Home Blog Pagina 919

Danzando con i fantasmi del ’77

Maiano 1977 manifestazione femminista per l'aborto davanti all'Arcivescovado (Milano,1977)

Trentenne, come molti della sua generazione, sa che il lavoro a tempo indeterminato è un miraggio. Si consola pensando che almeno fa ciò che gli piace. Rimandando altri pensieri. Finché un giorno mentre fa jogging, si sente male, ha una crisi di panico. Che lo costringe a guardarsi dentro, scoprendo quel vuoto che per anni non aveva voluto vedere. Comincia così un’inchiesta su se stesso, ma anche generazionale, in un confronto serrato con la generazione che l’ha preceduto, quella dei genitori, che hanno fatto il 1977.
Tommaso ha ancora nelle ossa l’umidità di quella giornata e il nervosismo del padre che, in fuga verso la Francia, lo consegnava alla zia, sorella della madre, in una Milano grigia e piovosa. Dopo l’attentato nel quartiere Tuscolano di Roma, la pazza corsa verso Nord. Poi oltre frontiera: Parigi, Bordeaux. Ripercorrendo queste tappe, il protagonista de Il senso della lotta (Fandango, candidato al Premio Strega) comincia a dipanare il filo di una doppia ricerca su se stesso e su Michele Musso e Alice Rosato, i suoi genitori, terroristi, ufficialmente morti. Ma non si limita a ricostruire una storia, la passa al vaglio, e interroga corrosivamente tutti i miti di quella stagione in qui la prassi politica passava davanti a tutto come una fede. «Non c’era spazio per una vita interiore». E le belle parole dell’impegno, della lotta di classe, diventavano solo parole. Mentre lo scontro politico diventava lotta armata. P,  Anche di questo ha parlato Nicola Ravera Rafele presentando il suo nuovo romanzo Il senso della lotta a Roma nell’ambito del festival Libri Come all’Auditorium Parco della musica, dialogando con Giancarlo De Cataldo.
Oltre a smascherare certi miti di sinistra del ’68 e del ’77, Ravera Rafele, con questo libro,  mette alla prova nuovi modi di pensare a sinistra, attraverso il suo protagonista. «Anche perché Tommaso è uno che a 38 anni decide di tirare su la testa», dice lo scrittore. «Come generazione siamo stati un po’ bistrattati; siamo quelli “che venivano dopo” e che non avevano granché da dire. Io ho la netta sensazione che non sia poi così vero. Vedo che i miei coetanei si fanno un gran mazzo, vedo una generazione molto seria, concentrata, lavoratrice, che non si fa illusioni». Una generazione che nella seconda metà degli anni Novanata stava  provando a trovare delle parole nuove, di sinistra.« Tutto il percorso fino a Genova andava in quella direzione cercavamo un nostro vocabolario che non fosse la ripetizione di stilemi ideologici degli anni  Settanta. Ma sappiamo cosa è accaduto al G8 di Genova, quello sparo e i pestaggi alla Diaz. Dai cocci della vecchia sinistra sono nati il movimento Occupy Oltreoceano e Podemos in Spagna. Noi siamo ancora a leccarci le ferite. A ripensarci oggi fa impressione –  fa notare lo scrittore – .Il movimento No global diceva alcune cose che si sono rivelate non solo giuste, ma ovvie. Dire “se continuiamo con questa speculazione fra un po’ ci sarà un crollo” non era essere rivoluzionari, ma solo essere persone di buon senso, i fatti lo hanno dimostrato».

