiana» riuscì a riparare dopo aver ottenuto la doppia cittadinanza grazie a un bisnonno cilentano. Ed è qui da noi che vive da uomo libero, nel beneventano, mentre in Uruguay molti suoi commilitoni sono in carcere per aver compiuto crimini contro l’umanità.
«Nel mese di settembre del 2016, con i miei 91 anni, ho dichiarato formalmente a Roma davanti alla III Corte di Assise. La sentenza purtroppo non ha raggiunto pienamente le nostre aspettative, ma per fortuna la Procura ha presentato istanza di appello» prosegue Maria.
«Caro presidente, nei giorni che hanno preceduto la visita in Uruguay ho seguito attentamente le sue attività in Argentina. L’ho vista visitare il parco della Memoria insieme a Lita Boitano, madre italiana che come me ha perso due figli e altri familiari. Anche in Uruguay, quando è tornata la democrazia, è stato costruito un monumento in vetro con incisi i nominativi di tutti i nostri scomparsi che superano i 140. Il Monumental (così si chiama) s’innalza in un bel parco di un quartiere popolare e abitato da molti immigranti, chiamato “El Cerro”. Anche qui, come in Argentina, il Monumental è stato costruito guardando il Rio de la Plata. Se legge i nominativi che lì sono ricordati capirà quanto è italiano questo paese. Abbiamo anche un Museo della Memoria e il 20 maggio, oramai da 22 anni, si realizza la manifestazione nazionale chiamata Marcia del silenzio per la verità e giustizia. Anche a San Basile c’è una piazza che è stata denominata Largo dei Desaparecidos. È dedicata a tre figli di San Basile scomparsi in Argentina. Uno è mio figlio Andres Humberto e gli altri due sono Hugo Scutari Bellizzi e Julio Scutari Bellizzi, nati in Argentina. Queste sono iniziative importanti, quasi come un tesoro da custodire per le giovani generazioni. Perché nella memoria collettiva di questo paese vivranno per sempre i nostri figli, i nostri mariti, i nostri cari congiunti. Caro presidente – conclude Maria Bellizzi – fino all’ultimo respiro della mia vita continuerò a lottare per conoscere la verità e fare giustizia per mio figlio e per tutti i detenuti scomparsi, figli di questa bella nazione. Molti di loro sono anche figli della nostra cara Italia. Grazie ancora di essere venuto».
Il 20 maggio in Montevideo c’era anche Maria alla Marcia del silenzio in ricordo dei desaparecidos. Su alcuni cartelli c’era scritto: «Non sono solo memoria. Sono vita che prosegue nelle vite degli altri».

Articolo pubblicato su Left n. 21 del 27 maggio 2017

Tragedia in Pakistan: un’autobotte carica di benzina esplode e uccide oltre 150 persone

Quando un camion cisterna che trasportava benzina si è ribaltato in un paesino nell’est del Pakistan, nella provincia del Punjab, centinaia di persone si sono precipitate sul luogo con secchi, bottiglie, bicchieri, per raccogliere parte degli oltre 5.000 litri di carburante fuoriuscito.

Nonostante la polizia tentasse di farli allontanare dal luogo dell’incidente, uomini, donne e bambini continuavano ad arrivare dai villaggi adiacenti verso il luogo del sinistro, lungo la strada del paesino Ahmedpur.

Non si sa cosa esattamente ha provocato la scintilla che ha scatenato l’incendio in cui 153 persone hanno perso la vita e altre 100 sono rimaste ferite. Quasi 100 auto e motociclette sono saltate in aria proprio nel giorno del Eid al-Fitr, la festa in cui si celebra la fine del Ramadan.

È stata un’orribile tragedia, ha detto il rappresentante del Parlamento Makhdoom Syed Hassan Gillani. Una tragedia di cui ha colpa la povertà al 100%:  «È stata la povertà, l’avidità, è stata colpa dell’ignoranza».

Caso Don Milani, perché la sua idea di scuola cattolica e privata è da rifiutare con forza

Un ulteriore approfondimento di Giuseppe Benedetti sulla figura di don Milani dal punto di vista pedagogico. 

