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Sfida conservatori-moderati nel primo voto post-sanzioni in Iran. Perché è importante

epa05966521 Supporters of Iranian conservative presidential candidate Ebrahim Raisi distribute electoral posters of him at a street in Tehran, Iran, 15 May 2017. Media reported that conservative presidential candidate Ebrahim Raisi is the main contender against president Hassan Rouhani in the upcoming presidential election. Iranians will go to the poll for the presidential election on 19 May 2017. EPA/ABEDIN TAHERKENAREH

L’Iran va al voto e nel Paese si gioca una partita importante, non tanto e non solo per gli equilibri interni o le possibilità di una svolta nelle libertà e nei diritti civili. Le aspettative, a giudicare dalle cronache da Teheran, non sono particolarmente alte, ma il voto degli 80 milioni di iraniani sarà determinante per gli equilibri regionali e le relazioni internazionali del Paese. Yemen, Siria,  Libano, Iraq, accordo sul nucleare con Usa ed Europa: in questi difficili anni il Paese ha giocato un ruolo importante, a volte buono, a tratti pessimo, ma comunque partecipando al consesso internazionale, riconoscendo l’importanza della diplomazia. 

Le elezioni e il ruolo internazionale dell’Iran sono anche importanti per l’Italia: il nostro Paese è uno dei primi partner commerciali europei e dall’alleggerimento delle sanzioni gli scambi commerciali sono in aumento costante. Sul sito dell’ambasciata italiana leggiamo: «L’interscambio UE-Iran ha raggiunto i 9,11 miliardi di Euro nei primi nove mesi del 2016 dai 5,577 miliardi dello stesso periodo nell’anno precedente… Nel 2016 il valore delle esportazioni italiane è stato pari a 1,5 miliardi di euro, segnando un incremento del +29%  rispetto al 2015». Prima delle sanzioni l’italiana Eni era tra i primi compratori del greggio iraniano e, a dicembre 2016, la compagnia nazionale iraniana e il gigante italiano dell’energia hanno firmato un contratto da 100mila barili l’anno e nei prossimi anni, se continuerà a poter esportare, assegnerà nuove licenze di esplorazione ed estrazione.

La sfida tra il presidente uscente Hassan Rouhani e Ebrahim Raisi, il campione dei conservatori e dei Guardiani della rivoluzione – una potenza politica, militare e anche economica – per noi, è importante per capire se terranno quelle relazioni internazionali tessute negli ultimi anni? L’esito è molto incerto e negli ultimi giorni due candidati di primo piano si sono ritirati per sostenere il politico a loro vicino – il sindaco di Teheran con Raisi, il vicepresidente con Rouhani. L’ultima volta che un voto è stato tanto incerto e conteso è quella in cui il presidente Ahmadinejad fu rieletto tra le proteste della piazza di Teheran – proteste che segnarono in qualche modo un assaggio della Primavera araba che esplose nel 2011. E a proposito di quelle proteste, con Rouhani si schiera Hossein Mousavi, una delle due figure di primo piano arrestate in seguito alle proteste di allora (“la sedizione” la chiamano i conservatori) e agli arresti domiciliari dal 2011. Con il presidente in carica anche il nipote dell’ayatollah Khomeini, a sua volta un leader religioso, ma riformatore.

Un comizio di Rouhani a Teheran EPA/ABEDIN TAHERKENAREH

EPA/ABEDIN TAHERKENAREH

In questa contesa il moderato Rouhani – non un riformatore, ricordiamolo – presenta se stesso come l’outsider anti establishment e attacca l’avversario come la faccia peggiore della Repubblica Islamica. Nei comizi, il presidente non ha mancato di ricordare il ruolo svolto dall’avversario nelle “commissioni della morte” che sterminarono migliaia di dissidenti di sinistra alla fine degli anni ’80 e, in seguito, come procuratore generale. «Il popolo dirà no a coloro che solo nel corso di 38 anni hanno giustiziato e imprigionato; Coloro che tagliarono le lingue e chiudevano le bocche; … coloro che [hanno] vietato la penna e vietarono l’immagine. Quelle persone non dovrebbero nemmeno respirare la parola libertà, perché sconvolgono la libertà». I toni usati da Rouhani sono eccessivi perché sotto la sua presidenza non ci sono state svolte clamorose dal punto di vista della libertà di parola, censura, comportamenti. La vittoria del conservatore rappresenterebbe comunque un passo indietro.

Quanto a Raini, non è una figura politica popolare. Sodale e allievo dall’autorità politico religiosa più alta del Paese, l’ayatollah Ali Khamenei che tutti si aspettano prima o poi si faccia da parte, è stato procuratore capo, responsabile della Corte speciale che vigila sull’operato dei religiosi, membro dell’Assemblea che elegge il leader supremo) e, come appunto ama ricordare Rouhani, parte della violenta campagna di repressione che eliminò i dissidenti di sinistra che pure erano stati parte determinante nella rivoluzione che cacciò lo scià Reza Pahlevi. 

Da poco più di un anno Raisi è a capo della Astan Qods Razavi, fondazione religiosa e impero economico con ampi interessi di ogni tipo e la grande capacità di distribuire welfare e risorse ai poveri delle periferie e della campagna iraniana. Le sue promesse elettorali sono dirette proprio a questa gente. Questa è la sua arma più importante: grazie alle risorse della fondazione e al discorso conservatore, Raisi può presentarsi come il campione dei diseredati. Così vinse le elezioni Ahmadinejad, che pure approfittò del ruolo cruciale svolto dalla commissione elettoral-religiosa che approva o boccia i candidati e le liste elettorali. Raisi è anche una delle figure con più chance di succedere a Khamenei come Guida suprema della rivoluzione. Un ruolo cruciale, come è cruciale la guida della Astan Qods Razavi nel controllare l’apparato politico-religioso parallelo allo Stato democratico iraniano. La successione di Khamenei è una delle questioni cruciali che il prossimo presidente si potrebbe dover trovare ad affrontare. L’unico a ricoprire quel ruolo prima di lui è stato l’ayatollah Khomeini e per il ruolo che esercita, su molti fronti più importante di quello del presidente stesso, è cruciale per la vita iraniana.

