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Alatri: l’omertà non si cura con le fiaccole

Il corteo silenzioso transita in Piazza Regina Margherita, teatro della tragedia, davanti al locale nei pressi del quale Emanuele Morganti, è stato pestato a sangue e ucciso nella notte del 25 marzo, Alatri (Frosinone), 29 marzo 2017. ANSA / CLAUDIO PAPETTI

Avviso agli omertosi che si confondono con i dispiaciuti: l’omertà non è cera. Non si consuma accendendola e scendendo in piazza con fare sacerdotale fingendosi contriti per la morte di un concittadino. L’omertà è quella spigolosa caratteristica che spinge il comandante dei carabinieri a chiedere in conferenza stampa che “chi sa parli”. Ad Alatri ci sono altri protagonisti oltre al corpo martoriato di Emanuele (che ci riporta alle esecuzioni di un terzo mondo che sta qui fuori, appena in periferia) e oltre alle due brutte facce di quei due vigliacchetti bulletti: qualche decina di persone ha assistito al pestaggio mortale preoccupandosi di non rovesciare il Mojito piuttosto che intervenire.

Il punto non è solo la morte di un ventenne per opera dei bulli. Sarebbe troppo semplice e già risolto. Quello che ci interessa è che un’intera comunità in questi ultimi giorni continui a bisbigliare (senza metterci la faccia) di una presunta inclinazione all’essere boss dei due arrestati; continuando a ripetere che sapevano tutti delle brutte abitudini di Mario Castagnacci e Paolo Palmisani ma dimenticando di essere loro stessi i “tutti”.

Cosa ci insegna Alatri? Che il coraggio di esporsi e di prevenire l’orrore dipende da variabili che sarebbe meglio affrontare prima del dramma. Come può essere che i Castagnacci vengano dipinti come delinquenti riconosciuti senza che una mezza voce arrivi per caso sulla scrivania del comandante dei carabinieri? Come può accadere che ad Alatri l’indignazione abbia voce solo dopo lo spargimento di sangue?

Ma soprattutto: in una città di ventinovemila abitanti, come può accadere, in piazza, un episodio del genere senza che nessuno intervenga?

Volendo essere politicamente scorretto mi chiedo: ma gli sceriffi che sparerebbero ai ladri di galline nel proprio cortile perché non ci sono mai in occasioni del genere? Ma gli eventuali omertosi con la fiaccola in mano pensano davvero di essere assolti? Ma soprattutto coloro che sotto la cenere vorrebbero organizzare le prossime spedizioni punitive in cosa credono di essere diversi dalla ferocia degli assassini?

Buon giovedì.

Sì del Senato al decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione. I dubbi di Tocci e Manconi

Il ministro dell'Interno Marco Minniti, con un aeroplanino di carta in mano, nell'aula del Senato durante il voto di fiducia chiesto dal governo sul decreto immigrazione. Roma, 29 marzo 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Con 145 voti a favore, il Senato ha approvato il decreto Minniti sull’immigrazione, con il maxi emendamento e la fiducia che ne blindava il testo. Che ora passerà alla Camera, per l’ultimo voto, ma che è quindi cosa fatta, essendo lì i numeri ancor più scontati di quelli del Senato. Il decreto – che comunque è stato in parte modificato accogliendo alcune osservazioni contenute negli emendamenti dei senatori – è uno dei due pilastri della gestione Minniti, insieme al decreto sulla sicurezza urbana, approvati insieme, non per nulla, dal governo (che così li presentava il 10 febbraio).

Minniti (più di Andrea Orlando, anche se entrambi i decreti sono in realtà farina dei due ministeri, Interno e Giustizia) continua così il suo periodo di buona, incensato dai giornali, anche e soprattutto di destra, per la sua capacità di gestione dell’ordine pubblico e lanciatissimo come uomo simbolo del governo Gentiloni e del Pd renziano (lui, con un passato da dalemiano di ferro).

E se delle contrarietà a sinistra (ecco cosa ci ha spiegato Giulio Marcon) e nelle città vi raccontiamo nel prossimo numero di Left, in edicola da sabato 1 aprile; se lì faremo parlare i sindaci che già annunciano disobbedienza, anche in Parlamento, nei banchi del Pd, si segnalano due voti in dissenso, quelli di Luigi Manconi e di Walter Tocci.

Su Left in edicola vi racconteremo quindi dei sindaci che esultano per i maggiori poteri che gli vengono attribuiti – soprattutto dal decreto sicurezza, che è quello, per capirci, del Daspo urbano, il divieto di accesso da sei mesi a due anni che i questori potranno dare tanto a chi spaccia quanto a chi staziona, cioè pure dorme, nelle stazioni – vi racconteremo del barese presidente dell’Anci Decaro e però Nardella, fino a Merola e Orlando; ma vi racconteremo anche di chi non esulta e anzi si preoccupa, tipo Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, o Mimmo Lucano, sindaco di Riace, provincia di Reggio Calabria, fino al sindaco di Sesto Fiorentino, Lorenzo Falchi.