Provo a replicare alle rare critiche, tra i tanti insulti. L’articolo (vedi Left del 17 giugno ndr) non è l’analisi con gli occhi di oggi di una realtà vecchia di 50 anni, ma la riflessione sul senso di una celebrazione che porta inevitabilmente con sé l’influenza della Lettera di una professoressa nel dibattito pedagogico e nella realizzazione di riforme scolastiche anche recentissime. L’articolo non corrisponde alla già vista autoflagellazione di una parte della sinistra che vuole distinguersi preparando così l’ennesima sconfitta, ma un tentativo di far chiarezza su un mito che ha relegato la sinistra a un ruolo subordinato rispetto al cattolicesimo nell’elaborazione di idee da sostenere e diffondere per diventare forza di governo. Avrei condiviso il contenuto della Lettera se si fosse limitata a denunciare le storture della scuola classista del tempo invece di aggredire un sistema che, con la riforma della media unica, cominciava a tradurre in realtà il dettato costituzionale. Per don Milani, l’unica alternativa era nell’educazione cattolica, come si può leggere nel florilegio seguente (le pagine tra parentesi, dopo ogni citazione, si riferiscono alla pubblicazione della Libreria Editrice fiorentina, 1996, Firenze).

«La maestra è difesa dalla sua smemoratezza di mamma a mezzo servizio […] Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire» (41-2).
«Certe scuole di preti sono più leali. Sono strumento della lotta di classe e non lo nascondono a nessuno. Dai barnabiti a Firenze la retta d’un semiconvittore è di 40.000 lire al mese. Dagli scolopi 36.000. Mattina e sera al servizio d’un padrone solo. Non a servire due padroni come voi» (65)
«La buona fede degli insegnanti è un problema a parte. Siete pagati dallo Stato. Avete le creature davanti. Avete studiato storia. La insegnate. Dovreste veder chiaro. Certo delle creature vedete solo quelle scelte. La cultura v’è toccata farvela sui libri. E i libri sono scritti dalla parte padronale. L’unica che sa scrivere. Ma potevate leggere tra le righe. Possibile che siate ancora in buona fede? Cerco di capirvi. Avete un aspetto così rispettabile. Non avete nulla del criminale. Forse qualcosa del criminale nazista. Cittadino onestissimo e obbediente che registra le casse di sapone. Si farebbe scrupolo a sbagliare una cifra (quattro, quattro meno), ma non domanda se è sapone fatto con carne d’uomo» (77-8)
«La scuola a tempo pieno presume una famiglia che non intralcia. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario […] L’altra soluzione è il celibato» (86)
«il vostro orario è indecente […] La scusa che avete da rivedere i compiti a casa e da studiare non vale. Anche i magistrati hanno da scrivere le sentenze. Voi poi i compiti potreste non darli. E se li date potreste correggerli coi ragazzi nel tempo che li fanno» (88)
«Finora si diceva che la scuola statale è un progresso rispetto alla privata. Ora bisognerà ripensarci e rimettere la scuola in mano d’altri. Di gente che abbia un motivo ideale per farla e farla a noi» (89)
«I maestri valgono perché son stati poco a scuola. I professori sono quello che sono perché son tutti laureati» (114).
«Tre anni su Dante. Neanche un minuto solo sul Vangelo. Non dite che il Vangelo tocca ai preti. Anche levando il problema religioso restava il libro da studiare in ogni scuola e in ogni classe. A letteratura il capitolo più lungo toccava al libro che più ha lasciato il segno, quello che ha varcato le frontiere. A geografia il capitolo più particolareggiato doveva essere la Palestina. A storia i fatti che hanno preceduto accompagnato e seguito la vita del Signore. In più occorreva una materia apposta: scorsa sull’Antico Testamento, lettura del Vangelo su una sinossi, critica del testo, questioni linguistiche e archeologiche. Come mai non ci avete pensato? Forse chi v’ha costruito la scuola Gesù l’aveva un po’ in sospetto: troppo amico dei poveri e troppo poco amico della roba» (120-1).

