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Barzelletta Salvini: critica la legge sulla legittima difesa. Che ha scritto la Lega

Matteo Salvini con Geert Wilders durante il congresso federale straordinario della Lega Nord per l'elezione del nuovo segretario al Lingotto, Torino,15 Dicembre 2013 ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Ma chi l’ha scritta quella legge buonista che fa tanto incazzare Salvini ormai in tour permanente a fare il pieno dal benzinaio che spara, a cenare dal ristoratore che spara e a innamorarsi di chiunque a cui per sbaglio parta un colpo sfortunatamente mirato alla perfezione? Loro. Lega Nord, Forza Italia, Udc e Alleanza Nazionale.

Era il 20 dicembre del 2002 e questi presunti “sceriffi” da cortile brogliavano una proposta di legge dal titolo “Modifica all’ articolo 52 del codice penale in materia di diritto all’ autotutela in un privato domicilio”, abbreviato in un marchettara “autodifesa” per renderla più golosa. In calce a quella proposta (che divenne legge il 13 febbraio del 2006) spiccano le firme di Calderoli, Brignone, Peruzzotti e Tirelli, tutti senatori del Gruppo Lega Padana (erano ancora i tempi in cui gli stranieri erano i terroni, prima di diventare filonapoletani per un pugno di voti e qualche schizzo in più di notorietà) e la Lega, udite udite, stava al Governo dove Salvini chiede di tornare per “risolvere i problemi di sicurezza in Italia”.

Le promesse vane del resto funzionano solo  con la marmaglia senza memoria e con il culto della superficialità. La vicenda di Lodi intanto comincia a sbrodolare qualche bugia di troppo: secondo il Procuratore “la dinamica non è così chiara come sembra, ci sono delle cose che non tornano” e un testimone dichiara di avere sentito due colpi distinti (la famosa raffica partita per sbaglio, evidentemente) e “la versione di Mario Cattaneo non collima – dice sempre il Procuratore – con quella del figlio”.

Perché? Perché il vero dramma non è tanto l’episodio (e pare che anche la famiglia del Cattaneo ne sia ovviamente e per fortuna molto scossa) ma questo cavalcare avvoltoio di chi tromboneggia nella propaganda e poi si sbriciola alla prova dei fatti e della storia.

E sparare con chi spara è un’illegittima difesa patetica, pericolosa e confusa.

Buon martedì.

A chi giova lo scontro Turchia-Olanda

epa05843193 Demonstrators wave Turkish flags as they protest outside the Turkish consulate in Rotterdam, the Netherlands, 11 March 2017. The protesters were demanding to see the Turkish Family Minister Fatma Betul Sayan Kaya who was barred by police from entering the Turkish consulate in Rotterdam. Earlier the day, Dutch government denied landing rights to Turkish Foreign Minister Cavusoglu who planned a speech at the consul's residence in Rotterdam. EPA/Bas Czerwinski

In Europa vivono 10 milioni di turchi o forse più. In Germania sono quasi 4 milioni, quasi uno in Francia, mezzo milione rispettivamente nelle piccole Olanda e Austria. Sono tanti e non sono immigrati di questo secolo. Il contrario: in quei Paesi sono coevi dell’immigrazione italiana, spagnola, portoghese. Tra il 1959 e il 1969 diversi Paesi firmarono degli accordi con la Turchia per importare manodopera. Proprio per queste ragioni blaterare di turchi-musulmani-non europei come fa Matteo Salvini nel tweet qui sotto è una schiocchezza antistorica.

Proprio la frase di Salvini ci aiuta a leggere e capire cosa stia succedendo tra Turchia e Olanda.

Partiamo dai fatti.
La ricostruzione è rapida: il governo turco pianifica un referendum per modificare la natura parlamentare della repubblica e trasformarsi in presidenziale. L’idea di Erdogan è quella di attribuirsi nuovi poteri, eliminando la figura del Primo ministro e molte delle prerogative del Parlamento. I limiti al potere presidenziale sarebbero davvero pochi, non sarebbe, insomma, un presidenzialismo all’americana. E visto quanto capitato in Turchia dopo il tentato colpo di Stato militare, è normale che l’Europa e i governi nazionali europei si sentano preoccupati dalla deriva autoritaria presa da Erdogan.

