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Democrazia sì e atea

Democrazia Atea

Costituzione, diritti umani, antifascismo. Sono i “tre pilastri dell’azione” di Democrazia Atea, realtà politica nata nel 2009, con la stella della Repubblica Italiana nel simbolo. A ricordarlo è il vicesegretario Ciro Verrati all’apertura dell’assemblea pubblica che ha preceduto il congresso nazionale tenutosi a Roma sabato 24 giugno scorso. L’assemblea, aperta a tutti, si proponeva l’obiettivo di illustrare anche ai non iscritti le linee e la posizione politica in vista delle future elezioni.
È il segretario nazionale Carla Corsetti, che nel congresso vero e proprio del pomeriggio sarà riconfermata all’unanimità, a spiegare l’importanza della connotazione di ateismo che campeggia nel nome del partito: una proposizione tangibile, non incline al compromesso, che sancisce inequivocabilmente il perseguimento della grande assente della società e della politica italiana: la laicità. Un valore da opporre al tentativo di cattolicizzazione messo in atto da gran parte della classe politica, che mina alle fondamenta il concetto di democrazia, contrasta con la secolarizzazione in corso e rischia di avvicinarci, di fatto, a un sistema politico che siamo soliti attribuire ad ambienti esotici: la teocrazia.

Sembra un paradosso, eppure giova ricordare l’ovvio: il più vicino Stato straniero retto da un monarca assoluto con una corte di prìncipi maschi, e che non ha mai aderito alla carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non è l’Arabia Saudita: per raggiungerlo basta imboccare il lungotevere.

«Le parole sono importanti» ricorda Carla Corsetti, e il termine laicità, nella realtà italiana, ha subito un notevole grado di corruzione. Inaggirabile e toccante, a questo punto, il ricordo di un grande paladino della laicità scomparso solo un giorno prima, Stefano Rodotà. Ben lungi dalla laïcité su cui si fonda la Costituzione francese, spiega Corsetti, «la concezione italiana di laicità non va oltre un’idea vaga ed equivoca di non-clericalità». Come insegnano i linguisti, non si può ridurre il significato di una parola alla negazione del suo opposto. Non far parte del clero non basta, bisogna che si riconosca l’eguaglianza di tutte le confessioni, senza concedere particolari privilegi o riconoscimento ad alcuna, riaffermando l’autonomia dello Stato in tutti i suoi poteri e le sue funzioni rispetto al potere ecclesiastico, nel rifiuto del riconoscimento del primato dell’autorità morale di qualsiasi religione.

La conseguenza è inevitabile: la Costituzione va difesa e applicata a tutela dello Stato democratico, ma l’articolo 7 va modificato. Il primo obiettivo del programma di DA è quindi l’abolizione dei Patti Lateranensi, eredità mussoliniana prima e catto-togliattiana poi, fattore di una distanza dalla laïcité d’oltralpe che è destinata a restare altrimenti incolmabile; «anche i fedayyn – ricorda Carla Corsetti – dopo la cacciata dello scià di Persia, si proclamavano laici». Inutile ricordare com’è andata a finire. Il fine della battaglia di questo partito non è la ricerca di poltrone, precisa il segretario nazionale, ma la difesa incondizionata di un principio inderogabile su cui fondare un cambiamento culturale, oltre che politico.

Per meglio spiegare il senso del programma di DA, durante l’assemblea vengono ricordati alcuni esempi significativi di violazione del principio di laicità sancito dalla stessa Costituzione. Appare così chiaro che il “fenomeno” italiano ha ormai assunto le dimensioni di una pandemia: scivoli preferenziali di accesso all’insegnamento per docenti di religione approvati dai vescovi, messe inaugurali di anni accademici e giudiziari, ubiquitarietà del crocifisso in aule scolastiche, tribunali, ospedali e seggi, abdicazione alla pubblica missione di sanità e scuola, consegnate in proporzioni sempre crescenti a istituti privati di matrice cattolica, per di più ben foraggiati attraverso un esercizio fantasioso dei meccanismi legislativi, progressiva erosione di ciò che resta di pubblico servizio a forza di obiezioni di coscienza e mancate attivazioni delle alternative all’ora di religione. Tutto ciò, mentre i dati indicano che la partecipazione religiosa della popolazione italiana è in calo e la società procede verso una secolarizzazione che stride con le scelte delle istituzioni. Persino il diritto politico di asilo e l’integrazione sociale dei rifugiati sono demandati (e derubricati) allo spirito di tolleranza e accoglienza dettato dal vangelo, mentre «vivere è un diritto umano e non carità cristiana», scandisce ancora Corsetti.

Con gli interventi degli ospiti, Marco Ferrando (Partito Comunista dei Lavoratori), Enzo Marzo (Critica Liberale), Ugo Moro (Partito Comunista d’Italia) e Dionisio Paglia (Comitato 4 dicembre), si conclude la presentazione di un’impostazione culturale che oggi, nella politica italiana appare nei fatti minoritaria. Politiche di equità sociale, lotta al precariato e potenziamento degli ammortizzatori, reti di assistenza per disabili e anziani, riforma della scuola e dell’università volte a una maggiore autonomia, incentivazione al ritorno in Italia di ricercatori, docenti e medici, incentivazione dell’agricoltura; e ancora, sul piano normativo, adozione di un nuovo codice deontologico per le Forze dell’Ordine, introduzione del reato di tortura nel codice penale, esame prioritario delle leggi d’iniziativa popolare nei lavori parlamentari, adozione di iniziative di riabilitazione alternative alla detenzione; non manca l’attenzione per l’ambiente, con il progetto di sostituzione delle fonti energetiche non rinnovabili con quelle alternative e l’adozione del modello “berlinese” per fare dello smaltimento e il riutilizzo dei rifiuti una risorsa. Sono solo alcune delle tante cose di sinistra del programma politico di DA. Cose che, osserva il segretario nazionale, sarà difficile realizzare in assenza di una vera rivoluzione culturale che rimetta al centro la laicità, operazione che le attuali forze di sinistra, riunite al Brancaccio il 18 giugno, stentano a portare avanti con convinzione.
«La stima perché Democrazia Atea ottenga una rappresentanza in Parlamento è di vent’anni dalla fondazione del partito», conclude Carla Corsetti; a conti fatti, ne mancherebbero ancora dodici. Ma noi ci auguriamo che ce ne vogliano molti di meno.