Nel fine settimana abbiamo salvato una banca

Cos’è la politica? La messa in pratica della custodia delle nostre priorità. In generale, voto un partito politico perché credo che si occuperà dei temi che mi sono cari: se sono oppresso voterò il partito che mi promette di occuparsi di diritti, se sono mafioso voto il partito che si batte per salvare mafiosi e corrotti, se sono ricco sfondato e con poco talento voto il partito cha mi garantisce il rafforzamento dello status quo, e così via.

È semplice, la politica. Banale, talvolta: il partito degli oppressi sarebbe di gran lunga il partito di governo se non fosse che si fatichi così tanto nel trovare un oppresso in giro.

La politica, appunto. In questo fine settimana ha rinunciato al sole, il mojito e l’ombrellone ha deciso di salvare le banche. Ancora, sì, lo so.

“È stata decisione importante, urgente e anche necessaria – ha detto il premier Paolo Gentiloni – confido ora in un sostegno ampio da parte del parlamento”. Il decreto entra subito in vigore per garantire la normale operatività bancaria e la regolare apertura degli sportelli domani mattina. A stretto giro arriveranno, poi, il decreto del ministero dell’Economia per la liquidazione e la nomina dei commissari da parte della Banca d’Italia. “Le risorse mobilizzate dallo Stato a favore dell’operazione di salvataggio delle banche venete hanno un valore fino a un massimo di 17 miliardi”, ha spiegato Padoan annunciando per Intesa”risorse per 4,785 milioni” che serviranno a coprire “le operazioni necessarie a mantenete la capitalizzazione e il rafforzamento patrimoniale di Banca Intesa a fronte dell’acquisizione delle due banche”. Altri 400 milioni, devieranno per le “garanzie attivate per fronteggiare i rischi legati al completamento della due diligence nei confronti dello stock delle sofferenze”.

A proposito di priorità. Appunto. Avete salvato una banca.

Buon lunedì.

Comunali, il fallimento del Pd di Renzi mentre il centrodestra esulta

Daniela Santanché (d) e Ignazio La Russa (c) durante i festeggiamenti di Marco Bucci, candidato del centrodestra, dopo i risultati dei ballottaggi alle Comunali di Genova, 26 giugno 2017. ANSA/ LUCA ZENNARO

Gli italiani hanno lasciato i loro Comuni nelle mani del centrodestra targato Berlusconi-Salvini, ma hanno rifiutato con uno schiaffo sonante la politica del partito democratico di Matteo Renzi. Il segretario appena eletto con primarie plebiscitarie è stato “respinto” in modo netto dagli elettori. Il Pd  ha perso Genova, dopo aver perso in precedenza la Regione Liguria. Una sconfitta fondamentale che provocherà reazioni a catena, dentro e fuori il partito. L’ennesima, dopo che alle comunali del 2016, il Pd aveva perso sia Roma che Torino. Ma è stata una frana generale per il partito democratico, soprattutto nelle aree “rosse”.
E’ stata anche la domenica della grande astensione, visto che la media dei votanti è meno del 50 per cento – i primi dati parlano di un 47 % rispetto al 58,9% del primo turno. A Trapani l’affluenza minima, circa il 30%, ha consegnato la città nelle mani del commissario, visto che c’era un solo candidato.