Per promuovere il referendum, le autorità turche stanno spedendo ministri e politici a organizzare il voto degli emigranti in Europa. Proprio in occasione di un comizio previsto per lo scorso weekend a Rotterdam due, le autorità olandesi hanno impedito l’ingresso di ministri turchi nel Paese. Le versioni divergono ed è certo che la polizia olandese ha fatto in modo che il ministro degli Esteri Cavusoglu non entrasse nella sede del consolato a Rotterdam – che tra le altre cose è uno dei luoghi in cui il Pvv di Geert Wilders rischia di prendere più voti nel voto di mercoledì. I seguaci di Erdogan sono scesi in piazza in Olanda per protestare contro un comportamento che non è consono dal punto di vista delle relazioni tra Paesi, il presidente turco ha dato dei nazisti agli olandesi e questi si sono infuriati. Poi la Germania, l’Austria, la Danimarca e la Svezia hanno in qualche forma vietato comizi pro Erdogan nel loro Paese. Non la Francia. Le ragioni addotte sono i rischi per la sicurezza e, dopo che Erdogan ha usato quei toni estremi contro l’Olanda e minacciato ritorsioni, anche una reazione “europea” (le dichiarazioni sono molte, da Schäuble in giù).

La crisi e i suoi attori.
Probabilmente possiamo definirla una crisi scatenata da atteggiamenti populisti di governi al potere. Erdogan promuove un referendum e da mesi foraggia la propria opinione pubblica con discorsi contro qualche nemico, interno o esterno: i curdi, i russi (ora non più), l’Europa, i golpisti. Toni sopra le righe, minacce. In più, in una fase difficile per l’Europa, la Turchia sceglie di fare comizi destinati ad acuire le tensioni e a fornire argomenti alla destra populista e xenofoba. Il premier olandese Rutte, alle prese con una difficile campagna elettorale all’inseguimento del Pvv dei Geert Wilders, coglie la palla al balzo e vietando i comizi e alimentando l’escalation con Ankara, diventa un difensore dei valori occidentali e individua un nemico esterno – e anche un po’ interno, visto che i turchi immigrati hanno manifestato in Olanda. E contende così a Wilders lo scettro della destra nazionale e anti islamica. La crisi, potrebbe insomma favorire i liberal-conservatori alla guida del Paese e il loro giovane leader. Oppure no: perché votare Rutte se c’è l’originale anti-islamico sulla scheda? Questo lo vedremo mercoledì sera.

Il punto
Il punto, insomma, è questo: il populismo xenofobo che attraversa l’Europa vince anche se non è al potere, dettando l’agenda politica ai governi. E ciascun populismo, compreso quello autoritario di Erdogan, si alimenta di toni estremi e nell’individuare un nemico: succede così che il leader leghista gongoli nel potersi schierare contro Ankara e gli islamisti, Rutte approfitta della crisi e così via. È un paradosso perché parallelamente, la Lega, il Front National, il Pvv intrattengono rapporto con la Russia di Putin, che a sua volta converge su molte cose con Erdogan.
Non è il solo paradosso perché, i partiti che gridano all’invasione islamica sanno bene che il loro alleato turco de facto è quello che in questo momento ha le chiavi dell’ingresso di centinaia di siriani nella Ue. Per non farli partire riceve soldi da Bruxelles grazie a un accordo scellerato che viola le convenzioni internazionali – soldi in cambio di frontiere chiuse. I partiti della destra xenofoba sono contrari anche a quell’accordo, che con i turchi manco ci si dovrebbe parlare perché…sono turchi. Certo, se l’accordo saltasse arriverebbero più rifugiati siriani e i partiti populisti avrebbero un argomento in più sul quale strepitare.
Contro l’immigrazione e contro i patti per tenere fuori i rifugiati siriani, contro Erdogan, ma amici di Putin, difensori dei valori occidentali che violano le regole della diplomazia internazionale come regimi autoritari qualsiasi. Vi sembra illogico?

E veniamo all’ultimo punto: non cercare coerenza e un filo logico nei comportamenti dei leader populisti. Si può essere molte cose allo stesso tempo, basta urlare forte, indicare dei nemici e dei pericoli contro cui scagliarsi e non offrire ricette per risolverli che non siano slogan buoni per raggranellare consensi. Che si tratti di ruspe, muri di confine, dispute contro un Paese straniero, il risultato non cambia.

De Magistris: «Mai appoggiato i violenti, siete disonesti». E lancia l’allarme: «Non sottovalutate Salvini»

Il sindaco Luigi de Magistris interviene al corteo a Napoli all'indomani della morte di Raffaele Vettorino, il lavoratore socialmente utile di 62 anni colpito da infarto ieri mattina per inseguire un'auto che aveva travolto due colleghi forzando il blocco stradale, Napoli, 3 febbraio 2017. ANSA/ CESARE ABBATE

«Addebitarmi gli scontri di piazza è un’operazione davvero disonesta. E anche pericolosa». Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris torna a parlare all’indomani della manifestazione #MaiConSalvini dell’11 marzo nella capoluogo partenopeo. «Trovate una dichiarazione, una, in cui io abbia incoraggiato o invocato gli scontri», dice ai giornalisti. «Ho sempre detto che Salvini deve essere accolto con satira, con musica, con la cultura e la dura contestazione politica. E seppellito politicamente, come Napoli sa fare: con le armi della democrazia, dell’ironia e della contestazione politica».