Pirandello cantore della vita invisibile

Il 19 marzo del 1927 Antonio Gramsci scrive una lettera alla cognata Tatiana in cui rivela di volersi occupare «di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore. Ho pensato a quattro soggetti finora». Tra questi, «uno studio sul teatro di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappresentato e ha contribuito a determinare».
Gramsci – che aveva già incontrato le opere di Luigi Pirandello tra il 1916 e il 1920 come critico teatrale dell’Avanti! – affronta a più riprese, nei Quaderni, una riflessione sull’autore siciliano che, senza assumere il carattere di un vero e proprio studio, converge soprattutto sul carattere storico-culturale dell’arte pirandelliana.
Gramsci coglie in Pirandello una concezione del mondo che «può essere identificata con quella soggettivistica». Una concezione del mondo, sottolinea Gramsci, non sempre coerente ma che entra in conflitto potente e radicale con quella del teatro italiano e della cultura dominante dei primi decenni del Novecento, portando alla dissoluzione il «vecchio teatro tradizionale, convenzionale, di mentalità cattolica o positivistica, imputridito nella muffa della vita regionale o di ambienti borghesi piatti e abbiettamente banali» e «confluendo col futurismo migliore nel lavoro di distruzione del basso ottocentismo piccolo borghese e filisteo». Parole volutamente forti che colgono e sottolineano la forza dirompente e innovativa della drammaturgia pirandelliana.
Luigi Pirandello, di cui il 28 giugno ricorre il 150esimo anniversario della nascita, esplode nel panorama nazionale e internazionale con Il fu Mattia Pascal che nel 1904 viene pubblicato a puntate sulla rivista Nuova Antologia. Il romanzo ha un tale successo che viene tradotto immediatamente in tedesco e uno degli editori più importanti del tempo, Emilio Treves di Milano, decide di occuparsi della pubblicazione di tutte le opere del suo autore.
Mattia Pascal – l’uomo che scompare, creduto morto, e che riappare anni dopo con una nuova identità senza che nessuno lo riconosca, il suo alter ego Adriano Meis, – è il personaggio nuovo che la vecchia narrativa verista e positivista non riesce più a rappresentare. Siamo molto distanti infatti dal modello dannunziano dello «scrittore di parole» e dal Verga, «scrittore di cose»….

L’articolo di Annalina Ferrante prosegue sul numero di Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

Bulli e dritti verso lo schianto

Insomma. L’altro ieri sera il Partito Democratico decide (non erano passate nemmeno 24 ore dalla batosta elettorale in cui il “nuovo” Renzi ha “non vinto” come il “vecchio” Bersani) di pubblicare una foto sui propri social. Questa:

Una foto che, nella torbida simpatia di Orfini che ha firmato il post, avrebbe dovuto farci sorridere per l’infantile trucchetto del “vecchio” come “ridicolo”. E fa niente che al simpatico tavolo perculato da Orfini ci siano anche due persone che non ci sono più (Marco Pannella e Padoa Schioppa): a Orfini diverte così tanto fare il bullo nascosto nelle mutande di Renzi che alla fine ci scrive sotto anche “Condividiamo!”. Lo vuole fare sapere a tutti. Insomma.

«A parte che Padoa Schioppa e Pannella sono morti…è un post di pessimo gusto, vista anche la figura che abbiamo fatto meno di 24h fa…» commenta Benedetta; «Ah, ma non è Matteo Renzi News…
Ma quando avete fatto questo post, vi siete resi conto che lì in mezzo, oltre ad esserci l’anima storica di questo partito, c’è anche il nostro attuale Premier?», scrive Daniel; «Ma la finiamo di fare ste cose?
Ma l’analisi sarebbe questa? Ste cose da trolloni a chi cacchio giovano? Perché se me lo spiegate magari da comunicatore capisco. Dai, basta»., scrive Samuele; «Ma è il titolista di Libero che vi fa da da social media manager? O avete affittato quello di Salvini? Vergognosi, provo imbarazzo ad aver rifatto la tessera l’anno scorso, ma adesso basta», si arrabbia David; «Il mio è un appello da semplice iscritto disperato: cambiate i toni, cambiate i modi», dice Matteo; «Da iscritto PD vi chiedo: state bene? Dentro a questa lista c’è, tra gli altri, l’attuale premier Gentiloni (che il PD mi pare sostenga)», aggiunge Stefano. E avanti così. Migliaia di commenti disgustati. Attenzione: di iscritti del PD.

Poi, ieri, anche Romano Prodi perde la pazienza (Prodi, eh) e all’ennesimo calcio di Renzi decide di rispondere: «Leggo che il segretario del Partito democratico mi invita a spostare un po’ più lontano la tenda. Lo farò senza difficoltà: la mia tenda è molto leggera. Intanto l’ho messa nello zaino», dice l’ex presidente del consiglio. Evvai.

Poche ore prima, su Repubblica Walter Veltroni aveva certificato, in modo asciutto e pacato, quella che in altri tempi si sarebbe chiamata mutazione genetica, rispetto al dna con il Pd nacque dieci anni fa al Lingotto: «Il partito non ha più identità».