E al di là del caldo afoso forse ci sono altre ragioni che spiegano un allontanamento dalle urne così clamoroso.
Oltre alla sfiducia degli oltre 4 milioni di cittadini chiamati a esprimersi su 111 Comuni di cui 22 capoluoghi di provincia, gli elettori di sinistra non hanno creduto al partito democratico. Perché è davvero  il centrosinistra la principale vittima di questo turno elettorale. Nelle 22 città capoluogo 13 erano amministrate dal centrosinistra, 4 dal centrodestra, tre da liste civiche e due erano retti da commissari. Ebbene, ovunque ha dilagato il centrodestra, anche là, come L’Aquila dove il candidato del centrosinistra Di Benedetto si era presentato dopo il primo turno con un notevole risultato, il 47%. E invece ieri la débacle. Lo stesso sindaco uscente Cialente non riusciva a spiegarsi una tale sconfitta. La destra unita ha vinto anche a Sesto San Giovanni, la “Stalingrado” d’Italia, la città “rossa” per eccellenza. Nella città lombarda era arrivato anche Walter Veltroni a tenere un comizio, una delle rare uscite dei big del partito, visto che anche lo stesso Renzi si è defilato dalla campagna elettorale, forse presagendo il clima ostile. La destra, stando ai risultati delle prime ore dello scrutinio, ha vinto anche a La Spezia, a Oristano, a Como, a Piacenza, Pistoia, Rieti, Monza, Alessandria, Catanzaro. E anche a Verona dove Renzi aveva invitato i suoi a votare per la lista civica dell’ex sindaco Tosi con Patrizia Bisinella.
Per quanto riguarda il M5s ha vinto, nelle città, solo a Carrara dove De Pasquale ha battuto il candidato del centrosinistra. A Parma il successo è andato in maniera netta all’ex M5s Pizzarotti che si è presentato con una sua lista civica. E a proposito di liste “dal basso”, successo di Massaro alla guida di una coalizione di sinistra a Belluno, mentre la lista padovana di Lorenzoni, una delle sorprese del primo turno, ha appoggiato il candidato del centrosinistra Giordani facendolo vincere su Bitonci del centrodestra. Insomma, là dove il centrosinistra ha stabilito un’alleanza con forze di sinistra ce l’ha fatta. Ma sembrano esperienze sporadiche, locali, più che decise dall’alto. Esperienze di sinistra unita e civica. Giordani lo dice, appena dopo il risultato: “Non voglio più divisioni o liti. Il nostro può essere un esperimento politico interessante da esportare anche a livello nazionale”. Il Pd di Matteo Renzi ha perso in tutte le città dell’Emilia Romagna, a Sesto San Giovanni, a L’Aquila. Al Sud è andata meglio per il centrosinistra, a Taranto e a Lecce, e sembra quasi che sia accaduto più per l’influenza di Emiliano che di Renzi.

A questo punto il Pd di Matteo Renzi appare sempre più isolato in un suo dammatico arroccamento che ha dimostrato l’assenza di rapporto con la realtà dei territori. Non solo. Il Pd paga anche le scelte a livello nazionale, sia del governo Renzi che del suo erede Gentiloni. Dalla riforma costituzionale già sonoramente respinta al mittente al pasticcio della legge elettorale fino ad arrivare al ripristino dei voucher. Insomma, una serie di eventi che alla sinistra non è piaciuta per niente. Al di là del peso degli “scissionisti” del Mdp, sembra proprio che sia stata la base del Pd, la “pancia” del partito, che non ha risposto al suo segretario.

La destra ha sfruttato questa debolezza e ha stravinto mettendo insieme la Lega e Forza Italia, mentre il M5s rimane l’incognita. Ha vinto solo in otto comuni, ma cosa hano fatto gli elettori pentastellati? Avranno seguito l’indicazione di Grillo di astenersi o invece hanno dato il loro voto al centrodestra?

Jim Estill: «Ai profughi diamo un lavoro, non elemosine»