«Siamo per il dissenso, siamo perché si facciano manifestazioni non violente, pacifiche, solari. Di cultura e di musica», aveva in effetti detto il sindaco in un video in cui spiega anche cosa è successo sulla Mostra d’Oltremare, il luogo che il governo ha ordinato al Comune di mettere a disposizione del leghista. O, ancora, «la lotta sarà dura e non violenta, ma non ci faremo prendere in giro da Salvini che viene qui in campagna elettorale».

«Io non avrei mai agito come De Magistris. A Milano non abbiamo mai negato niente a nessuno». Giuliano Pisapia non perde l’occasione per attaccare Luigi De Magistris, che ci tiene a precisare:«Ha fatto una scelta politica diversa dalla mia, ha scelto di essere vicino a realtà che credono che il centrosinistra sia il nemico principale, mentre per me il nemico è il centrodestra», prosegue. E il primo cittadino campano ribatte: «Peccato che noi a Napoli non abbiamo negato niente a nessuno. Il sindaco ha semplicemente espresso la contrarietà a un’iniziativa assolutamente inopportuna: la presenza alla Mostra d’Oltremare, in un luogo dell’amministrazione o comunque riconducibile all’amministrazione, di un esponente politico che, all’insegna dello slogan ‘Napoli colera’, ha fatto della sua vita politica un atto di fede contro Napoli e il Sud».

Anche dal governo arriva un colpo basso per il sindaco di Napoli, stavolta per bocca del ministro Marco Minniti che, dal Lingotto, rivendica l’operato della polizia e aggiunge: «La vicenda di sabato rappresenta un punto cruciale per la nostra concezione della democrazia. È importante che i diritti costituzionali siano garantiti per tutti ed è altrettanto importante che sia chiaro che in democrazia c’è un confine che non è valicabile: la violenza. Chi pratica la violenza è contro le nostre libertà e non può pensare di zittire l’altro», perché «democrazia vuol dire che anche l’avversario più radicale», anche «quello più distante da noi», possa «esprimere le proprie opinioni». Peccato che il video diffuso che riporta le cariche della polizia sui manifestanti pacifici – è bene scriverlo – dicano l’opposto rispetto a quanto affermato dal ministro.

Mentre sia Renzi che il governo si affannano a difendere, di fatto, il leader leghista e la sua “libertà di espressione”, De Magistris ricorda: «Quello che Salvini fa e dice non è politica, è apologia del fascismo», taglia corto. «Lanciare una pietra è reato, ma lo è anche l’apologia del fascismo. Sono reati diversi, ma entrambi sono reati. Innanzitutto nei confronti di Salvini e delle azioni che quotidianamente fa». Per il sindaco, che è anche il presidente del movimento DemA, in questa vicenda: «Conosco la storia del Novecento e anche quella di oggi, e sono orgoglioso del fatto che la città resista politicamente a un’avanzata di tipo fascista di Matteo Salvini, che non deve essere sottovalutata».

Perché chi definisce la legge sul testamento biologico “suicidio di Stato” mente

Un momento durante la conferenza stampa ''Tempi certi su testamento biologico'' davanti Palazzo Montecitorio organizzata da ''associazione Luca Coscioni'' e Radicali Italiani, Roma 1 marzo 2017. ANSA/GIUSEPPE LAMI

«Stiamo aprendo la strada al suicidio assistito», è la denuncia di Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia. «Sarebbe stato più onesto dire che è una legge sull’eutanasia», ha invece messo agli atti Giuseppe Fioroni, ex ministro, cattolico del Pd, dicendo anche lui la sua sulla legge arrivata alla discussione in plenaria alla Camera dei deputati. Entrambe le affermazioni – opinioni lecite, per carità – sono però appunto opinioni, perché la legge non è né una legge sull’eutanasia, né una legge sul suicidio assistito.

Non è una legge sull’eutanasia attiva, che è quella permessa, ad esempio, in Lussemburgo o in Olanda, dove è il medico a iniettare una soluzione letale nel paziente che abbia espresso la volontà di mettere fine alla propria vita. Non è neanche una legge sul suicidio assistito, che è quello a cui è ricorso Dj Fabo, per stare al caso mediatico più recente, accompagnato in Svizzera dal radicale Marco Cappato, leader dell’associazione Luca Coscioni. Per Dj Fabo è stato preparato, da un medico, un farmaco letale che però lui stesso si è iniettato, premendo un pulsante con la bocca.