Falchi, di Sinistra Italiana, alla nostra Donatella Coccoli, ad esempio, dice che il decreto Minniti «fa molta demagogia, prova ad affrontare un tema delicato come quello della sicurezza, criminalizzando il povero e non la povertà». «Non mi sembra che possa dare gli strumenti giusti per rispondere alle problematiche che esistono nei territori», continua Falchi: «ciò di cui avrei bisogno io è avere maggiori risorse contro la povertà e la marginalità sociale, non per nascondere i poveri».

Cose simili pensano però Manconi e Tocci, almeno del decreto immigrazione, che formalmente non hanno partecipato al voto, marcando però pubblicamente la loro contrarietà. Manconi, che è presidente della Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani, definisce il decreto – quello sull’immigrazione – «gravissimo» soprattutto perché «introduce nel nostro ordinamento una sorta di giustizia minore e un diritto diseguale per una categoria, quella dei più vulnerabili». Il riferimento – differente quindi da Falchi, con cui si ragiona più del Daspo urbano e del dl sicurezza, criticato perché finisce per confondere sicurezza e decoro – è a una delle misure che il governo ha immaginato per “l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale”: l’abolizione dell’appello nelle procedure per le richieste di asilo. «I più vulnerabili», in questo caso, sono quindi gli stranieri, gli stessi che con l’approvazione del decreto potranno anche esser utilizzati per lavori socialmente utili senza obbligo di retribuzione da parte dei Comuni.

Una cosa sola a questo punto bisogna dire sul dissenso dei due dem. Soprattutto su quello di Tocci, che è all’ennesimo voto non allineato, dopo il jobs act, la buona scuola, la legge elettorale, la riforma costituzionale. Oltre al classico “che ci fai lì?”, un dubbio forse lecito è quello che solleva Peppino Caldarola, attento osservatore delle faccende della sinistra, in un post su facebook. Segnala Caldarola che Tocci sostiene Orlando al congresso del Pd (le primarie saranno il 30 aprile) e si chiede se questo non dimostri che l’opposizione a Renzi è tutta una “manfrina” (dimenticando in realtà che non è certo la prima volta che Tocci, come detto, vota diversamente da quanto indicato dal partito e dal governo).

Girata all’interessato la domanda, Tocci ci risponde così: «Eviterei», ci dice, «di tirare in mezzo il governo nel congresso. Altrimenti diventa tutto troppo complicato, compresa la partecipazione al congresso stesso».

Arrivederci Londra. Cose da sapere sulla Brexit

epa05354459 Britain's Elizabeth II waves as she arrives to St Paul's Cathedral ahead of The National Service of Thanksgiving to mark her 90th Birthday in London, Britain, 10 June 2016. EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA

Ci siamo: ieri Theresa May ha firmato la lettera che segnala all’Unione europea l’intenzione di far scattare l’articolo 50 dei Trattati, la lettera è stata consegnata a Donald Tusk e, dopo una non cerimonia (che vedete qui sotto), la Brexit è cosa fatta. O meglio, comincia una lunga partita a scacchi nella quale Londra e Bruxelles – ma anche le 27 capitali, ciascuna con un suo punto di vista – cercano di portare a casa la migliore delle Brexit possibili. Non ci sono precedenti di uscite dall’Unione, che fino agli anni 90 è anzi stata una calamita, e, dunque, non abbiamo precedenti con cui fare paragoni.

Theresa May ha parlato ai Comuni, spiegando che al tavolo dei negoziati si sforzerà di rappresentare tutti i cittadini britannici, delle città e delle campagne, i favorevoli e i contrari e anche «quegli europei che hanno fatto del Paese la loro casa». May ha parlato al telefono con Merkel, Juncker e Tusk. Nel suo governo le divisioni sono forti: Philip Hammond è per una trattativa soft, mentre il ministro degli Esteri Boris Johnson vuole adottare la linea dura. Che divisioni sono? Johnson vorrebbe poter continuare a godere di alcuni privilegi commerciali legati all’essere parte dell’Europa, ma anche sottrarsi ai doveri che l’essere membro dell’Unione prevede. Hammond è più realista: riconosce che se Londra non cede su alcune questioni, non potrà godere di un trattamento commerciale privilegiato.

Nella lettera al Consiglio d’Europa May riconosce che l’uscita non sarà semplice e parla nello stesso paragrafo della sicurezza comune e della necessità di trovare un accordo sul commercio. Molti, tra cui i liberal democratici ai Comuni, hanno trovato scandalosa le minaccia velata – Se non concedete nulla sul commercio, saremo poco collaborativi sulla sicurezza e il terrorismo. Il passaggio segnala le ambiguità della posizione del governo di Londra: riconosce che il suo è un passo unilaterale di cui deve accettare le conseguenze – con un tono meno aggressivo che nei mesi passati – ma poi mette la sicurezza sul piatto. Nella bozza di risoluzione del Parlamento europeo ottenuta da The Guardian in materia si segnala invece che mai e in nessun caso gli accordi sulla sicurezza potranno essere messi sul piatto della bilancia nei negoziati sul commercio o sullo status futuro dei cittadini.

Cosa succede adesso?