 Gli altri 11 candidati al Premio Strega sono:  Teresa Ciabatti, La più amata (Mondadori),   Paolo Cognetti, Le otto montagne (Einaudi),   Marco Ferrante, Gin tonic a occhi chiusi (Giunti), Wanda Marasco, La compagnia delle anime finte (Neri Pozza),   Chiara Marchelli, Le notti blu (Perrone),  Matteo Nucci, È giusto obbedire alla notte (Ponte alle Grazie),  Alberto Rollo, Un’educazione milanese (Manni)   Marco Rossari, Le cento vite di Nemesio (e/o), Vanni Santoni, La stanza profonda (Laterza)

Un’ampia intervista a Ravere Rafele su Left in edicola

Ne parliamo sul numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Tra Bersani e Pisapia. “Un movimento per diversificare l’offerta”

PIERLUIGI BERSANI MIGUEL GOTOR

«C’è vita sulla terra». Ci dice così Miguel Gotor, senatore bersaniano, quando gli chiediamo come si sta, alla fine, fuori dal Pd, finalmente all’aria aperta. Dice che si sta bene. Lui, d’altronde, è uno che questo passo lo avrebbe fatto da tempo, consigliere ascoltatissimo di Pier Luigi Bersani, “guru” della campagna elettorale del 2013. Anche se poi pure lui sapeva bene che bisognava attendere che «si chiarisse il quadro», perché a determinare la rottura del Pd è stata il definitivo superamento del modello bipolare, con il ritorno del vento proporzionale dopo la vittoria del No al referendum costituzionale. Per questo, ad esempio, disciplinato, ha votato tutte le fiducie richieste, nel mentre, dal Jobs act alla Buona scuola.

È uno storico, Gotor – che intervistiamo sul numero di Left, che trovate da sabato 11 marzo in edicola con la copertina dedicata alle fakenews. È esperto di santi, Gotor, che non rinnega l’intuizione del Pd, l’idea di unire, in un unico partito e non solo in una coalizione, pur duratura, popolari e socialisti. Pazienza che questo abbia obbligato la sinistra a fare due volte un compromesso, la prima dentro il partito, la seconda in Parlamento. L’idea era buona. «La vocazione del Pd», ci dice Gotor, semmai, «è stata tradita dalla stagione renziana». Per questo, anzi, lui – con Speranza, Rossi e Bersani – su quell’idea continua a muoversi, ripetendo ogni passo, infatti, che la nascita del Movimento democratici e progressisti – Articolo 1 non è la rinascita di una “cosa rossa”.

Il rapporto col Pd resta, dunque, e l’obiettivo è semmai (condiviso con Pisapia) quello di diversificare l’offerta.

Perché la convinzione di Gotor è che – come leggerete in edicola – «l’Italia ha bisogno come il pane di fare incontrare culture politiche diverse come quella socialista, quella cattolico democratica e cristiano sociale, quella ambientalista, quella di una sinistra più radicale disposta a condividere responsabilità di governo. Per questo motivo è necessario costruire un nuovo centrosinistra che sia aperto anche al civismo e al mondo dell’associazionismo e bisogna continuare a seminare questo campo largo e profondo».

L’intervista integrale a Gotor è uno dei pezzi che trovate sul numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Rignano e non solo, per una marcia nazionale contro la mafia del caporalato

Esterno del' Gran Ghetto', la baraccopoli che si trova nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico, all'interno della quale sono morte due persone di nazionalità africana, probabilmente del Mali, a causa di un incendio di vaste proporzioni che si è sviluppato nella notte, Foggia, 3 Marzo 2017. ANSA/ FRANCO CAUTILLO

Nella Puglia laboratorio del caporalato il male è semplice, autoevidente, riconoscibile, per chi lo sa vedere. Eppure, per alcuni è davvero difficile comprendere che c’è un nesso, un rapporto stretto, tra impresa e caporalato. Un sistema criminale, dentro il quale convergono gli interessi di un pezzo rilevante dell’agricoltura pugliese. Un universo di imprenditori figli di una cultura che disumanizza i rapporti di lavoro assoggettandoli alla logica sempre più feroce del profitto a ogni costo. Anche se il costo è quello della vita dei e delle braccianti. C’è chi sul fenomeno e sui suoi luoghi simbolo – i ghetti come quello di Rignano Garganico (Fg), dove pochi giorni fa sono morti due braccianti arrivati dal Mali – non ha mai smesso di tenere i riflettori accesi. Arrivando anche a ottenere l’approvazione di una legge che ora pare non piacere a una parte dell’imprenditoria agricola italiana, al Sud come al Nord.