Il conservatore Raisi a Teheran EPA/ABEDIN TAHERKENAREH

EPA/ABEDIN TAHERKENAREH

In materia internazionale Raisi non è contrario all’accordo sul nucleare ma ritiene che questo sia stato negoziato con troppa morbidezza. Paradossalmente è la stessa posizione del presidente americano Trump, la cui retorica potrebbe aver aiutato i conservatori. Probabilmente consigliato da persone di buon senso, il presidente Usa, nell’imminenza del voto, ha rinnovato l’ammorbidimento delle sanzioni voluto da Obama – misura che aveva promesso di cancellare in campagna elettorale.

Se Rohani può vendere quell’accordo, la riammissione dell’Iran nel consesso internazionale e un miglioramento della situazione economica, Raisi ha dalla sua la disoccupazione che resta molto alta specie tra i giovani e la mancata percezione degli effetti della crescita nelle zone periferiche del Paese. Gli effetti dell’ammorbidimento delle sanzioni non si percepiscono abbastanza e il voto è anche, molto, sullo stato dell’economia. Se a prevalere sarà lo scontento per una disoccupazione che resta a due cifre, sarà Raisi a spuntarla. Viceversa, verrà confermato Rouhani se la promessa di un’ulteriore apertura all’esterno, anche economica, convincerà gli iraniani.

Chi vincerà è molto difficile da prevedere: se nessuno dovesse arrivare al 50% si andrà al secondo turno. Un ruolo cruciale lo giocheranno le donne, che pesano poco nella politica istituzionale ma sono spesso molto attive come corpo elettorale. Rouhani ha fatto alcune abili mosse social per parlarci direttamente. Compresa una foto in montagna con due ragazze che non vestono in maniera tradizionale. Una foto di un comizio di Raisi con il pubblico separato tra maschi e femmine, ha invece fatto il giro dei social iraniani in senso negativo. A sua volta, il candidato conservatore si è fatto riprendere con un rapper tutto tatuato, Amir Tataloo, per ringiovanire la sua immagine. Questa è la prima campagna social e Telegram, quello più usato, ha 40 milioni di utenti attivi. In generale i toni usati sono stati meno abbottonati ed evocativi e più diretti che in passato.  Ma i social, come abbiamo visto nel 2009 e durante la cosiddetta rivoluzione verde, non sono lo specchio del Paese. Nemmeno in Iran, dove i giovani under 30 sono il 60% della popolazione. Negli anni il candidato anti-establishment, ha scritto Trita Parsi su Foreign Affairs, ha sempre vinto le elezioni. Così è andata al riformatore ed ex presidente Khatami, dopo la rivolta del 2009 molto limitato nella possibilità di svolgere un ruolo, ad Ahmadinejad, che non era il favorito di Khamenei e correva contro Rafsanjani, e poi a Rouhani. Raisi è innegabilmente il candidato della cupola conservatrice religiosa e se Parsi avesse ragione, ci sarebbe da stare allegri. Cruciale per Rouhani sarà l’affluenza al voto.

A posto così

(L-R) New Italian Cabinet Secretary Maria Elena Boschi, Italian Prime Minister Paolo Gentiloni and his predecessor Matteo Renzi (R) during the handover ceremony at Chigi Palace in Rome, Italy, 12 December 2016. President Mattarella on 11 December gave the former foreign minister a mandate to form a new government in the wake of Matteo Renzi's resignation as premier following a crushing defeat in a 04 December constitutional referendum. ANSA/MASSIMO PERCOSSI
  1. La Boschi no, non ha querelato De Bortoli. No.
  2. Ghizzoni (Unicredit) non ha intenzione di dire se la Boschi davvero gli ha chiesto di intervenire in favore di Banca Etruria perché, dice lui, non può permettersi di mettere “a rischio la tenuta del governo”. Indovinate la risposta.
  3. Sono illegali le intercettazioni pubblicate di Matteo Renzi con il padre. Vero. Verissimo. Ma nell’inchiesta Consip si parla di politici al governo che avvisano dirigenti pubblici del fatto di essere intercettato. E quei dirigenti bonificano i propri uffici per tutelarsi. Segnarselo bene. E decidere, nel caso, la gravità dove sta.
  4. Leggete i giornali e saprete esattamente chi è contro la legge elettorale di qualcun altro. Vi sfido a capire quali siano le soluzioni proposte. “Essere contro Renzi” non è un gran programma di governo. No.
  5. Pisapia dice di voler andare contro Renzi ma di essere contro il renzismo. Renzi dice di non volersi alleare con Pisapia. Escono decine di editoriali che chiedono a Pisapia di federare. Renzi lo snobba. Lui insiste. Trovate il filo logico. Chiamatemi, nel caso.
  6. Salvini non vuole andare con Berlusconi. Berlusconi non vuole andare con la Lega. E poi finiranno insieme. Come negli ultimi vent’anni. Ci scommetto una pizza.
  7. Il “gigantesco scandalo” sulle ONG è finito in una bolla di sapone a forma di scoreggia. Eppure non ne parla nessuno. Tipo il watergate finito nel water.
  8. Tutti quelli che vogliono la “sinistra unita” poi scrivono dappertutto che “la sinistra non c’è più”. Così vincono in entrambi i casi. E vorrebbero essere analisti politici.
  9. Tutti i tifosi di Putin sono silenziosissimi. Putin gli è esploso in faccia ma loro usano la solita tattica: esultare per gli eventi a favore e fingere che non esistano quelli contrari. Le chiamano fake news ma in realtà è solo vigliaccheria.
  10. Ormai tutti cercano opinionisti con cui essere totalmente d’accordo su tutto. La complessità è come la Corte Costituzionale: un inutile orpello che non riesce a stare al passo dei tempi dei social, dove un rutto fa incetta di like.
  11. Gli intellettuali? Quelli che si indignano come ci indigneremmo noi. Gli vogliamo bene perché ci evitano la fatica di pensare e di scrivere e al massimo ci costano un “mi piace”. Opinioni senza apparato digerenti. Defatiganti. A posto così.