La legge che sta discutendo la Camera è invece una legge sul testamento biologico. Ed è il minimo sindacale, anche se c’è chi, come la deputata Titti Di Salvo, la difende, pur avendo depositato un testo sull’eutanasia. Quello che il nostro Paese farebbe se il Parlamento approvasse il testo in discussione, dice Di Salvo a Left, sarebbe insomma «un avvicinamento importante», «l’applicazione per nulla scontata ma dovuta della Costituzione». Per altri è solo la fotografia, pur importante, di quanto già accade in Italia, tra informalità e cure palliative – come nota il ginecologo Silvio Viale, anche lui radicale, di Exit-Italia. Ma tutti accettano la logica del primo passo.

Se la legge dovesse esser approvata, almeno, in Italia si potranno registrare le proprie “Dat”, le dichiarazioni anticipate sui trattamenti sanitari, decidendo – se maggiorenni e nel pieno delle facoltà mentali – in merito alle terapie che si intende o non intende accettare, compresa (ricorderete il caso Englaro) idratazione e alimentazione. Si dovrà anche indicare un fiduciario, e il medico dovrà rispettare questo consenso.

È un passo avanti? Vedete voi. Tanto – se la Camera approverà, come scommettono i più, entro una decina di giorni – lo scoglio, inevitabilmente, sarà al Senato. Sempre che il Pd non decida di spingere.

#PulseofEurope: “Ogni domenica in piazza per il progetto di integrazione europea”

Domenica più di 40 città della Germania, del Belgio e del Regno Unito hanno visto scendere in piazza migliaia di cittadini che si sono mobilitati per difendere il progetto di integrazione europea. L’iniziativa è stata organizzata dal movimento #PulseofEurope (“Il polso dell’Europa”, tdr.) che, nel suo manifesto, chiede di «non lasciarsi andare alle tendenze nazionaliste».

Il movimento difende i principi della «libera circolazione all’interno dell’Ue» e sottoscrive «il bisogno di nuove riforme» per avvicinare l’Europa alle persone comuni. Allo stesso tempo, viene invocata la difesa delle identità regionali e nazionali. Gli organizzatori di #PulseofEurope hanno chiesto ai propri membri e simpatizzanti di scendere in piazza ogni domenica per dimostrare che esiste una genuina cittadinanza europeista.

Ma, per quanto l’iniziativa si sforzi di dare un segnale di coesione, a livello di relazioni intergovernative l’Unione sembra avviarsi verso divisioni nette. Dopo la conferma di un nuovo mandato per Donald Tusk alla guida del Consiglio europeo, il governo polacco ha fatto sapere che assumerà posizioni intransigenti su alcuni progetti legislativi. Il Presidente del partito di governo Diritto e giustizia (Pis), Jarosław Kaczyński, già settimana scorsa, aveva accusato l’Unione di seguire il diktat di un solo Paese: la Germania. Dopo la rielezione di Tusk, il Ministro agli affari esteri, Witold Waszczykowski, ha affermato che «l’Unione è fatta di doppi standard e menzogne». Insomma, sono parole pesanti quelle che arrivano da Varsavia. Eppure, secondo la maggior parte degli opinionisti europei, durante il Consiglio europeo della settimana scorsa, lo “spettro” di un’Europa a più velocità è stato evocato meno del previsto.

Nel frattempo, a proposito di “menzogne”, Die Welt, ha pubblicato una notizia che scotta sui rapporti tra Germania, Olanda, Turchia e il resto del Continente. Il fatto risalirebbe a un anno fa, periodo nel quale l’Ue e la Turchia stavano negoziando l’accordo per il blocco dei rifugiati. I primi ministri di Germania e Olanda, rispettivamente Angela Merkel e Mark Rutte, avrebbero negoziato autonomamente con il governo turco una quota di rifugiati da far entrare nell’Unione, per convincere – soltanto successivamente – gli altri stati a condividere l’impegno. I media europei, nel marzo del 2016, avevano invece descritto l’accordo tra Ue e Turchia come conseguenza di una proposta spontanea da parte di Ankara. Certo, non si tratta proprio di una menzogna. Ma la notizia, se confermata, non aiuterebbe certo ad aumentare la fiducia tra i governi dell’Ue.