La prima tappa è l’individuazione di una posizione comune all’Europa. Bruxelles segnala e fa sapere due cose: si prenderà il tempo necessario per avere un’agenda chiara e condivisa ed è pronta ad avere un atteggiamento aperto nei negoziati sempre che Londra non cerchi di provare a dividere il fronte europeo negoziando accordi bilaterali. In quel caso, i toni e la sostanza si faranno più aspri.

 

Quali sono i nodi delle trattative?

In breve: status e diritti dei cittadini europei residenti e/o occupati in Gran Bretagna e britannici in Europa, il debito del Regno Unito nei confronti dell’Unione, i confini.

Lo status dei cittadini riguarda i diritti di lavorare, risiedere accedere al welfare. Al momento ci sono circa 1 milione e 200mila persone britanniche residenti in Europa (300mila in Spagna) e tra questi 400mila sono pensionati che ricevono la loro pensione britannica. Gli europei in Gran Bretagna sono 3,3 milioni, molti sono impiegati nel Sistema sanitario nazionale l’NHS, molti altri lavorano nella mega industria dei servizi finanziari della City. Poi ci sono gli studenti (e gli idraulici polacchi). Oltre ai milioni coinvolti, in Gran Bretagna molti sono preoccupati per le trattative: se andassero male – improbabile su questo fronte – la City di Londra avrebbe seri problemi. Il sindaco della capitale Sadiq Khan si è augurato, per il bene di Londra, che si eviti l’esodo degli europei. Le trattative sulle relazioni commerciali giocheranno una parte cruciale nel caso dei dipendenti della City: se ci fosse la fuga delle banche europee, molti loro dipendenti si trasferirebbero. Nella bozza di risoluzione del Parlamento europeo si segnala come Londra non dovrà godere di uno status speciale e che i diritti dei cittadini europei in Gran Bretagna (e di tutti che vi si trasferiranno) devono essere validi fino a quando il processo non sarà concluso.

Il conto da pagare: ovvero quanto Londra dovrà versare a Bruxelles per carichi pendenti (dal contributo al budget per l’anno in corso agli impegni di spesa presi nel corso degli anni i cui pagamenti non sono ancora avvenuti). Il costo si aggira secondo le stime tra i 40 e i 60 miliardi di euro. I brexiters più duri sono per fare la faccia feroce in materia. Le spese sono dovute perché si riferiscono a impegni presi nel passato. Adottare una posizione troppo rigida potrebbe costare a Londra l’adozione di posizioni più dure da parte dei 27.

I confini: l’Irlanda è un’isola con un’identità forte e l’appartenenza della Gran Bretagna all’Ue ha abolito i confini artificiali dovuti alla separazione tra l’Eire e l’Ulster. Verranno reintrodotti quei confini? Sia Dublino che Belfast non vorrebbero dover tornare a bloccare i transiti tra le due parti dell’isola. Questa evenienza ha restituito forza agli indipendentisti irlandesi, che minacciano un referendum nel caso le trattative andassero male.

Poi viene il commercio

Qui la partita è colossale e complicatissima. Ci sono regole, tariffe, certificazione dei prodotti, scambi. Molto, quasi tutto, verrà determinato da come andrà la prima fase delle trattative, quella relativa al divorzio (cittadini, confini, conto da pagare). Di commercio si parlerà da dicembre e le posizioni saranno più o meno rigide anche sulla base di come saranno andai i negoziati fino a quel momento. Circa il 40% dell’export e dell’import britannici va o viene dall’Unione europea e le cose rimarranno così. Ma certo, a seconda di come andranno le trattative, le cose potrebbero cambiare. Ai britannici conviene che le trattative vadano bene.

Nella bozza di risoluzione che verrà sottoposta al Parlamento europeo si lascia intendere che, visto che la Gran Bretagna non intende sottostare alle “4 libertà” (di circolazione delle persone, delle merci, il diritto di stabilirsi e vendere servizi, la libera circolazione dei capitali) occorrerà individuare nuovi accordi su ogni singolo capitolo e che non tollererà tentativi di accordi bilaterali.

Ci sono posizioni diverse in Europa?

In teoria no, dopo le celebrazioni di Roma la facciata è quella di un fronte compatto. Almeno sulla Brexit. Ma le posizioni sono molto diverse perché gli interessi sono diversi. Quanti cittadini spagnoli, italiani, rumeni o polacchi vivono in Gran Bretagna, ad esempio, è un aspetto che influenza il posizionamento dei singoli governi – e viceversa: la Spagna ha un approccio soft perché le centinaia di migliaia di britannici che vanno e vengono dal Paese e hanno comprato casa sono una parte non indifferente dell’economia… e poi c’è Gibilterra. Il Lussemburgo, capitale finanziaria e bancaria del centro Europa non vuole più concorrenza da parte della City e, per questo, ha una linea dura. Germania e Francia sono piuttosto rigide perché vogliono tenere assieme l’Europa e temono la concorrenza sleale britannica – se Londra dovesse guadagnare dalla Brexit, altri potrebbero imitarla.

Quanto è importante la Brexit?

