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A Ravenna il Jazz insegnato ai ragazzi

Il grande pubblico, quello mainstream che arriva sempre in ritardo sulle cose, un po’ stanco e superficiale, sta cominciando ad appassionarsi al Jazz solo ora, dopo aver visto al cinema La La Land. Nella provincia d’Italia però qualche visionario si era accorto molto tempo fa del valore straordinario di questo genere musicale. A Ravenna per esempio sono già da molti anni tutti pazzi per il Jazz, quello vero, non quello hollywoodiano e patinato. E addirittura lo insegnano ai ragazzi nelle scuole con il progetto “Pazzi di Jazz”. Il risultato lo potete vedere nel video qui sotto: centinaia di ragazzi di tutte le età che suonano insieme sullo stesso palco con l’aiuto di insegnanti, professionisti e artisti affermati (vi dice nulla Paolo Fresu?); partecipano a lezioni-concerto per imparare la musica; studiano l’arte l’improvvisazione ed entrano in contatto diretto con le storie dei più grandi jazzisti di tutti tempi.

«Il Jazz è l’occasione per realizzare un mosaico di libertà» ha spiegato a Left Catia Gori, ideatrice del progetto insieme a Sandra Costantini, «e la musica è un elemento straordinario per potenziare l’educazione».

Quando nasce questo progetto?
Pazzi di Jazz nasce nel 2013 durante l’ascolto di un concerto di Maria Pia De Vito all’interno di una rassegna curata da Sandra Costantini direttore artistico di Ravenna Jazz e di Jazz Network. Oltre ad essere un’insegnante sono anche una cantante Jazz e quindi ho pensato: “perché non facciamo avvicinare i ragazzi al mondo del jazz realizzando un progetto che permetta alla cultura di entrare gratuitamente all’interno della scuola?” Sandra ha immediatamente raccolto la mia proposta. Il pubblico degli ascoltatori, soprattutto quando si parla di musica, è tutto da costruire… accade anche perché la musica non è un’arte adeguatamente sviluppata e valorizzata nelle istituzioni scolastiche. Partendo da questo concetto abbiamo cercato di coinvolgere più risorse possibili all’interno del nostro territorio, colleghi, insegnanti di musica. Fra questi in particolare un insegnante di una scuola media ad indirizzo musicale che si occupa e cura il lavoro artistico di una big band di giovani e che ha deciso di seguire questo nostro sogno e aiutarci a realizzare un percorso musicale legato al jazz che trovasse espressione sicuramente in un concert,o ma che avesse al suo interno anche dei racconti, delle lezioni-concerto, capaci di essere molto molto vicine ai ragazzi.
Qual è l’idea di cultura che sta dietro a un’iniziativa come Pazzi di Jazz?
La cultura secondo noi oltre ad essere gratuita deve entrare dentro la scuola, quando le ho proposto di realizzare qualcosa Sandra ha subito pensato di contattare immediatamente Paolo Fresu. Paolo oltre ad essere un musicista straordinario è una persona straordinaria e ha colto immediatamente il senso, il valore e la cura di questo progetto legato ai bambini e ai ragazzi. Entrare direttamente dentro le scuole e raccontare con la sua tromba la vita dei musicisti jazz è stata la chiave del successo educativo di tutto questo. La ricaduta culturale all’interno delle scuole è stata enorme. Si è creato un gruppo di persone che si sono trovate così a lavorare insieme, dapprima con poche risorse, poi ottenendo sempre un maggior consenso. È stata una piccola rivoluzione, poco a poco le persone prese dall’entusiasmo hanno cominciato a seguirci creando un vero e proprio tam tam. Da un centinaio di studenti siamo arrivati a un seguito di migliaia e migliaia di persone, ragazzi, genitori, insegnanti, musicisti, artisti. Ai progetti hanno iniziato a partecipare sia i bambini della scuola primaria, come i miei alunni che all’epoca frequentavano la seconda elementare, ma anche adolescenti, studenti liceali, universitari provenienti da tutto il territorio dell’Emilia Romagna. A noi interessava che il messaggio che stavamo lanciando venisse condiviso dal maggior numero di persone possibile, che si cominciasse a conoscere di più il jazz come modo di guardare al mondo: imparare a lavorare e stare insieme, a improvvisare anche.
Il jazz infatti insegna anche il valore dell’improvvisazione. Perché è così importante?
Quando parlo di improvvisare intendo l’imparare a dare il meglio di sé in un contesto collettivo. Questo è un principio vitale e secondo noi è anche stato uno dei motivi che hanno garantito un successo incredibile al progetto. Ma non semplicemente un successo in termini musicali e di ricaduta in termini di visibilità sul piano del concerto, ma soprattutto un successo in termini educativi e di capacità di coinvolgimento delle associazioni e degli artisti del territorio che hanno organizzato eventi e mostre sul Jazz. Abbiamo messo insieme un sacco di utenza, cittadini, famiglie, pensionati, insegnanti, scuole, insomma si sono attivati davvero in tanti.
Che ricadute ha avuto sul territorio tutto questo?
All’interno della città ormai Pazzi di Jazz è un appuntamento molto importante e molto partecipato. Soprattutto è un progetto culturale gratuito che riesce a coinvolgere realtà sociali differenti e con esigenze differenti. Riusciamo a cucire insieme in un’unica partitura le scuole del centro con quelle della periferia che a volte presentano anche situazioni di disagio o di difficoltà. Abbiamo portato in teatro in città circa 70 bambini provenienti da zone più complicate che erano più abituati a vedere l’ingresso delle case sociali o dei carceri che un teatro. Per loro è stata un esperienza straordinaria. E anche per molti insegnanti che si sono sentiti parte di un progetto culturale serio e molto alto che ha ottenuto anche il riconoscimento della Presidenza della Repubblica.
Essendo gratuito come riuscite a realizzare tutto questo?
Beh, ogni anno è molto difficile riuscire a trovare fondi e risorse per poterlo portare avanti… ma ce la stiamo facendo con le unghie e con i denti…
Qual è la potenzialità educativa del linguaggio del Jazz per i ragazzi?
Intanto non è un linguaggio accademico e imbalsamato. È un linguaggio estremamente dinamico nel quale bisogna saper padroneggiare alla perfezione il tema che si sta eseguendo, per poi poter dare un’interpretazione personale di quello stesso tema in cui non esiste più qualcosa di giusto o di sbagliato, ma esiste piuttosto qualcosa di contestuale a quello che si sta facendo. Riproporre qualcosa che si è studiato attraverso una propria rielaborazione è sicuramente un arricchimento personale. Ecco, il messaggio che il Jazz insegna è che si può improvvisare qualcosa solo se la si conosce molto bene. In questo genere musicale c’è un concetto di libertà che non ha nulla a che vedere con la confusione e il caos. In questo sta la capacità aggregante del Jazz.
E poi ci sono le storie di vita dei jazzisti, anche quelle hanno un forte impatto educativo.
Certo grazie a Francesco Martinelli, storico del jazz, siamo riusciti a raccontare ai ragazzi la vita di molti artisti. Da Cole Porter a Ella Fitzgerald fino a Dizzy Gillespie. Si spiega ai bambini che ciascuno di noi suona per ciò che è, questo è il concetto principale che riusciamo a trasmettere. Non c’è la rigidità del pentagramma o del solfeggio, qui l’opera è la realizzazione di ciò che si sta facendo.
Quali sono i musicisti che piacciono di più ai ragazzi?
Paolo Fresu è molto amato dai bambini, in tantissimi vedendo lui chiedono di poter suonare la tromba e gli strumenti a fiato come il Sax e il trombone. È piaciuta tantissimo la figura del trombettista Dizzy Gillespie, soprattutto perché è stato presentato con queste gote gonfie e i più piccoli l’hanno percepito come una figura molto giocosa. Ma anche Cole Porter ha fatto breccia. I bambini sono estremamente colpiti dalle loro vite, soprattutto dagli aspetti legati all’emarginazione, alla solitudine, ma anche da quel senso del riscatto che si ritrova nelle biografie di molti di questi personaggi. In una scuola della provincia abbiamo lavorato su Django Reinhardt, jazzista belga di etnia sinti, raccontando quindi anche il suo essere uno zingaro. Un giorno uno dei bambini, con tono dispregiativo, ha dato dello zingaro a un suo compagno, questo che aveva ascoltato la lezione di Francesco Martinelli su Django, lo ha guardato senza scomporsi e gli ha risposto: «Tu non sai cosa stai dicendo, lo conosci Django Reinhardt? Se sapessi chi è sapresti che zingaro non è un’offesa, anzi io sarei orgoglioso di essere come lui».