Buon venerdì.

La liberazione del pensiero

Ho sempre pensato che la sinistra non deve avere nessun rapporto con il pensiero religioso. Per un motivo molto semplice. Il pensiero religioso, qualunque esso sia, considera che la realtà delle cose, prima tra tutte la realtà materiale, sia una realtà transeunte, passeggera.
Ma non perché la vita degli esseri umani e delle specie viventi abbia un tempo limitato di esistenza nel mondo. No, perché invece, sostengono, ci sia una diversa esistenza, più pura, più alta, che è scissa dal corpo materiale ed era presente prima della nascita e sarà presente dopo la nascita.
È la grande promessa delle religioni monoteistiche: la vita dell’essere umano non sarebbe questa ma un’altra. Questa vita non è importante. È importante l’altra.
E questa altra vita sarebbe più importante perché l’essenza degli esseri umani in realtà sarebbe un qualcosa che è non essere, il dio. L’anima avrebbe natura “divina”, è un’espressione del dio.
Il dio avrebbe un potere infinito e assoluto sulla realtà, in particolare degli esseri umani.
Le chiese, diventano allora il tramite di questo infinito potere. Gestori del potere infinito del dio inesistente.
Perché gli esseri umani credono a qualcosa che non esiste? Perché danno fiducia a persone che raccontano continue balle sulla realtà delle cose?
È un discorso molto complesso e difficile che non sono in grado di affrontare e svolgere. Mi interessa solo sottolineare una cosa: il pensiero religioso è un pensiero negativo nel senso che è un pensiero che, eliminando, facendo sparire, la verità della vita degli esseri umani, li fa ammalare.
Ma di favole nel mondo ce ne sono tantissime. Quale sarebbe il problema? Perché non si dovrebbe tollerare chi pensa che la madonnina di Civitavecchia sanguina dagli occhi o che il signor Gesù Cristo dopo 3 giorni che era in una tomba si è alzato e se ne andato?
Il problema è che dietro queste favole religiose c’è un pensiero falso sulla realtà umana che è quello per cui la verità umana sarebbe non un essere in rapporto con la realtà degli altri esseri umani ma essere in rapporto con una non esistenza, cioè dio.
Questo pensiero falso si può fare strada nella mente degli esseri umani perché ognuno di noi ha espresso alla nascita una pulsione di annullamento verso la luce quando ha colpito per la prima volta la retina dei nostri occhi, come scoperto e teorizzato da Massimo Fagioli in Istinto di morte e conoscenza (L’Asino d’oro edizioni).
Quella pulsione, istantaneamente fusa con la vitalità, realizza l’esistenza psichica, altrettanto reale che la realtà fisica. Che però ha necessità di essere confermata nella sua esistenza e realtà dal rapporto con un altro essere umano.
Se questo non avviene o avviene in maniera parziale, l’essere umano potrà trovarsi a credere come reali ed esistenti cose che in verità non sono reali ed esistenti. Perché la pulsione di annullamento può annullare (come pensiero) e quindi rendere inesistente la realtà. L’alienazione religiosa di Marx sta nella dinamica di annullamento della realtà che porta con sé l’annullamento di se stessi.
La sinistra, se vuole essere portatrice di idee e di politica che punta alla liberazione degli esseri umani, deve necessariamente realizzare che la prima liberazione da compiere è quella del pensiero che si deve, appunto, liberare dall’alienazione religiosa, ossia dal rapporto con il mondo come annullamento.
La scelta di essere religiosi non è una libera scelta.
È una “scelta” che si fa per una spinta interna (la pulsione di annullamento) che è non rapporto con la realtà: si credono e pensano cose che non sono, in realtà, vere.
Per questo la sinistra deve combattere il pensiero religioso. Perché il pensiero religioso rende gli uomini schiavi nel pensiero.

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola

 

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Narrazioni tossiche

VATICAN CITY, VATICAN - APRIL 15: Pope Francis attends the Saturday Easter vigil mass at St. Peter's Basilica on April 15, 2017 in Vatican City, Vatican. Pope Francis on Holy Thursday washed the feet of inmates at Paliano prison, south of Rome, during the Mass of Our LordÕs Supper. (Photo by Franco Origlia/Getty Images)

