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Etiopia, per un post di protesta su Facebook un leader dell’opposizione rischia 20 anni

epa05601145 Ethiopian ethnic group Oromo migrants demonstrate holding the Oromo flag as they are escorted out of the camp by the French police in fear of them being attacked by the other communities of the makeshift camp 'the Jungle', during its evacuation in Calais, France, 24 October 2016. The Oromo have been shunned, bullied and attacked by the other communities in the camp and French police organized their extraction from the camp to the triage warehouse. The camp gathering more than 7,000 migrants starts being dismantled, a process that shall take a week according tho the French authorities. EPA/ETIENNE LAURENT

Non sono rifugiati, non vengono dalla Siria ma dall’Etiopia, dall’Eritrea, dal Sudan e dalla Nigeria e non meritano il permesso come rifugiati. Quante volte avete sentito questa frase? Bene. Ieri il politico dell’opposizione e portavoce di un partito etiope, Yonatan Tesfaye, è stato dichiarato colpevole di incoraggiare il terrorismo per dei commenti fatti su Facebook e rischia fino a 20 anni di carcere.

Tesfaye è stato arrestato nel dicembre 2015 durante un’ondata di proteste anti-governative nella regione di Oromia che ha lasciato 600 cadaveri in strada. La sua colpa è aver scritto che, per affrontarle, le autorità aveva usato «la forza contro la gente anziché usare discussioni pacifiche». Amnesty International ha parlato di quelle accuse come “gonfiate”. Non è la prima volta che l’Etiopia viene criticata per usare le leggi anti-terrorismo per colpire le opposizioni. Lo stesso leader dell’opposizione che ha criticato lo stato di emergenza introdotto dal governo durante le proteste, è stato arrestato. Lo stato d’emergenza, a oggi, ha determinato l’arresto di 25mila persone ma le cronache riportano una tensione crescente nella regione sud del Paese.

La regione autonoma e ricca dal punto di vista delle risorse, sente di non godere del proprio potenziale benessere e di non giocare un ruolo nel governo del Paese. progetti di sviluppo che determinano la cacciata di agricoltori dalla loro terra – di proprietà statale – sono una delle principali fonti di disagio e protesta.

L’Etiopia ospita centinaia di migliaia di rifugiati provenienti da Somalia, Sud Sudan ed Eritrea (paese dove le condizioni per chi protesta sono peggiori) e con il Paese sono stati aperti corridoi umanitari. Molti dei richiedenti asilo africani che sbarcano sulle nostre coste vengono da quel Paese o sono possibilmente passati anche per il Paese. Quelli che vedete nella foto qui sopra invece sono Oromo che vengono sgomberati dalla famigerata giungla di Calais, il campo di rifugiati della cittadina francese e sventolano la bandiera della loro regione (nella foto in basso, invece, il vice campione olimpico Feyisa Lilesa sul podio di Rio fa il gesto che caratterizza la protesta Oromo).

Con Addis Abeba, così come con la Libia, l’Iraq, la Nigeria, l’Europa vorrebbe stipulare accordi simili a quello con la Turchia: risorse in cambio di chiusura delle frontiere. L’Europa che si vuole bastione dei diritti umani, dimentica quelli degli etiopi e delle popolazioni che nel Paese trovano rifugio perché fuggono da guerre e persecuzioni.

Il Watergate di Trump è alle porte? Cosa implicano le nuove rivelazioni su Comey e Flynn

epa05742575 US President Donald J. Trump, center, shakes hands with James Comey, director of the Federal Bureau of Investigation (FBI), during an Inaugural Law Enforcement Officers and First Responders Reception in the Blue Room of the White House in Washington, DC, USA, on 22 January 2017. EPA/Andrew Harrer / POOL

Lo scorso febbraio Donald Trump chiese a James Comey, allora capo dell’Fbi di bloccare l’indagine su Michael Flynn, l’ex Consigliere della sicurezza nazionale. O almeno questo scrive Comey, nel frattempo licenziato dal presidente con un atto che molti hanno trovato improprio per la tempistica. E così l’uomo che con le sue dichiarazioni sull’inchiesta aperta ai danni di Clinton e delle sue mail (inchiesta di cui non avrebbe dovuto parlare in pubblico) ha aperto la porta della Casa Bianca a Donald Trump, potrebbe essere lo stesso che la chiude.

Durante una riunione nello studio ovale con il direttore dell’Fbi, il presidente ha detto: «Spero che tu possa lasciar stare questa faccenda, è una brava persona». Il memo scritto da Comey fa parte di una serie di appunti che l’allora direttore dell’Fbi ha prodotto a ogni tornante della intricata vicenda cominciata con la rivelazione dell’inchiesta sulle email di Hillary Clinton. Comey ha documentato i passi successivi per lasciare traccia dopo aver percepito gli sforzi del presidente per far deragliare l’inchiesta. Da segnalare, come scrive il New York Times, che ha risposto con questo scoop a quello di un giorno prima del Washington Post, che le note di un agente Fbi prese a ridosso degli accadimenti che queste descrivono sono considerate prove credibili di una conversazione avvenuta. Nel frattempo abbiamo anche saputo che le informazioni passate a Lavrov sull’Isis provenivano da Israele e che la pubblicità ottenuta potrebbe aver messo a rischio gli agenti infiltrati da Tel Aviv nel Califfato.

Il tweet qui sotto, di un giornalista esperto di questioni giudiziarie, segnala come quella di lasciare traccia delle vicende controverse sia una caratteristica del lavoro di Comey da sempre.

 


Il New York Times non ha potuto visionare il memoriale, che quindi non è stato passato da Comey ma, come leggiamo nell’articolo, «da un agente che ce ne ha letto parti al telefono».