La “tassa sulla demenza” mette nei guai Theresa May. Il Labour di Corbyn in (relativa) rimonta

epa05971958 British Prime Minister and leader of the Conservative Party Theresa May launches her party's manifesto at The Arches in Halifax, Britain, 18 May 2017. British Prime Minister Theresa May has called a snap general election for 08 June 2017. EPA/NIGEL RODDIS

Il partito conservatore britannico è in guerra contro il welfare pubblico e il suo manifesto elettorale contiene dei passaggi che lo dimostrano. E che, sembra di capire, gli costeranno voti e seggi alle elezioni del prossimo 8 giugno.

Il manifesto presentato la scorsa settimana contiene una proposta, soprannominata dai laburisti “tassa sulla demenza” (ma anche tassa demente) che farà aumentare di molto le spese per i ricoveri in case famiglia e di assistenza domiciliare agli anziani con un meccanismo che colpirà loro e le loro famiglie – c’è un prelievo sulla casa di proprietà che lo Stato farebbe alla morte della persona assistita. La proposta sembra disegnata per colpire la base più solida dell’elettorato Tory, gli anziani del ceto medio. Per i più poveri, infatti, i costi non cambiano. Un errore clamoroso contro il quale c’è una rivolta in atto tra i deputati del partito che si troveranno a dover difendere la “dementia tax” davanti al loro elettorato furioso. Tra le altre cose il programma conservatore prevede anche un ridimensionamento del bonus per il riscaldamento, misura altrettanto impopolare.

La misura, sembra di capire, non è stata discussa tra i maggiorenti del partito ed è stata aggiunta al manifesto elettorale all’ultimo momento da Nick Timothy, il capo dello staff di Theresa May. Che oggi, dopo pressioni crescenti, ha annunciato durante un comizio in Galles che il piano verrà ripensato e verranno ritoccati i limiti di spesa – ovvero si ridurranno i costi previsti.