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Klaver, chi è il giovane olandese che sfida i populismi

epa05842810 Jesse Klaver, leader of the Dutch GreenLeft (GroenLinks) Party meets members of the public in Eindhoven, The Netherlands, 11 March 2017. Klaver is campaigning with his party, GroenLinks, ahead of the Dutch national elections that will take place on 15 March. EPA/PIROSCHKA VAN DE WOUW

Non solo il viso, ma anche l’espressione del bellissimo presidente canadese, Justin Trudeau.  Il giovane olandese Jesse Klaver (30 anni), è il leader della Groenlinks, la Sinistra Verde, che sta salendo nei sondaggi di un’Olanda che sembra affidarsi al populismo islamofobo di Geert Wilders. Sulle elezioni di mercoledì 15 marzo, in questo momento al centro di una tempersta diplomatica con la Turchia, sono puntati i fari dell’Unione Europea. Sebbene il partito di Klaver possa puntare a essere al massimo la terza forza della Camera dei rappresentanti dei Paesi Bassi, noi di Left abbiamo scelto di concentrarci su questo piccolo baluardo dei valori che dovrebbero essere fondanti di una democrazia europea.

Chi è
Nato nella periferia di Roseendaal nel 1986, proviene da un ambiente  popolare. Padre di origine marocchina e madre olandese-indonesiana, sposato con due bambini, deve moltissimo della sua educazione ai nonni. Il leader ambientalista ha iniziato presto a risalire la corrente della politica. A 20 anni entra nell’organizzazione giovanile della Groenlinks, di cui diventa segretario e poi presidente in breve tempo. Mentre nel 2009 viene eletto leader dell’unione dei giovani del Cnv, il sindacato olandese. Subito dichiarerà le sue intenzioni di superarne la matrice cristiana.
Da leader sindacale, sarà coautore nel 2010 del manifesto elettorale della Groenlinks, con la quale viene eletto lo stesso anno, diventando il portavoce degli affari sociali, l’occupazione, l’istruzione e lo sport. Nel 2012 guida la campagna elettorale del suo partito, con successo, e viene rieletto. Klaver si guadagnerà l’attenzione internazionale con la sua battaglia all’evasione fiscale delle multinazionali. Il 12 maggio del 2015 il leader della Sinistra Verde Bram van Ojik gli passa il testimone. Europeista convinto ma critico rispetto all’atteggiamento dell’Unione nei confronti del salvataggio delle banche, Klaver punta sul sostegno alle classi sociali più povere, perché è li che, secondo lui, ha inizio tutto: intolleranza, populismo, violenza. Proprio le pari opportunità nell’istruzione e la battaglia contro le disuguaglianze sono alla base dei discorsi che il giovane leader ha portato in questi mesi in giro per l’Olanda in quei suoi one-man-show che a molti hanno fatto ricordare lo stile Obama.

Nel 2015 ha pubblicato il libro Il mito dell’economicismo, in cui emergono le fondamenta di quello che potrebbe essere una sorta di nuovo idealismo, basato sull’empatia – non a caso in testa ai punti del programma elettorale. Il calcolo costi-benefici che determina la maggior parte delle scelte non solo economiche, ma anche politiche e soprattutto sociali e culturali, mette in secondo piano valori non misurabili ma fondamentali.

Welfare
Dal reddito di base – ma, attenzione, su base comunale – a una riforma delle tasse sul lavoro che punti a creare nuovi posti nelle fasce più povere della popolazione perché per Klaver: «il populismo non è il frutto di differenze culturali, ma di disparità socio economiche». E’ attorno alla fiscalità che tutto gira, il primis il ripristino dell’equità, per il giovane leader, tanto che a inizio febbraio, sul quotidiano economico Financieele Dagblad, lancia «la più grande riforma fiscale di sempre», che in sintesi, punta su un principio semplicissimo: «Tassiamo ciò che non vogliamo (le multinazionali e lavoro inquinante, ndr). E ciò che vogliamo, il lavoro, lo rendiamo più vantaggioso». Più tasse per i contratti a tempo determinato e incentivi per le assunzioni indeterminate.
Un settore che Klaver crede sia centrale è quello dei posti di lavoro per la cura delle persone.

Scuola
L’istruzione è ciò da cui passa l’integrazione, e allora ecco il più basilare dei principi di sinistra: investire sulla scuola. Sugli insegnanti e sul rispetto della loro professione, su piani di doposcuola attività integrative gratuite e soprattutto sui metodi di valutazione che contrastino la discriminazione, ponendo fine alla cultura dei test e dei calcoli nel sistema educativo, che non solo non valorizzano le differenze individuali. La scuola, come scrive nel libro, deve anzi promuovere anche abilità come l’autoriflessione, la creatività, la perseveranza e la curiosità.