Critiche che, del resto, sia Cuperlo che Orlando e Emiliano lanciano da tempo. Ma sono “nemici interni”, come li chiamano loro. Quindi lasciamoli stare. Andiamo avanti.

Imbarazzatissimo anche Graziano Delrio: «Le tende si mettono nello zainetto, ma si possono anche ritirare fuori…», prova a balbettare.

«Serve calma e responsabilità per il ruolo che il Partito ha nei confronti degli elettori. Ripeto serve calma e responsabilità rispetto a esasperazioni che non servono», dice il tiepido Lorenzo Guerini, esperto di bolliture a fuoco lento, pompiere come massima inclinazione.

Poi arriva il siluro del ministro Dario Franceschini che pubblica in un tweet i deludenti dati delle amministrative e commenta: «Bastano questi numeri per capire che qualcosa non ha funzionato? Il Pd è nato per unire il campo del centrosinistra non per dividerlo».

Intanto ieri in provincia di Lecce nel PD hanno salutato 104 tra sindaci, assessori, consiglieri comunali e quadri. Tutti pronti a migrare dal Partito Democratico ad Articolo 1-Mdp.

Avanti. Bulletti. Verso il dirupo.

Buon mercoledì.

Darwin cancellato dai libri di scuola in Turchia

Niente più evoluzione, addio Darwin. Il concetto è stato cancellato dai libri di testo. Succede in Turchia, dove a scuola non verrà più insegnato agli alunni, sui banchi dei licei, per ordine dell’amministrazione di Recep Tayyip Erdogan. La didattica è strumento di potere dell’AKP, partito di libertà e giustizia di cui fa parte il presidente, e la biologia lo è adesso della religione.

Dal prossimo settembre gli allievi avranno delle pagine mancanti nei libri di testo perché la questione dell’evoluzionismo è considerata “controversa” nella terra di Ankara: «Gli studenti non hanno un bagaglio scientifico abbastanza completo per poterla comprendere» ha detto Alpaslan Durmus, membro del ministero dell’Educazione turco.

«Così le ultime tracce di educazione secolare verranno cancellate in Turchia» ha denunciato Feray Aytekin Aydogan, responsabile dell’unione secolare degli insegnanti, la Egitim Sen. In molti credono che la Turchia non sia una società così profondamente islamica e che con questa scelta di soppressione del concetto dell’evoluzionismo la Turchia si pone «nello stesso gruppo di stati ultraconservatori come l’Arabia Saudita».

Pink Floyd, cinquant’anni suonati al Victoria and Albert Museum

The-Pink-Floyd-Exhibition

Fino al primo ottobre (salvo proroghe), al Victoria and Albert Museum di Londra, la mostra Their Mortal Remains racconta la storia di una band leggendaria, i Pink Floyd. Nello stesso luogo che ospitò qualche anno fa la mostra su David Bowie.   I quattro ragazzi di Cambridge si incontrarono al college – Roger Waters, Syd Barrett, Nick Mason, Rick Wright, a cui si aggiungerà poi David Gilmour – hanno dato un contributo fondamentale al rock. Nata musicalmente all’Ufo Club di Londra, la band proponeva dal vivo suite psichedeliche con ampio spazio all’improvvisazione.
All’inizio della mostra ci vengono consegnate delle cuffie, facilitando la comprensione durante tutto il percorso immersi nella musica. Immagini d’epoca come il video promozionale di Arnold Layne, il loro primo singolo pubblicato esattamente cinquant’anni fa. Interviste, brani tratti da film come Zabriskie Point o da  Pink Floyd a Pompei. La mostra dedica una sezione alla figura geniale di Syd Barrett, purtroppo consumato dall’uso di Lsd.
Fra centinaia di oggetti e strumenti in ordine cronologico, ad un certo punto ci si imbatte in una vetrina in cui viene raccontato come nacque il nome del gruppo. Le foto di Pink Anderson e Floyd Council, due bluesman afroamericani, spiccano in bella evidenza. Un filmato  ci mostra la band impegnata in studio per le registrazioni di The Piper at the Gates of Dawn, album d’esordio nato dal genio di Barrett. Poi, a seguire, A Saucerful of Secrets, in cui la presenza di Barrett comincia a svanire, anche se lo stile c’è ancora, Ummagumma molto amato dai fan ma non accettato del tutto dal gruppo, Atom Heart Mother, Meddle e Pink Floyd: Live at Pompeii.
Proseguendo nella mostra si arriva nelle sale dove si viene catturati dalla musica dell’album che forse non è il loro capolavoro ma sicuramente il successo commerciale più fortunato, The Dark Side of the Moon, il disco dei record. I Pink Floyd per questo disco hanno venduto 45 milioni di copie, sono stati 17 anni consecutivi nella classifica di Billboard. Un’altra sala è dedicata a quest’album con la possibilità di ascoltarlo integralmente davanti a una specie di acquario in cui fluttua il mitico prisma dell’altra mitica copertina.
I loro dischi hanno sempre avuto delle copertine speciali e visionarie create dallo Studio Hipgnosis. Proseguendo nella visita ci si imbatte negli strumenti con cui hanno registrato i loro album. Dalle Fender di Gilmour, al leggendario Synth Vcs3 e le tastiere di Wright, ai bassi di Waters. La sala successiva è dedicata all’ennesimo capolavoro del gruppo, “Wish You Were Here”. Qui si ascolta il racconto di Waters e Gilmour sulla nascita del brano che dava il titolo all’album. Ci si immerge in un’atmosfera da sogno completata da gigantografie delle immagini di copertina.
Proseguendo si arriva nella sala che rappresenta l’aspetto politico, antimilitarista e sociale della band rappresentato da tre dischi, Animals, The Wall e The Final Cut (quest’ultimo vedrà l’uscita definitiva di Waters dal gruppo). Viene spiegato come è stato realizzato Algie, il maiale che sorvola la centrale elettrica di Battersea nella copertina di Animals. Viene descritta la storia di Pink, il personaggio “autobiografico” di The Wall, vi sono i pupazzi e il mitico muro.
La mostra sembra concludersi qui. Il finale ci regala un’atmosfera mozzafiato con tanta emozione e occhi lucidi. In un grande salone, grazie all’Ambeo Mix, un’esperienza visiva e sonora dove si ascoltano in sequenza, su schermi a 360 gradi, il video di Arnold Layn”, quello di High Hopes da The Division Bell e infine Comfortably Numb del 2005 per il Live 8 in cui Waters, Gilmour, Mason e Wright si riuniscono, sul grande palco allestito ad Hyde Park, e suonano insieme per l’ultima volta.
Uscendo dalla mostra si ha la sensazione di aver fatto un grande tuffo nel passato. Una band che ha fatto sognare milioni di fans in tutto il mondo. Unici nel loro genere, costituiscono uno dei pilastri fondamentali nella storia della musica, continuando a influenzare generazioni di musicisti.