La casa, dove I consume the news, dove – letteralmente – “consuma le notizie”. Ti risponde così Jim Estill, imprenditore canadese, 60 anni, se gli chiedi dove si trovava esattamente, quando ha preso la decisione che ha cambiato la vita di centinaia di rifugiati siriani senza più pace, senza più destino, senza più patria. Ora si trovano con una casa, una vita, un lavoro, una chance in Ontario, Canada. Loro gli hanno mandato una mail e Jim ha risposto non offrendogli falsa solidarietà, ma un lavoro.
Un giorno del 2015 c’è un telegiornale che parla in un salotto in Canada. Jim è lì dentro. «Ho visto questa enorme crisi umanitaria in corso. Quello che è successo a quel punto è che ho presto la mia lista delle cose da fare, la mia to do list, e quando aggiungo qualcosa alla mia lista, generalmente viene fatta. Ho chiesto alla mia assistente di organizzare un incontro con chiese, sinagoghe, moschee, l’Esercito della salvezza. Abbiamo fatto degli incontri di un’ora. Io non amo i long meetings». La prima famiglia siriana che la Danby, l’azienda di Jim, ha “adottato” è arrivata nel gennaio del 2016 e l’ultima nel maggio 2017, ma «molte altre famiglie sono in arrivo», dice l’imprenditore. «Finora siamo riusciti a far arrivare 58 famiglie, quindi circa 200 persone. Tutti nuclei familiari, con figli, anche adolescenti. Oltre alle 58 famiglie, lavoriamo e sponsorizziamo altri 200, 300 rifugiati che vengono aiutati dal governo o altre agenzie della zona».
Jim, come ha deciso di compiere questo percorso e far arrivare i rifugiati siriani nella sua azienda per permettere loro di lavorare?
Mi ha aperto gli occhi ascoltare un rabbino che ha detto che una delle ragioni per cui l’olocausto era accaduto era perché molte persone rimanevano ferme, senza fare niente. Quando ho visto i filmati provenienti dalla Siria, ho pensato che le persone non facessero abbastanza o non abbastanza velocemente e un imprenditore diventa frustrato per la lentezza. That is why I took things into my own hands. Entrepreneurs tend to do that. Ecco perché ho preso le cose tra le mie mani, gli imprenditori tendono a farlo. Ho anche pensato: e se succedesse alla mia famiglia, cosa vorrei? Io non vorrei solo essere nutrito. Non vorrei solo una tenda, un posto dove vivere. Io vorrei una chance per ricostruire la mia vita, un piccolo aiuto per ricominciare.
Quanto le è costata questa operazione?…..

L’intervista a Jim Estill prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

La pillola della libertà compie sessant’anni

Nel giungo del 1957, sessant’anni fa, la Food and Drug Administration (Fda) degli Stati Uniti d’America autorizza la vendita di un nuovo farmaco capace di contrastare i disturbi mestruali. Si tratta di una combinazione di due ormoni (un estrogeno e Nel giugno del 1957, sessant’anni fa, la Food and drug administration (Fda) degli Stati Uniti d’America autorizza la vendita di un nuovo farmaco capace di contrastare i disturbi mestruali. Si tratta di una combinazione di due ormoni (un estrogeno e un progestinico) messa a punto nel 1951 da Carl Djerassi, in collaborazione con Luis Miramontes and George Rosengkranz, e sperimentata clinicamente dai medici John Rock, Celso-Ramon Garcia e Gregory Pincus nel 1954. Nulla di eccezionale. Non fosse che ben presto si scopre che, per l’effetto combinato dei due ormoni, il farmaco inibisce l’ovulazione nelle donne.
Così, tre anni dopo, nel 1960, la Fda approva l’utilizzo della Combined oral contraceptive pill (Cocp), la prima pillola contraccettiva. A partire da questa data, il farmaco viene distribuito in tutto il mondo con il nome di Enovid e con effetti sociali e culturali enormi. Nota ormai semplicemente come la pillola, la COCP fornisce un contributo determinante a realizzare quella che molti considerano la più importante rivoluzione del XX secolo: la rivoluzione femminile.
Proprio per questo non è il caso di celebrare la ricorrenza fermandosi non più di tanto sui meccanismi di funzionamento, ormai ben noti, del farmaco. Conviene invece fermarsi sui suoi effetti sociali e culturali: enormi, appunto, e, ancora oggi, niente affatto esauriti.
E già perché la Cocp di Carl Djerassi…

L’articolo di Pietro Greco prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Il rap rende tutti cittadini del mondo