Il diavolo esiste ed è persona». Questa convinzione è un punto cardine del “nuovo” corso impresso da papa Francesco alla Chiesa cattolica sin dal giorno del suo insediamento sul trono di Pietro. Dopo aver citato il demonio ben quattro volte nei primi dieci giorni del suo pontificato, Bergoglio lo ha nominato con cadenza regolare nelle sue omelie settimanali a Santa Marta davanti a un pubblico scelto di ecclesiastici. “Vedendo” il diavolo in tutti gli scandali che da un ventennio scuotono la Chiesa dall’interno, avendone minato la credibilità e la stabilità politica al punto da spingere Benedetto XVI alle storiche dimissioni del 2013, papa Francesco attribuisce a Belzebù la responsabilità degli affari illegali che ruotano intorno allo Ior e all’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica della Santa sede; della pedofilia clericale; delle guerre intestine e dei giochi di potere che minacciano l’integrità della Curia; dei vatileaks e delle fughe di notizie riservate dalle Mura leonine.
Ma di Satana il pontefice argentino non parla solo in qualità di capo spirituale dei fedeli cattolici. Il principe delle tenebre è presente anche nei suoi discorsi ufficiali da capo di Stato. «Non esiste un dio della guerra: è il diavolo che vuole uccidere tutti» ha detto il 20 settembre 2016 ad Assisi davanti a oltre 500 leader religiosi e politici di tutto il mondo. E il demonio c’è, come se non bastasse, quando Bergoglio assume le sembianze del bonario parroco di campagna e gioca con i bambini. Il maligno «è il padre dell’odio, delle bugie, delle menzogne, perché non vuole l’unità» tra gli esseri umani, ha detto ad alcuni piccoli catechisti dagli sguardi atterriti durante una visita alla parrocchia di San Michele Arcangelo nel 2015. Secondo papa Francesco, tutti i bambini sono indemoniati: «Quando voi sentite nel cuore odio, gelosia, invidia state attenti perché viene dal diavolo; quando sentite la pace, viene da Dio» ha raccontato ai suoi giovanissimi interlocutori citando gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola («L’uomo vive sotto il soffio di due venti, quello di Dio e quello di Satana» diceva il fondatore dei gesuiti). Si tratta di un’idea violenta e perversa della realtà umana del bambino ma nessuno al di qua del Tevere si è indignato. I media italiani annotano tutto quello che dice papa Francesco, lo riportano con zelo e restano in attesa della dichiarazione successiva. Senza fare domande scomode, senza mai abbozzare una critica o evidenziare contraddizioni.

Nemmeno quando nella premessa, iper rilanciata da Repubblica, al libro autobiografico della vittima di un sacerdote pedofilo, Bergoglio scrive: «Chiedo perdono per i preti pedofili: un segno del diavolo, saremo severissimi». La domanda noi di Left ce la siamo fatta e ve la giriamo: cosa intende dire papa Francesco? La Chiesa sarà severissima con chi violenta i bambini o sarà inflessibile con chi secondo il pontefice li induce in tentazione? La perplessità è lecita se consideriamo che la punizione peggiore comminata dalla Santa Sede a un ecclesiastico consiste nell’espulsione dalla Chiesa senza che sia denunciato all’autorità giudiziaria “laica”.

Le attenzioni di papa Francesco per il diavolo non si esauriscono qui. È stato lui a firmare il decreto tramite cui la Congregazione per il Clero ha riconosciuto giuridicamente l’Associazione internazionale esorcisti. Era il 13 giugno 2014. Nemmeno Paolo VI era arrivato a tanto. Lui che durante l’Udienza generale del 15 novembre 1972 tenne un discorso dai toni durissimi per ribadire la presenza e il pericolo del diavolo come ente personale «perverso e pervertitore». Ufficialmente papa Montini intendeva arginare una frangia di teologi che non seguivano attentamente il magistero della Chiesa e che cominciavano a negare l’esistenza del demonio come persona riducendolo a un simbolo. Non sappiamo come la presero i destinatari della reprimenda ma di certo quel discorso sebbene avesse stregato pure Hollywood – il film L’esorcista è del 1973 – segnò solo parzialmente la riscossa degli esorcisti incaricati dal Vaticano che fino ad allora erano un centinaio nel mondo. Oggi, con papa Francesco, sotto l’egida dell’Aie, in totale sono circa 400 e stando a un report realizzato dall’Agensir a dicembre 2016, nel nostro Paese c’è la più alta concentrazione: sono oltre 240 ben distribuiti lungo tutto lo Stivale.

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Una domanda sulla legge elettorale proposta dal Pd

Un facsimile dell'interno della scheda per l'elezione del Senato, allegata alla proposta del Pd, il cosiddetto 'Rosatellum'. Roma, 18 maggio 2017. ANSA/

Listini bloccati per la quota di seggi assegnati con il sistema proporzionale: niente preferenze e neanche la possibilità di fare un voto disgiunto rispetto alla scelta che l’elettore fa già, sull’unica scheda che avrà nell’urna, per il seggio maggioritario che si assegna nel proprio collegio. Un collegio, peraltro, che il futuro parlamentare eletto nella quota uninominale conquisterà in un turno unico, senza ballottaggio, e quindi – molto probabilmente – con una percentuale ben lontana dal 50 per cento e gonfiata da un implicito e fortissimo appello al voto utile.

Anche volendo sorvolare sull’effetto maggioritario della legge (che è forte per via dell’assenza del voto disgiunto, come detto, e perché i seggi conquistati nell’uninominale non si sottraggono, “scorporano”, in nessun modo dalla quota proporzionale), una domanda bisogna farsela prima di dirsi favorevoli o contrari alla legge elettorale proposta dal Pd: è una legge che avvicina il cittadino alle istituzioni?

È una legge trasparente quella ideata dal Pd (con Verdini), e che si basa, evidentemente, su alleanze che saranno diverse da collegio a collegio (ed ecco perché favorirebbe il Pd, che può – a differenza dei 5 stelle – accordarsi a Milano con Pisapia per lo stesso candidato maggioritario e a Napoli, invece, magari, con Alfano, sempre per l’uninominale, spartendosi con l’alleato di turno la quota proporzionale)? È una legge trasparente quella che permette al candidato di un collegio uninominale di presentarsi anche in altri tre collegi seppur solo nel listino per il proporzionale?