Una “contro-reazione” che si manifesta con cortei, nuove violenze e repressione, come raccontano nei loro documentati contributi sul numero di Left in edicola Leonardo Palmisano e Marco Omizzolo, seguiti da una storia di speranza dalla Calabria a firma di Tiziana Barillà.

La mobilitazione contro il caporalato e gli interessi criminali e talvolta mafiosi che lo alimentano, Omizzolo, Palmisano, Giulio Cavalli e Stefano Catone, insieme a tanti altri, hanno lanciato un appello – presto ospitato sul sito di Left per continuare a raccogliere adesioni da tutta Italia – alle forze associative, sindacali, politiche, laiche e religiose, in modo da organizzare insieme una Marcia nazionale contro la mafia del caporalato da realizzare in provincia di Foggia nel mese di aprile.

Ecco, in sintesi, i contenuti del servizio sul caporalato sul numero 10 di Left, in edicola da sabato 11 marzo.

Nella Puglia del caporalato il “male” è semplice
Come si può non capire, facendo un semplice due più due, che se c’è un caporale è perché c’è un’impresa che se ne serve? E come si può non prendere le distanze da un tale sistema, che ha prodotto quest’inverno ben quattro morti in Capitanata?
di Leonardo Palmisano

Protesti? Prima ti meno poi ti licenzio
Da Latina alla Puglia, la reazione alla rivolta di lavoratori, associazioni e istituzioni contro lo sfruttamento spesso è violenta. Mentre in alcune zone del Paese ci sono imprenditori agricoli che addirittura contestano la nuova legge che punisce i caporali
di Marco Omizzolo

Se la “merce” è umana prima o poi si organizza
Dalle tendopoli di Rosarno agli accampamenti di Venosa, i braccianti stranieri hanno intrapreso il cammino della «sindacalizzazione»: «Siamo persone e chiediamo diritti sociali e sindacali», dicono. E sono in migliaia
di Tiziana Barillà

 

I servizi completi sul numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

A Roma il week end del PlanB. La sinistra europea in Campidoglio

epa04927393 Former Greek Finance Minister Yanis Varoufakis (seated, 2-L), French leader of the far left party 'Parti de Gauche' Jean-Luc Melenchon (3-L) and former Chairman of the German party 'The Left' Oskar Lafontaine (4-L) attend a debate on an economical 'Plan B' in Europe during the Fete de l'Humanite at Le Bourget,near Paris, France, 12 September 2015. EPA/ETIENNE LAURENT

Sabato 11 a Roma, al Teatro Brancaccio (dalle 10.30) Giuliano Pisapia – con gli ex Sel come Scotto e Furfaro – organizza “La prima cosa bella”, prima iniziativa romana del suo movimento Campo progressista, con una mano tesa agli scissionisti Pd e una al Pd stesso, che Renzi vinca o no.
Poco distante, invece, in Campidoglio, nella sala della Protomoteca, e poco dopo (dalle 12, ma si continua anche domenica), arriva a Roma il PlanB for the Eu and the Euro zone. Intervengono tra gli altri Stefano Fassina, il francese Jean-Luc Mélenchon, il labourista John McDonnell, Zoe Konstantopoulou, presidente del parlamento greco e Manuel Monereo di Podemos.

Sono diverse sfumature di sinistra, o meglio diverse idee su come si risolve la crisi europea, ci spiega Fassina, quelle che si incontrano in Campidoglio. «C’è chi ancora spera che la soluzione sia puntare alla radicale riscrittura dei trattati e chi, tra cui io, pensa che invece quella strada non sia politicamente praticabile e che si debba superare l’Euro, possibilmente in maniera cooperativa», continua il deputato di Sinistra Italiana e consigliere comunale a Roma. Tutti, comunque, sono convinti che, in occasione del sessantesimo anniversario dei trattati europei, «non ci sia molto da festeggiare».