Quello della “tassa sulla demenza” è davvero un errore strategico se è vero che negli ultimi giorni il partito Laburista di Jeremy Corbyn ha recuperato diversi punti. L’ultimo sondaggio parla di un gap di 9 punti. È la prima volta dal referendum sulla Brexit che i sondaggi parlano di meno di 10 punti di distacco. Che sono comunque un’enormità. Oggi i Laburisti sono dai al 34% e i conservatori al 43%. Nel 2015 il distacco era minore, ma il partito guidato da Ed Milliband prese il 30%. In questo caso è il crollo dell’Ukip a favorire il partito di Theresa May: dopo la vittoria sulla Brexit e l’assunzione dei toni e della retoria anti-europea da parte della premier britannica, il partito un tempo guidato da Nigel Farage ha perso molto del proprio senso. Allo stato, dunque, May ha ogni chance di vincere le elezioni. Ma il voto non spazzerà via del tutto Corbyn, nel senso che il suo risultato potrebbe essere nettamente migliore di quello ottenuto dal suo predecessore e di ogni previsione. Del resto l’insuccesso laburista non si può imputare al solo leader: nelle fila del partito non c’è nessun leader naturale potenziale pronto a sostituirlo e tutti i partiti socialisti d’Europa hanno collezionato sconfitte pesanti nelle ultime tornate elettorali – il Pasok è scomparso, il partito socialista francese pure, quello spagnolo è in enorme difficoltà e Martin Schulz non sembra avere chance di impedire a Angela Merkel di vincere le elezioni per la quarta volta consecutiva. Da ultimo, i sondaggi segnalano un ritorno dell’elettorato ai due grandi partiti: nel 2015 meno del 70% li votò, oggi siamo quasi all’80%.

Non è un caso che i conservatori stiano scegliendo la strada degli attacchi personali contro il leader Labour. L’ultimo è relativo a una frase sbagliata sull’IRA: Corbyn ha detto che tutte le bombe sono sbagliate invece di condannare l’esercito repubblicano irlandese in maniera palese. Il tipico autogol alla Corbyn, che troppo spesso rimane fedele a se stesso e a formule del passato che avevano molto senso negli anni della sua formazione e del thatcherismo ma ne hanno molto meno adesso. Un po’ di furbizia politica a volte non guasta.

 

Dalla sua il leader laburista ha la grande capacità di fare campagna alla vecchia maniera: i suoi comizi sono gremiti (come vedete qui sopra), molto spesso di giovani. Quella fu la sua base quando vinse la corsa per la leadership del suo partito. Resta da vedere se e quanto l’elettorato giovane e le minoranze sapranno andare alle urne per sostenere i laburisti. A oggi i conservatori hanno una maggioranza di 12 seggi e May ne cerca una più solida per avere un mandato forte per i negoziati sulla Brexit (mandato che non cambierebbe le cose, dicono a Bruxelles). Il sistema maggioritario britannico confrontato con sondaggi nazionali, non ci dice molto della composizione dei Comuni dopo il voto. Quanti seggi riuscirà a tenere con questi voti il Labour? E quanti i conservatori? Ci sono luoghi in cui un effetto Ukip consentirà al partito di Corbyn di strappare seggi insperati?  In queste settimane Corbyn ha recuperato parecchio terreno, difficilmente sarà abbastanza per indebolire May (con il concorso dei Lib-Dem e dello Scottish National Party). Ma la sua performance non sarà poi così disastrosa come ci si diceva quando May ha convocato le elezioni straordinarie a sorpresa.

Riecco Berlusconi, che fa sognare Renzi col voto anticipato

Former Italian Prime Minister Silvio Berlusconi in Lecco (Milan) for an election party of Forza Italia, 17 May 2015. ANSA/ MATTEO BAZZI

Che la prudenza non è mai troppa ce lo ricorda lo stesso Silvio Berlusconi che oggi riapre formalmente la trattativa con Pd sulla legge elettorale (vuole un modello tedesco e mette sul piatto, in cambio, il voto a ottobre) e che solo la settimana scorsa, però, diceva che margini per un «Nazareno bis» no, non c’erano proprio. Volubile è Silvio, e non solo lui: la trattativa per la nuova legge elettorale, che dovrebbe sostituire ciò che resta dell’Italicum e ciò che, al Senato, resta del Porcellum, è piena di curve – come vi raccontiamo d’altronde sul numero di Left, il 20, che trovate in edicola.

Lo stato dell’arte, però, al momento, è questo. Il Pd ha presentato una sua proposta, ribattezzata “Rosatellum” dal nome del capogruppo dem alla Camera, Ettore Rosato, e su quella si è detto intenzionato ad andare alla conta, sicuro del sostegno – fra gli altri – di Denis Verdini. I numeri però sono stretti (anzi sono bassi) e – registrati i primi no dei bersaniani – il dialogo con Berlusconi è dunque prezioso. Berlusconi lo sa – sa che il suo prezzo è salito col no di Speranza – e quindi apre, ritorna. Ma propone qualcosa di diverso (e, per certi versi, di migliore, almeno nei termini di un maggior rapporto tra eletto e elettore).

In attesa dell’ennesima sorpresa e degli sviluppi, può esser allora interessante fare un punto sulle due proposte, anche se quella di Berlusconi è solo un vago riferimento esterofilo.