Libero scambio, presidio in piazza a Roma contro il Ceta

epa05939278 Protestors hold a 'Stop Ceta' sign, in reference to the free trade agreement between the EU and Canada (CETA), during a May Day protest in downtown Lisbon, Portugal , 01 May 2017. Labor Day or May Day is observed all over the world on the first day of the May to celebrate the economic and social achievements of workers and fight for laborers rights. EPA/MANUEL DE ALMEIDA

In questi mesi ha fatto molto discutere il Ceta (Comprehensive economic and trade agreement) l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada, che riduce le barriere commerciali tra i due mercati. Il trattato, al centro di polemiche internazionali, oggi sarà sottoposto al primo voto in commissione Affari esteri al Senato.

E sempre oggi a Roma in piazza del Pantheon, e mercoledì 5 luglio a piazza Montecitorio, si terrà un presidio contro l’approvazione del Ceta a cui parteciperanno tutte le organizzazioni che sostengono la campagna Stop Ttip (Coldiretti, Cgil, Greenpeace, Slow food). Questa mobilitazione avviene dopo una campagna online con mail indirizzate ai senatori e al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Al Capo di Stato, in visita ufficiale in Canada fino al 1 luglio, si chiede espressamente di non ratificare il Ceta. Sono previsti almeno due giorni di audizioni e discussione in Commissione Esteri del Senato, presieduta da Pier Ferdinando Casini.

L’accordo è stato definito dalla Commissione Europea il “migliore accordo commerciale” mai siglato dall’Unione, ma ha fatto nascere molte critiche e resistenze.
Gli obiettivi del trattato sembrano essere molto ambiziosi: eliminare il 90% delle barriere e dei dazi doganali esistenti negli scambi commerciali tra i due Paesi, liberalizzare il mercato tra le due sponde dell’Atlantico, incentivare gli investimenti stranieri, aprire l’accesso agli appalti pubblici canadesi alle imprese europee.
Il libero scambio, d’altronde, durante la seconda metà del XX secolo è stato decisivo per la crescita economica mondiale, ma i dubbi che il trattato suscita sono molti.
Basti pensare che la mobilitazione contro il Ceta ha raccolto in pochi mesi l’adesione di 3,5 milioni di cittadini europei che hanno firmato una petizione contro il Ceta e il Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), l’accordo per abbattere i dazi e le dogane fra Europa e Stati Uniti, definitivamente sfumato con la vittoria di Trump.

Si teme che il Ceta si possa tradurre in un mercato che di libero avrebbe ben poco, concedendo strapotere alle multinazionali, svendendo l’acqua pubblica e incentivando l’uso degli Ogm.
Una delle paure principali è, ad esempio, che l’accordo di libero scambio possa avere un impatto molto duro sugli agricoltori europei e canadesi, continuando a favorire le multinazionali del cibo con i loro prezzi competitivi, che ben poco tengono conto del benessere dell’agricoltore.
Al centro delle polemiche c’è anche la riforma del sistema degli arbitrati: con il Ceta verrebbero infatti creati nuovi tribunali per le controversie tra aziende e stati. Tribunali che, secondo gli oppositori, potrebbero diventare un mezzo a uso delle multinazionali per fare causa a uno stato tutelando i loro profitti.
Il Ceta potrebbe portare benefici all’economia, rendendo più libero il mercato. Un mercato libero di cui però sembrerebbero poter beneficiare solo le potenti multinazionali.

Il discorso del leader. Battuto alle elezioni

Scusatemi. Mi sono sbagliato.

Ho creduto che il voto di qualche milione di persone di sette mesi fa fosse un fastidiosissimo intoppo nella mia perversione di intendere il potere come mio potere, la politica come la mia politica, il partito come mio partito, la sinistra come la mia sinistra e così anche il mio centrosinistra. Ho pensato, sbagliando ancora, che rendere digeribile alla gente di sinistra le politiche sfacciatamente di destra fosse un buon modo per votare a sinistra. Che sciocco: a forza di rendere potabile quegli altri non ho pensato a quanto fosse naturale votare loro, direttamente gli originali.

Scusatemi mi sono sbagliato.

Ho pensato che bastasse fomentare l’indignazione contro gli stipendi dei politici, iperbolare sulle loro pensioni e rimestare tra i loro arresti per credere che questo bastasse per essere la naturale alternativa. Ho finito per intendere la politica come un soffio continuo sul fuoco e alla fine mi sono bruciato anch’io. Che sciocco: ho creduto che amministrare, sapere amministrare, proporre oltre che demolire, sapere di politica, prendere decisioni e prendere posizioni fossero solo degli antipatici compiti a casa da poter copiare in classe. E mi sono sbagliato. Ora usciamo di qui, diciamo che abbiamo perso e che questo errore ci serve per essere migliori come succede alle persone normali.