«L’Euro», è il punto condiviso, per Fassina, «è un sistema economico fondato sulla svalutazione del lavoro e va smontato». Lui ed altri, poi, sono dell’idea che lo si possa fare solo radicalmente: «l’ideale», ci dice, «sarebbe smontarlo attraverso una cooperazione tra chi l’ha scelleratamente costruito. Ma se questo non è possibile si dovrà procedere su singoli negoziati per l’uscita». Sperare in Macron e Schultz, come invece fa Renzi, secondo Fassina è inutile: «Perché quello che stiamo vivendo è il prodotto fisiologico dei trattati europei, non un incidente di percorso. Tant’è che non solo Merkel, ma anche i socialisti tedeschi non hanno intenzione di trasformare la Banca europea in un prestatore di ultima istanza per i governi nazionali».

Lo scenario fa paura? Vi convince chi profila conseguenze nefaste? Fassina risponde così: «Le conseguenze nefaste», dice, «le stiamo già pagando, già vivendo. Nell’Euro zona i Paesi del Sud sono in condizioni drammatiche». «Non si tratta», comunque, «solo di abbandonare l’euro, la moneta unica». Non date retta alle semplificazioni: «L’euro è una costituzione materiale non una moneta. E quello che proponiamo noi, e di cui discuteremo sabato e domenica, è la possibilità invece di recuperare un impianto economico coerente con la nostra costituzione, con standard sociali e ambientali per lo scambio di merci e servizi, limiti alla mobilità dei capitali, ad esempio. Si tratta, per capirci, di poter fare politica industriale senza incorrere in assurde infrazioni e nell’accusa di aiuti di stato».

Benoit Hamon: «Una sinistra troppo liberale fa la fine di Renzi. E l’Europa va cambiata dalla A alla Z»

epa05835158 French Socialist Party (PS), candidate for the 2017 French presidential elections, Benoit Hamon delivers a speech during a political rally as part of his presidential campaign in Marseille, southern France, 07 March 2017. French presidential elections are planned for 23 April and 07 May 2017. EPA/GUILLAUME HORCAJUELO

In una lunga intervista pubblicata ieri, giovedì 9 marzo, da Le Monde, Benoit Hamon è tornato a parlare di Europa.

Nell’intervista, il candidato per le elezioni presidenziali francesi del Partito socialista (Ps) inizia da un presupposto fondamentale: «L’Europa di oggi non funziona e non riesce a neutralizzare la forza dirompente della globalizzazione». Le conseguenze si vedono nell’affermazione di forse nazionaliste un po’ ovunque nel Continente. Non c’è spazio per parole leggere: a causa dell’assenza di meccanismi democratici,  l’austerità è il «marchio di fabbrica» di questa Unione europea.

Ma quali potrebbero essere le soluzioni concrete? Nell’elaborazione del suo programma elettorale, Hamon si è appoggiato al consiglio della star dell’economia, Thomas Piketty. Ed è per questo che il socialista ripropone la soluzione evocata qualche settimana fa dall’autore de “Il Capitale nel secolo XXI”:  per l’Eurozona, «serve un’assemblea democratica rappresentativa delle correnti politiche e non degli interessi nazionali». In altri termini, l’Eurogruppo non può continuare a gestire in modo “tecnocratico” decisioni fondamentali. Il discorso di Hamon  e Piketty per certi veri ricorda molto la posizione di un altro “nemico” della Troika: Yanis Varoufakis, il quale fa da del ripristino della trasparenza istituzionale un suo cavallo di battaglia. Sorpattutto da quando ha lasciato l’incarico governativo, nell’estate del 2015.

L’assemblea immaginata da Piketty e Hamon dovrebbe essere composta da «un massimo di 400 deputati nazionali», in funzione del peso demografico ed economico dei Paesi membri. Inoltre questa Camera dovrebbe essere «integrata da un numero (imprecisato) di eurodeputati del Parlamento europeo».