Io sono un fanatico proporzionalista – non ne ho mai fatto mistero, semmai vanto – ma credo che il problema, in questo caso, dovrebbe porselo anche chi ama i premi di maggioranza e i più vari correttivi alla semplice (e per me prioritaria) rappresentanza. Ci sono leggi maggioritarie che stabiliscono però un rapporto strettissimo tra eletto e elettori. Questa legge farà almeno questo?

Di legge elettorale parliamo anche sul numero di Left in edicola

 

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È morto Chris Cornell, la voce dei Soundgarden. La nostra intervista al chitarrista della band, Kim Thayil

epa05971345 (FILE) A file picture dated 05 April 2014 shows Chris Cornell of US band Soundgarden, performs during the Festival Lollapalooza in Sao Paulo, Brazil. Audioslave and Soundgarden singer Chris Cornell has died on 18 May 2017 at age 52, according to Cornell's representative Brian Bumbery. EPA/SEBASTIAO MOREIRA

La notizia triste è che oggi è morto Chris Cornell, cantante e frontman dei Soundgarden e degli Audioslave e noto anche per aver cantato colonne sonore di 007, che aveva 52 anni e si era esibito poche ore prima a Detroit con la band che lo ha reso famoso nel mondo negli anni 90. Le cause della morte sono sconosciute e la cosa è del tutto inattesa, la famiglia fa sapere che lavorerà con i medici legali per determinarle.

Cornell in questi giorni era entusiasta del tour con i Soundgarden, qui sotto il suo ultimo tweet, non molte ore fa, proprio sul concerto a Detroit. Il tour era cominciato a fine aprile e sarebbe andato avanti ancora per tutto il mese.

 

Qui l’ultimo singolo di Cornell i cui proventi andranno tutti all’International Rescue Commitee, una Ong che si occupa di rifugiati

L’intervista a Kim Thayil, il chitarrista della band

(da Left numero 12 del 2017)

Riff che entrano dentro il cervello, feroci e repentini, con precisione e decisione. Quando nel 1988 i Soundgarden fanno irruzione nella musica, nulla rimane lo stesso. Tantomeno il grunge. È il 1984 quando la voce di Chris Cornell, il basso di Hiro Yamamoto (oggi tra le dita di Ben Shepherd) e le corde di Kim Thayil si incontrano, poco dopo arriverà la batteria di Matt Cameron. Così nascono i Soundgarden, rubando il nome a un’installazione di Douglas Hollis, a Seattle, dove il soffiare del vento tra i tubi di metallo e i pannelli produce insoliti suoni. I “quattro di Seattle” in trent’anni hanno prodotto una dozzina di lavori, tra album ed Ep, e venduto più di 20 milioni di copie in tutto il mondo. Del loro ritorno, di questi trant’anni e della capitale del rock sul Pacifico abbiamo chiesto a Kim Thayil. Padre del “drop D tuning”, l’accordatura “scordata” tipica del grunge, il centesimo miglior chitarrista di tutti i tempi, a giudizio di Rolling Stone.

Siete considerati tra i musicisti più tecnici e precisi al mondo. E la leggenda narra che nel 1988 non foste convinti del missaggio – soprattutto Cris Cornell – ma che l’immediato successo vi ha impedito di remixarlo e ristamparlo. È per questo che adesso tornate con Ultramega ok, vi pesava tanto quella “bassa qualità”?

Non credo che la competenza tecnica, o la precisione, sia una caratteristica importante in ciò che facciamo in modo creativo. In realtà, non è un fattore significativo nel successo di molti dei generi “popolari” tra cui rock, blues, country, R & B, hip hop, ecc… Può essere utile, ma non è necessario. Perciò, in questo caso semplicemente non ci piaceva il mix originale di Ultramega Ok. Perché, collettivamente, i Soundgarden hanno ritenuto che non rappresentasse al meglio il nostro sound, né la forza delle canzoni.

Il vostro primo full-length lo avete affidato alla piccola ma storica etichetta underground Sst Records, ma siete subito passati a una major, la A&M. Sinceramente, che cosa ha comportato?

Guarda che la Sst records era un’etichetta indipendente abbastanza grande e di successo nel momento in cui abbiamo pubblicato Ultramega Ok. Successivamente abbiamo negoziato un accordo con la A&M perché ci aveva offerto una maggiore distribuzione e il sostegno finanziario, ma la Sst è stata una grande label per noi, ci ha permesso di lavorare e ci ha dato una mano a raggiungere e sviluppare il pubblico che abbiamo avuto.

Torniamo all’album, che è una versione expanded. Noi possiamo contare i sei demo che avete aggiunto e possiamo ascoltarli, ma tu puoi spiegarci cosa c’è di diverso, o di più, in voi…

In verità, le sei tracce bonus di cui parli sono state originariamente registrate durante le sessioni per Screaming Life, il nostro primo Ep. A quell’epoca abbiamo deciso di non includerle, perché Sub Pop preferiva pubblicare un Ep a buon prezzo per il debutto di una nuova band, quali erano i Soundgarden. Per questo non sono proprio dei “demo”, ma sono piuttosto delle versioni inedite. E noi, trent’anni dopo, siamo cresciuti nella capacità e nella visione creativa, come chiunque altro.

Metal, psichedelia, hard rock e punk. Tutto insieme, è la fusione dell’anima di ognuno di voi o cosa?

Direi che abbiamo tutti gli stili che dici, insieme a molti altri, all’interno di ognuna delle nostre anime. Individualmente, e li condividiamo collettivamente.

Nirvana, Alice in Chains, Pearl Jam, Temple of the Dog. Ma davvero possiamo chiamare tutto “grunge”?!