Molto. Per l’Europa i problemi riguardano la tenuta dell’Unione: meglio andrà ai britannici, peggio sarà la prossima volta che qualche leader politico prospetterà l’ipotesi di un referendum sull’Europa. Orban, non da solo, ha già ventilato l’ipotesi. Per la Gran Bretagna, molto di più. C’è l’economia, ci sono i cittadini, ma ci sono grandi questioni interne. Il Parlamento scozzese ha votato per un nuovo referendum sull’indipendenza. Londra ha risposto picche. Il Galles, il Nord Irlanda e Londra, hanno, in forma diversa, preoccupazioni relative alla Brexit, alle trattative e all’esito del braccio di ferro tra Londra ed Edimburgo. I sondaggi indicano che se si dovesse votare oggi, gli scozzesi voterebbero per l’indipendenza. La prospettiva sarebbe disastrosa anche perché così, ciò che rimarrebbe del Regno Unito si troverebbe un concorrente europeo sull’isola – non sarebbe difficile ipotizzare spostamenti di imprese oltre il confine. Non a caso, oggi sul Financial Times, l’ex premier laburista, lo scozzese Gordon Brown, chiede la creazione di uno Stato più federale. May, invece, oppone un Regno Unito più unito di quanto non lo sia oggi.

 

Tommaso Grassi di Firenze riparte a sinistra: «Il G7 è solo una passerella per il governo»

finto arco di Palmira a Firenze

«Il G7 della cultura a Firenze è solo una vetrina per la politica, per rassicurare, e garantire che i problemi siano risolti, quando così non è», dice Tommaso Grassi, capogruppo di Firenze riparte a sinistra, invitando a guardare oltre l’apparenza dell’appuntamento voluto dal ministro Franceschini che si terrà a Firenze il 30 e il 31 marzo.

«È l’ennesima passerella per il governo Gentiloni-Renzi per rendere mediatica e spettacolare una riunione. È l’uso privato della nostra città con fini politici», aggiunge il consigliere comunale invitando ad un dibattito pubblico il 30 marzo alle 21 in piazza de’Ciompi insieme ai compagni di scranno Donella Verdi e Giacomo Trombi, a Mauro Romanelli e Claudio Riccio di Sinistra italiana, a Massimo Torelli de L’Altra Europa per Tzipras e alla Rete antirazzista fiorentina.

«Ci sarebbe piaciuto che fosse davvero un’occasione per parlare di cultura, arte, tutela del patrimonio e invece ci troveremo con i 7 ministri del G7 a parlare di “Cultura come strumento di dialogo tra popoli”. Al centro del vertice quindi si parlerà di lotta al terrorismo, di task force internazionali, e di traffico internazionale di opere d’arte. Tutto interessante ma dove mettiamo la gestione sempre più privatistica dei musei e dei monumenti, la carenza di fondi per la conservazione del patrimonio e l’ottica di saper coniugare l’arte moderna con contesti storici e artistici? Sappiamo bene che il momento che stiamo attraversando è molto delicato, ma questo non significa non affrontare tutta una serie di tematiche che hanno bisogno di una risposta urgente.

La Venere di Botticelli e i bronzi di Riace furono chiesti in prestito per l’Expo, Berlusconi voleva usare capolavori di Leonardo come feticcio, per farsi bello al G8. Grassi, cui prodest questo uso delle opere d’arte come ambasciatori globetrotter non considerando i rischi?

L’uso strumentale delle opere d’arte e dei monumenti a scopi commerciali o di celebrazione del proprio potere unisce perfettamente il governo Berlusconi a quello di Renzi e poi di Gentiloni. A Firenze, in piazza Signoria, da ieri c’è una riproduzione dell’arco di Palmira. Ho sentito che è lì in quanto simbolo di pace e resistenza contro il terrorismo. Direi che anche in questo caso si utilizzano le opere d’arte a fini del tutto contrari a quelli che ci dovremmo porre. Sventoliamo al mondo intero la nostra solidarietà alla Siria con una riproduzione? È così che l’Europa vuole affrontare la situazione internazionale? E poi basta con l’uso del patrimonio artistico come se fosse una merce da poter scambiare, di cui potersi vantare davanti ad amici e avversari. Oppure come merce su cui costruire entrate dai privati, che se lo possono permettere certo, ma solo perché il pubblico non investe nella conservazione del patrimonio e nella sua valorizzazione. L’arte e i monumenti sono una risorsa inestimabile per il nostro Paese e un volano per il turismo di qualità. Devono essere accessibili a tutti, non solo per pochi. Sono lo strumento che invoglia a visitare le nostre città d’arte, non è quindi accettabile che certi contesti siano privati dalla fruizione collettiva.

Il risultato del referendum nel dicembre scorso ha fermato chi voleva cambiare la Costituzione. L’articolo 9 della Costituzione però non è ancora pienamente applicato. Cosa rischia il patrimonio storico artistico in Italia oggi?

Il risultato del referendum è stato così chiaro e netto che non si presta a nessun altro tipo di interpretazione, se non che la Costituzione è bella così come è che dobbiamo applicarla piuttosto che sconvolgerla. L’articolo 9 sancisce in poche parole quello che dovremmo fare: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Il patrimonio artistico in Italia oggi rischia molto, ci sono elenchi e liste di opere d’arte che rischiano la distruzione, e sono disseminate in tutta Italia. Di soldi nei nostri musei ne entrano e ne sono testimonianza le file all’entrata dei musei più famosi: risorse che dovrebbero essere investite sulla conservazione del patrimonio, su progetti di recupero e per la promozione delle nuove e meno conosciute realtà ed invece si perdono nelle maglie di incarichi, spese per mega appalti e opere inutili. Bisogna affrontare il tema o qualcuno ha tutto l’interesse di chiudere entrambi gli occhi per continuare a far andare male le cose?