La scritta “Siamo cittadini del mondo” campeggia su una lavagna di ardesia, in una classe elementare di Tor Pignattara, Roma. È una foto, pubblicata su facebook, che ritrae una scena ormai familiare nelle nostre scuole primarie: alcuni bambini e poi un artista dai tratti somatici mediorientali. Sono tutti romani, tutti italiani. Cittadini del mondo, appunto. Il profilo social è dell’artista Amir Issaa, 38 anni. Lui a Roma c’è nato, da un padre egiziano arrivato per far fortuna, ma che poi ha avuto problemi con la giustizia, e una madre italiana che ha trasformato le difficoltà economiche in identità umana e professionale, quella dei suoi figli. Di questo e di molto altro ancora, di tutto quello che è Amir oggi, del fatto che è portavoce dei diritti delle cosiddette “seconde generazioni” di immigrati, parla in Vivo per questo, il suo libro autobiografico. Appena uscito per Chiarelettere, Amir lo porta nelle librerie, location cui è poco avvezzo, confessa, abituato com’è ai locali da concerto. Ma Amir, ancora una volta, si mette in gioco con la determinazione che da sempre lo contraddistingue, grazie all’ hip hop, che, attenzione, lui precisa, è un movimento culturale. Facile per lui parlare di Ius soli e delle battaglie contro il razzismo, un problema, dice, che tra i bambini non esiste. Musicista, cantante, è portavoce dell’integrazione e pur avendo lui la cittadinanza italiana, è pronto a combattere per chi non ce l’ha: quasi un milione di giovani italiani senza cittadinanza. È un problema culturale: «Bisogna accettare che non esistono Paesi in cui ci sono persone uguali, con lo stesso colore della pelle, ma bisogna godere di questa diversità, proprio come i bambini che non si pongono questi problemi».
Leggendo della tua infanzia, poi della tua gioventù, del tuo vivere il quartiere, della tua passione per l’hip hop, dove hai trovato, fin da piccolo, il coraggio per cambiare una condizione così disagiata, cercando una strada che ti desse una identità anche professionale?
Nella musica. Il rap è stato la chiave di tutto questo, mi ha dato la possibilità di esprimermi, di raccontare al mondo chi ero, di trovare un lavoro perché mi dà da mangiare da tanti anni. Sono stato fortunato, mi sono trovato subito un alter ego, una vita parallela dove nessuno ti chiede tutte le cose che ti chiede la società. È un mondo a parte, ti crei un nome, che non è il nome vero. Ho trovato il modo di incanalare quello che sentivo nell’arte, trasformandolo in quello che realizzo.
Il “questo” per cui vivi, dal titolo del tuo libro, che cosa è esattamente?
Il titolo è quello di una mia canzone, uscita nel 2004, molto conosciuta tra i ragazzi che seguono l’hip hop, in cui parlavo di quello che mi aveva fatto avvicinare a questo mondo, a questa cultura. Riportare quel titolo nel mio primo libro, a livello simbolico, è stato bello. Con la casa editrice abbiamo cercato un titolo non legato a un solo tema, come per esempio il discorso dello Ius soli o dell’integrazione, ma a tutta la mia vita.
Quando è iniziata la passione per la musica?
Avevo quattordici anni, mia sorella più grande ha portato a casa una cassetta dove c’era una canzone rap, io l’ho sentita e ho iniziato a cantarlo. Da quel giorno non ho smesso.
Il libro inizia con la descrizione di un momento familiare difficile: ci sono due bambini piccoli, uno sfratto imminente, si percepisce disagio, povertà. Naturalmente, parli della tua vita di anni fa, poi le cose come sono andate?
Non sono mai andate benissimo, ma c’è sempre stata mia mamma che ha bilanciato tutto quanto. Mio padre, quando è arrivato in Italia, ha avuto seri problemi con la giustizia, è stato fuori casa, diciamo, per un po’. Mia madre mi ha dato un’educazione, una strada da seguire, dei valori, soprattutto un esempio: si alzava la mattina presto, aveva due lavori e ha fatto tanti sacrifici. Io poi ho incontrato la musica, ma anche mia sorella sta bene, anche se lavora in un ufficio, e fa una vita totalmente diversa dalla mia.
Tu hai detto in una canzone: «Non mi sento discriminato, non mi sento un italiano di serie b, mi sento come tutti gli altri». Ma da piccolo non hai mai subito episodi di bullismo?
No, mai, mi viene da dire che l’unica che mi ha “bullizzato” è stata la vita all’inizio, proprio per quei problemi familiari. È stato l’unico bullismo che ho subito, ma mai dai compagni di scuola.
Sei un punto di riferimento per molti ragazzi che hanno, o hanno avuto, difficoltà di integrazione o problemi con l’ottenere la cittadinanza italiana. Tu da alcuni anni, grazie alla piattaforma Change.org, promuovi la petizione per il riconoscimento dello Ius soli: come sta andando?