Scusatemi mi sono sbagliato.

É che la gente là fuori sta male. Male davvero: più poveri, con meno speranza, spaventati, incazzati, oppressi ogni volta che pensano a un futuro più lungo dei dieci minuti di un caffè, sbeffeggiati dai potenti e per niente informati sulle dinamiche dei poteri. Che sciocco: ho pensato che la gente potesse avere ancora voglia di occuparsi di politica mentre la politica ha smesso di occuparsi della gente. Ora usciamo da qui e lo diciamo chiaro e tondo che governare con solo l’appoggio di una minoranza oscena e silenziosa è un esercizio logorante che vogliamo dismettere subito.

Scusatemi. Mi sono sbagliato.

Buon martedì.

Pedofilia, premiato il docufilm italiano che inguaia papa Bergoglio

«Una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza; divieto di qualsiasi contatto con i minori; assidua sorveglianza da parte di responsabili individuati dal vescovo di Verona». È la pena più pesante inflitta ai sacerdoti pedofili protagonisti di una delle più agghiaccianti vicende di violenza su minori compiuti in ambito ecclesiastico mai emerse in Italia: gli stupri di decine di ospiti dell’Istituto per bambini sordomuti A. Provolo di Verona, perpetrati lungo tutta la seconda metà del secolo scorso. Uno dei destinatari di questo «precetto penale» comminato dalla Santa Sede è don Eligio Piccoli, come si legge nella lettera (di cui Left è in possesso) che fu inviata il 24 novembre 2012 dal presidente del Tribunale ecclesiastico di Verona, monsignor Giampietro Mazzoni, all’avvocato delle vittime riunite nell’associazione sordi Provolo. Per le violenze compiute nell’istituto, nel quale era educatore, Piccoli era stato riconosciuto colpevole al termine di una inchiesta indipendente affidata dalla Santa Sede a un magistrato “laico”, Mario Sannite. Si trattava in quel momento, nel 2012, dell’unica inchiesta mai avvenuta sul Provolo. A causa della prescrizione la magistratura italiana non era potuta intervenire. Come i nostri lettori sanno, all’epoca raccontammo questa storia su Left (aggiornandola successivamente diverse volte). Era l’ennesima puntata di una vicenda iniziata nel 2009 quando alcune delle vittime ormai adulte resero pubbliche le violenze subite, dopo aver preso coraggio sulla scia di situazioni analoghe accadute in tutta Europa (Irlanda, Olanda, Belgio, Inghilterra, Germania etc).

Oggi si torna a parlare nuovamente di don Eligio Piccoli in occasione dei “DIG Awards 2017”, i premi internazionali per le migliori inchieste e reportage video della scorsa stagione. È lui infatti il protagonista de Il caso Provolo, l’inchiesta realizzata da Sacha Biazzo per Fanpage.it che ha vinto il primo premio della sezione “Short”. Il docufilm di Biazzo dura circa 15 minuti e don Piccoli da un letto di ospedale conferma al bravo giornalista quanto emerse dall’inchiesta di Sannite parlando di almeno 10 preti coinvolti e confessando di aver abusato. Come è noto, molti preti della lista presentata dall’associazione Sordi Provolo al magistrato incaricato dalla Santa Sede oggi sono morti, alcuni sono stati trasferiti in Argentina e altri – come don Piccoli e don Pernigotti per citarne un paio – sono ancora in vita.

Riassumiamo in breve la storia. Le accuse formulate da 67 giovani ospiti dell’Istituto sin dalla metà degli anni 80 e inascoltate per quasi 30 anni, riguardavano 25 persone tra sacerdoti e fratelli laici. Al termine dell’indagine nel 2012 Sannite ravvisò elementi di colpevolezza solo per tre di loro: don Piccoli, don Danilo Corradi e frate Lino Gugole. Per Corradi le accuse «non risultano provate», ma «stante il dubbio», la Santa Sede formulò nei suoi confronti un’ammonizione canonica, vale a dire «una stretta vigilanza da parte dei responsabili dei suoi comportamenti». Corradi (come del resto don Piccoli) è pertanto rimasto prete ed è finito sotto il controllo di chi per anni aveva ignorato le accuse nei suoi confronti. Ancor più sconcertante, se possibile, il paragrafo relativo al terzo uomo.

«Gugole – si legge nel testo della Santa sede – è affetto da una grave forma di alzheimer che lo rende del tutto incapace di intendere e di volere. È ricoverato in una casa di riposo presso l’ospedale di Negrar. Nessun provvedimento, stante la sua condizione, è stato preso nei suoi confronti». In realtà sarebbe stato difficile anche solo recapitargli di persona un telegramma, poiché, come mi raccontò nel 2013 il portavoce dell’associazione, Marco Lodi Rizzini, «Lino Gugole è morto nel 2011, con tanto di necrologi pubblicati sui giornali locali e i gazzettini parrocchiali». Cioè un anno prima della “sentenza”.