Come evitare che il centro storico di Firenze diventi una sorta di Disneyland a misura di un certo tipo di turismo?

Una Disneyland a cielo aperto, questa sta diventando Firenze e il suo centro storico. Ma siamo ancora in tempo per invertire la rotta. Dobbiamo mettere in campo politiche che non incentivino il turismo mordi e fuggi, ma mantenendo la Città accessibile a chiunque abbia voglia di assaporare l’arte e di conoscerne la storia e la cultura. Siano garantiti servizi sia alla cittadinanza residente che ai turisti, dia occasioni e appuntamenti culturali non solo rivolti al passato, ma che siano in grado di guardare all’oggi e al domani, valorizzando le realtà locali ma senza vendere Firenze ad artisti che ormai paiono più mercanti d’arte.

Quali soluzioni si potrebbero pensare?

Non siamo per l’accesso alla città a numero chiuso, perché neanche questa è una soluzione che risolverà il problema. Servono investimenti e contributi per favorire la residenza dei fiorentini in centro. Basta con l’assalto di uffici e residenze per turisti, le strutture ricettive attive sono più che sufficienti. E poi un netto miglioramento della mobilità e dei servizi di trasporto pubblico, queste sono le azioni per fermare il fenomeno da parco giochi. Non vorremmo una Firenze in cui le strade del centro si uniformano per tipologia e negozi al resto del mondo: valorizzare il piccolo commercio, l’artigianato e dare un freno alle vie del cibo per turisti di pessima qualità e di catene che si trovano in tutto il mondo è un obiettivo per il presente di Firenze. Firenze è una città unica e questo deve rimanere.

Discuterete di tutto questo il 30 marzo in piazza de Ciompi, luogo simbolo di rivolta popolare fin dal medioevo?

Il 30 marzo in piazza dei Ciompi ci troveremo con tutti e tutte le persone che vorranno davvero parlare di cultura. Per questo abbiamo definito una politica della non cultura e della non accoglienza quella del G7 in cui i temi di fondo saranno altri e abbiamo definito l’iniziativa “A Firenze oltre l’apparenza”. Certo i titoli e gli eventi che si svolgeranno nella due giorni danno l’idea che qualcosa si muova ma non ci sarà alcun confronto, cosa con cui invece abbiamo voluto caratterizzare la serata del 30. Il nostro sarà uno spazio aperto per il confronto e la chiarezza sui temi della cultura e dell’accoglienza. In molti pensano che siano temi lontani tra loro, ma saremmo ciechi a non vedere come si intrecciano ripetutamente nella politica europea e mondiale. Come si può parlare di cultura senza che ci sia accoglienza, e viceversa. Basta con le ipocrisie di facciata. Non abbiamo bisogno di chi nelle stanze del G7, con il vestito buono, venga a parlarci di come e cosa dobbiamo fare per tutelare il patrimonio artistico.

Le Pen sconfitta al secondo turno? Non è detto. Ecco gli elettori invisibili

epa05829502 Leader of France's far-right Front National political party and candidate for the 2017 French presidential elections, Marine Le Pen delivers a speech at a presidential campaign rally in Rignac, Southern France, 04 March 2017. French presidential elections are planned for 23 April and 07 May 2017. EPA/GUILLAUME HORCAJUELO

Secondo la maggior parte degli analisti politici, la vittoria di Marine Le Pen, al secondo turno delle presidenziali francesi, rappresenta uno scenario improbabile. Ma Serge Galam, esperto di processi elettorali presso il Centro di ricerca politica dell’Università di Scienze Po (Cevipof), non è dello stesso avviso.

In un’intervista rilasciata a Euractiv, Galam ha sostenuto che il Fron National è il partito che può contare su un maggior numero di “sostenitori invisibili”. Si tratterebbe in buona sostanza di elettori che non hanno intenzione di votare, ma che potrebbero essere mobilitati per la sfida tra i due finalisti, al secondo turno.

La teoria di Galam si oppone alla tesi del così detto “Fronte repubblicano”, la quale implica che il candidato più moderato riesca a catalizzare su di sé anche i voti di chi, al primo turno – e per questioni di posizionamento ideologico – ha votato un altro candidato, non in linea con la scelta finale dell’elettore in questione.

L’esperto del Cevipof ha spiegato così anche il risultato inatteso delle elezioni statunitensi che hanno visto trionfare Donald Trump contro Hillary Clinton. Secondo i calcoli di Galam, Le Pen potrebbe portare a casa le elezioni con un con un 44% assoluto di voti, un consenso che potrebbe rivelarsi sufficiente per ottenere un 50,07% al secondo turno. Perché?