Beh, se con “grunge” ti riferisci alla musica delle band che provengono dalla stessa scena di Seattle, sì. Suppongo che sia sufficiente a chiamare tutto “grunge”. E, per ironia della sorte, nessun altro qui usa il termine in modo diverso. Io, per esempio, non lo uso. Ma tocca vedere cosa risulti più conveniente ai media…

I media… che vi definiscono anche come i caposcuola del grunge e contemporanemante come gli innovatori. Vi sentite più l’uno o l’altro?

Vedo i Soundgarden sia come leader che come innovatori di quella che era la scena di Seattle. Ma non ci assocerei necessariamente al “grunge”. E credo che ormai il nostro lavoro possa essere compreso indipendente e oltre questo ambiente.

Cos’è rimasto oggi del grunge?

Non mi preoccupo di questo. I Soundgarden, i Melvins, i Mudhoney, i Pearl Jam, gli Alice in Chains, i Foo Fighters e gli altri stanno avendo tutti ancora successo, rendendo la loro musica unica e influente. E poi la record Sub Pop e altre etichette locali stanno andando più forte che mai. Il luogo rimane lo stesso. Il tempo è andato per sempre.

Vivi ancora a Seattle?

Sì.

Ed è ancora una fucina di creatività?

Lo è. Seattle è vitale come non lo è mai stata. Come in molte altre regioni del nostro Paese, e del mondo, ci sono una moltitudine di giovani musicisti e nuove interessanti band che esplorano opportunità creativa e di espressione.

Facci un esempio.

Ci sono molte band interessanti prodotte dalla Southern Lord Records, mi piace molto Courtney Barnet, il suo lavoro ricorda sia Kurt Cobain che Lou Reed. E anche i Pissed Jeans, sono davvero molto cool.

Un’ultima domanda Kim, cosa ascoltano i Soundgarden?

Ognuno di noi ha le sue preferenze. Certo, condividiamo molto e lo esprimiamo nel nostro lavoro. Ognuno di noi ascolta i Beatles, i Led Zeppelin, Captain Beefheart, i Pink Floyd, David Bowie e gli altri. A me, in particolare, piace ascoltare ancora i Black Sabbath, gli Stooges, Wire, i Pere Ubu, i Ramones, Sly & the Family Stone e i Motor City 5.

Più trasparenza nei negoziati sul clima. La vittoria dei Paesi emergenti contro le Big oil

Le lobby delle fonti energetiche fossili, quelle sotto accusa per essere le principali fonti del surriscaldamento globale causato dalle attività umane, dovranno dichiarare il loro conflitto d’interessi quando partecipano ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite. La piccola ma importante conquista sulla strada della “apertura e trasparenza” delle sedi diplomatiche e in particolare della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc), è merito delle pressioni dei Paesi cosiddetti emergenti, che nei negoziati tecnici in corso a Bonn hanno superato le resistenze delle maggiori economie, inclusi Stati Uniti, Unione europea, Norvegia e Australia.

Ecuador e Venezuela, infatti, a nome del gruppo dei Paesi emergenti, avevano posto al questione morale e chiesto con forza l’introduzione di una policy sul conflitto d’interessi in virtù della quale i gruppi con lo status di osservatori devono dichiarare la loro condizione di conflitto d’interessi. Tra questi gruppi che hanno la possibilità di partecipare a riunioni e conferenze facendo lobby contro la riduzione delle emissioni di gas serra, figurano le Big oil, da ExxonMobil a Shell, Bp e Bhp. L’Unfccc raccoglierà dunque le osservazioni di qualunque stakeholder, anche singole persone vittime degli effetti o delle politiche sul climate change, in merito ai possibili conflitti d’interesse e alle modalità per contrastarli e la discussione andrà avanti per un anno.

Per capire meglio di cosa stiamo parlando basta osservare la reazione di alcuni lobbisti a margine dei negoziati in corso a Bonn. Uno di questi è Stephen Eule, analista del clima per la Camera di Commercio Usa, che ha lo status di osservatore presso l’Unfccc. Eule, riferisce il Guardian, ha richiamato la necessità di coinvolgere l’industria del carbone (la più inquinante), definendo “irrealisticamente ambiziosi” gli impegni assunti dagli Usa di Obama al summit sul clima di Parigi del 2015 e mostrando approvazione per le misure di Trump che fanno marcia indietro rispetto a tali impegni, perché produrrebbero uno svantaggio competitivo per gli Usa.

Un punto di vista come un altro, ma è importante sapere – e ora lo si saprà con più facilità – chi rappresentano i lobbisti come Eule quando intervengono e interloquiscono nelle sedi diplomatiche in cui si discute di come combattere il climate change. La Camera di Commercio Usa rappresentata a Bonn da Eule è finanziata dalla ExxonMobil per le realizzare “campagne pubbliche di informazione” e nel suo consiglio di amministrazioni sono rappresentate alcune delle più grandi imprese energetiche del Paese. Legittimo dunque fare lobby, ma almeno sia palese a sostegno di quali posizioni e interessi lo si fa. Ma c’è già chi chiede di escudere del tutto lealobby delle energie fossili dai negoziati sul clima, come avvenuto per l’industria del tabacco quando si discuteva dei danni del fumo.

Brasile, richiesta di dimissioni per Temer. “Ha comprato il silenzio del suo vice”

epa05971066 People protest against the President of Brazil, Michael Temer, at Paulista Avenue in Sao Paulo, Brazil, 17 May 2017. Temer was recorded by Joesley Batista, one of the owners of meat producer JBS, allegedly voicing approval to giving hush payments to the former head of the Deputy Chamber, Eduardo Cunha, who is currently in prison for the corruption of Pretrobras, according to reports by O Globo newspaper. EPA/FERNANDO BIZERRA JR

Uno scoop del quotidiano O Globo fa ballare la poltrona del presidente del Brasile Michel Temer. L’accusa per lui è di aver comprato il silenzio del suo vice nel Pmdb (il partito del presidente) e presidente della Camera, Eduardo Cunha, in carcere da ottobre 2016 con l’accusa di corruzione nell’ambito dell’inchieta Lava Jato (“autolavaggio” in italiano), che sinora ha portato in carcere dirigenti statali e delle principali multinazionali brasiliane del settore petrolifero, delle grandi opere e navale, ma anche esponenti politici di rilievo.