Riguardo gli altri accusati la Santa Sede liquidò la faccenda affermando che su alcuni di loro – quelli davvero rimasti in vita – avrebbero continuato a indagare. Ma, come vedremo, non risulta. Tra i “prosciolti” infatti figura il nome di don Nicola Corradi (che non è parente di don Danilo) finito in carcere nel novembre del 2016 a Mendoza in Argentina con l’accusa di aver abusato alcuni bambini nella più importante sede sudamericana del Provolo in cui fu trasferito a metà anni 80 dal Vaticano e di cui è stato direttore fino all’arresto. E c’è anche il nome dell’ex vescovo di Verona mons. Giuseppe Carraro, per il quale il 16 luglio 2015 papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto riguardante le sue «virtù eroiche», inserendolo tra i venerabili, primo passo verso la beatificazione. Il loro accusatore, Gianni Bisoli, nel 2012 era stato ritenuto inattendibile nonostante la minuziosa descrizione della stanza in cui era costretto a «masturbazioni, sodomizzazioni e rapporti orali».

In particolare, Bisoli ha sempre raccontato di essere stato violentato dal vescovo anche nel 1964, durante il suo ultimo anno di permanenza nell’istituto. Tuttavia, quando lo intervistai nel 2013 per uno dei miei libri su Chiesa e pedofilia, mi spiegò che il dottor Sannite gli fece vedere un documento firmato da don Danilo Corradi nel quale era apposta come data di sua dismissione dall’Istituto Provolo il 20 giugno 1963. La data quindi non coincideva con la ricostruzione fornita dalla presunta vittima. Ebbene, mi disse Bisoli, «sull’originale che mi fu mostrato la data ha un refuso, appare abrasa e modificata ed è scritta con una grafia diversa rispetto al resto del documento, ma soprattutto è antecedente a quella della mia ultima pagella a firma dell’insegnante don Eligio Piccoli, che ricordavo datata 27 giugno 1964». A nulla portarono le sue perplessità. Nonostante le evidenti manomissioni non fu creduto.

Ma proprio la grossolana manomissione potrebbe costar caro alla diocesi di Verona sotto la cui giurisdizione ricade l’istituto cattolico per sordomuti. A gennaio scorso è stata aperta un’inchiesta nei confronti dei responsabili del Provolo da parte della magistratura scaligera in seguito ad alcuni esposti presentati dall’associazione Rete L’Abuso. E in seguito, il 27 febbraio, anche l’associazione sordi Provolo e Bisoli – che nel frattempo ha ritrovato l’originale della pagella del 1964 – hanno depositato formale querela per la presunta manomissione del documento.

Inoltre, in riferimento all’arresto di don Nicola Corradi, il 29 marzo, la Rete L’Abuso e Bisoli, come riportano diverse testate locali e non, hanno chiesto tramite un esposto alla procura di Verona di accertare eventuali omissioni giuridicamente rilevanti «in capo ai soggetti preposti al controllo dell’operato dei sacerdoti pure in termini di insufficiente vigilanza o di negligenza nel mettere in atto le cautele necessarie ad impedire la reiterazione di gravi reati come quello di pedofilia». Vale a dire i responsabili dell’istituto di Verona. La sede legale dell’istituto Provolo argentino sito in Mendoza e diretto da Corradi fino all’arresto risulta infatti coincidere con quella italiana, in Stradone Provolo 20, a dieci minuti a piedi dalle più famose attrazione turistiche del capoluogo scaligero: l’Arena e la casa di Giulietta.

Nei confronti di don Nicola, oggi 80enne, la magistratura italiana non è mai potuta intervenire per via della prescrizione ma il presidente della Rete l’Abuso, Francesco Zanardi, mi ha spiegato che l’esposto serve ad appurare eventuali responsabilità della diocesi di Verona: «Abbiamo chiesto di verificare se ci sono state omissioni e negligenze, dal momento che Corradi era già stato denunciato dalle vittime italiane ben prima dei fatti di cui è accusato in Argentina, senza che venisse preso alcun provvedimento». L’obiettivo di Rete l’Abuso è far riaprire il caso anche in Italia. «Perché – si chiede Zanardi – don Corradi nonostante le accuse nei suoi confronti venne trasferito dalla Curia di Verona in un’altra sede, sempre a contatto con dei minori, invece di essere rimosso dai suoi incarichi?».

Questa domanda ci riporta a don Eligio Piccoli e al documentario di Sacha Biazzo. Ascoltando ciò che questo sacerdote afferma davanti alla cinepresa appare evidente che la condanna ecclesiastica a «una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza» non abbia sortito alcun effetto. Seppur affaticato dalla malattia fisica che lo costringe in ospedale, don Piccoli racconta di aver abusato con estrema naturalezza e che altri suoi “colleghi” preti lo hanno fatto (nel video esibisce un ghigno mostruoso).

Tipica dei pedofili è la totale assenza di emozioni. Come ho potuto riscontrare più volte, nel caso dei preti l’unica preoccupazione è di aver peccato. Questa idea distorta è figlia di una cultura secondo la quale in fin dei conti è il bambino, diavolo seduttore, a indurre in tentazione il sant’uomo. E questo cede, offendendo Dio.

La realtà però è un’altra e dice senza appello che la pedofilia non è un’offesa alla castità, non è un delitto contro la morale, non è il Male. Non è un atto di lussuria come peraltro scrivono certi giornalisti affermati citando il canone 2351 del Catechismo della Chiesa cattolica. L’abuso non è un rapporto sessuale tra due persone consenzienti che si lasciano andare ma è pura violenza agita da un adulto nei confronti di un bambino “scelto” con “cura” dal suo violentatore. Il pedofilo non prova alcun desiderio, è una persona anaffettiva. La vittima, in quanto in età prepuberale, non ha e non può mai avere né sessualità, né desiderio.