La partecipazione al voto è stimata attualmente intorno al 78%. Ne consegue, secondo l’esperto del Cevipof, che Le Pen avrebbe bisogno di mobilitare il 90% del proprio elettorato tradizionale e conquistare il consenso del 70% dei voti che si aggiungono al secondo turno. Una sfida ardua, ma non impossibile.

Inoltre, ciò che potrebbe rivelarsi fondamentale, è il differenziale di “astensionismo” tra i vari candidati. Un sondaggio di qualche settimana fa ha dimostrato che gli elettori del Front National sono tra quelli  più stabili e “motivati”. In altri termini, le defezioni dell’elettorato francese al secondo turno colpiscono relativamente di più Macron e Fillon, che non Le Pen.

Secondo gli ultimi sondaggi, Le Pen è il candidato con il maggior consenso al primo turno. A seguire, Macron e Fillon. Al momento, al secondo turno le previsioni indicano una sconfitta della leader di estrema destra, con un consenso che oscillerebbe tra il 39% – nel caso di una sfida finale contro Macron – e il 42% – nel caso dovesse affrontare Fillon.

EuropaEuObserverPutin punta agli elettori tedeschi e francesi

Europa – Euractiv  Il Commissario europeo per le politiche di sviluppo regionali, Corina Cretu: «Le politiche di coesione europee sono l’unico strumento per avvicinare i cittadini all’Europa»

 

 

5 notizie in 3 minuti: gli Usa tornano al Carbone, l’Uk esce dall’Ue e l’Italia che si è fermata ad Alatri

epa05876304 A handout photo made available by 10 Downing Street on 29 March 2017 shows British Prime Minister Theresa May signing a letter of notification to the President of the European Council setting out the United Kingdom's intention to withdraw from the European Union at 10 Downing Street in London, Britain, 28 March 2017. May will deliver a statement to parliament in London on 29 March. EPA/JAY ALLEN / NO10 / MOD / HANDOUT MOD Crown Copyright 2016 © HANDOUT EDITORIAL USE ONLY

Trump torna al carbone

Ha firmato. Con il suo il Energy Indipendence Order, il Presidente degli Stati Uniti ha ufficialmente decretato il ritorno alle energie fossili. E la cancellazione delle politiche ambientali del suo predecessore. Due modi opposti di usare i decreti presidenziali – con i quali Obama aveva spesso imposto al Congresso riforme di tutela ambientale – che portano l’America in due direzioni opposte. Quella di Trump è lontana, molto lontana, dagli accordi di Parigi, che vorrebbero le riduzioni delle emissioni di CO2. E il fatto che la prima potenza mondiale, fra gli Stati più inquinanti al mondo, oggi si chiami fuori dagli standard imposti, mette a rischio il raggiungimento degli obiettivi fissati per il 2020. Ma a Trump poco importa: “questa è la rivoluzione”, dice, e d’altra parte è convinto che il riscaldamento globale sia tutta una “truffa”. L’ha promesso ai minatori, e dunque via alle restrizioni imposte sulle emissioni di metano dagli oleodotti, e via anche i limiti sulle trivellazioni costiere, allo sfruttamento delle miniere nelle terre di proprietà federale. Uno smantellamento pezzo dopo pezzo del Clean Power Plan obamiano.
Cosa succederà ora? L’iter per l’entrata in vigore del decreto è lungo, e non è escluso che verrà impugnato. Quello che è certo è che il messaggio che ancora una volta il multi-milionario a capo degli Stati Uniti lancia al mondo, è tutt’altro che costruttivo.

Leggi il confronto delle politiche ambientali sul Nyt

 

Regno Unito, oggi inizia il divorzio 

E a proposito di involuzioni: ”Oggi la Gran Bretagna fa un passo nell’ignoto” è il titolo del Guardian. Alle 12.30 di oggi, ora locale, scatterà ufficialmente il conto alla rovescia dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Theresa May ha firmato ha firmato la lettera per la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, e non appena questa verrà consegnata nelle mani del presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, avranno inizio i due anni di negoziati che porteranno a termine la Brexit.

Leggi The Guardian

 

Scozia. il Referendum

Ieri, il giorno dopo l’incontro della premier britannica con quella scozzese, Nicola Sturgeon il Parlamento ha votato per il referendum sull’indipendenza da Londra. E’ a seconda consultazione: la prima, nel settembre del 2014, aveva visto favorevoli il 55% del scozzesi. La prossima – e stavolta definitiva – dovrebbe tenersi fra l’autunno 2018 e la primavera 2019.

 

Alatri

L’hanno massacrato di botte. Preso a sprangate. E ora forse hanno un volto. Sono stati individuati nella notte, i due fratellastri, Mario Castagnacci e Paolo Palmisan, rispettivamente 27 e 20 anni, che sarebbero responsabili per l’omicidio di Emanuele Morganti. E per quei 15 minuti di interminabile violenza, due giorni di agonia e un modo di trattare le donne che di virile non ha proprio niente.

 

No Tap, giorno secondo

La Puglia si prepara a un’altra giornata di resistenza. Dopo gli scontri di ieri e le cariche della  polizia ai manifestanti – trai quali molti rappresentanti delle istituzioni locali – i due fronti opposti sono di nuovo schierati da questa mattina.