Hamon ha anche affermato di aver «già inviato il suo progetto al presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker», al Commissario agli affari economici, Pierre Moscovici, e ai «principali partiti politici di sinistra d’Europa». Dunque, anche in Italia il dossier dovrebbe essere già in mano a qualche partito del centro sinistra. Quale? Dalle parole di Hamon non è dato saperlo. Ma allo stesso tempo, il candidato socialista vuole «diminuire la pressione della regola del 3 per cento di Maastricht». In questo caso la soluzione proposta è quella di una «deduzione delle spese per la difesa e per la gestione dei migranti». E, se a questo punto potrebbe sembrare che Hamon alluda a una collaborazione con il partito democratico di Renzi, arriva in realtà una stoccata senza appello: quando la sinistra governa su delle basi troppo liberali, va incontro alla sconfitta: «Lo ha dimostrato in ultimo la sconfitta di Renzi».

Oltre agli aspetti economici e istituzionali, Hamon punta sulla sicurezza e sul rinnovamento energetico: spinge per un’Unione europea della difesa in cui la Francia – visto e considerato il suo arsenale atomico – «giochi un ruolo primario» e per un piano di investimenti “verde” di mille miliardi di euro. Il piano Juncker, sarebbe infatti «troppo debole» per stimolare la transizione energetica.

E quando i giornalisti di Le Monde gli ricordano che tra il dire e il fare “c’è la Germania”, Hamon risponde che ha già fissato un appuntamento con Martin Schulz a Berlino per fine marzo. Il socialista si dice sicuro che Schulz voglia stringere un’alleanza con il partito di sinistra, Die Linke. Poi specifica che nel il popolo tedesco ha preso atto della criticità della situazione europea: «Non siamo più nel 2012». Quindi, anche a Berlino, ci sarebbe «voglia di rilanciare il progetto europeo». Le differenze rispetto a Mélenchon e Macron? Il primo «mette l’asticella troppo in alto» quando parla di un’uscita dall’Ue. Il secondo, rappresenterebbe “semplicemente” «la continuazione dell’Europa che conosciamo già».

Leggi anche:

Regno Unito – EuractivTheresa May invita Tajani a Londra per parlare della Brexit

Europa – Euractiv – Il Consiglio rielegge Donald Tusk. La Polonia vota contro. E ora, il summit di Roma rischia di finire senza una dichiarazione congiunta

Scozia – The GuardianIl Primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon: «Il referendum sull’indipendenza si potrebbe tenere alla fine del 2018»

Su Left in edicola un reportage dai comizi dei candidati delle presidenziali francesi 

 

SOMMARIO ACQUISTA

Flat tax e reddito di inclusione. Deboli con i super-ricchi e debolissimi con i poveri

epa05764001 A homeless person sits on the footpath after Victoria police evicted many from a makeshift camp outside Flinders St station in Melbourne, Victoria, Australia, 01 February 2017. According to reports, at least five people were arrested after protesters confronted the police. EPA/JOE CASTRO AUSTRALIA AND NEW ZEALAND OUT

Prova a spillare una mancia a qualche riccone, fa “beneficenza” ad alcuni poveri, e intanto taglia i fondi per il sociale. Così, in continuità con il governo Renzi da cui queste misure sono ereditate, anche la gestione Gentiloni di assicurare diritti e rimuovere disuguaglianze non discute, mentre propone ai Paperoni stranieri di stabilire la residenza in Italia in cambio di una tassazione definita “flat” e celebra come “misura universale” una forma parziale di sostegno al 30% degli italiani che vivono in povertà assoluta, come la definisce l’Istat.