Il Rosatellum – come abbiamo scritto – è spacciata per una legge “metà maggioritaria e metà proporzionale”, visto che metà dei seggi sono assegnati in collegi uninominali e metà con calcolo proporzionale. In realtà, però, è una legge molto maggioritaria (perché non prevede alcuno scorporo tra la quota uninominale e quella proporzionale, e anzi prevede un voto su unica scheda con l’impossibilità quindi di un voto disgiunto), con i seggi maggioritari assegnati senza ballottaggio e con quelli proporzionali dati su listini bloccati, senza preferenze. Il modello tedesco, tanto per cominciare, nonostante il sistema sia simile (sempre 50 per cento uninominale e 50 per cento proporzionale) prevede invece due schede, limitando di molto, così, le conseguenze dell’inevitabile “voto utile” che l’uninominale porta con sé e che così si riflette meno sulla quota proporzionale. Quota proporzionale che, peraltro, è soggetta al celebre scorporo: si sottraggono, in pratica, i seggi ottenuti con l’uninominale a quelli che un partito conquista nel proporzionale (a cui si accede comunque con uno sbarramento del 5 per cento, come col Rosatellum).

Comunque. Oltre alle differenze tecniche – che vedremo nel dettaglio se ce ne sarà veramente bisogno – per ora vanno sottolineate le implicazioni politiche. Buono (conosce la materia) è il punto di Augusto Minzolini. «In sintesi», scrive sul Giornale, «Renzi risparmia al Cav una legge elettorale che potrebbe danneggiarlo» – il Rosatellum – «Berlusconi evita al segretario del Pd un calendario che potrebbe penalizzarlo». Eh già, perché a nessun commentatore è sfuggito quanto messo sul piatto da Berlusconi e, soprattutto, le reazioni dei dem, preoccupati sì che «sia un bluff», ma affascinati dalla tempistica. Sulla Stampa Ettore Rosato – ed è la prima volta che lo si dice così apertamente, lasciando quasi intravedere un sorriso – dice: «Il voto anticipato non è certo un tabù: può essere l’epilogo naturale di una legge fatta con attenzione, ma anche senza perdere più tempo, prima dell’estate. Consentire a un nuovo governo di fare la legge di bilancio, impostando il suo mandato nei prossimi cinque anni sarebbe più logico. Del resto, tutti i grandi paesi stanno per votare: e avere un governo nel pieno delle sue funzioni per costruire il futuro dell’Europa con il nuovo esecutivo francese e tedesco, sarebbe meglio».

«Non uno ma tre Rolex»: e Gentiloni che fa?

Simona Vicari in una immagine del 28 febbraio 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI

La sottosegretaria al Ministero dei Trasporti Simona Vicari è finita indagata in una brutta storia di presunta corruzione in cui, tra le altre cose, è accusata di avere ricevuto “in regalo” un Rolex per “agevolare” alcune pratiche. Al di là del fatto che, qualora le accuse siano poi riscontrate, ne uscirebbe una classe dirigente che ormai non si vende più per ingenti finanziamenti al proprio partito e bustarelle di quelle che cambiano la vita ma ormai è disposta a diventare servile per un orologio, la risposta della Vicari al Corriere della Sera mette i brividi:

«Ho letto sulle agenzie che sarei accusata di corruzione. Ma di che parliamo? – ha detto al Corriere della sera – Quell’orologio riguarda rapporti con le persone che uno ha a prescindere. Dalle intercettazioni si capisce benissimo che si tratta di un regalo di Natale. Poi sì, io ho chiamato per ringraziare. Ma se lo avessi fatto per corruzione, secondo lei avrei ringraziato?». L’addio della Vicari potrebbe non essere indolore per il governo. Dopo essersi difesa, l’ex sottosegretaria passa all’accusa e che accusa: «Voglio dirle un’altra cosa – ha aggiunto al Corriere – anche se può suonare un po’ antipatico. Ci sono ministri che hanno preso non uno, ma tre Rolex e sono ancora in carica».

In pratica, dice la Vicari, nel Consiglio dei Ministri siede almeno una persona che è esattamente come lei, solo con un po’ più “fame”. Al di là del tenore della discussione (siamo oltre alle fake news, siamo alla fake politica) sarebbe curioso sapere che ne pensa il premier Gentiloni perché qui i casi sono due: o la Vicari è una squinternata oppure il suo malcostume è in linea con qualcuno più in alto di lei. Tertium non datur.

Buon lunedì.

Le verità nascoste del caso Rocchelli-Mironov

SLOVIANSK, UKRAINE - FEBRUARY 11: Abandoned and heavily damaged buildings are seen in Sloviansk city of Donetsk Region, Ukraine on February 11, 2016. Sloviansk had been evacuated due to heavy clashes between Ukraine army and Pro-Russian separatists which had erupted on 2014. (Photo by Maksim Scherbina /Anadolu Agency/Getty Images)

«Luce». Amnesty, Articolo21 e la Federazione della Stampa italiana la chiedono per la vicenda Rocchelli-Mironov, morti sul campo, un giorno di primavera 2014, nella prima roccaforte della guerra del Donbass, Ucraina dell’est. «Due persone sono state uccise: Andrea Rocchelli e Andrej Mironov. Adesso l’obiettivo è questo: caro governo italiano, devi chiedere a quello dell’Ucraina di far luce su questa vicenda». Queste sono state le parole di Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi.