La rivelazione è solo l’ultimo episodio di una crisi che sta consumando la Casa Bianca. Trump è finito sotto enormi critiche la scorsa settimana quando ha silurato Comey nel pieno delle indagini sull’interferenza russa nelle elezioni presidenziali e i presunti collegamenti tra la campagna Trump e Mosca. Pochi giorni prima e, oggi sappiamo, dopo che in molti avevano avvisato Trump del conflitto di interessi di Flynn e del fatto di aver fatto mentire il vicepresidente Pence, con la sua versione dei fatti riferita al vicepresidente.  La tempistica della rivelazione, che segue quella sul passaggio di informazioni secretate provenienti da Israele a Lavrov – senza che questo scambio fosse stato deciso o discusso in precedenza – rende la posizione di Trump sempre più delicata. La Casa Bianca ha smentito le frasi attribuite al presidente con un comunicato ma, come nota il tweet qui sotto, il comunicato stampa non è firmato. Nessuno ha voluto metterci la faccia sapendo di rischiare di essere smentito dall’account twitter del presidente, che proprio ieri aveva rivendicato di aver passato informazioni ai russi come un suo diritto dopo che il suo nuovo Consigliere per la sicurezza nazionale, l’ex generale McMaster, aveva smentito risolutamente che il fatto fosse accaduto: «Io ero presente e non è successo nulla di ciò che dite».

 

Le conseguenze

Come leggiamo su Vox, Trump ha già fatto più di Nixon, che si dovette dimettere in seguito al Watergate. Allora una fonte, divenuto famoso come “gola profonda” rivelò al Washington Post che qualcuno era stato spedito nella sede dei partito democratico per cercare prove compromettenti – su cosa non è mai stato del tutto chiaro. Non sappiamo e non sapremo mai se fu Nixon a ordinare quell’irruzione mascherata da tentativo di furto, le versioni sono diverse, ma sappiamo che il presidente dimessosi in seguito allo scandalo, ordinò al suo capo gabinetto di spingere la Cia a fermare l’indagine Fbi. Ovvero la stessa cosa fatta da Trump.
Per queste ragioni i repubblicani sono molto nei guai e non sanno esattamente che pesci prendere. John McCain, un nemico del presidente, ha parlato di una situazione che «ha raggiunto le dimensioni e la magnitudo del Watergate». Il tema è a questo punto: il licenziamento di Comey, corretto dal punto di vista formale, si configura come un tentativo di ostruire la giustizia e le indagini da parte del presidente? Alcuni tribunali hanno sentenziato in questo senso in casi simili.

 

Cosa dicono i repubblicani?

Ieri sera nessun rappresentante o senatore repubblicano era disponibile a parlare davanti a una telecamera, nemmeno su FoxNews, dove pure avrebbero trovato una situazione comoda. Politico segnala come diversi membri dello staff del presidente abbiano segnalato in forma anonima di non sapere cosa aspettarsi o cosa potrebbe succedere di nuovo. «Siamo senza difese» è il titolo del pezzo tra caporali.  La conseguenza immediata più importante è il segnale che diversi repubblicani che fino a oggi hanno nascosto la testa sotto la sabbia o si sono detti “preoccupati” senza aggiungere altro, hanno cominciato a reagire. Il presidente della Commissione il controllo sul governo governo Jason Chaffetz ha detto di essere pronto a intimare a Comey di produrre i memo da lui scritti per documentare le sue interazioni con Trump. Chaffetz ha inviato una lettera all’Fbi martedì sera chiedendo che tutte le note, documenti o registrazioni delle conversazioni di Trump e Comey vengano consegnate alla sua commissione entro il 24 maggio.

 

Perché l’Fbi reagisce così?

La democrazia Usa è fatta di controlli e contrappesi e molte agenzie e istituzioni vanno molto fiere della loro indipendenza – pure se la nomina è spesso politica i direttori non vengon necessariamente cambiati da un presidente entrante. Questo è particolarmente vero per l’Fbi e per le altre agenzie di intelligence. Diversi articoli con fonti anonime interne all’agenzia riferiscono del furore seguito al licenziamento di Comey. E diverse analisi segnalano come il Federal Bureau abbia sempre reagito ai tentativi di influenzarlo o piegarlo con veemenza. Il caso più famoso è quello della gola profonda del Watergate di cui parliamo qui sopra vice direttore dell’Fbi Mark Felt.

Impeachment?

Difficile a dirsi e da prevedere. Per avviare il processo serve la maggioranza alla Camera dei rappresentanti, che votando per l’impeachment avviano un processo che è poi il Senato a condurre. Nella storia Usa solo due presidenti sono stati sottoposti a impeachment Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998. Entrambi sono stati prosciolti dal Senato.

La reazione di Trump

Sembra che avuta notizia dell’imminenza della pubblicazione dell’articolo il presidente abbia reagito infuriandosi. Poi però si è ritirato nelle sue stanze, presumibilmente a guardare lo sviluppo della situazione in Tv, come tende a fare. Il suo staff è quindi rimasto solo a decidere come reagire. L’account twitter del presidente non menziona il nuovo scandalo. Sulla giornata di ieri si limita a ringraziare il presidente Erdogan della visita (durante la quale personale al seguito di Erdogan ha aggredito e pestato manifestanti curdi). La campagna Trump ha però spedito una mail ai suoi sostenitori che ha come soggetto una sola parola in maiuscolo: SABOTAGGIO. Il testo è qui sotto e il passaggio cruciale è: «Ci sono funzionari non eletti che stanno cercando di sabitare il presidente Trump e tutto il nostro movimento America First. Aveva ragione Steve Bannon quando disse che per se crediamo di poter riprenderci l’America senza combattere si sbagliamo di grosso…Non vogliono prima l’America ma vogliono coltivare i loro interessi…». Un testo che è una dichiarazione di guerra. Certo è che la rivelazione del New York Times di oggi segna un nuovo salto di qualità. Dal 20 gennaio a oggi ce n’è stato uno a settimana.

Quella sottile tirannia dei diritti rivenduti come privilegi

C’è qualcosa di marcio seppur invisibile in alcuni modi che in questi ultimi anni hanno preso piede nel senso comune e nella politica: convincerci che alcuni diritti siano le generose regalie dei potenti è il modo migliore per eroderli dall’interno, senza nemmeno dovere aprire un dibattito o una discussione.

Nelle parole della Presidente della regione Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, ad esempio, si dice tra le righe che uno straniero debba essere grato per l’essere accolto, dimenticando che l’accoglienza è un diritto stabilito da severe norme internazionali oltre che pessime leggi italiane. Non si tratta quindi di centrare il punto sui reati o sul rispetto della legge: insistono nel provare a convincerci che ciò che ci spetta (molto di ciò che ci spetta) non sia dovuto ma sia piuttosto frutto di una loro elargizione.