Il quotidiano brasiliano ha rivelato che i fratelli Joesley e Wesley Batista, titolari di una grande impresa multinazionale che lavora le carni, la Jsb, hanno consegnato ai magistrati dell’inchiesta Lava Jato la registrazione di un colloquio tra lo stesso Joesley Batista e Temer, in cui il primo confermava al secondo che stava per consegnare una valigetta con 500mila reais, 150mila euro circa, come prima parte di un versamento della stessa entità che sarebbe stato effettuato settimanalmente per 20 anni.


L’incontro tra il presidente e Batista, che nascondeva un registratore acceso in borsa, è avvenuto la sera del 7 marzo scorso presso la residenza di Temer, il quale – rivela O Globo alla luce dell’ascolto della conversazione – avrebbe acconsentito e detto: «È per lui, deve conservarlo». Collaborando con gli inquirenti e registrando la conversazione, i fratelli Batista avrebbero ottenuto che in un’inchiesta su carni avariate in cui sono coinvolti i magistrati non ci andassero con la mano pesante. Ora spiegano che l’ordine di effettuare il pagamento non è arrivato dal presidente, ma che lui era a conoscenza del patto.

Destinatario ultimo della cifra in questione, il vicepresidente Cunha, che avrebbe così dovuto coprire il ruolo di Temer nei fatti di corruzione in cui è coinvolto, soprattutto in relazione al finanziamento della campagna elettorale. Una cifra analoga sarebbe arrivata anche al mediatore Lúcio Funaro e in questo calso la Polizia ha filmato la consegna del denaro.

Dal Canto suo, Temer attraverso i canali ufficiali della presidenza respinge le accuse ed esclude di aver parlato di trasferimenti di soldi durante il colloquio con Batista. Secondo i media brasiliani, il presidente, che dopo la notizia si è chiuso in riunione con ministri e collaboratori per oltre due ore, parla di una cospirazione ai suoi danni e chiede di vedere i documenti e il testo integrale della registrazione frutto della collaborazione dei Batista con i magistrati, finalizzata a ottenere uno sconto di pena. La richiesta di impeachment da parte delle opposizioni, Pt in testa, è già partita e nelle piazze delle grandi città brasiliane i manifestanti chiedono che l’uomo del golpe bianco contro Dilma Roussef si dimetta.

Grufolano sulla nonna di Renzi e intanto affossano la legge sulla tortura (e il “teorema Zuccaro” non esiste)

Il segretario del Partito Democratico Matteo Renzi a ''L'Arena'' su Rai 1 condotta da Massimo Giletti, Roma, 14 maggio 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Forte questo governo Gentiloni. Ancora una volta, dopo quella brutta legge sulla legittima difesa (che si augurano di aggiustare in quel Senato che volevano abolire) ieri alla Camera sono riusciti a partorire una legge sulla tortura che appena nata ha già infranto parecchi record: non è stata votata dal suo primo firmatario Luigi Manconi (come se un ristoratore servisse nel suo ristorante un suo piatto avvisandovi che farà schifo), ha meritato critiche dalle associazioni umanitarie che si occupano di tortura e dai famigliari dei torturati e, per di più, è riuscita a fare arrabbiare anche le forze di polizia. Un capolavoro di inettitudine. Solo che questa volta è il Senato a confidare nella Camera perché “intervenga con le opportune migliorie”. In tempi di referendum i sostenitori della riforma costituzionale lo chiamavano “ping pong” e invece è banalmente dappocaggine.

Forte anche tutto il can can sul teorema Zuccaro: frotte di politici che si sono buttati a pesce che si doveva “fare chiarezza sulle ONG” dimenticandosi di essere pagati proprio per quello. Quando si sono ripresi hanno messo in piedi un’indagine conoscitiva affidata alla Commissione Difesa che finalmente ha prodotto un risultato: non ci sono inchieste in corso sulle ONG (ma va?) e c’è una sola inchiesta (“conoscitiva”) su alcune persone (non meglio specificate). In sostanza: non esistono al momento attuale elementi che possano farci dubitare di eventuali accordi illeciti tra ONG e scafisti. Balle, insomma. Balle grasse e stupide che hanno riempito la bocca di una manciata di politici pressapochisti che oggi invece rimangono muti.

In compenso il dibattito di ieri è stato tutto sulle parole della nonna di Renzi opportunamente intervistata dal Corriere della Sera poiché qui, quando si tratta di fare inchiesta vera, non si risparmia nessuno. E ovviamente la stragrande maggioranza dei politici sono andati tutti a grufolare lì tra nonne, intercettazioni, bugie confessate e magistratura in salsa di colpa di Stato. Troppo difficile discutere di tortura o chiedere scusa alle ONG: ci vuole scienza, del resto, per riuscire a scantonare di continuo le proprie responsabilità, fino alla prossima legislatura.

Buon giovedì.