Appena lanciata, la petizione è andata molto bene, poi il discorso si è arenato e, a periodi, come adesso, la rilanciamo. Sinceramente, non mi aspetto che passi la legge sullo Ius soli, non sono così illuso. Intanto, la società è andata già un pezzo avanti, quello che sta succedendo lo vediamo tutti quanti. In una qualsiasi scuola elementare o media vediamo che i ragazzi stanno crescendo tutti insieme, cittadinanza o non cittadinanza. È la politica a essersi fermata invece di seguire la società. Quello della cittadinanza lo usa come strumento elettorale, ma poi non fa nulla.
La cecità dei politici, come dici tu, di fronte a un contesto sociale che si trasforma, da cosa dipende?
La cittadinanza non la vedono come una priorità, come un tema importante, i politici sostengono che ci sono altre urgenze. In questo momento è un argomento scomodo anche se capisco che è un tema delicato, buttato in mezzo a un minestrone di altre cose che non c’entrano niente. Troppo facile fare un paragone tra quello che succede in tutto il mondo, basta pensare ai recenti fatti di Londra, e a quelle seconde generazioni, ma è un parallelismo sbagliato che i media usano tutti i giorni, io non ci voglio cadere. Sono certo che questa situazione sta creando solo confusione perché ci sono tantissimi ragazzi di seconde generazioni cattolici, protestanti, anche non religiosi, perché associarlo sempre alla religione islamica? Io, infatti, di religione non parlo proprio mai, non la trovo un argomento interessante.
Quando sei stato insignito dell’attestato di stima, in occasione della candidatura ai David e ai Nastri d’Argento per aver curato la musica del film di Francesco Bruni Scialla!, che cosa ti ha detto l’allora Presidente Napolitano?
Dopo quell’incontro al Quirinale, sì, ho lanciato la petizione e abbiamo invitato anche lui a firmare. Nel discorso di fine anno, in realtà, il Presidente ha parlato del diritto alla cittadinanza ai figli nati da genitori stranieri. Per questo ci piace pensare che lo stimolo eravamo stati io e gli altri ragazzi che si impegnano in questa battaglia, che come me contribuiscono ad arricchire la cultura italiana.
Hai un pubblico nutrito, lo si comprende dal seguito sui social, e adesso incontri la gente nelle librerie. Chi sono le persone interessate alle storie che racconti, anche rappando?
Il mio pubblico è eterogeneo: ragazzi giovanissimi, poi quelli che seguono la mia musica da anni, che vengono ai concerti, ma anche chi ha visto Scialla!. Quelli che condividono i miei messaggi sull’integrazione, contro la discriminazione. A un mio evento, possono venire adolescenti e anziani. I laboratori che faccio di scrittura rap, in questi giorni per promuovere il libro, sono frequentati da bambini che vengono insieme con i nonni: si mettono lì, scrivono le rime e si divertono.
Quale filo segue un tuo spettacolo?
Canto le mie canzoni e trattandosi sempre di storie importanti, profonde, mi piace spiegarle. Spesso racconto anche perché ho scritto quella determinata canzone, faccio lo storytelling. Devo dire che i miei lavori sono nati da un’urgenza, dovevo dire qualcosa. La mia performance si basa sul rap, che è una componente dell’hip hop, un movimento culturale in cui ci si esprime in varie forme: il rap che è quella vocale, poi c’è quella del dipingere, espressiva, artistica con i graffiti e poi quella del corpo che è la danza, la break dance. Ma io faccio rap, il modo nella mia vita per esprimermi.
Hai scritto un centinaio di canzoni. Se si possono definire, quali sono i contenuti più diffusi?
Da quelli più, diciamo, impegnati, ai classici sull’ amore, ma anche canzoni di protesta, di rabbia. Canto della mia ragazza, di mio figlio che ha diciassette anni, dei miei amici.
Da romano a tutti gli effetti, cresciuto proprio nel quartiere di Tor Pignattara, puoi dire come è cambiata questa città? Quali difficoltà ancora perdurano?
Per me, non è cambiata molto. Certo, si parla sempre delle questioni di tutti i giorni: i mezzi pubblici, l’immondizia, il caos, ma, per come l’ho vissuta io, la città è sempre stata “incasinata”. Lo avvertiamo di più in questo momento perché i social network amplificano il disagio, tanto. Sulla cultura però va detto che in passato c’erano più iniziative e si investiva di più, questo sì. Con la nuova amministrazione comunale non siamo ancora riusciti a capire in quale direzione stiamo andando, è un grande punto interrogativo.
Hai iniziato questo giro di presentazioni: a Roma e in tutta Italia…
Porto sempre la mia musica, faccio sentire i miei brani. Il libro è per me un pezzo del percorso che è iniziato con il rap: dalle storie in musica arrivare alla scrittura, dopo tanti anni. Direi che è solo una tecnica diversa.
Ti godi questo momento o pensi già a cosa fare per il futuro?
Sto lavorando a un disco che doveva uscire con il libro, ma poi ho pensato che avrebbe confuso le cose, che l’uno avrebbe azzerato l’altro. Ho preferito concentrarmi sul libro perché è una cosa nuova. C’è già un disco, però, tante canzoni nuove che vorrei far uscire in autunno e poi fare un tour. Portando naturalmente anche il libro dentro al mio live.