Ecologia
L’obiettivo dei verdi di Klaver è un’Olanda a energia pulita entro il 2050. Lotta agi sprechi, nuovi consumi e una nuova economia. Naturalmente, verde. Ma soprattutto, la democratizzazione dei servizi di fornitura energetica: eliminare il pagamento di tasse sulla energia sostenibile autoprodotta e una tassa fissa basata sulla produzione di CO2 anziché sul consumo di energia, per incentivare l’uso delle energie rinnovabili; incentivi a progetti individuali e collettivi di produzione di energia rinnovabile e investimenti pubblici nelle rinnovabili sull’esempio dell’Energiefonds avviato ad Amsterdam dall’assessore della Groen-Links Maarten van Poelgeest.

Diritti
Per far tornare i Paesi Bassi a essere un avamposto di libertà e laicità, non ha dubbi, il leader 30enne: urge depenalizzare il suicidio assistito, l’eutanasia, le droghe leggere e perfino dell’ecstasy. Oltre a questo, per la Groenlinks è essenziale ridurre gli elementi mercatistici nel sistema sanitario – basato su assicurazioni sanitarie private – stimolando la cooperazione anziché la concorrenza tra i medici e tra i servizi. Il governo dovrà inoltre occuparsi dell’acquisto di medicinali al fine di contrastare il monopolio dell’industria farmaceutica.

Caro Pd, Pasolini leggilo, prima di evocarlo (e di macchiettare bandiera rossa)

Former Italian Prime Minister Matteo Renzi delivers a speech at the Democratic party (Partito Democratico, PD) leadership campaign event at ex-Fiat Lingotto conference centre in Turin, Italy, 12 March 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Il piazzista ha perso la verve e così la chiusura al Lingotto della Leopolda in bagna cauda non riserva nemmeno una delle scoppiettanti bugie per meritarsi un mezzo titolo sdraiato su giornali degli amici. Qualcuno scrive che Renzi non sia più lui e invece forse è proprio in stato di stress e usura che esce la sua natura: senza ridondanti storie da raccontare l’ex Presidente del Consiglio si sgonfia. Gli manca il lievito, poiché non ha un’idea di politica che non passi per forza dalla gestione (sua) del potere.

Il suo discorso di ieri è stata l’ennesima barbosissima (e biliosa) difesa del lavoro fatto (e quindi l’ennesimo rifiuto di riconnettersi con chi gli ha votato contro nel referendum del 4 dicembre scorso) e tutto un panegirico sul garantismo e sull’occupazione.

Il garantismo, innanzitutto, sembra la nuova ossessione renziana e fa niente che non ci sia nessuno di meno credibile come portabandiera dell’ipergarantismo di chi si ritrova sommerso (tra Lotti e babbo Renzi) proprio nel bel mezzo di un’inchiesta che lo travolge: il nuovo corso del Pd ricalca le orme dei berluscones (e non è una novità) condendoli con un po’ di cortesia istituzionale verso la magistratura. In mezzo alla retorica però arrivano due segnali più che preoccupanti: si fa avanti l’idea di secretare gli avvisi di garanzia per non “ledere” i diritti dell’indagato (chissà se Renzi, Migliore o Guerini sarebbero felici di iscrivere i propri figli in un asilo in cui c’è un maestro sospettato di pedofilia, senza saperlo) e si insiste nel volere che le indagini siano comunicate ai superiori (fino al Viminale) per, dicono loro, esigenze di coordinamento. In pratica si straccia il segreto investigativo in favore della politica e si istituisce il segreto di presunta colpevolezza in favore dell’indagato. Fate voi.

Poi, il lavoro. E sul lavoro, niente, Renzi non riesce proprio a non estrarre il feticcio di Marchionne, come ai bei tempi in cui qualcuno pensava che fosse solo un po’ di sano bullismo. E invece Marchionne è proprio la sua idea di lavoro, tanto che anche Pisapia non riesce a starsene zitto e interviene per dire che così non va.

Per carità, Renzi ha tutto il diritto di sostenere e divulgare le proprie idee. Un diritto però non può arrogarselo: quello di pronunciare con andatura canzonatoria il suo sarcasmo sulla sinistra, sulle macchiette e su “bandiera rossa”. Un mediocre democristiano (seppure travestito da futurista) non può banalizzare a proprio uso e consumo una storia di diritti e lotte distanti anni luce dalle beghe di questi scout in gita nei palazzi del potere. Questo no.

E mentre lui ironizza su “bandiera rossa” il suo fido Recalcati (Recalcati!) annuncia l’intitolazione della nuova scuola politica del Pd a Pier Paolo Pasolini. Pasolini, ricordate? Quello che scriveva, appunto, sulla bandiera rossa (in La religione del mio tempo, era il 1961):

«Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l’analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.»

Ecco. Buon lunedì.

Una cosa di sinistra? Riconoscere subito lo Stato di Palestina

National Day della Palestina a Expo Milano 2015. MILANO, 19 SETTEMBRE 2015. ANSA/DANIELE MASCOLO

Discontinuità in politica estera? Un atto di sinistra che riconnetta idealità e concretezza, riattualizzando una storia che viene da lontano, per la quale e nella quale “essere di parte” non era, e non è, espressione di un pregiudizio ideologico ma saper distinguere tra carnefici e vittime, oppressi e oppressori. Essere “per” e non “contro”. Una sinistra che non crede in una pace senza giustizia, una sinistra sanamente internazionalista, oggi ha un atto da compiere. In Parlamento e nelle piazze: chiedere al governo italiano di riconoscere, subito, lo Stato di Palestina. Riconoscerlo unilateralmente come hanno fatto, da tempo, altri governi e Parlamenti europei. Unilateralmente. Perché di fronte alla deriva etnocratica d’Israele, a un fondamentalismo ebraico che nega diritti, rapina terre, calpesta dignità e uccide speranze, a una destra ultranazionalista e annessionista che realizza un regime di apartheid nei Territori occupati, l’Italia deve riconoscere ai Palestinesi il diritto di poter vivere, da donne e uomini liberi, in uno Stato indipendente: lo Stato di Palestina, con Gerusalemme Est come sua capitale.

Come si è impegnato a fare il candidato dei socialisti francesi, Benoît Hamon, se dovesse essere lui il nuovo inquilino dell’Eliseo. Come ha chiesto negli Usa il socialista ebreo Bernie Sanders e in Gran Bretagna il segretario del Labour Jeremy Corbin, come ha ribadito il leader di Podemos Pablo Iglesias: «Il governo del Pp deve riconoscere in modo unilaterale e incondizionato da parte della Spagna, uno Stato palestinese come primo, indispensabile passo per dare soluzione al conflitto». L’Italia non può restare prigioniera della “lobby israeliana”, per la quale ogni critica di merito agli abusi perpetrati nei Territori da un esecutivo di falchi, significa essere “antisemiti”, né può rimandare un atto di giustizia alla improbabile ripresa di un negoziato diretto tra le parti. Col sostegno dell’inquilino della Casa Bianca, Netanyahu sta realizzando lo “Stato dei coloni”, edificato di fatto in Cisgiordania. «Diversi Paesi hanno riconosciuto lo Stato Palestinese, come la Svezia e il Vaticano, ci sono anche 12 Parlamenti nazionali, compreso quello italiano, che hanno chiesto ai propri governi di riconoscere il nostro Stato… Chiediamo ora che questi governi, compreso quello di Roma, riconoscano la Palestina». Così aveva affermato il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, poco prima del suo incontro a Betlemme con il Capo di Stato italiano, Sergio Mattarella. Era l’1 novembre 2016. È tempo di realizzare questa aspettativa. È ciò che Left si sente di chiedere ai parlamentari delle sinistre: una mozione unitaria che impegni il governo e che sia alla base di una mobilitazione della società civile organizzata. Agire in questa direzione significa anche sostenere l’altra Israele, l’Israele del dialogo, quella che nel cinquantenario della Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967-2017) ha rilanciato, attraverso il movimento Siso (Save Israel Stop Occupation), una petizione firmata da oltre cinquecento personalità israeliane: dagli scrittori David Grossman, Amos Oz, Orly Castel Bloom, Savyon Liebrecht, Ronit Matalon, Yael Dayan, al premio Nobel Daniel Kahneman, alla cantante Noa, e poi il musicista David Broza, il filosofo Avishai Margalit e la sociologa Eva Illouz, per continuare con l’ex presidente del Parlamento, venti ex ambasciatori, docenti universitari, storici, parlamentari, drammaturghi, artisti, ex generali e alti gradi dell’esercito e dell’intelligence, ex ministri. «Noi crediamo – rimarcano i firmatari – che le aspirazioni ebraiche di istituire uno Stato siano state realizzate e debitamente riconosciute dalla comunità internazionale attraverso il Piano di spartizione adottato nel novembre 1947 dalle Nazioni Unite e successivamente da molti dei suoi membri.

Tuttavia, mentre le aspirazioni ebraiche sono state esaudite, così non è stato per le parallele aspirazioni dei palestinesi, frustrate poi dall’occupazione di Israele dei Territori palestinesi dal 1967 e dalla negazione dei diritti nazionali del popolo palestinese. Noi crediamo che, una volta sollevato dalla piaga dell’occupazione, Israele diventerà realmente uno Stato ebraico e democratico, con pari diritti umani e civili per tutti i suoi cittadini, libero di sprigionare tutto l’enorme potenziale economico, culturale, educativo del suo popolo e capace di godere pienamente del suo ruolo legittimo fra le Nazioni del mondo, vivendo in pace e sicurezza con i suoi vicini…». E per raggiungere questo obiettivo, oggi occorre riconoscere lo Stato di Palestina. Unilateralmente. Chi è d’accordo, batta un colpo. In Parlamento. Nel Paese. Left ne darà conto. Di adesioni e silenzi. Mai come in questo caso “essere di parte” è doveroso. È di sinistra.