E ora la scuola pubblica va a farsi benedire

Sembrerebbe una guerra di carte bollate tra parroci e insegnanti da una parte e dall’altra genitori e insegnanti, questa volta contrari. Una querelle durata due anni con una sentenza del Tar che sancisce il principio della laicità della scuola e un’altra del Consiglio di Stato che la ribalta completamente affermando che sì, le benedizioni pasquali sono un rito religioso che si può svolgere nelle scuole non in orario scolastico però ma con tutti coloro che vogliono partecipare.

Ecco qua in sintesi la vicenda che ha scosso la laica Bologna. Ma quella che si è conclusa il 27 marzo con la pubblicazione della sentenza n. 01748/2016 del Consiglio di Stato, non è un fatto di cronaca regionale. Tutt’altro. E’ un atto normativo che potrebbe avere una serie di conseguenze a catena nefaste per la scuola pubblica che si basa sul principio di laicità. Lo sostiene allarmato Bruno Moretto, segretario del Comitato scuola e costituzione di Bologna in prima fila nel condurre la battaglia legale contro le benedizioni pasquali. C’è un punto infatti della sentenza del Consiglio di Stato che desta preoccupazione per il futuro degli stessi istituti scolastici. «Gli edifici scolastici – si legge – possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile». E fin qui va bene. Ma poi i giudici del Consiglio di Stato aggiungono: «Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del servizio scolastico». E’ chiaro che qui si apre la possibilità ad ad altre religioni, ma, sostiene Moretto, anche, perché no, dei partiti.

«Il giudice afferma che l’utilizzo di locali scolastici per la benedizione pasquale è equiparabile a quello relativo ad attività sportive, culturali o ricreative. E che tali attività possono ‘essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera’. Applicando alla lettera questa idea gli edifici scolastici potrebbero essere a disposizione non solo delle diverse confessioni religiose per lo svolgimento di propri atti di culto, ma di qualunque associazione filosofica o di partito per propagandare le proprie idee».

Immaginatevi in un futuro alla Orwell in cui vari soggetti religiosi o no si scatenano per ottenere consenso in quelle “praterie” in cui vivono bambini o adolescenti… Un futuro apocalittico? Certo è che la sentenza del Consiglio di Stato scrive nero su bianco che le benedizioni pasquali sono un rito religioso che si può svolgere a scuola. «Il fine di tale rito, per chi ne condivide l’intimo significato e ne accetta la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano». Benedire i soli locali, le mura, «senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti», non è possibile, perché altrimenti sarebbe «una pratica di superstizione». Quindi occorre la presenza della comunità di studenti, insegnanti, genitori, perché no, così si chiude il cerchio. Almeno il rito religioso, concede la sentenza, non potrà avvenire in orario scolastico. Moretto ribadisce il principio della laicità della scuola pubblica. «Ritengo che, in base ai principi costituzionali di cui agli artt. 3, 33 e 34, i luoghi di studio gestiti dallo Stato italiano debbano restare estranei a ogni iniziativa confessionale o di parte». Anche perché come sostiene il Testo unico della scuola 297/194 l’attività scolastica deve essere aperta a tutti e finalizzata allo sviluppo della personalità degli studenti attraverso «un confronto aperto di posizioni culturali».

Ma come è andata la vicenda delle benedizioni? Tutto è cominciato il 9 febbraio 2015 quando tre parroci di territori in cui si trova un istituto comprensivo di Bologna chiedono di poter effettuare delle benedizioni pasquali dentro la scuola, una consuetudine alquanto rara in Emilia Romagna. Il Consiglio d’istituto concede il permesso di aprire i locali scolastici. Ma il 2 marzo alcuni insegnanti e e genitori insieme con il Comitato bolognese scuola e costituzione ricorrono al Tar. Il Tribunale amministrativo dell’Emilia Romagna un anno dopo dà ragione ai ricorrenti in nome del «principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato», e della «equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose». Il Tar stabiliva che nella scuola «non v’è spazio per riti religiosi -riservati per loro natura alla sfera individuale dei consociati».

Sembrava fatta ma è il Ministero stesso a ricorrere contro la sentenza del Tar, attraverso l’Avvocatura dello Stato:  è il ministro Giannini, racconta Moretto a Left che dà il via al ricorso al Consiglio di Stato. Nel 1994 era avvenuto un caso simile, sempre a Bologna, ma il ministro dell’Istruzione di allora, Rosa Russo Iervolino, non aveva presentato il ricorso. «Vorrei lanciare un appello alla nuova ministra Valeria Fedeli per sapere che cosa ha intenzione di fare a livello nazionale, stabilirà che questi riti religiosi non possono essere effettuati nell’orario scolastico?», dice Moretto.

E adesso cosa farà il gruppo di docenti, genitori e Comitato? «Sicuramente valuteremo di ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo», dice a Left l’avvocata Maria Virgilio che ha patrocinato la causa dei ricorrenti contro le benedizioni pasquali. Il legale mette in evidenza anche la “stranezza della sentenza: «Non sembra una sentenza d’appello, di secondo grado, si è rifatto un giudizio tutto per conto suo. Il primo grado era fondato tutto sul principio di laicità, qui non viene mai citato. E quindi interpreta anche in uno strano modo cos’è la benedizione, dei luoghi con la comunità presente, altrimenti sarebbe una superstizione. Non si dice perché era sbagliata la prima sentenza, come dovrebbe fare una sentenza di secondo grado. E poi modifica il diritto canonico ma anche quello scolastico che è molto chiaro su che cosa si può fare nella scuola, attività scolastiche, parascolastiche ecc., ma le benedizioni sono un atto di culto, è un’altra cosa dalle attività parascolastiche».