Alessandra Ballerini, legale dei Rocchelli, come della famiglia Regeni, ha parlato delle ultime foto di Andy, finalmente ritrovate, scattate pochi istanti prima di morire: il lavoro di chi raccontava e denunciava, «con l’incredibile forza d’animo e forse consapevolezza, con quell’unica arma in mano, senza pallottole, che era la sola possibilità di reazione se non di strenua difesa», quella che definisce “la testimonianza estrema”. Negli ultimi scatti di Andy si vede l’atterrito volto di Mironov, il soggetto della foto un attimo prima di condividere il destino del fotografo. Se non ci fosse stata pressione in questi anni, «rimarrebbe solo rumore. Nella sede centrale di Amnesty a Roma, ora, una delle sale si chiama “Mironov”, proprio come Andrej.  Mancano pochi giorni al 24 maggio 2017, saranno tre anni esatti da quel giorno e Noury ricorda che «la verità storica non coincide con quella giudiziaria». C’è la storia, c’è la cronaca di come andò in quei giorni e, alla fine, la giustizia. Da qualche parte deve rimanere nero su bianco, su un documento ufficiale, per questo le indagini sono in corso in due procure, a Pavia e a Kiev.

In quei giorni a Slavjansk – non era più un paese, ma un simbolo, un anticipo di quello che stava per succedere al resto della regione delle miniere di carbone – tra le milizie armate dei filorussi del Donbass, ogni giorno c’era un buco in più lasciato dai mortai e le trincee che si scavavano erano sempre più profonde. Il 24 maggio 2014 la guerra cambiò. Si cominciò a bombardare con la luce, a metà giornata, non solo a ridosso del coprifuoco. Alla barricata di Simonivka c’era una testa di Lenin gruviera, forata di pallottole su cui qualcuno aveva preso la mira. Sul muro a cui si appoggiavano i soldati, che chiudeva la barricata c’era la scritta “per informazioni chiamare il 666”. I soldati di posta erano quasi sempre gli stessi. Bozman non disse mai qual’era il suo vero nome, ma parlava spesso di Grozny e concludeva sempre con la frase “quello era inferno”. Fu proprio con la barricata di Bozman che si scrisse l’inizio del mito del comandante Motorola, all’anagrafe Arsen Pavlov, cittadino russo, nato in Unione Sovietica nel 1983, all’epoca capo brigata alla barricata di Simonivka. In quel maggio 2014 era un basso ragazzo dai capelli rossi, in pochi mesi sarebbe diventato una delle rock star belliche del conflitto, comandante del battaglione Sparta. La sua leggenda ha avuto culla nell’arrocco di Slavjansk, all’incrocio delle quattro strade che collegavano Donetzk a Kharkiv. Bozman non disse mai il suo nome, nemmeno Kripic, nome di battaglia “mattone”, e nemmeno quello che si faceva chiamare Arab, che diceva quello che dicevano i gialloblu sulla collina: «noi siamo pronti a tutto, loro sono pronti a tutto». Non erano ancora stanchi ma lo sarebbero diventati presto.

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Adozioni e immigrazione, il Texas anticipa Washington?

epa05823954 United States Border Patrol (USBP) agents question two men suspected of crossing the Rio Grande River to enter the United States illegally near Rio Grande City, Texas, USA, 01 March 2017. The nearly two thousand mile Mexico-United States border is the most frequently crossed international border in the world. EPA/LARRY W. SMITH

Ada Morales è una signora nata in Guatemala che da molti anni vive nel piccolo Stato del Rhode Island, negli Stati Uniti. Dal 1995 è diventata cittadina del Paese dove è immigrata. In due occasioni la signora Morales è stata fermata da agenti di polizia e dopo che l’Ice, la Immigration and customs enforcement, aveva emesso un ordine di custodia federale, è stata detenuta in cella per 24 ore perché sospettata di essere una immigrata illegale. La sua causa contro le autorità federali è tutt’ora in corso e il suo caso torna tristemente di attualità dopo che il Texas ha approvato una legge che riguarda casi simili al suo. Il governatore repubblicano del Lone Star State (lo Stato della stella solitaria, come lo chiamano), Greg Abbott, ha apposto la sua firma sul testo in tutta fretta per prevenire manifestazioni di protesta davanti al palazzo del governo.

Prima di vedere cosa dice questa legge – e di ricordare un altro caso clamoroso di legiferazione guidata da furore ideologico e propagandistico – vale la pena ricordare che l’assemblea elettiva del Texas e i suoi governatori sono campioni nell’invenzione di leggi improbabili che difficilmente fanno pensare a una delle economie più dinamiche degli States: dai curricula scolastici improntati al creazionismo agli esempi di questi giorni, la morale e la propaganda di destra animano spesso le intenzioni dei legislatori texani e di frequente fanno notizia.

Su Left anche la nuova guerra alla droga dell’amministrazione Trump: dalle pene ridimensionate di Obama alla caccia al drogato di Sessions

La legge votata in Texas multa i municipi e le contee fino a 25.500 dollari al giorno per politiche che bloccano la persecuzione dell’immigrazione illegale. Funzionari eletti o nominati che rifiutano di collaborare con gli agenti federali dell’Ice potranno perdere il loro posto di lavoro. Gli sceriffi o altri agenti di polizia locale dovranno affrontare commissioni disciplinari e rischiare fino a un anno di prigione e multe se ignorano le richieste federali di detenzione degli immigrati. Cerchiamo di spiegare partendo dal caso della signora Morales: fermata per un controllo e sospetta di aver commesso un reato, viene immediatamente rilasciata dal giudice non avendo commesso nessuna effettiva infrazione, ma siccome nel frattempo le autorità federali la sospettano di aver violato le leggi sull’immigrazione ne ordinano il trattenimento. Le multe e le pene contro polizia e cariche elettive locali contenute nella legge texana sono infatti pensate per impedire che le città o le polizie locali si rifiutino di collaborare con la caccia all’immigrato incentivata dalla presidenza Trump.

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Non gli resta che il diavolo

«La moglie è posseduta: per i giudici la colpa del divorzio è del demonio». Con questo titolo il Corsera ha dato notizia del debutto del diavolo in un’aula di giustizia italiana. Per la precisione nel Tribunale di Milano. Era il 6 aprile scorso. E nella sentenza si legge: «La signora non agisce consapevolmente, è agìta». Dando così valore alle testimonianze dei parrocchiani e dell’esorcista frequentati dalla donna, fervente cattolica. Tutto questo è accaduto in Italia non in Vaticano. I giornali italiani lo riportano, senza fare una piega, come se fosse normale e ammissibile. Cambio di scena: il viaggio pastorale di papa Francesco a Fatima viene riportato fra le prime notizie del giorno dalla tv pubblica italiana. I vaticanisti nel viaggio di ritorno in aereo dialogano con il papa parlando di apparizioni e di ragazzini “visionari” fatti santi. (Due su tre, uno a quanto pare è rimasto fregato). Ne parlano come fossero cose reali. Sbalorditiva è la narrazione acritica da parte dei maggiori media italiani. Non una voce giornalistica ha precisato che il racconto delle apparizioni, delle visioni, dei miracoli e il riferimento nemmeno troppo velato alla lotta contro il maligno, rappresenta unicamente la visione della Chiesa. Non è la prima volta. Da quando Bergoglio è salito sul trono di Pietro nel 2013 i riferimenti al diavolo come persona e al fatto che sia lui il vero responsabile degli scandali finanziari e pedofili della Chiesa, oltre che delle guerre e dei “mali” del mondo, sono una costante dei suoi discorsi. Volendo pensare e non credere abbiamo chiesto agli psichiatri cosa significa “vedere” il diavolo e “parlare” con la Madonna. A noi pare particolarmente inquietante che il Tribunale di uno Stato laico alluda alla presenza di misteriose forze esterne per spiegare l’evidente malessere di una persona. Da dove origina tutto ciò? A fronte di tutto questo una ricerca dell’Istat sulla “Pratica religiosa in Italia” evidenzia dal 2013 a oggi uno svuotamento delle chiese senza precedenti, ci restituisce la fotografia di una società civile sempre più impermeabile agli antichi retaggi religiosi. Una conferma di questo trend viene anche dall’XI Rapporto sulla secolarizzazione pubblicato da Critica liberale mentre andiamo in stampa. Insomma, nonostante papa Francesco e i suoi sodali, la collettività laica resiste e contrattacca. Sono circa 10 milioni gli italiani che si dicono non credenti (fonte Uaar). È in primis a loro che ci rivolgiamo e che ci rivolgeremo su Left, per costruire insieme qualcosa di nuovo.

Tratto dal numero di Left in edicola

 

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Il Messico rialza la testa

MEXICO CITY, MEXICO - MAY 15: Protesters are seen during the "Day of the Teacher", where Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educacion (CNTE), the magisterial dissent held protests against education reforms in Mexico City, Mexico, May 15, 2017. (Photo by Manuel Velasquez/Anadolu Agency/Getty Images)

Ha in mano una copia del suo nuovissimo Patria quando lo intravedo nell’ombroso cortile dell’Hotel dove alloggia. Paco Ignacio Taibo II lo sfoglia con evidente soddisfazione fra un’intervista e l’altra in attesa del suo prossimo incontro con il pubblico di Encuentro, il festival di letteratura latinoamericana in corso a Perugia. «È il primo volume di una trilogia ed è ambientato nel più grande periodo rivoluzionario che il Messico abbia conosciuto, quello che va dal 1854 al 1866», mi racconta mentre ordiniamo un caffè e, lui, la sua solita Coca Cola. Giornalista, scrittore di romanzi di avventura, di polizieschi dal piglio caustico e travolgente Taibo II è un grande maestro di controstorie, capace di smascherare le narrazioni menzognere targate Usa ai danni dei latinos. E non solo. «In questo nuovo libro racconto una vera rivoluzione democratica. In quel preciso momento in Messico, con la rivoluzione di Ayutla, cominciò la costruzione della Repubblica. Fu fatta contro tutto e contro tutti». Ovvero? «Contro la dittatura del generale Antonio López de Santa Anna che aveva perso la guerra contro gli Stati Uniti, contro i conservatori nel corso di una guerra che durò tre anni, direttamente contro la Chiesa per la prima Costituzione progressista del 1857. Contro l’invasione dell’esercito di Napoleone III e contro l’impero di Massimiliano d’Austria. Questa è la storia di una guerra e di una resistenza popolare che durò 14 anni».

Perché hai sentito l’esigenza di tornare a scrivere dell’Ottocento?

Da noi la preistoria comincia nel XIX secolo; non c’è niente prima. Il Messico aveva bisogno di un libro così per rendere evidente il contrasto fra quella esperienza e quella di oggi, per vedere bene chi è al potere in Messico.

Un romanzo storico che denuncia il governo Nieto?

Patria ha due gambe. C’è una visione narrativa del passato, una storia complicata, ampia, piena di avventura e c’è un sotto testo che riguarda il modo attuale di governare. I messicani hanno rialzato la testa e cominciano a premere per una svolta. Prima di venire a Perugia per la strada i lettori mi fermavano chiedendomi: “Quando esce Patria? Facciamo il culo al governo di Nieto?”. La risposta è sì.

Perché una trilogia, vista l’urgenza dell’attualità?

Servono pagine su pagine su pagine per raccontare tutta questa storia. Ho avuto una lunga discussione con il gruppo editoriale Planeta che pubblica il mio libro in Messico (uscirà tra due settimane). Ha un pubblico di lettori giovani, un volume di mille pagine sarebbe stato troppo caro per loro. Per rendere abbordabile l’opera e venire incontro ai meno abbienti lo abbiamo diviso in tre tomi. Perciò abbiamo deciso di lanciare una campagna pubblicitaria fuori dal comune, che dice: “Hai 59 giorni per leggere il primo tomo. Perché il giorno seguente, il sessantesimo, esce il secondo volume”.

Sembra una storia alla Balzac, fa pensare all’attesa febbrile che accompagnava ogni nuova puntata di un feuilleton… 

Mi sento un autore di romanzi popolari. Mi piacerebbe scrivere romanzi d’appendice. Ma oggi è impossibile perché è un genere anti economico.

Mentre in Messico esce Patria in Italia esce in nuova edizione Ombra nell’ombra grazie a La Nuova frontiera che sta ripubblicando tutto il tuo catalogo. Come è riviverne l’uscita oggi?

È una sensazione particolarmente piacevole. Il recupero del catalogo è un progetto divertente perché mi permette di rivedere come fosse un film tutto il mio lavoro letterario.

I tre romanzi che la Nuova frontiera ha appena ripubblicato hanno rappresentato una svolta nel genere poliziesco tradizionale.

Sono libri che segnano una svolta nel mio percorso. Ero cascato senza volerlo nei classici romanzi di detective. Ombra nell’ombra, A quattro mani, La bicicletta di Leonardo e Ritorniamo come ombre (i primi tre sono già usciti, il quarto sarà in libreria a fine anno, ndr) rappresentano modi diversi di avvicinarsi al poliziesco, con grande attenzione alla storia ma anche con il gusto dell’avventura, cercando di portare nuovo ossigeno.

L’intervista a Paco Ignacio Taibo continua su Left in edicola

 

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Rom, cittadini come noi. Ma senza diritti

Bologna, Italy - May, 16 2015 : Roma (Rom), Sinti and Gypsies people march in the national demonstration against the risk of a new Holocaust and discrimination of nomad people in Italy. 71 years ago, exactly May 16, 1944 in the extermination camp Birkenau inmates Sinti and Roma rebelled against the Nazis. (Photo by Antonio Masiello/NurPhoto) (Photo by NurPhoto/NurPhoto via Getty Images)

Voi sapreste riconoscere un rom? Sono sporchi, loschi e puzzano, molti risponderanno. E se invece fossero puliti, per bene e profumati, allora come fareste? Perché sono “nomadi”? In un periodo di forti migrazioni e grandi povertà, molti lo sono. Le strade, per chi di voi volesse farci caso – salvo applicazione del decreto sicurezza di Minniti – , sono affollate di persone senza dimora ma con una provenienza. Potreste riconoscere, fra questi, i rom? E come, dai tratti somatici? E quali sarebbero? Assomigliano a indiani, kossovari, romeni o italiani?
E ancora. Siamo sicuri che rom e sinti non vivano nelle case? A voi, al momento della firma del contratto d’affitto di un’abitazione, è mai stata chiesta l’origine etnica o l’appartenenza culturale? Ovvero: vi hanno mai chiesto se siete rom? E al contrario: voi avete mai chiesto al vostro negoziante, al vostro medico o ad attori e musicisti nei camerini di qualche spettacolo se sono rom? E durante un colloquio?
No. Ed è giusto così. Non solo perché questa sfera appartiene a quei dati sensibili che compongono la dignità e dunque la riservatezza inviolabile di una persona, ma anche perché non farebbe differenza. La differenza la fa il comportamento, criminale o meno, di una persona. Comportamento che – spiace nel 2017 doverlo specificare – nulla ha che fare con l’etnia.
E dunque?

Italiani senza diritti
Per quanto drammatico, il rogo di Centocelle nel quale, la notte tra il 9 e il 10 maggio, sono morte due bambine di 4 e 8 anni e una ragazza di 20 – al netto delle indagini e del loro esito – non è l’ultimo in cui non solo muoiono bruciati dei bimbi, ma vengono alla luce le condizioni di vita disumane in cui una grossa fetta della popolazione si trova a vivere. Campi fatiscenti, pericolosi, e soprattutto isolati dalla società e della socialità. Campi che non dicono molto dell’identità rom, ma dicono molto della nostra. Perché raccontano che a noi gagé (non rom), va bene che nostri simili vivano nel fango, fra cimici, topi e immondizia, senza acqua e riscaldamento. Molti rom e sinti sono italiani, o meglio: molti italiani sono rom e sinti. Quindi spiace per Matteo Salvini, ma sono anche nostri concittadini, qualora questo facesse una qualche differenza umana. Sono concittadini per i quali, però, la Costituzione non viene applicata. Non viene evidentemente applicato l’articolo 3, in base al quale è fatto obbligo tutelare la dignità di ciascuno, senza distinzioni. Sempre secondo la Carta, è compito della Repubblica, «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Sarebbe dunque obbligo dei rappresentanti istituzionali, evitare la segregazione di queste persone e la loro estromissione dalla vita pubblica. Invece, governi nazionali e amministrazioni locali susseguitesi nel tempo, dal Dopoguerra a oggi, sono andati esattamente nella direzione opposta.

I campi
Sono gli anni ’60 e per costruirsi una nuova identità dopo aver scoperto di saper essere micidiale e disumana, l’Europa sente l’esigenza imprescindibile di un “repulisti civile”. Dopo le colpe della Seconda guerra mondiale, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, e in Italia l’affermazione per volontà popolare della Repubblica e il varo della Costituzione, urge mettere in pratica quella civiltà che si vuole sentir di aver imparato. Cosa fare dunque di questa minoranza che per quanto si tenti di nascondere, continua a girovagare per i nostri comuni? La domanda diventa istituzionale. Una questione da risolvere

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Il Vaticano comanda, la stampa obbedisce

epa04557801 Pope Francis (C, back) talks with journalists on the plane, during his flight from Rome, Italy, to Colombo airport, Sri Lanka, 12 January 2015. Pope Francis will visits Sri Lanka and the Philippines from 12 to 19 of January 2015. EPA/ETTORE FERRARI/POOL

Il segnale è stato chiaro fin dal 13 marzo 2013. Con quel «Buona notte e buon riposo» Jorge Mario Bergoglio, appena eletto papa con il nome di Francesco, gettava le basi della nuova strategia comunicativa della Santa Sede. Il marchio della Chiesa, ingrigito dagli otto anni di pontificato del rigido teologo tedesco Joseph Ratzinger, doveva essere rilanciato, svecchiato, diffuso sin da subito sfruttando la discontinuità del momento. Papa nuovo, Chiesa nuova. Un messaggio da veicolare il più presto possibile per riconquistare ciò che Benedetto XVI aveva perduto in termini di credibilità e fiducia verso un’istituzione che agonizzava tra gli scandali economici e l’inarrestabile allargarsi in tutto il mondo della piaga della pedofilia clericale.

Ma a chi affidare il messaggio del cambiamento in modo che arrivasse forte e chiaro sia alle orecchie dei fedeli sia ai detrattori della Chiesa? Non certo all’apparato di comunicazione del Vaticano, obsoleto come la stessa istituzione, impreparato all’uso delle nuove tecniche di diffusione, poco pervasivo e poco convincente. E neanche alla stampa cattolica, un settore di nicchia che esclude, per temi e taglio, le nuove generazioni. Meglio dunque contare su quei grandi media italiani che fanno del sensazionalismo la base stessa della loro esistenza sul mercato.
Il connubio si rivela sin dall’inizio vincente. Il papa innovatore e riformista la fa da padrone sui principali giornali e telegiornali nazionali. Dagli interventi istituzionali all’acquisto delle scarpe nel negozietto a due passi da Santa Marta, è tutto un osanna. Bergoglio convince credenti e non, e conquista la quasi totalità del consenso politico, da destra a sinistra. La grancassa mediatica funziona perfettamente a scapito dei principi di correttezza e completezza dell’informazione e dei diritti dei lettori.
«La disparità tra i sessi è un puro scandalo». Nell’aprile 2015 la scoperta dell’acqua calda da parte del papa rimbalza sui media aprendo il dibattito politico e sindacale sulla disuguaglianza dei trattamenti salariali tra uomini e donne. E mentre i giornalisti nostrani si affannano a tirare fuori dal cassetto statistiche, percentuali e studi sociali in nome del pontefice, nessuno nota che a pronunciare l’ovvio è un capo di Stato e nel contempo rappresentante di una religione misogina che alle donne riserva un trattamento ben peggiore della disparità salariale, perché le estromette dall’accesso agli ordini sacerdotali e quindi dal sistema istituzionale che governa la Chiesa e suo Stato. D’altronde l’opinione di Bergoglio sulle donne è ben riassunta da una sua esortazione di un paio di anni prima alle suore riunite nell’assemblea dell’Unione delle superiori generali: «Siate madri, non zitelle». Un messaggio innovativo secondo la stampa nostrana, cui è sfuggito l’arcaico intento di dividere l’universo femminile in due metà, una buona e l’altra cattiva, a rimarcare il cliché della donna che può realizzarsi solo attraverso la maternità, sua primaria finalità. Nella carrellata di “svolte storiche” trova posto a pieno titolo anche una dichiarazione (giugno 2016) sui gay: «Io ripeto il Catechismo: queste persone non vanno discriminate, devono essere rispettate e accompagnate pastoralmente. […] Chi siamo noi per giudicare? Dobbiamo accompagnare bene, secondo quello che dice il Catechismo». Forse prima di declamare a mezzo stampa la sensazionale apertura ai “diversi” sarebbe stata opportuna un’occhiata allo stesso testo citato da Bergoglio, il Catechismo della Chiesa cattolica, laddove definisce l’omosessualità una «inclinazione oggettivamente disordinata» e i rapporti  omosessuali «contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati». Omofobia? Ma no, carità cristiana.

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