Chi abusa un bambino è un grave malato mentale ma non occorre essere psichiatri per comprendere che non può guarire invocando la madonna. Basta un minimo di buon senso. A meno che non si pensi – come fanno i religiosi cattolici, pedofili e non – che l’abuso è un “atto impuro” (VI Comandamento), cioè, appunto, un peccato. Seppur annoverato tra i delitti più gravi, secondo la visione degli appartenenti al clero si tratta di un crimine contro la morale. “Abuso morale” lo ha definito Benedetto XVI nel 2013 e di recente anche papa Francesco nella premessa all’autobiografia di una vittima di sacerdote pedofilo. Di conseguenza i responsabili devono risponderne a Dio, nella persona del suo rappresentante in terra, e non alle leggi della società civile di cui fanno parte. È sempre stato così ed è così anche oggi sotto il pontificato del presunto innovatore argentino.

Appena eletto, papa Francesco ha messo in cima alla agenda pontificia la lotta contro la pedofilia. Dedicando a questo tema almeno un annuncio a settimana, non mancando mai di farsi fotografare con atteggiamenti affettuosi – a volte ricambiati, a volte no – in mezzo a dei bambini, emanando una serie di decreti volti ad accentrare in Vaticano tutte le indagini e le decisioni sui casi più scabrosi e ad avvicinare le norme della Santa Sede alle indicazioni della Convezione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza siglata nel 1991 e ratificata nel 2014. Segnali forti, amplificati dalla parola d’ordine spesso pronunciata dal pontefice argentino e diligentemente rilanciata dai media italiani: «Tolleranza zero». Un passaggio epocale, sulla carta, è avvenuto il 5 settembre 2016, con l’emanazione del decreto Come una madre amorevole che prevede, oltre all’inasprimento delle misure anti-abusi, la rimozione dei vescovi responsabili di condotta negligente del proprio ufficio nei casi di violenza su minori o adulti vulnerabili. Vale a dire, di insabbiamento delle denunce relative a preti pedofili. Poco più di un anno prima, il 5 giugno 2015 al fine di rendere possibile l’individuazione e la punizione di vescovi negligenti, secondo quanto si legge sul sito della Santa Sede, al papa era stata sottoposta, da una commissione consultiva appositamente insediata, la proposta di creare un Tribunale apostolico all’interno della Congregazione per la dottrina della fede (Cdf) alla quale già spetta il compito di giudicare i sacerdoti accusati di pedofilia. Si trattava solo di un suggerimento ma la stampa italiana annunciò il tribunale dei vescovi come cosa fatta descrivendolo come l’ennesimo segnale di svolta rispetto al passato compiuto da Bergoglio. In realtà la stessa pena, ossia la rimozione del porporato insabbiatore, colmava un vuoto procedurale poiché era già disciplinata sin dal 1962 dalla legislazione canonica vigente per cause gravi (Crimen sollicitationis) e rinnovata nel 2001 da un provvedimento di Giovanni Paolo II (De delictis gravioribus). Ma senza essere mai applicata. E cosa ancor più interessante, il tribunale seppur annunciato e osannato non è mai entrato in funzione né mai accadrà perché il papa non lo ha mai creato. A dare la smentita – con quasi due anni di ritardo rispetto ai titoli a nove colonne dei media nostrani – è stato il 5 marzo scorso niente meno che il prefetto della Cdf, card. Gerard Müller, il quale intervistato dal Corriere della sera ha precisato che il tribunale per i vescovi «era solo un progetto».

Questi sono solo alcuni esempi di come la Chiesa di papa Francesco stia affrontando la questione delle violenze sui minori al proprio interno. La strategia è collaudata e vincente: cambiare tutto per non cambiare niente. Alle parole del papa, alle sue intenzioni, ai suoi desiderata raramente, per non dire mai, seguono dei fatti concreti. E su questo i media sono disposti a chiudere un occhio, molto spesso tutti e due (come abbiamo avuto modo di dimostrare su Left n. 20/2017).

In questa ottica il lavoro di Sacha Biazzo andrebbe doppiamente premiato, in quanto contribuisce a mantenere viva l’attenzione sull’inerzia e sulla tolleranza (verso i preti violentatori) del Vaticano che dunque, anche sotto Bergoglio, continua a combattere la pedofilia solo a parole. Al più, a colpi di avemaria.

El torturador impunito che ha trovato rifugio in Italia

MONTEVIDEO, URUGUAY - MAY 20: Protestors march with the photos of people who disappeared during the military dictatorship (1973-1985), demanding justice and truth about the disappearances and the end to impunity in Montevideo, Uruguay on May 20, 2016. (Photo by Carlos Lebrato/Anadolu Agency/Getty Images)

«Caro Presidente Sergio Mattarella, è per me un onore incontrarla e consegnarle questa lettera, mediante la quale voglio darle il benvenuto in Uruguay, la nostra seconda patria. La ringrazio inoltre per essere oggi tra di noi italiani, in questa nostra casa. Mi chiamo Maria Bellizzi, sono nata a San Basile in provincia di Cosenza. Sono arrivata in Uruguay quando non avevo ancora compiuto due anni. Correva l’anno 1928. Mi ci ha portata mia madre per raggiungere mio padre che era già emigrato in questo Paese….».