Ne parliamo sul numero di Left in edicola

 

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Dove va la Francia? Sondaggi, comizi e una politica in movimento

NANTES, FRANCE - FEBRUARY 26: National Front Leader Marine Le Pen, holds a presidential campaign rally at the Zenith Metropole on February 26 2017 in Lyon, France. One of the most unpredictable French elections is being closely fought, with National Front leader promising to protect the electorate from globalization. The 48 year old daughter of the party founder Jean Marie Le Pen has manifesto pledges such as taxing job contracts for non-nationals and proposing to leave the euro zone. (Photo by Jeff J Mitchell/Getty Images)

Davvero Marine Le Pen potrebbe riuscire a diventare presidente di Francia? A guardare i sondaggi sulle intenzioni di voto al secondo turno, sembra di no. Ma dicono anche che la leader del Front National ripulito e parzialmente modernizzato nell’immagine (de-demonizzato, come dicono loro) prenderà milioni di voti più del padre, che scosse la Francia con il suo 17% nel 2002. Al secondo turno, Marine perderebbe di molto contro il né di destra né di sinistra Emmanuel Macron e, di un po’ meno, contro Francois Fillon, candidato azzoppato dei Republicains.

Secondo i sondaggi, a votare Marine sarebbero di più i giovani, i maschi, gli operai, le persone meno istruite. Escluso l’exploit tra i giovani, si tratta dello stesso tipo di elettorato che ha eletto Donald Trump. C’è un aspetto dei sondaggi che va sottolineato: mentre al secondo turno del 2002 Jean Marie prese 700mila in più che al primo, mentre Jacques Chirac ne aggiunse quasi 20 milioni. Stavolta i sondaggi ci dicono che la candidata dell’estrema destra guadagnerà qualche milione tra un turno e l’altro, passando da un dato attorno al 25% a qualcosa che somigli al 35%. Una parte dell’elettorato di Fillon si sposterà senza meno: in passato è quello socialista e di sinistra che è accorso ad eleggere Chirac, ma come si comporteranno gli elettori di centrodestra?

Altro elemento è che in questi anni abbiamo imparato a capire che i sondaggi relativi a fenomeni e partiti nuovi rischiano di non essere precisi. In questo caso la novità Macron e quella le Pen sono relative, ma certo il quadro politico francese è scomposto e rinnovato.

Un pericolo possibile per Macron è il fatto di non avere un elettorato fedele, una base. L’elettorato di Le Pen è certo e fedele: l’80% dei suoi elettori ha deciso e non cambierà idea. Per gli altri candidati tutto fluttua: molti elettori di Macron sono in uscita da sinistra e da destra, ma ancora non sono certi (potrebbero scegliere Hamon o Fillon), quelli di Hamon potrebbero scegliere il voto utile e quelli di Mélenchon spostarsi su Hamon, che è una rottura con il partito socialista di Hollande e Valls, che pure rappresenta. Come si comporteranno gli elettori al secondo turno? Quanti si asterranno?  La gente che voterà Le Pen sembra sicura di tornare al voto, la gente di Macron meno. Gli elettori di sinistra potrebbero decidere di non scegliere. Nel 2002 non fecero così.

Su Left in edicola un reportage di Francesco Maselli, che è andato a sentire i comizi di tutti i candidati in diverse città della Francia, ha parlato con gli elettori e con un sondaggista e un esperto di estrema destra. Il voto delle fasce popolari, la trasversalità di Macron e il confronto-scontro su Europa, frontiere e globalizzazione (o mondialismo, come dicono in Francia), le divisioni a sinistra sono i temi di cui racconta Maselli.


La Francia su Left in edicola:

Candidati a caccia di popolo – La Francia vista dai comizi – Il testa a testa fra Le Pen e Macron, la sinistra che va divisa. Il senso diffuso di precarietà e la metà dell’elettorato francese che ancora non ha deciso per chi votare al primo turno il 23 aprile. Viaggio nella “base” dei cinque candidati alla presidenzadi Francesco Maselli

«È troppa la voglia di cacciare la vecchia sinistra». Parla Jean-Yves Camus, esperto di estrema destra e direttore dell’osservatorio sull’estremismo politico alla Fondazione Jean Jauresdi Francesco Maselli

Il reportage dalle città di Francia è sul numero di Left in edicola

 

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