E non si tratta solo dei discorsi sui stranieri poiché la modalità è la stessa che sottintende ai numerosi proclami in cui ci invitano ad essere sazi di avere un lavoro senza rompere troppo sui diritti connessi; ci invitano a non ammalarci troppo e troppo spesso o a invecchiare troppo a lungo poiché la sanità è gratuita ma va usata con economia; ci rimproverano se puntualizziamo le mancanze del trasporto pubblico presentandoci il conto; chiedono alle donne di non alzare troppo la voce accontentandosi delle migliorie nella loro condizione rispetto a un secolo fa; redarguiscono i dipendenti pubblici confrontandoli con i disoccupati privati e poi redarguiscono i disoccupati blaterando di meritocrazia; paiono mal sopportare il voto (che sia per un’elezione o per un referendum) come se fosse un passaggio obbligato ma barboso. E così via.

Nel momento in cui perdiamo contatto con i nostri diritti anche i peggiori potenti ci sembreranno sempre più buoni. E i dirigenti, da canto loro, potranno essere sempre più tranquilli, rassicurati da un giudizio popolare sempre più blando. È la tirannia dell’ignoranza e della consuetudine. Pessima, appunto, perché progressivamente sempre meno riconoscibile. Resistere, per favore. Resistere.

Buon mercoledì.

A Cannes 2017 Campion, Lynch, Hanecke e Hazanivicus. E anche i primi film solo su Netflix

L’edizione del Festival di Cannes 2016 si è divertito a raccontarla in una sorta di journal de bord , dal titolo Sélection officielle (edito da Grasset), Thierry Fremaux, delegato generale dell’importante evento cinematografico da ormai dieci anni. Ora vedremo se ci sarà un sequel e cosa ne sarà dell’edizione 2017, che compie 70 anni e si svolgerà dal 17 al 28 maggio. Due settimane di programmazione tra film, premi, ospiti al Palais des Festivals et des Congrès di Cannes e, a corredo della settima arte, critiche, opinioni, gossip, veleni, scontri, glamour, giochi di mercato, presenze e assenze.

Per ora il titolo più atteso sembra essere Twin Peaks, serie di culto, rivoluzionaria nei temi, nei ritmi e nello stile, diretta da David Lynch, di cui sarà possibile vedere i primi due episodi della terza stagione. Ma non è la sola, infatti sarà presentata anche la seconda stagione di Top of the Lake 2: China Girl, ideata da Jane Campion, con Nicole Kidman. Sullo sfondo della quale, come in certi scenari de Il Signore degli anelli, giganteggia Netflix, la piattaforma streaming più importante del mondo, che produce, distribuisce e clamorosamente proporrà i film dell’americano Noah Baumbach e del sudcoreano Bong Joon-ho, in concorso, solo ai suoi abbonati, senza passare dalla sala.

Una presentazione di Twin Peaks (non il trailer)

L’edizione 2017, per il secondo anno consecutivo, non vedrà film italiani in corsa per la Palma d’Oro. Certamente ci sono Fortunata di Sergio Castellitto e Après la guerre di Annarita Zambrano nella sezione Un Certain Regard. C’è l’opera prima Cuori puri di Roberto De Paolis, presentata alla Quinzaine des Realisateurs, su due solitudini che si incontrano nel complesso e contraddittorio gomitolo di destini della odierna Roma di Tor Sapienza. C’è il suggestivo film Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza – autori di Salvo – come evento di apertura della Semaine de la Critique, ispirato alla tragica vicenda di Giuseppe Di Matteo e presentata dagli autori come una favola nera “ambientata in una Sicilia mi esplorata prima, una Sicilia sognata. Un mondo di fratelli Grimm, di foreste, di orchi, che collide con la realtà”. C’è l’atteso film di Leonardo Di Costanzo L’intrusa, dopo il bellissimo L’intervallo del 2012, sull’operato di un gruppo di volontari per sottrarre i ragazzini alla camorra in un centro ricreativo alla periferia di Napoli, zona Ponticelli, emblematico teatro di quei contrasti che attraversano la nostra società tra paura del diverso, accoglienza, intolleranza e consenso sociale. Ci sono oltre settanta corti di produzione italiana selezionati. E ancora Monica Bellucci in qualità di madrina, Paolo Sorrentino in giuria e il poster della mostra internazionale che immortala la bellezza senza tempo, fresca e guizzante, di Claudia Cardinale.

Ma il dato evidente e un poco allarmante è che nessun film italiano sia stato giudicato idoneo a competere nella selezione ufficiale, il che pone degli interrogativi: che cosa sta accadendo al cinema italiano? E’ terminato definitivamente il gioco di rendita degli anni sessanta e settanta? Stiamo assistendo ad un appiattimento tematico e stilistico dei film, che non riescono ad assumere una misura europea? Difficoltà a stabilire rapporti di coproduzione e realizzare prodotti adeguati al mercato internazionale? Debolezza del sistema Rai/produzioni/ministero nel creare racconti di ampio respiro e lasciar emergere nuovi talenti? Stagnazione dei finanziamenti? Come dimostra l’ennesimo rinvio delle commissioni al Mibact, per mancanza dei decreti attuativi della nuova legge cinema, su cui vige un silenzio assordante. Il varo dei decreti attuativi è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per far ripartire subito l’intero settore, se si vuole svolgere una politica che progetti discorsi culturali e costruisca il futuro del Paese; in alternativa agli oltre 9,3 milioni di Italiani che, secondo i dati Unimpresa , non ce la fanno e sono a rischio povertà presto si aggiungeranno i molti lavoratori dello spettacolo, che già oggi non se la passano granché bene.