Reato di tortura, la legge c’è ma il testo è stravolto e sarà difficile da applicare

Un giovane militante del Genoa Social Forum ferito dopo la perquisizione compiuta da polizia e carabinieri nella scuola Diaz, sede del GSF. LUCA ZENNARO/ ANSA

«Un brutto testo che non ho votato, io che l’ho depositato il primo giorno della legislatura». Il senatore Pd Luigi Manconi è lapidario: «Del disegno di legge sul reato di tortura che originariamente portava il mio nome non rimane praticamente nulla». Il senatore spiega nei dettagli cosa è successo questa mattina al Senato, dove è stato approvato un testo di legge stravolto rispetto al testo depositato, come dice il senatore, nel 2013. «Innanzitutto perché il reato di tortura viene definito comune e non proprio, come vogliono  invece tutte le convenzioni internazionali dal momento che si tratta di una fattispecie propria dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio». Quindi un preciso abuso di potere. Anche le parole cambiate poi hanno un significato preciso. «Inoltre – continua Manconi in un suo intervento a caldo – nell’articolato precedente, si pretendeva che le violenze o le minacce gravi fossero “reiterate”. Questa formula è stata sostituita nel testo attuale da “più condotte”. Dunque il singolo atto di violenza brutale (si pensi a una sola pratica di water boarding) potrebbe non essere punito». Il testo di legge con l’articolo 613-bis che introduce in Italia il delitto di tortura è stato approvato questa mattina al Senato con 195 voti favorevoli, 8 contrari e 34 astenuti. Adesso il testo ritornerà alla Camera.

Quelle parole cambiate nel testo
In commissione Giustizia del Senato le ultime modifiche, che già ieri avevano fatto scattare la protesta delle associazioni Antigone e Amnesty che da sempre si battono per avere una legge che introduca in Italia un reato universalmente riconosciuto. L’altra modifica, oltre al fatto delle violenze che derivano da più condotte, riguarda le sofferenze psichiche. Vale la pena citare il primo testo: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero mediante trattamenti inumani o degradanti la dignità crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche» è stato cambiato in «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico». È chiaro che su queste basi, sarà sempre più difficile dimostrare il trattamento inumano dal punto di vista psichico, perché in quel “verificabile” si nasconde un percorso a ostacoli nelle aule dei tribunali. Lo dice nero su bianco anche lo stesso Manconi: «la norma prevede perché vi sia tortura un verificabile trauma psichico. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?».

Un testo che così è difficile da applicare
Un testo dunque dalla difficile applicazione, sostengono sia Antigone che Amnesty «nel limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo (un’ipotesi ripudiata solo qualche anno fa dall’intero arco costituzionale) e a circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale». Qualcosa di assurdo, dicono, « per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo». E anche Manconi è sulla stessa lunghezza d’onda: «Tutto ciò significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà, o comunque loro affidate, quando invece è solo l’individuazione e la sanzione penale di chi commette violenze e illegalità a tutelare il prestigio e l’onore dei corpi e della stragrande maggioranza degli appartenenti”.

Una storia lunga
E dire che sono passati 29 anni da quando l’Italia ha sottoscritto la Convenzione Onu sulla tortura ma il Parlamento da quel lontano 1989 non è mai riuscito a tradurre quelle direttive in un atto normativo valido per lo Stato italiano. Soltanto buone intenzioni rimaste sulla carta. Un vuoto legislativo che è pesato soprattutto di fronte a episodi come quelli di Genova 2001. Tra l’altro proprio quest’anno ad aprile, l’Italia ha accettato di patteggiare un risarcimento di 45mila euro ai manifestanti che subirono violenze e quindi ha ammesso le proprie colpe. Se allora ci fosse stato il reato di tortura le cose sarebbero andate in maniera diversa e forse, chissà, casi come quello di Stefano Cucchi, non si sarebbero verificati. Perché il clima culturale avrebbe favorito un diverso atteggiamento da parte delle forze dell’ordine. E chiaro, sono ipotesi, ma è stato dimostrato quanto una legge possa incidere sull’opinione pubblica, soprattutto quando riguarda i diritti civili. In questo caso poi gli italiani si aspettavano una legge.

L’indagine Doxa per Amnesty international
Lo prova un’indagine realizzata da Doxa per Amnesty international. Oltre 6 italiani su 10 ritengono che nel nostro ordinamento dovrebbe essere previsto esplicitamente il reato di tortura. Sempre dalla stessa indagine emerge che per un italiano su 2 la tortura nel nostro Paese non esiste, una realtà riconosciuta solo dal  33% degli intervistati (un restante 17% non sa). «Da questa indagine emerge con chiarezza – afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty – che dobbiamo continuare a lavorare con tutte le nostre forze per portare all’attenzione delle istituzioni, dell’opinione pubblica e dei media il tema della tortura, far crescere la consapevolezza su quello che avviene nel nostro paese e fuori dai nostri confini, dare voce a chi non ce l’ha”.

Riccardo Noury: «La sinistra ha fatto poco per i diritti umani»
Riccardo Noury è dal 2003 portavoce di Amnesty Italia. Come è andata in questo periodo, a proposito di percezione in Italia della tutela dei diritti umani? «Su molte questioni, come quello dell’immigrazione, l’Italia si è accodata ad una politica europea di chiusura, sia dal punto di vista delle politiche che dal punto di vista culturale. Lo abbiamo visto anche con i distinti accordi fatti con la Libia da governi dei destra e sinistra, da Berlusconi, Monti, Letta e Gentiloni». Per quanto riguarda invece i diritti civili in Italia, Noury conferma che il Paese in effetti rimase impressionato dai fatti di Genova. «Se ne parlava in continuazione anche negli anni successivi, la popolazione era interessata, ma non c’è stato un movimento così forte da far approvare la legge». «Questo dimostra che la sensibilità per i diritti umani è scarsa, adesso c’è una grande paura per il proprio destino e la tendenza a prendersela con i capri espiatori, come si vede per i migranti».
Nuoro continua: «Manca una cultura politica dei diritti umani e la sinistra purtroppo non ha fatto dei diritti umani un principio per cui lottare».
Lo abbiamo visto anche nell’aula del Senato oggi.