Andrés Humberto Bellizzi aveva 25 anni quando fu sequestrato il 19 aprile 1977 a Buenos Aires. Si trovava in Argentina per sfuggire alla repressione della dittatura uruguaiana in quanto militante della Resistencia obrero estudiantil, un’organizzazione studentesca di sinistra, quindi clandestina. È uno degli oltre 140 desaparecidos uruguaiani vittime del Piano Condor, l’operazione segreta realizzata al di fuori di qualsiasi alveo costituzionale durante gli anni 70 in accordo tra le polizie militari dei sette Paesi del Cono Sud latinoamericano. Si presume che sia stato portato al centro di detenzione clandestino Club Atlético, dove è stato interrogato dai servizi segreti uruguaiani prima di scomparire. Maria Bellizzi, l’autrice della lettera, è sua madre. Il 12 maggio scorso si è rivolta direttamente al presidente italiano in occasione del viaggio in Uruguay durante il quale Mattarella ha siglato un accordo che potrebbe portare all’estradizione in Sud America uno dei presunti assassini dei compagni di esilio di Andrés: Jorge Nestor Troccoli, un ufficiale dei servizi segreti della marina uruguaiana durante la dittatura ma dagli anni Duemila cittadino italiano.
Dalla scomparsa di Andrés «per me e per mio marito è iniziata una battaglia senza sosta, nella denuncia e nella ricerca, dentro e fuori delle frontiere, di notizie che ci portassero a conoscere il destino del nostro figlio. Dalla notte alla mattina mi sono trasformata da casalinga in attivista e militante per i diritti umani», scrive Maria. Due giorni prima dell’arrivo di Mattarella a Montevideo, al di qua dell’Atlantico, a Roma, il pm Tiziana Cugini e il procuratore aggiunto Francesco Caporale depositavano l’appello contro la sentenza di primo grado del Processo Condor per la parte relativa ai 18 imputati per sequestro e omicidio assolti dalla sentenza emessa il 17 gennaio scorso nell’aula bunker di Rebibbia. Tra questi «repressori denunciati», scrive Maria Bellizzi, c’è anche Troccoli ora finito al centro dell’accordo tra Italia e Uruguay per l’estradizione.
L’ex militare è soprannominato “il torturatore” nel suo Paese d’origine ed è stato tra i primi a riconoscere l’uso della tortura negli interrogatori dei prigionieri, al punto di rivendicarne la necessità anche in un libro autobiografico, di scarsa fattura, pubblicato in Uruguay. Durante il processo di Roma ha affermato di non aver mai ucciso un detenuto. Fatto sta che in Italia il reato di tortura non è contemplato e Troccoli è nel nostro Paese che «dopo essere fuggito dalla giustizia uruguaiana» riuscì a riparare dopo aver ottenuto la doppia cittadinanza grazie a un bisnonno cilentano. Ed è qui da noi che vive da uomo libero, nel beneventano, mentre in Uruguay molti suoi commilitoni sono in carcere per aver compiuto crimini contro l’umanità.
«Nel mese di settembre del 2016, con i miei 91 anni, ho dichiarato formalmente a Roma davanti alla III Corte di Assise. La sentenza purtroppo non ha raggiunto pienamente le nostre aspettative, ma per fortuna la Procura ha presentato istanza di appello» prosegue Maria.
«Caro presidente, nei giorni che hanno preceduto la visita in Uruguay ho seguito attentamente le sue attività in Argentina. L’ho vista visitare il parco della Memoria insieme a Lita Boitano, madre italiana che come me ha perso due figli e altri familiari. Anche in Uruguay, quando è tornata la democrazia, è stato costruito un monumento in vetro con incisi i nominativi di tutti i nostri scomparsi che superano i 140. Il Monumental (così si chiama) s’innalza in un bel parco di un quartiere popolare e abitato da molti immigranti, chiamato “El Cerro”. Anche qui, come in Argentina, il Monumental è stato costruito guardando il Rio de la Plata. Se legge i nominativi che lì sono ricordati capirà quanto è italiano questo paese. Abbiamo anche un Museo della Memoria e il 20 maggio, oramai da 22 anni, si realizza la manifestazione nazionale chiamata Marcia del silenzio per la verità e giustizia. Anche a San Basile c’è una piazza che è stata denominata Largo dei Desaparecidos. È dedicata a tre figli di San Basile scomparsi in Argentina. Uno è mio figlio Andres Humberto e gli altri due sono Hugo Scutari Bellizzi e Julio Scutari Bellizzi, nati in Argentina. Queste sono iniziative importanti, quasi come un tesoro da custodire per le giovani generazioni. Perché nella memoria collettiva di questo paese vivranno per sempre i nostri figli, i nostri mariti, i nostri cari congiunti. Caro presidente – conclude Maria Bellizzi – fino all’ultimo respiro della mia vita continuerò a lottare per conoscere la verità e fare giustizia per mio figlio e per tutti i detenuti scomparsi, figli di questa bella nazione. Molti di loro sono anche figli della nostra cara Italia. Grazie ancora di essere venuto».
Il 20 maggio in Montevideo c’era anche Maria alla Marcia del silenzio in ricordo dei desaparecidos. Su alcuni cartelli c’era scritto: «Non sono solo memoria. Sono vita che prosegue nelle vite degli altri».

Articolo pubblicato su Left n. 21 del 27 maggio 2017

Tragedia in Pakistan: un’autobotte carica di benzina esplode e uccide oltre 150 persone

Quando un camion cisterna che trasportava benzina si è ribaltato in un paesino nell’est del Pakistan, nella provincia del Punjab, centinaia di persone si sono precipitate sul luogo con secchi, bottiglie, bicchieri, per raccogliere parte degli oltre 5.000 litri di carburante fuoriuscito.

Nonostante la polizia tentasse di farli allontanare dal luogo dell’incidente, uomini, donne e bambini continuavano ad arrivare dai villaggi adiacenti verso il luogo del sinistro, lungo la strada del paesino Ahmedpur.

Non si sa cosa esattamente ha provocato la scintilla che ha scatenato l’incendio in cui 153 persone hanno perso la vita e altre 100 sono rimaste ferite. Quasi 100 auto e motociclette sono saltate in aria proprio nel giorno del Eid al-Fitr, la festa in cui si celebra la fine del Ramadan.

È stata un’orribile tragedia, ha detto il rappresentante del Parlamento Makhdoom Syed Hassan Gillani. Una tragedia di cui ha colpa la povertà al 100%:  «È stata la povertà, l’avidità, è stata colpa dell’ignoranza».