 

L’intervista ad Amir Issaa prosegue sul numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Il nodo palestinese

epa06015167 A view of Qatar Street sign at a Qatari-funded housing project in Khan Younis town, southern Gaza Strip, 07 June 2017. According to media reports, Qatar has been a major contributor to funding the rebuilding of Gaza infrastructure after the 2014 war with Israel, pledging one billion US dollars for reconstruction projects. Saudi Foreign Minister on 06 June urged Qatar to stop supporting Hamas in Gaza Strip, one day after his country along with Egypt, Bahrain, and the United Arab Emirates, cut diplomatic relations with Qatar, which they accuse of supporting terrorism and threatening regional security. EPA/MOHAMMED SABER

Dalla Nato araba ad un nuovo ordine mediorientale: la visita di Donald Trump nel Golfo, a fine maggio, ha rimescolato le carte nel fronte sunnita. Dopo aver alacremente lavorato ad un asse regionale contro l’Iran – formato dai Paesi del Golfo (Qatar compreso) e ufficiosamente Israele – il presidente Usa ha lasciato dietro di sé una resa dei conti che ha radici politiche e economiche ben più profonde.
Una crisi seria tanto che gli stessi Stati Uniti, dopo il plauso all’alleato saudita e la semi-rivendicazione dell’isolamento di Doha passati per i tweet entusiastici di Trump, mettono una pezza: in 24 ore, il 15 giugno, hanno prima mandato due navi da guerra per un’esercitazione congiunta con la Marina qatariota e poi hanno firmato un accordo di vendita di 36 caccia F15 (12 miliardi di dollari) al Paese fino a poco prima isolato per sostegno al terrorismo islamista.
Quello che resta, che la crisi rientri o meno, è la ridefinizione della rete di alleanze regionali con un asse sciita (Iran-Siria-Hezbollah e in parte Baghdad) opposto ad un fronte sunnita spaccato in due: da una parte l’Arabia Saudita e il suo stuolo di pretoriani (Emirati Arabi, Egitto, Bahrain) e dall’altra il Qatar a cui rimane la radicata amicizia con la Turchia, costruita sui legami con i Fratelli Musulmani. A monte della rottura c’è l’intenzione di Riyadh di ergersi a leader indiscusso della regione, velleità che passa obbligatoriamente per l’indebolimento del principale rivale, Doha.
Ovvi gli effetti che la rottura provocherà sui conflitti locali: in Libia dove il primo fronte guarda al generale Haftar come futuro leader e il Qatar lavora al rafforzamento del premier del governo di unità nazionale di stanza a Tripoli, al-Sarraj; in Siria dove i gruppi islamisti di riferimento di Doha e Riyadh non sono gli stessi e dove gli ufficiosi negoziati tra Assad e Qatar per la liberazione di alcuni ostaggi hanno riavvicinato i qatarioti al governo di Damasco, nella chiara intenzione di partecipare alla futura stabilizzazione/ricostruzione del Paese.
E poi c’è la Palestina….

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA