Poi vennero a prendere noi, in Vespa, al di là del muro
- Poi succede che la paura riduca la percezione degli spazi. Deve essere la mancanza di qualche vitamina oppure un brutto mal di gola o peggio la cattiva abitudine di tenere le finestre sempre chiuse per non farci entrare l’inquinamento morale e risolverlo lasciandolo marcire là fuori.
Arriva qualcuno che promette di sigillarci il cortile, di piantonare la portineria, di abbaiare per noi e ci convinciamo che non facciamo del male a nessuno, che si tratta di una difesa legittima, che non facciamo del male nessuno.
Poi ci promette la deratizzazione. E noi tutti contenti. È questione di igiene. Di pulizia. Sono ratti, del resto. E noi non siamo mica ratti.
Poi ci dice che ci libererà dai rumorosi. Che soddisfazione: la tranquillità è un bene e noi non abbiamo più figli piccoli. Lavorano già, i nostri.
Poi il mastino ci dice che terrà fuori i messicani e noi non siamo nemmeno messicani. E dopo gli islamici perché in parrocchia ci hanno raccontato di un islamico che bestemmia e se bestemmia lui, che conosciamo solo quello, figurati gli altri. Ci convinciamo di non fare mica male a nessuno, che è solo per l’ordine in difesa delle bestemmie.
Poi ci raccontano che c’è stato, dall’altra parte del quartiere, un problema con qualcuno che ha il nome che inizia per “m” e forse conviene tenerli fuori quello che iniziano per “m”; mica per razzismo, solo per prevenzione. E noi per “m” non abbiamo nemmeno uno straccio di cugino di secondo grado. E ci va bene così.
Poi quelli con i mocassini, poi i lentigginosi, poi quelli che mangiano troppo gelato e subito dopo quelli che ne mangiano troppo poco. E noi sempre più sicuri. Che bello, che meraviglia.
Finchè un giorno il mastino decide che è vietato girare in Vespa, perché un suo cugino monta motorini meno belli ma che meriterebbero comunque di essere venduti a quintali. L’ha deciso lui, il mastino. E noi nel box abbiamo quella vecchia Vespa con cui papà ci veniva a prendere a scuola che ormai non si accende nemmeno. Ma che male fa la Vespa? Ma che fastidio può dare al mondo la moto di papà, pensiamo. E già ci hanno sigillato fuori. Noi, fuori. E la vicina mentre ci saluta con nemmeno troppo dispiacere ci racconta che un suo collega, una volta, aveva picchiato la moglie. «E aveva la Vespa, sa? Non è mica contro di lei, si figuri. Ma ci vuole un po’ di prevenzione, no? Non possiamo prenderci le Vespe di tutti».
Buon venerdì.
Proteste e serrate contro la legge anti-sfruttamento. Ecco a chi piacciono i caporali
«I caporali sono la nostra fortuna». Così titola, fra virgolette, la Gazzetta del Mezzogiorno di ieri l’intervista a un floro-vivaista pugliese, Angelo Lamanna, il quale non esita a dire quello che probabilmente pensano molti imprenditori – non soltanto in Puglia e non soltanto nel settore agricolo. Se servono 20 operai il giorno dopo, il caporale li procura. E se poi piove e ne servono 5, ne porterà 5, «perché sono 15 di troppo e dovrei pagarli per far nulla» dice Lamanna.
Un punto di vista “estremo”, certamente, ma anche il sintomo inquietante di un’idea che si è diffusa sempre più: il diritto del lavoro e i diritti del lavoratori rappresentano un ostacolo al libero mercato. Competitività, concorrenza, flessibilità sono i pilastri su cui il datore di lavoro “crea benessere e ricchezza” ci è stato detto, e il dogma neoliberista è diventato legge in Italia con il Jobs act. Peccato che nessuno ci abbia detto che quel benessere e quella ricchezza vengono creati a beneficio esclusivo di alcuni, e non certo dei lavoratori.
Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, unite ad estorsione, sono le accuse rivolte ad esempio a nove imprenditori impegnati nella ricostruzione post-sisma a L’Aquila e arrestati due giorni fa nell’ambito dell’operazione Caronte. La Dda del capoluogo abruzzese evidenzia come gli arrestati sfruttassero, stando alle accuse mosse dagli inquirenti, «lo stato di necessità, indigenza ed estrema difficoltà economica in cui versavano gli operai» tenuti a bada – e allontanati in caso di proteste – facendogli firmare una lettera di dimissioni senza data.
«Il caporalato è una delle espressioni del sistema di reclutamento e sfruttamento che ha permesso a decine di migliaia di aziende agricole, spesso di grandi dimensioni, di ottenere guadagni illeciti milionari a discapito dei diritti dei lavoratori e non solo» commenta Marco Omizzolo, sociologo, coautore e curatore della raccolta di saggi Migranti e diritti (Edizioni Simple). «A volte queste pratiche si sono svolte anche in associazione con clan mafiosi. Contrastare questo fenomeno dal punto di vista penale e sociale è fondamentale. Su questa battaglia si capisce chi sta con la legalità e la giustizia e chi invece dalla parte dei padroni e dello sfruttamento».

Ma torniamo all’aria che tira. Approvata la legge 199 del 2016 che inasprisce le pene per lo sfruttamento della manodopera e riconosce, tra l’altro, la responsabilità anche del datore di lavoro oltre che del mediatore, in molti ambienti sono partiti i mugugni e il pressing sulla politica. “Troppo punitiva”, “penalizza le imprese”, si sente dire. Lunedì 3 aprile a Bari è annunciata una manifestazione di 3mila aziende agricole contro le norme approvate lo scorso ottobre. Vogliono che siano eliminati la sanzione penale e il sequestro dei beni all’imprenditore.
«Si tratta della seconda manifestazione padronale in meno di un mese e mezzo. Un segnale inquietante che spaventa i braccianti» fa notare l’antopologo e scrittore Leonardo Palmisano, che ha appena dato alle stampe il volume Mafia Caporale, edito da Fandango Libri. «Le imprese che protestano negano l’evidenza di un regime di sfruttamento che sta divorando, in Puglia e non soltanto, decine di migliaia di vite umane. Questo è intollerabile, inqualificabile. Una manifestazione del genere è un segnale dato ai braccianti, più che alla politica. Un segnale terroristico».
Annunciano una sorta di serrata gli imprenditori in agitazione, che si ripeterà a maggio se non saranno ascoltati. Sulla stessa linea anche la Cia Puglia, che chiede inoltre di bloccare il disegno di legge dei senatori Barozzino e Casson sulla “Introduzione del reato di omicidio sul lavoro e del reato di lesioni personali gravi o gravissime”. Proprio nei giorni in cui al ministero dell’Agricoltura viene inaugurata una targa che ricorda Paola Clemente, la bracciante italiana morta di stenti a luglio 2015 ad Andria, mentre lavorava.
Ma le proteste di alcune aziende non sono la sola mobilitazione in programma. C’è anche chi si batte a sostegno di una risposta ferma dello Stato e di una riflessione collettiva su tutta la filiera produttiva per prevenire, oltre che reprimere, gli episodi di sfruttamento. «Per questo noi saremo il 17 aprile a Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, per la #MarciaNoCapolato» riprende Omizzolo. «Temo che le reazioni inaccettabili di alcune categorie datoriali e di varie aziende sia il primo tempo di una battaglia lunga, che rischia di portare a proposte parlamentari di revisione della recente legge 199, se non di una sua completa cancellazione. Sarebbe un attacco inaccettabile e davvero pericoloso. Respingeremo anche quello insieme alle migliaia di cittadini che marceranno con noi a Pasquetta».
E Palmisano, tra i promotori con Omizzolo, Giulio Cavalli e Stefano Catone dell’appello per la manifestazione nazionale che conta già centinaia di adesioni, aggiunge: «La strategia padronale di fronte alla crisi si confema pessima: preferiscono fare profitto a danno dei braccianti. Evidentemente non hanno ancora capito che il mondo e il mondo del lavoro hanno bisogno di valori, non di sfruttatori. La risposta ci sarà il 17 aprile a Borgo Mezzanone. Saremo in tanti da tutta Italia, più determinati e più numerosi di loro».
Gently but very firmly. Disobbedienti e ribelli
Sabato 25 marzo a “Il tempo del coraggio” hanno detto dal palco che loro i confini non li rispettano. E poi tutti, su quel palco, hanno parlato di una “utopia realistica” per evitare la distopia di un’Europa che divide gli esseri umani in razze. Come fossero cani, diceva un mio amico qualche tempo fa. E hanno detto anche, su quel palco, con quali pietre costruire questa utopia realistica. Ne hanno nominate cinque: solidarietà, uguaglianza, innovazione, giustizia sociale e libertà. Un’utopia realistica che avremmo dovuto portare avanti e realizzare sin da quella sera «gently but very firmly». Con gentilezza ma con grande fermezza.
Mi ha ricordato il nostro modo di fare giornalismo, alcune scelte di fondo, per sempre: mai violenti, né nelle immagini, né nelle parole. Né tantomeno nel pensiero. Mai bugiardi soprattutto. Scelta di parte? Sì. Una parte troppo stretta, direte. Forse sì. Ma indimenticabile e unica. Il tempo per spiegare, il mondo tra le mani, la ricerca della profondità. Della verità profonda delle cose umane. Left. Hanno detto, su quel palco, che non bisogna avere paura, perché i peggiori su quella fanno leva. Hanno detto che bisogna costruire un discorso pubblico collettivo, e la gamba che ci manca. Un francese, un greco, uno spagnolo, qualche italiano, una giovane polacca e un inglese (Ken Loach) hanno detto «People first». Le persone prima.
Questa copertina di Left, la tredicesima di questo nuovo anno tutto in salita, la salita più salita di sempre, è sulle «persone prima». Le persone prima. Alessandra Ballerini, Fèlix, Elisabetta… colpevoli di “reato di solidarietà”. Fa quasi ridere, non facesse disperare. Persone che pensano che le persone vengano prima, che banalmente non immaginano la vita senza che le altre persone stiano bene. Bianchi neri gialli o rossi. E allora un bicchiere di vino, una coperta, qualche ora, assistenza legale, medica, del cous cous. La salvezza. Un’utopia realistica. «Portare la bellezza laddove c’è povertà» dice Luigi de Magistris che si oppone al decreto sicurezza di Minniti e parla di disobbedienza. Disobbedire all’ordine delle “persone dopo” in nome del “decoro urbano prima”. Disobbedienti e ribelli. «Gently but very firmly», come dicevano su quel palco. Come fa il sindaco Mimmo Lucano: «La mia risposta a ordinanze e decreti? Venite, qui a Riace c’è posto per tutti». Vedete che ha ragione Ken Loach? «The Left is alive».
Obbiettivo città sostenibili, di cosa si discute al G7 cultura. Parla Pietro Laureano
Esperto Unesco per le zone aride, Pietro Laureano si è occupato a lungo di ecosistemi in pericolo. Si è occupato del patrimonio storico artistico di varie aree del Medio Oriente e, in Italia, è soprattutto noto come mentore del recupero dei Sassi di Matera. Come presidente Icomos (che ha un ruolo consultivo nell’Unesco) partecipa al G7 Italy della Cultura (il 30 e il 31 marzo a Firenze) organizzando nel complesso della SS. Annunziata a Firenze un incontro con sindaci, amministrazioni, associazioni di tutela e società civile per l’implementazione dell’Obiettivo delle Nazioni Unite del 2030 sulle Città Sostenibili e le Comunità. Ma non solo, Da tempo Icomos è impegnato nella tutela e nel recupero del patrimonio storico artistico nelle aree di crisi del Medio Oriente. In particolare nella Siria dilaniata dalla guerra e nelle aree devastate dall’Isis «L’Icomos è già impegnata direttamente in queste aree. I soci locali, internazionali e molti italiani sono profondi conoscitori di quel grande patrimonio e sono sempre rimasti presenti nel loro ruolo anche nei momenti più difficili della crisi, pagando di persona anche con il sacrificio più alto». In quelle aree Icomos è intervenuto con procedure standard e anche misure eccezionali attraverso l’adozione di nuove Convenzioni.
«Purtroppo proprio il successo del Patrimonio lo ha reso bersaglio per procurarsi notorietà, soldi o effettuare ricatti criminali. Non dimentichiamo in Italia i terribili momenti della strage dei Georgofili operata dalla mafia contro la Galleria degli Uffizi di Firenze. Ma queste azioni si ritorcono contro chi le compie». Chi distrugge le opere d’arte compie un crimine contro l’umanità, ma distrugge anche qualcosa di sé. «Comunicando il Patrimonio l’Icomos cerca di trasmettere la consapevolezza che distruggendo i monumenti si uccide se stessi e si preclude un futuro di identità e benessere alle nuove generazioni», sottolinea Laureano. «I membri dell’Icomos dei Paesi colpiti dal conflitto, i ragazzi mussulmani impegnati in prima persona per difendere la loro terra, gli uomini e le donne di quei luoghi hanno ancora maggiori motivazioni, argomenti e possibilità di successo».
La parole chiave nel lavoro di Icomos è cooperazione, collaborando con le associazioni che operano sul territorio «per meglio affrontare insieme le sfide globali e operare a livello locale». E al contempo procedendo a stretto contatto con gli organi consultivi dell’ Unesco cioè l’Iccrom e Uicn «ma anche con tutte le altre organizzazioni per dare maggiore voce e legittimità alla grande ricchezza dell’associazionismo italiano» sottolinea l’architetto e urbanista. «Solo facendo leva sulle comunità e la responsabilizzazione della gente potremo rendere possibile il futuro che vogliamo. A livello di teoria e pratica del patrimonio l’obiettivo è superare la visione monumentale e aulica, la conservazione in sé e rivolgere l’attenzione alla manutenzione, i beni della vita quotidiana, la gestione del cambiamento, il Paesaggio, gli ecosistemi e le persone che hanno realizzato tutto questo. Dobbiamo per questo scavare sempre più nella enorme ricchezza di significati dei luoghi, le tradizioni, le pratiche sociali per renderli narrazione e strumenti di valorizzazione e benessere».
Sostenibilità ambientale e tutela, obiettivi possibili nell’agenda che guarda al 2030, in che modo?
«Sono passati 30 anni dal rapporto Burdtland, quando per la prima volta si coniò il termine “sostenibilità”», risponde Laureano. «Finalmente le Nazioni Unite nella assemblea mondiale di New York del 2015 hanno adottato una risoluzione rivoluzionaria che impegna i governi su 17 obiettivi strategici da realizzare attraverso azioni locali concrete. Sono queste ultime il nostro campo di attività e speranza. I negoziati globali sono sottoposti all’alea dei cambiamenti di governo ma i progressi fatti nelle esperienze e aspirazioni delle comunità per avere un mondo più giusto, sano, ospitale per l’intera umanità e gli altri organismi viventi, trasmissibile alle generazioni future, sono acquisizioni che nessuno può cancellare».
In che modo Icomos cercherà di raggiungere questi obiettivi? «Svilupperemo esperienze e azioni nelle città, villaggi e aree rurali e le promuoveremo come buone pratiche a scala internazionale. Impareremo dalle conoscenze tradizionali e la sapienza antica utilizzando queste conoscenze per soluzioni innovative e una nuova tecnologia verde e non invasiva. Lavoreremo per l’inclusione di tutti, compreso gli immigrati, nella integrazione della identità storica locale con l’apporto di variegate sensibilità e culture consapevoli che la diversità e un fattore di creatività, innovazione e
successo».
Classe Zeta, un film sulla rinascita di studenti “sfigati” (con critica alla Buona scuola)
«Senta professore, io L’attimo fuggente l’ho visto ma non mi è piaciuto. Quel ragazzo si suicida…». Accade anche questo in Classe Zeta, il film di Guido Chiesa che esce oggi 30 marzo nei cinema italiani: viene sfatato il mito del film con il professore Keating-Robin Williams che sale sul tavolo e recita i versi di Witman “O Capitano, mio capitano”. Quell’insegnante che sì, sarà stato controcorrente ma certamente insensibile di fronte al malessere del suo studente, viene stroncato da Viola, una degli studenti della classe “maledetta” protagonista del film di Chiesa. E il giudizio lapidario sul film lo lancia proprio al giovane professorino soggiogato dal personaggio di Keating, ansioso di redimere quel gruppo di sfigati ma accecato dall’ideologia ribellistica.
È una commedia, Classe Zeta, ma fa riflettere sulla scuola in generale e su quella di oggi, in particolare. Fa molto riflettere. Il film racconta di una classe di soggetti difficili, svogliati, dei semi-teppisti, che nel disinteresse e incapacità dei professori, il preside (Alessandro Preziosi) dalla mentalità manageriale (davvero stile Buona scuola degli esordi) relega in uno spazio tutto per loro, per non compromettere il lavoro degli altri, quelli “normali”, quelli bravi. È la classe H ma in realtà è quasi una classe differenziale, un recinto, alla faccia del concedere a tutti le stesse opportunità di partenza, che dovrebbe essere il principio della scuola secondo la Costituzione. No, il gruppetto di studenti, la bella fatale (Greta Menchi che è una youtuber nella realtà), i gemelli cinesi, il ragazzo erotomane, l’altro introverso, il fanatico youtuber, e un altro facile agli scatti d’ira, costituiscono un caravanserraglio umano forse un po’ esasperato ma per certi versi rappresentativo di quella generazione Z, la prima tutta digitale, “smart”, ma anche molto sola e dalle relazioni difficili.

La particolarità del film è che il regista – che pure ha dei figli adolescenti – si è voluto calare nell’“universo zeta” rivolgendosi a un osservatorio sui generis. Da qui la collaborazione di ScuolaZoo, un sito che già dal nome dice tutto: per metà informazione e materiali sui problemi che ogni studente incontra a scuola – soprattutto in vista dell’esame di maturità – e per metà di divertimento con una visione più leggera della vita scolastica, compresi i viaggi in Europa. «Con 2,8 milioni di followers su circa 3 milioni di studenti delle superiori abbiamo una panoramica quasi completa sugli studenti di quell’età», dice Paolo De Nadai, 28 anni, il fondatore del sito e del gruppo OneDay, una Srl che fattura 10 milioni di euro tra ScuolaZoo e altre startup e che dà lavoro a 60 persone di cui il più giovane ha 19 anni e il più vecchio 33. I ragazzi italiani scrivono in chat, dialogano con ScuolaZoo, chiedono soluzioni pratiche per risolvere problemi scolastici – c’è anche una giurista nello staff – ma soprattutto si raccontano.
E non sono gli “sdraiati” su cui Michele Serra ha scritto un libro. «I ragazzi di oggi vanno veloci, ricevono mille stimoli, hanno un sacco di opportunità eppure si trovano ancorati sulla sedia davanti a quel banco per sei ore» dice Paolo De Nadai. Il quale è favorevole all’alternanza scuola-lavoro «e a tutte quelle attività extracurricolari che danno una risposta al tempo che corre». I tempi sono cambiati e anche i professori sarebbero disponibili a cambiare metodo di insegnamento, al di là della lezione frontale. «Loro lo vorrebbero ma sono bloccati dalle adempienze ministeriali, dalle prove Invalsi e poi non si può pensare di risolvere la lezione frontale con la lavagna luminosa. La risposta è andare a vedere una mostra, è parlare di attualità, non solo di autori d’epoca…», continua il fondatore di ScuolaZoo.
Nel film Classe Zeta il povero professor Andreoli (Andrea Pisani) è sottoposto a scherzi feroci, mobbizzato dai ragazzi, ma poi alla fine loro comprendono che senza di lui sono perduti, che correranno veloci sì, ma verso la bocciatura. Mentre il prof abbandona il mito Keating per calarsi di più nella realtà umana dei ragazzi, loro accetteranno di studiare, magari in gruppo, con un sistema di autoaiuto che poi alla fine funziona. Dicevamo che a modo suo il film di Guido Chiesa è un motivo di riflessione anche sulla Buona scuola che si trova – non sempre naturalmente – a dover confrontarsi con una categoria di studenti come quella del film. È nel finale che si scontrano le due posizioni, quelle del preside manager e quelle di un professore più umano (Antonio Catania), il quale mette bene in evidenza quello che è un concetto cardine della vera buona scuola: comprendere i ragazzi e insegnare bene vanno di pari passo. Non è possibile una visione schizofrenica dell’apprendimento, anche perché a scuola va di scena una relazione umana, non dimentichiamolo. E il film di Chiesa lo dimostra ampiamente.
Crisi migratoria: dopo il weekend romano, la tregua tra i Paesi dell’Ue è già finita

Le carezze tra i leader dei Paesi membri dell’Ue non sono durate a lungo. A pochi giorni di distanza dal summit di Roma, la crisi migratoria è tornata a dividere l’Europa.
Qualche giorno fa, il Primo ministro austriaco, Christian Kern, ha chiesto di sospendere il piano di trasferimenti di migranti vero l’Austria, dall’Italia e dalla Grecia. Kern ha motivato la richiesta sostenendo che finora Vienna ha «mantenuto tutti gli impegni», al contrario di altri governi che invece hanno chiuso gli occhi di fronte alle proprie responsabilità. Peccato che pochi giorni prima, le autorità greche avevano lanciato un nuovo allarme riguardo alla capacità dello stato ellenico di gestire il numero di migranti presenti sulle proprie isole.
Nel frattempo anche i Paesi membri del così detto gruppo di Visegrad – Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria – hanno ribadito, per l’ennesima volta, che non intendono accettare diktat da Bruxelles in materia migratoria.
Tanto più che il Parlamento ungherese ha recentemente approvato una misura controversa per cui i migranti potranno essere detenuti lungo il confine meridionale del Paese. Lo stesso governo di Budapest ha annunciato che di aver costruito ben 324 “abitazioni” container in due punti lungo il confine con la Serbia. La misura sostenuta dal Primo ministro, Orban, era stata criticata soprattutto dalle organizzazioni non governative, ma anche dalla Commissione europea. E proprio da Palazzo Berlaymont sono arrivate nuove frecciatine al gruppo degli Stati dell’Est.
Il vicepresidente, Jyrki Katainen, ha detto che quando si parla di migrazioni e politiche di coesione, la «solidarietà europea non può essere interpretata come una strada a senso unico». Parlando delle celebrazioni del sessantesimo anniversario del Trattato di Roma, Katainen ha ribadito che, dopo le parole, servono le azioni: «È l’ultima occasione per riformare le istituzioni europee e andare incontro alle aspettative dei cittadini europei».
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«Sono Carlo Gatti, e sono nato con un buco». Il nuovo romanzo di Giulio Cavalli
«Ogni lettore annoiato su una storia che è costata sangue e cuore è una doppia dannazione e io, scusatemi, sono troppo fragile per correre questo doppio rischio».
È quasi la conclusione di Santa Mamma, il nuovo libro di Giulio Cavalli (Fandango libri). Forse la sua paura più grande. E solo oggi, solo adesso, chiuso il libro, mi rendo conto del rischio – doppio – che si è preso Giulio. Una storia di sangue e cuore la sua, una storia intima, privata a tal punto da farti vergognare mentre la leggi. Perché lo cerchi tutto il tempo, cerchi Giulio, quello che arriva in riunione di redazione e a volte ti strizza il cuore per il casino che ha dentro, altre ti riempie di parole fino a confonderti. Cerchiamo umanità insieme su Left dal 2015. “Interviste umane” le chiamiamo le sue. Quelle dove cerchi la bontà. Sono i buoni che vogliamo trovare insieme io e Giulio, anche se non vanno di moda, come mi dice sempre. La bontà non va di moda. Abbiamo firmato le copertine più assurde con Giulio Cavalli, persino una che si intitolava “Elogio della gentilezza”.
Ma questo è Giulio Cavalli ed è perfetto per Left, gliel’ho sempre detto. E quando ho letto il suo libro ho capito il senso intero, quello grande, quello che gli fa cercare i buoni. Non gli eroi, i buoni, quelli che sentono il buco ma non lo hanno. E capisco, dopo aver letto Santa Mamma, quanto debba averlo sentito quel buco, e quanto abbia scavato, terrorizzato dal trovare il vuoto. E invece nessun vuoto. Al massimo un gran casino, un casino magnetico che ti fa divorare la storia di Carlo Gatti, il suo protagonista.
«Forse è meglio che mi presenti ma non sono mai stato forte, vi confesso, né con gli inizi e ancora meno con i finali: solitamente finisco dentro qualcosa da cui mi sfilo vigliaccamente nel modo più indolore possibile. Cerco il protagonismo e poi ne soffro. Ogni volta ci ricasco. Deve essere per questa mia ossessione di scrivermi un inizio. Sono Carlo Gatti e sono nato con un buco».
La storia di un bambino adottato all’età di tre anni, eroe per caso e poi per finta, di un fratello e di una ribellione. La sua storia? Forse. Mentre leggo mi ritrovo a pensarlo, e mi spiace spiare, ma sento il rischio.
«Sì, ma nessuno si mette a leggere i tuoi miseri vizi privati. Nessuno si prende la briga di capire i tuoi drammi così patetici. La tua grandezza era solo la grandezza dei tuoi nemici. Non del fratello matto o delle tue paturnie».
Lo dice l’impresario/editore nel libro a Carlo Gatti che l’eroe non lo vuole più fare. Lo ha pensato Giulio? Ha pensato di essere un buco grande quanto la grandezza dei suoi nemici? Forse. Conoscevo, conosco Giulio, sono due anni che scrive ogni giorno per Left, ma non mi aspettavo un libro tanto bello. Tanto perfetto. Scusatemi per la sorpresa e anche l’emozione. Ho pensato di non scriverlo, ho pensato persino di dare il libro a un mio redattore e di lasciare sgonfiare il mio cuore con calma. Ma a Giulio lo devo e forse gli devo anche delle scuse perché non ho capito subito, non ho visto subito.
Un libro buffo e uno serio. Un libro su un Matteo e un libro su se stesso. Questo aveva proposto. E la risposta è stata scontata. Su te stesso. Non restava allora che tuffarsi per lui. Senza paura? No, con la paura di annegare per «quella placenta che gli si era seccata addosso», alla nascita a lui bambino «appaltato». Dovrò fare uso di psicofarmaci, mi ha detto scherzando. E ha inalato fumo alla vaniglia dalla sua sigaretta elettronica, poi è sparito. Inutile inseguirlo, era andato nel “suo buco”. C’era solo da aspettare.
Ci sono frasi o momenti in Santa Mamma che ti straziano il cuore (ma non posso e non voglio spoilerare la storia!), ci sono espressioni che non avevo mai letto prima, come «ha due occhi che mi prendono per i capelli», c’è un modo di usare la lingua che ti tira dentro e poi ti mette fuori, a leggere soltanto quello che solo lui ti racconta.
«Ti dimenticheranno in poco tempo» dice l’impresario/editore nel libro a Carlo Gatti «nato con un buco». Invece Giulio io penso che non ti dimenticheranno in poco tempo perché il libro è indimenticabile. Mi hai fatto “scendere dal mio naso”, come scrivi di te stesso, più e più volte e mi hai portato nella tua vita. E ho pensato quello che hai scritto per tuo fratello di noi due:
«Però non ci capisce nessuno vero?». «Adesso cominciamo. Cominciamo adesso».
Io il libro di Giulio Cavalli non so raccontarvelo, posso solo pregarvi (passatemi il termine!) di leggerlo.
5 notizie in 3 minuti: jihadisti a Nord-Est, Trump contro il made in Italy, Dylan accetta il Nobel

Si conoscono ancora pochi dettagli del blitz di Polizia di Stato e Carabinieri scattato a Venezia questa notte per sgominare una cellula jihadista. L’operazione condotta in pieno centro città ha portato all’arresto di tre persone e al fermo di un minore, tutti cittadini originari del Kosovo e muniti di regolare permesso di soggiorno, Secondo quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche i quattro volevano farsi saltare sul ponte di Rialto per causare centinaia di morti. Le forze antiterrorismo stanno effettuando una capillare attività di controllo e oltre al blitz hanno effettuato anche altre 12 perquisizioni sul territorio veneto, 10 sempre nello stesso capoluogo, 1 a Mestre e 1 a Treviso. «Dopo aver individuato la cellula, sono state ricostruite le dinamiche relazionali, la radicalizzazione religiosa dei vari soggetti, i luoghi che frequentavano» riporta il Corriere della Sera. Ma perché proprio nel Nord-Est? La ragione da un lato è puramente demografica, come spiega il report Dossier sulla comunità islamica italiana: indice di radicalizzazione: «I musulmani italiani risiedono principalmente nel Nord Ovest e nel Nord Est (rispettivamente col 39%8 e 27% del totale della popolazione musulmana). Non a caso, le regioni che contano il maggior numero di musulmani sono Lombardia (26,5% del totale dei musulmani), Emilia-Romagna (13,5%), Veneto e Piemonte (9%)».

Questo di fatto cosa significa? Nulla in particolare se non che le regioni del Nord Italia erano, soprattutto vent’anni fa e per ragioni occupazionali, attrattive per immigrati di origine musulmana, in particolare albanesi e marocchini. Il Nord-Est aveva un ulteriore vantaggio, oltre ad essere una regione ricca dove grazie al boom della piccola media impresa il lavoro non mancava, era “terra di confine”, la più vicina nella quale arrivare via terra e avere prospettive per un futuro migliore se si fuggiva dai conflitti che stavano imperversando negli anni 90 nell’ex Jugoslavia (in Kosovo nel 1999).
La ripicca di Trump contro il made in Italy (e i prodotti Ue)
Porre un freno alle importazioni e make America great again. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal l’amministrazione Trump sta infatti valutando di imporre dazi punitivi del 100% su prodotti icona come gli scooter Vespa prodotti dall’italiana Piaggio, l’acqua minerale San Pellegrino, ma anche la francese Perrier, il formaggio Roquefort, le moto svedesi Husqvarna e le austriache Ktm. Il motivo sarebbe essenzialmente rispondere a tono al bando Ue sulla carne di manzo Usa non trattata con gli ormoni. Nel 2009 infatti Washington e Bruxelles erano giunti a un accordo che, a quanto dicono i produttori statunitensi di carne, l’Europa non sta rispettando come dovrebbe.
Bloccare il “muslim ban” di Trump. Secondo atto
Derrick Watson, un giudice distrettuale delle Hawaii ha prorogato la sospensione del divieto sull’immigrazione di Trump. È discriminatorio e blocca il turismo, principale risorsa economica sulla quale si regge lo stato delle Hawaii.
Più democrazia per rinsaldare l’Europa
C’è vita dopo il Brexit? Certo, ma come sarà l’Europa senza Londra? Soprattutto: qual è la ricetta per rendere l’Unione di nuovo prospera? La redazione di Politico.eu lo ha chiesto ad alcuni leader europei fra i quali Enrico Letta. Secondo l’ex primo ministro italiano la ricetta giusta è: «Più democrazia. Dobbiamo includere un maggior numero di cittadini nelle decisioni europee. C’è un modo semplice per farlo: invece di eliminare i 73 seggi britannici al Parlamento europeo a Strasburgo, trasformiamoli in seggi europei da assegnare nel 2019 con delle elezioni davvero europee che esprimano la volontà dei 400 milioni di cittadini Ue e non siano solo un’estensione della politica nazionale». Se volete sapere qual è la ricetta degli altri leader europei potete trovarle qui.
La foto: Dylan accetta il Nobel per la letteratura. Ognuno ha i suoi tempi
Bob Dylan aveva vinto il premio Nobel per la letteratura lo scorso autunno. L’evento aveva scatenato un certo interesse sulla stampa, prima per il fatto che a vincere il premio fosse un cantante, poi per il fatto che Dylan, in perfetto stile Dylan, non avesse mai risposto all’Accademia e avesse saltato la cerimonia di premiazione di dicembre affermando di avere già preso «impegni precedenti». A quanto pare però finalmente anche il menestrello si è deciso e ritirerà il premio questo fine settimana a Stoccolma, dove ha in programma due concerti. Ognuno ha i suoi tempi, anche Bob.