Comunque il Festival di Cannes il 17 maggio apre il sipario con la proiezione del film Les Fantomes d’Ismael del regista francese Arnaud Desplechin, protagonisti Mathieu Amalric e Marion Cotillard. Nella Selezione Ufficiale sono 18 le pellicole in concorso per la Palma d’Oro. Per la Francia abbiamo: Happy End dell’austriaco (non è un errore) Michael Haneke, due volte vincitore dell’ambito premio, incentrato sull’estraneità di una famiglia alto-borghese al dramma dei rifugiati di Calais, protagonisti Isabelle Huppert e Jean Louis Tritignant; Redoubtable di Michael Hazanavicius – regista del capolavoro The Artist – che qui racconta l’amore di Godard per Anne Wiazemsky durante le riprese de La Chinoise del 1967; l’erotico L’amant double di François Ozon; Rodin di Jacques Doillon e 120 Battements par minute di Robin Campillo.
E poi ci sono You Never Get Really Here di Lynne Ramsay con Joaquin Phoenix, Good Time di Benny Safdie e Josh Safdie con Robert Pattinson, Wonderstruck di Todd Haynes con Julienne Moore, The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach con Dustin Hoffman e The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos, con Colin Farrell e Nicole Kidman, quest’ultima presente anche in The Beguiled di Sofia Coppola e How To Talk To Girls At Parties di John Cameron Mitchell, fuori concorso. Gli altri film della Selezione ufficiale sono Nelyubov (Loveless) di Andrey Zvyagintsev, Leone d’oro a Venezia con il film Il ritorno e premio per la Migliore sceneggiatura con Leviathan a Cannes del 2014 ; Jupiter’s Moon di Kornel Mandruczo; A Gentle Creature di Sergei Loznitsa, autore del toccante documentario Austerlitz , recentemente visto sugli schermi italiani ; Hikari (Radiance) di Naomi Kawase, la raffinata autrice giapponese, nota per Nogari Na Mori, che le consegnò il Grand Prix Speciale della Giuria nel 2007; Geu-hu (The Day After) di Hong Sangsoo; Okja di Bong Joob-Ho e Aus Dem Nichts (In the Fade) del regista turco-tedesco Fatih Akin, conosciuto soprattutto, ma non solo, per quell’indimenticabile melò moderno e struggente Gegen die Wand (La Sposa turca), vincitore del Festival di Berlino nel 2004.

Altri eventi intersecheranno il Festival, tra cui due masterclass di Alfonso Cuaron e Clint Eastwood, e nell’ambito della sezione Classici sarà presentata in apertura la copia restaurata di Blow up ( 1966) di Michelangelo Antonioni (di cui ricorre l’anniversario della scomparsa), curata dalla Cineteca di Bologna, l’Istituto Luce, Criterion in collaborazione con la Warner Bros e Park Circus. Opera straordinaria, ispirata ad un racconto di Julio Cortazar, manifesto della Swinging London ed emblema di un cinema del pensiero e della riflessività, della singolarità stilistica e del mistero dell’immagine, alla cui fascinazione ancora oggi non ci si può sottrarre.

Dalle mail di Clinton alle rivelazioni del presidente a Lavrov. Il Russia-gate perseguita Trump

epa05955486 A handout photo made available by the Russian Foreign Ministry shows US President Donald J. Trump (C) speaking with Russian Foreign Minister Sergei Lavrov (L) and Russian Ambassador to the U.S. Sergei Kislyak during their meeting in the White House in Washington, DC, USA, 10 May 2017. EPA/RUSSIAN FOREIGN MINISTRY HANDOUT BEST QUALITY AVAILABLE HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Il 7 luglio 2016 e Paul Ryan, lo speaker repubblicano della Camera, diffondeva il tweet qui sotto e faceva una dichiarazione alla stampa. Il giovane leader della destra Usa spiegava, citando il direttore dell’Fbi James Comey, licenziato da Donald Trump qualche giorno fa, che l’uso di Hillary Clinton di email private per gestire informazioni delicate era «negligente» e che a persone che si comportano così certe informazioni non vanno passate. Le frasi di Comey, che spiegò durante un’audizione in Senato che l’agenzia che lui dirigeva on avrebbe condotto indagini su Hillary Clinton nonostante un comportamento “negligente” furono rilanciate in maniera ossessiva dai repubblicani, dai loro media e nei comizi dell’allora candidato Trump. Anche con il tweet qui sotto: «Non pronta, non adatta” scriveva il presidente. E oggi tornano coma una valanga sulla Casa Bianca.

I tweet di Ryan e Trump: “negligente”, “disonesta”, “corrotta” Hillary:
 

 

La notizia è nota: il Washington Post ha reso noto che durante l’incontro nello studio ovale tra il presidente Usa, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov e l’ambasciatore di Mosca a Washington, Sergey Kislyak, Trump avrebbe rivelato agli ospiti russi delle informazioni riservate sull’Isis e sulle minacce relativa ad attacchi e tecniche all’uso dei computer sui voli di linea. Si tratta, scrive il Washington Post che ha fatto lo scoop, di informazioni con il grado più alto di riservatezza possibile, non tanto e non solo perché sono delicate in sé, ma perché rivelandole Trump ha indirettamente rivelato le fonti da cui provengono e le entrature che queste hanno all’interno del Califfato. Trump ha insomma svelato una fonte e i suoi metodi a un avversario potenziale e bruciato il Paese mediorientale informatore – forse Israele.

«L’informazione trasmessa era stata fornita da un alleato sulla base di un accordo di condivisione delle informazioni considerate tanto sensibili che i dettagli non sono stati riferiti agli alleati e la loro circolazione è stata limitata anche all’interno del governo statunitense (…) Il partner non aveva concesso agli Stati Uniti l’autorizzazione a condividere il materiale con la Russia e i funzionari hanno affermato che la decisione di Trump a farlo rischia la cooperazione di un alleato che ha accesso a dati sensibili relativi allo Stato islamico», leggiamo sul Washington Post.

La Casa Bianca e la figura che in questo momento appare centrale per gli equilibri della politica estera e di sicurezza Usa, il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, Raymond McMaster, ha negato che Trump abbia mai rivelato nulla di segreto: «Ero presente, non è successo». La sicurezza con cui il Washington Post riferisce e la ragione per cui il presidente avrebbe condiviso le informazioni, rendevano la vicenda credibile. Aggiungiamo che all’alba negli Usa il presidente ha twittato: «Da presidente ho voluto condividere notizie con i russi perché voglio che combattano più e meglio l’Isis. Ho tutto il diritto di farlo». Vero: Trump non ha violato la legge perché il presidente ha poteri molto ampi in materia di de-secretazione delle informazioni a sua disposizione. Con i tweet, Trump ha, ancora una volta, smentito la versione dei suoi collaboratori, accorsi a riparare il danno. La verità è che il presidente ha riferito le notizie sull’Isis per mostrare quanto e come la qualità della sua intelligence sia buona: «Ricevo grande intelligence: «Ricevo grandi briefing. Ho gente che mi informa sull’intelligence ad alto livello tutti i giorni». La frase corrisponde molto al personaggio e alla sua voglia di apparire presidenziale.

Le ricadute non si sono fatte attendere: l’episodio giunge alla fine di una settimana in cui Trump ha licenziato il direttore dell’Fbi che indagava sui legami tra la sua campagna elettorale e la Russia sulla base di un parere preparato dal Dipartimento di Giustizia (il cui capo, Jeff Sessions, è indagato per quei legami), la versione delle ragioni del licenziamento e della sua dinamica diffusa dai comunicatori della Casa Bianca è stata smentita prima da Trump e poi dagli stessi comunicatori – sempre più in imbarazzo. E, in generale, i sospetti che Mosca e la cerchia ristretta del presidente abbiano avuto un filo diretto sono ormai parte del dibattito pubblico. Tra l’altro appare chiaro, lo si vede da alcune scelte di policy e prese di posizione, che la volontà di buoni rapporti con Mosca sia soprattutto frutto del clan Trump che non dello staff di politica estera dell’amministrazione. Il Segretario di Stato Tillerson, per dirne una, ha voluto sottolineare le differenze di vedute dopo l’incontro a Mosca con Lavrov e Putin.

La rivelazione del Post giunge quindi come un’ennesima tegola su un presidente che sempre più figure di primo piano della politica americana – anche repubblicane – giudicano non adatto a svolgere il ruolo che ricopre per ragioni caratteriali. Il caso farà poi crescere la pressione per la nomina di un procuratore indipendente che indaghi sui legami tra campagna Trump e Mosca: ci sono almeno cinque persone che hanno incontrato privatamente l’ambasciatore russo durante la campagna 2016 e la fase di transizione. E un numero impressionante di connessioni. Secondo un sondaggio Nbc/Wall Street Journal il 73% degli americani vuole un’inchiesta indipendente. Lo stesso sondaggio segnala come l’Fbi sia diventata più popolare dopo che Trump ha licenziato Comey (scelta più disapprovata che approvata) e come gli americani non vorrebbero la cancellazione della riforma sanitaria. Questo nuovo caso e il modo in cui il presidente tende a gestire ogni passaggio critico come questo – accusando i media “falliti” di diffondere fake news attraverso il suo account twitter – non aiuteranno a far depositare la polvere. La vicenda delle email di Clinton, che è stata determinante nel minarne l’immagine nel 2016, stavolta colpisce il partito repubblicano.

Una annotazione va fatta su un altro aspetto: il Washington Post è il primo media a essere stato espulso dai comizi di Trump perché al candidato non piaceva il modo in cui veniva trattato dal quotidiano di proprietà di Jeff Bezos. Durante la stessa campagna il futuro presidente si è lasciato andare a battute sulla Cia – non a caso uno dei primi atti formali è stato proprio recarsi nella sede dell’agenzia a elogiare il personale. Da presidente, poi, Trump ha innescato un conflitto con l’Fbi. L’idea che un presidente possa muovere una guerra preventiva di parole contro le sue agenzie di intelligence e il sistema dei media e poi uscirne indenne è un’idea molto fantasiosa.

La rivoluzione dei Rom. Oggi davanti a Montecitorio per il riconoscimento dei loro diritti

epa04695417 Young Romani people carry the international Romani flag and shout slogans for equality, during their march through Skopje streets in Skopje, The Former Yugoslav Republic of Macedonia, 08 April 2015. Romani community in Macedonia is still one of the most vulnerable social categories of citizens. International Romani Day is celebrated on 08 April. EPA/GEORGI LICOVSKI

Una, semplice, legittima richiesta: essere riconosciuti come persone. È questo che Rom e Sinti di tutta Italia chiedono a gran voce da decenni, e ribadiranno oggi alle 15.30 davanti a Montecitorio, in una manifestazione indetta da tutte le loro associazioni. Il 16 maggio non è un giorno casuale: è infatti l’anniversario della rivolta dei Rom nel campo di concentramento di Auschwitz, che riuscì purtroppo solo a posticipare di 3 mesi, l’eliminazione di 2.897 uomini, donne e bambini “zingari”.

Tra le richieste formali: il riconoscimento dello status di minoranza storico-linguistica di Rm e Sinti; la costituzione di una Consulta Romanì che collabori nell’applicazione della Strategia nazionale di inclusione di Rom, Sinti e Caminanti (che dovrebbe dare applicazione alla Risoluzione del Commissione europea del 2011), finora disattesa; il superamento della segregazione istituzionale delle comunità Rom e Sinti e il contrasto dell’antiziganismo con politiche efficaci a lungo termine. Questo al fine di costruire le condizioni per una convivenza fondata sul rispetto e sulla dignità.

La Strategia nazionale ha fra gli obiettivi principali il superamento dei campi, e con essa la convinzione ampiamente diffusa che il nomadismo sia aspetto intrinseco, “genetico”, di questa popolazione. Niente di più anacronistico e volutamente deviante: in moltissimi Paesi europei e non solo i rom vivono nelle case da decenni, e i “campi nomadi”, spesso vere e proprie baraccopoli decadenti, le imparano a conoscere in Italia.

Per quanto riguarda il riconoscimento dello status di minoranza storico-linguistica, è bene sapere che il popolo rom e sinta è l’unico al quale non viene riconosciuto questo diritto costituzionale. Molti di loro solo italiani, lo sono da generazioni, qualora servisse specificarlo, eppure per loro la Costituzione – nel suo obbligo di tutela delle minoranze – non vale. Non viene applicata. Così come non viene applicato l’articolo 3 della Carta, che richiede di garantire pari dignità ai cittadini, e di assicurare la rimozione di ostacoli che potrebbero generare diseguaglianza nell’accesso alla vita lavorativa, politica e sociale del Paese.

Per questo, Rom e sinti sono «uniti nel chiedere giustizia e rispetto per tutte le nostre comunità». Troppo spesso queste persone sono vittime di insulti e discriminazioni. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio dell’Associazione 21 luglio, per esempio, il tasso di incitazione all’odio nei loro confronti nel 2016 è stato di un insulto pubblico a settimana, calato rispetto al 2015, in cui erano quasi uno al giorno, ma minore anche di quanto sta accadendo in questi mesi.

L’ultima ferita inferta a questo popolo, non ancora riconosciuto come tale, è stato il rogo di Centocelle. Che si tratti di “faide” fra criminali non ha niente a che vedere con le modalità con le quali è stata trattata la questione: come un fatto, seppur tragico, ritenuto infondo comprensibile perché avvenuto fra popoli “tribali”.

«Per l’ennesima volta il nostro dolore immenso viene sfregiato e offeso, dato in pasto alla peggior politica razzista e alle manifestazioni di odio gratuito in rete e sui media», dicono i portavoce. «Vorremmo che l’Italia si rendesse conto di quanto profondamente e pericolosamente l’antiziganismo si è insinuato nella nostra società – proseguono – rendendo impossibile le vite di Rom e dei Sinti anche qualsiasi politica di inclusione sociale e civile».

Il comunicato è stato diffuso anche in romanì, e coerentemente con quanto scritto, lo riportiamo qui:

PRI ROMANI KRIS TA I ROMANI PATIV
martedì 16 Maggio 15,30
Piazza Montecitorio Roma

Le dzungale merribbé andre kala bersh dukhajà sa le Rom ta vuar furat buder o dukhadipé mèngre vel dukhaddó ko nafel, le racista keren lèngre melali politika opral a mend andre le social media ta andre le dzurnal ta televicion. Sinjiem sa tekané pang priso mangas i kris ta i pativ pri sassare le Rom. Le Gage te dzanen sar si baro o antiziganismo andre l’Italia, ka na vel ta dzivel lacho le Rom ta le Sinte, kerel but esklusion, i politika ka le Gage keren opral a mend si but nasfalì, melali ta xoxanì.
Kava 16 maggio, andre o dives tar o risardipé tar le Rom ta le Sinte andre o Lager tar o Auschwitz, o dives ka si o baro dives tar i Romani Resistenze, ko 15,30 lame Rom ta Sinte keras jekh Presidio anglal o italikano Parlamento tar o Montecitorio andre Roma.
Mangas ka le Gage te prindzkaren ki le Rom ta le Sinte o Status sar jekh historikani ta chibkani minoranza etnika.
Mangas ka le Gage te prindzkaren meng jekh Romani Konsulta ka te kollaborenel tekane lend pri Strategia Nacionale ka fin a dadives na vilì applikimmé.
Mangas ka le Gage te ningaven i segregacione ta i diskriminacione opral a mend. Te keren jekh nevi politika prisosk pang le Rom ta le Sinte te dziven feder ta lache.

Keren o Romano Tekanipe: Federazione FederArteRom, Upre Roma, New Romalen, Isernia in Rete, Romano Drom, Museo del Viaggio Fabrizio De Andrè, Accademia Europea D’Arte Romani, Romano Glaso, Associazione Nazionale Them Romano Onlus, FutuRom , Django Reinhardt , Cittadinanza e Minoranze
Per adesioni: [email protected]
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Il Dipartimento Usa: «In Siria 50 impiccati al giorno finiscono nei forni crematori»

Veduta aerea del carcere di Saydnaya, soprannominato dai detenuti il 'mattatoio', all'inerno del quale 13.000 persone sono state giustiziate nel periodo che va dall'inizio della rivolta del 2011 al 2015. ANSA/ US/ AMNESTY INTERNATIONAL +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++ +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++

50 al giorno. Impiccati nella prigione di Saydnaya, a una manciata di chilometri da Damasco, e poi bruciati in un forno crematorio per cancellare le tracce dell’esecuzione di massa. L’accusa dle Dipartimento di Stato Usa nei confronti del regime siriano è pesantissima: l’inviato in Medio Oriente Stuart Jones presenta le immagini declassificate delle modifiche architettoniche all’edificio – realizzate per creare il forno – e parla di «un nuovo livello di depravazione». Nel dossier realizzato con i contributi di media, ong e intelligence si evidenziano la complicità e il “lasciar fare” della Russia, che continua a respingere le accuse e parla di una «deliberata provocazione».

Il penitenziario di Saydnaya, considerato fin dagli anni 80 il luogo dove si eliminano gli oppositori del regime e soprannominato dai detenuti “il mattatoio”, era già finito sotto accusa in un rapporto di Amnesty International dello scorso febbraio che riporta le testimonianze di ex detenuti e funzionari della struttura: l’accusa è di aver impiccato – per ordine di stretti collaboratori di Bashar Al Assad – 13mila persone in 5 anni, da quando nel 2011 è iniziata la cosiddetta “primavera siriana”. Amnesty ipotizza che le torture, i processi farsa e le esecuzioni sommarie siano proseguite anche dopo il 2015 e rappresentino una pratica ancora in corso.

Ora Stuart Jones chiede che il regime di Assad fermi gli attacchi ai civili e alle opposizioni e alla Russia di «assumersi la responsabilità» di garantire il rispetto dei diritti umani. Il nuovo dossier del dipartimento di Stato americano arriva alla vigilia della riapertura del round di negoziati, il sesto, sulla crisi siriana. Lo step precedente, che si è concluso il 31 marzo, non ha registrato progressi, mentre lo scorso 4 maggio ad Astana Russia, Turchia e Iran hanno concluso un accordo per creare aree di “de-escalation”

Martedì a Ginevra, in Svizzera, prenderà il via un nuovo round (il sesto) di negoziati sulla crisi siriana tra regime e opposizione sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il round precedente si è concluso lo scorso 31 marzo senza sostanziali passi avanti. L’incontro segue quello del 4 maggio ad Astana, in Kazakistan, terminato con l’accordo firmato da Iran, Russia e Turchia per la creazione di “zone di de-escalation“. Intanto il portavoce della Casa Bianca Sena Spicer fa sapere che sicurezza e stabilità della Siria non saranno garantite fin quando «Assad sarà al potere».

Mentre tutti guardano il mare la ‘Ndrangheta (e un prete) si mangiano i rifugiati sulla terraferma

Un frame tratto dal video rilasciato dall'ufficio stampa delle forze dell'ordine dopo l'operazione coordinata tra Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza che hanno smantellato la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto con il fermo di 68 persone disposto dalla Dda di Catanzaro, 15 maggio 2017. ANSA/UFFICIO STAMPA POLIZIA/CARABINIERI/GDF ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Forse è che alla fine ci consola avere nemici estranei e quindi assistiamo a dibattiti che si infiammano per il pericolo straniero mentre per i corrotti e corruttori di casa nostra dobbiamo accontentarci al massimo di qualche ordinanza d’arresto (e dei processi che ne seguono) ma stamattina, dopo la giornata di ieri passata a leggere i dettagli dell’operazione Johnny che ha svelato la bava della ‘Ndrangheta sui soldi dell’accoglienza, viene da chiedersi perché su questa turpe storia non si accapiglino tutti come invece è successo per i dubbi mai provati delle settimane scorse.

Anche per la ‘Ndrangheta i migranti del CARA di Isola Capo Rizzuto (il secondo più grande d’Europa, secondo solo al CARA di Mineo) sono semplicemente dei “negri”: «Questi negri girano per Isola Capo Rizzuto… di conseguenza tutto ciò che li riguarda è competenza nostra» dice intercettato Antonio Poerio, l’uomo che avrebbe dovuto occuparsi dell’alimentazione dei rifugiati e che serviva come pasto “cibo per maiali”. Poi c’è il ras Leonardo Sacco (governatore della Confraternità della Misericordia di Isola Capo Rizzuto e già vicepresidente nazionale della confraternità con sede in Toscana) e i suoi rapporti con il clan Arena e, per chiudere in bellezza, il parroco don Edoardo Scordio che intascava 132 mila euro all’anno per offrire “assistenza spirituale” ai migranti che disprezzava in privato. Sullo sfondo, ovviamente, la potente cosca degli Arena. Don Eduardo, tra l’altro, è un altro souvenir dell’antimafia di plastica che dispensa omelie di fuoco contro i mafiosi in pubblico per poi slinguazzarli in privato.

C’è dentro tutto il male italiano: corruzione, mafia, etica prostituita al denaro e falsi profeti. E i migranti terribilmente vittime, come noi. Anche senza mare.

Buon martedì.

Chi è Edouard Philippe, il premier di centrodestra scelto da Macron. E che scelta è

epa05963723 French President-elect Emmanuel Macron attends the handover ceremony at the Elysee Palace in Paris, France, May 14, 2017. EPA/PHILIPPE WOJAZER / POOL

«Per uscire da un sistema serve sempre una rivoluzione. Si crea un nuovo sistema dopo un periodo di caos. La storia dimostra che il nuovo sistema non sempre è migliore.… Se rimaniamo all’interno dello spettro democratico le possibilità che si presentano sono la triangolazione, l’apertura e la trasgressione. La triangolazione è appropriarsi di temi e posture dell’avversario. L’apertura è garantire che alcuni avversari vengano a lavorare con voi. La trasgressione è quella di superare le vecchie regole per crearne di nuove. Triangolare e aprire sono strade semplici e sono già state sperimentate. Senza efficacia. Trasgredire, è più difficile». Durante la campagna elettorale, il deputato non ricandidato de Les Republicains, Edouard Philippe, ha tenuto un diario su Liberation. Questo è un passaggio del suo ultimo articolo. In quello precedente criticava la direzione del suo partito per aver discusso per ore su quale atteggiamento adottare  al secondo turno.

Il messaggio contenuto nel passaggio di articolo che abbiamo tradotto è inequivocabile: in Francia deve saltare il quadro politico e il neo premier, proveniente dalle fila dell’area Juppé (moderata, diremmo) del suo partito, si candidava a essere parte della squadra che tenterà di rivoluzionare la Francia dopo che l’elettorato ha dato un colpo quasi definitivo ai socialisti e una botta ai Repubblicani. Nel suo articolo, il premier designato da Macron registra il terremoto politico e segnala come la Francia abbia urgente bisogno di cambiare. Dal punto di vista dell’offerta politica il discorso somiglia molto a quello del presidente.  E come profilo è perfetto: esperienza politica nazionale, esperienza amministrativa, preparazione Ena e poco carisma (ovvero poca ombra al presidente).  Che però non ha l’aria di uno che potrebbe essere fan di Bruce Springsteen o boxeur amatore, come lo stesso neo-primo ministro. Scegliere un alleato di Juppé, che è tutto sommato piuttosto popolare nella parte moderata del Paese, è un segnale a una parte della Francia che non ha votato Macron al primo turno. E uno sfondamento in territorio avversario, quello del partito tradizionale uscito più in forma dalle presidenziali – e ben messo per vincere le legislative. 

Il neo premier dietro il neo presidente

Stamane il premier uscente Cazeneuve si è dimesso dopo che Macron è entrato in carica, Philippe è andato nel suo ufficio all’Assemblea nazionale in taxi e il suo partito si è riunito di urgenza per capire come fare a incassare il colpo della razzia compiuta dal neo-presidente. La Francia è stata ad aspettare tutta la mattina un annuncio che si presumeva sarebbe stato fatto a inizio giornata e che, normalmente, non ha tanto valore: in passato quando vinceva il presidente di un partito tradizionale, più o meno si sapeva chi sarebbe stato premier e, comunque, si sapeva di che partito sarebbe stato.

Stavolta gli occhi e le telecamere erano tutti puntati su Matignon perché la scelta di Macron è un segnale.  Negli ambienti giornalistici c’è anche grande discussione sulla mancanza di fughe di notizie e di leaks sulla scelta: negli anni di Hollande e di Sarkozy ce ne sono stati tanti e sembra di capire che la comunicazione di Macron sarà molto controllata.

Quarantasei anni, giovane socialista e poi spostatosi a destra e divenuto fedele di Alain Juppé nel senso che ha fatto parte delle sue campagne e ogni volta che il sindaco di Bordeaux, ex premier ed ex ministro ha perso o si è dovuto fare da parte per ragioni giudiziarie, anche Philippe è andato a fare l’avvocato o a lavorare nel settore privato. E stavolta, lui che è anche sindaco di Le Havre, città della Normandia, porto commerciale più importante di Francia, dal 2010, si è sfilato dalla campagna Fillon e da quella elettorale. Oggi Macron scommette su di lui e sulla aspirazione comune di modernizzare e rivoluzionare la Francia su un terreno in teoria nuovo. La strada è molto stretta e difficile e la scelta di Philippe sembra essere quella di un presidente che mira a costruire un centro molto grande e a raccogliere consensi a destra, dopo aver fatto il pieno di quelli di una parte della sinistra al primo turno. L’immagine che si sceglie di trasmettere è quella di un gruppo di rinnovatori senza casacche storiche. Vedremo.