Indovina con chi va il Pd? Con Angelino Alfano. A Palermo, intanto

Il ministro degli Esteri Angelino Alfano nello studio della trasmissione di La7 "Faccia a Faccia" di Giovanni Minoli. Roma, 26 febbraio 2017. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Nonostante sia un copione liso e scontato, provoca il sorriso la testardaggine con cui questi si ostinano a smentirla: a Palermo, in vista delle prossime elezioni amministrative, il Pd sosterrà l’attuale sindaco Leoluca Orlando (a cui, dicono, hanno fatto opposizione dura in questi ultimi cinque anni, per dire) insieme agli alsaziani (quel che ne resta) e ai rimasugli dell’Udc.

Ne esce una lista (dal nome appetitosissimo “Democratici e Popolari”) che richiama lontanamente i colori e le grafiche del Partito Democratico e di Alternativa Popolare (la neonata creatura di Angelino Alfano) senza però citarli; Leoluca Orlando, del resto, da mesi continua a spiegare un po’ dappertutto che Fassino ha perso proprio per “colpa” del partito. Quindi? Quindi tutti civici per finta con la pretesa di riuscire a darcela a bere. Democratici e popolari. Appunto.

Tornano in mente le parole di Matteo Renzi, ai tempi della sua presidenza del Consiglio, quando spergiurava che l’alleanza con Alfano fosse passeggera e non ripetibile, legata (diceva lui) all’impellente esigenza di avere i numeri per governare. Tornano in mente le tante dichiarazioni dei democratici che in Parlamento giuravano di mal sopportare Alfano. Qualcuno sottovoce aveva consigliato intanto al Nuovo Centro Destra di Alfano di togliere “destra” dal nome: lui è stato accontentato.

E chissà cosa ne pensa Pisapia che non molto tempo fa aveva twittato “Come ho anche ribadito ieri in un incontro pubblico: per me, e non solo per me, sarebbe un incubo ed è folle solo pensarlo”.

Bene. Avanti così.

Buon mercoledì.

Apre a Roma My Dakota. Il cuore americano nelle foto di Rebecca Norris Webb

© Rebecca Norris Webb, The Sky Below, My Dakota

Apre domani, mercoledì 29 marzo, a Officine Fotografiche Roma, la mostra “My Dakota” della
fotografa americana Rebecca Norris Webb, a cura di RVM Hub.
Due appuntamenti accompagneranno la visione della mostra: mercoledì 29 marzo alle 20, una lecture con la fotografa americana assieme al marito Alex Webb, fotografo della Magnum, dal titolo “Slant Rhymes: The Photographs of Alex Webb and Rebecca Norris Webb”; e venerdì 31 marzo alle 19 l’autrice condurrà i visitatori in una visita guidata della mostra “My Dakota” visitabile fino al 13 aprile negli spazi che ospitano la mostra.

Rebecca Norris Webb, poetessa e fotografa, da tempo residente a New York ma cresciuta nel South Dakota, intreccia spesso, nei suoi lavori, prosa e fotografie. Soprattutto in My Dakota, un’elegia per suo fratello morto improvvisamente d’infarto proprio l’anno dopo in cui l’artista si era prefissata l’obiettivo di fotografare il suo Stato natale. Scrive:

«Per mesi, una delle poche cose in grado di dare sollievo al mio cuore sconvolto è stato il paesaggio del South Dakota. Come se tutto ciò che potessi fare fosse guidare per i calanchi e le praterie, e fotografarli. Ho cominciato a chiedermi: “La perdita ha una sua propria geografia?”»

My Dakota, un poema scritto a mano e intrecciato con gli scatti, affronta il tema dell’impatto umano sulla terra, il modo in cui questo ha influenzato la nostra vita. Il lavoro fotografico è un vero e proprio registro di come siano mutati l’economia e il paesaggio dello Stato nel cuore dell’America; un elogio funebre per le fattorie di famiglia che stanno scomparendo e per le piccole città che sostentavano. E ancora: è un suo modo di affrontare il dolore per la scomparsa del fratello, «per assorbirlo, estrarlo e, infine, lasciarlo andare».

© Rebecca Norris Webb, Homestead Blizzard, My Dakota

© Rebecca Norris Webb, Ghost Mountain, My Dakota

© Rebecca Norris Webb, High Winds, My Dakota

© Rebecca Norris Webb, Storm Light, My Dakota

© Rebecca Norris Webb, Abandoned Farmhouse I, My Dakota

© Rebecca Norris Webb, State Map, My Dakota

© Rebecca Norris Webb, Blackbirds, My Dakota

© Rebecca Norris Webb, Rearview Mirror, My Dakota

© Rebecca Norris Webb, The Sky Below, My Dakota