Certo è che su alcune grandi questioni le ricette di Macron non appaiono rivoluzionarie o di gran rottura. La Francia resta un Paese con un enorme settore pubblico – piuttosto efficiente a dire il vero – ma non è detto che la trasformazione del Paese passi davvero per un suo ridimensionamento. L’aspetto di grande senso dell’ipotesi Macron è quello relativo all’Europa e alla necessità di rilanciarla e rinnovarla. In questo senso la sua è una rottura con gli altri schieramenti che sono andati bene alle elezioni – Le Pen e Mélencon – che hanno piuttosto corteggiato il comprensibile scontento del pubblico francese nei confronti del traballante disegno europeo. Se si tratterà di una formula post tutto o di una formula centrista si vedrà: certo è che il centrismo in Francia non ha mai avuto enorme successo politico e il risultato del primo turno segnala che c’è un abbondante 50% che ha votato per candidati non di centro. E pure il voto utile a Macron magari nasconde qualche voto socialista perso già al primo turno ma non necessariamente convinto da uno schieramento al centro.

Macron ha anche nominato Alexis Kohler, 44 anni, segretario generale dell’Eliseo, Ismaël Emelien, 30 anni, stratega della campagna, come suo consigliere speciale e Philippe Etienne, ex ambasciatore a Bruxelles, Berlino, Mosca e membro dello staff di Bernard Kouchner, ministro degli esteri del governo Fillon tra 2007 e 2010 – Kouchner, fondatore di Medici Senza Frontiere è stato ministro anche del socialista Jospin.

Il campo del governo e della complicata costruzione di uno schieramento che sostenga il presidente vive le sue difficoltà con defezioni dalla lista dei candidati annunciati e una serie di posti ancora vacanti da usare come merce di scambio con personalità o con i partiti in cambio di sostegno. L’attenzione è soprattutto a raccogliere elementi di destra.

A sinistra Mélenchon punta a essere la faccia dell’opposizione al presidente e la scelta di un repubblicano come premier è in qualche modo un favore alla France Insoumis dell’ex socialista che oggi rifiuta accordi con il Partito comunista e con quello socialista, mostrando di voler essere colui che prova a fare un’operazione alla Macron nel campo della sinistra: demolire le forze esistenti e costruire un nuovo schieramento. La differenza è relativa alla capacità di costruire alleanze personali di Macron con quella di Mélenchon, che sembra escludere ex alleati e vicini (il candidato socialista Hamon) invece che radunarli.

Quelli che tentano di saltare il muro, rischiando tutto

Il muro metallico e di filo spinato antio-immigrati nel sud dellUngheria, al confine con la Serbia, 27 agosto 2015. ANSA/DRAGAN PETROVIC

Fabbricarsi ramponi con pezzi di ferro, sotto la barriera di Melilla; e poi, il grande salto. Lanciarsi sulla rete affilata, tra cani e radar. Aprirsi un varco, in un incubo da Orwell. Cosa significa un confine per quelli dall’altra parte? Lo racconta lo stupefacente documentario “Les Sauteurs” di Abou Bakar Sidibé, Moritz Siebert e Estephan Wagner, girato per la prima volta da un migrante sotto la Fortezza; metafora di tutti gli uomini oggi schiacciati dai confini, dal Messico all’Evros.

Il muro deporta indietro, dispera, uccide e ferisce. Penso a Manzoor e Shihad, giovani pachistani accampati nelle baracche in Serbia. Hanno provato decine di volte il border crossing. Anche se ripetutamente pestati dalle polizie magiare e croate, morsi dai cani, persino l gelo, stasera ancora ci riproveranno. Su quel confine ungherese oggi i rifugiati sono rinchiusi in container, mentre l’Australia usa isole come prigioni-lager. Eterne foto di mani di bimbi tra la rete.

E poi quel mostruoso limbo in cui sono bloccati migliaia di rifugiati, dopo la chiusura della rotta balcanica, senza prospettive, separati dagli affetti. La mente si ammala. Si perdono i sogni sotto i muri. Come il trentenne maliano, impiccatosi tra i binari della stazione di Milano, a pochi metri del centro di aiuto sociale del comune. Centri di accoglienza, confini anche loro.
Muro-negazione, muro-depressione.

Il confine è la materializzazione della negazione che si aggira nel mondo, contro i migranti. 24.600 bambini (Unicef) tra cui la metà non accompagnati, sono abbandonati nei Balcani sotto i muri dell’Europa, senza scuola né cure mediche. La frontiera chiusa ti costringe ad una brutale sopravvivenza, alla jungle. Ghetti e baraccopoli, Calais, Moria, Baobab. Sono persino sotto casa, i nessi dell’apartheid invisibile che ha ammazzato Nian Maguette nel cuore di Roma. Normalmente quella stessa pulsione ammazza uomini neri, lontano dai nostri occhi, tra Sabratha e Lampedusa, nell’Egeo o nel deserto; ma intanto un po’ della nostra fantasia e società si sgretola, è scomoda questa fossa comune sotto i nostri marciapiedi.

Il confine può essere sempre reinventato. Paesi dichiarati “sicuri” per i rimpatri. Afghani deportati sotto le bombe, sudanesi espulsi. Si possono esternalizzare i confini dell’Ue spostandoli sempre più in là nel cuore dell’Africa, delegare a milizie il lavoro sporco; farli sparire preventivamente purché non arrivino qua tra noi. I confini nostri puzzano di detenzioni, stupri e respingimenti, di motovedette vendute alle guardie costiere libici. Chi sa se non li annegano. Corpi riaffiorano a volte sulle spiagge libiche, altre volte vanno a fondo, non conosceremo mai loro nomi*. E’ solo grazie alle navi delle Ong umanitarie, i nostri “occhi” sul mare, che si può svelare l’eliminazione in corso.

I confini li riconosci sulla pelle, dove possono essere marchiati a vita: ferite da proiettili, da manganelli, morsi da cane, membra rotte, segni di torture sul petto. Come in un archivio vivente i corpi degli uomini in movimento raccontano la nostra violenza xenofoba.

Ma i confini producono anche resistenze inedite, dalla valle Roya a Idomeni, cittadini si inventono cuochi, volontari, passeurs: rischiando l’arresto per rifiutare il disumano e ricreare l’uguaglianza. Alla mostra Cross the Streets al Macro, Mosa One mi spiega il significato del suo murales: “La mano di Fatima solleva il filo spinato, per fare passare una bimba siriana, così testimonio di quello che succede nel mondo”. Mosa One ha 19 anni. Per tanti come lui, per fortuna, i confini non significano nulla.

*Dall’inizio del 2017, 1.300 persone sono scomparse o hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa (fonte Unhcr).