La tassa fissa per i Paperoni
Ma mettiamo in fila i fatti. Per attrarre in Italia i milionari stranieri presumibilmente in fuga dal Regno Unito dopo Brexit, gli si propone di prendere la residenza da noi facendogli pagare per 15 anni non una aliquota unica in base al loro reddito (in questo caso si tratterebbe di vera flat tax) ma una somma prestabilita e uguale per tutti a prescindere da quanto siano ricchi e da quanto guadagnino. Versando 100mila euro l’anno sui redditi prodotti all’estero (su quelli prodotti in Italia si applica invece la tassazione “ordinaria”) possono avere la residenza e auspicabilmente fare un po’ di shopping a Borsa Milano e nel made in Italy. Viene da domandarsi, dunque, cosa ne pensi non tanto il contribuente medio tassato al 27% ma piuttosto il multimilionario italiano che magari vede arrivare come vicino di casa un imprenditore straniero concorrente, il quale per le attività all’estero paga soltanto 100mila euro mentre lui, il collega italiano con attività nel nostro Paese, paga l’aliquota massima del 43% prevista per chi ha redditi superiori ai 75mila euro. A parte i dubbi di costituzionalità e il criterio di progressività che ne esce quantomeno ammaccato, basta considerare l’entità degli introiti attesi per comprendere le ricadute risibili della misura: le stime più ottimistiche parlano di 100 milioni di euro ma probabilmente non si andrà oltre i 70, mentre ad esempio se si facessero pagare le tasse ai big della Rete e dell’economia digitale parleremmo di decine di miliardi in arrivo.

Il reddito d’inclusione
Fino a qui, il nostro consueto essere deboli con i forti. Vediamo ora cosa mettiamo in campo con e per i deboli. Partiamo dall’ultima misura approvata ieri al Senato e annunciata con rullo di tamburi, il cosiddetto Rei, reddito di inclusione legato al tanto atteso disegno di legge delega di contrasto alla povertà (ora mancano i decreti attuativi, che dovrebbero consentire alla misura di essere operativa entro settembre). Il Rei viene riconosciuto in base all’Isee e i beneficiari aderiscono a un progetto individualizzato composto da sostegno economico, erogato attraverso la social card, e servizi alla persona in cambio dell’impegno alla “buona condotta” e ad accettare eventuali proposte di lavoro che dovessero giungere dai centri per l’impiego.
Per quest’anno i fondi stanziati, e cioè un miliardo di euro più 600 milioni legati al riordino di misure già esistenti e presunte “risorse europee” per 400 milioni evocate dal ministro Poletti, riescono ad assicurare il sostegno – da 250 a 480 euro ogni mese – a meno di un terzo dei 4,6 milioni di persone che vivono in povertà assoluta, circa 400mila famiglie (senza voler considerare gli 8,3 milioni di persone in povertà relativa). Intorno ai 2 milioni anche lo stanziamento per il 2018, quando dovrebbe partire una progressiva estensione del Rei. Il decreto attuativo atteso a giorni stabilirà qual è la soglia di reddito che dà diritto al contributo, ma è evidente che questi 1,77 milioni di nostri concittadini e di stranieri residenti da un certo periodo (ancora non definito: Poletti parla di “almeno 5 anni”), da un lato riceveranno l’assegno e dall’altro vedranno ridotte molte prestazioni alle quali prima avevano acceso gratuitamente o in forma agevolata, e questi tagli varranno anche per gli altri 2,9 milioni di persone in povertà assoluta che però non hanno diritto all’assegno mensile.

I tagli al sociale
Di cosa stiamo parlando? Dei 213 milioni tagliati al Fondo per le politiche sociali, che perde due terzi della dotazione passando da 313 a 99,7 milioni: un colpo d’ascia (siamo al 5% della dotazione del 2004) che fa presagire, ad esempio, tagli all’assistenza domiciliare, agli asili nido e ai centri antiviolenza. Sono 50 invece i milioni di euro decurtati al Fondo per le non autosufficienze: disabili gravissimi e anziani indigenti vedranno ridotti i servizi erogati. Se il governo non interviene, il fondo ora conterà sui 450 milioni fissati in legge di Bilancio, perché la Conferenza Stato-Regioni ha fatto saltare l’ulteriore stanziamento di 50 milioni previsto il mese scorso con il decreto legge sul Sud.
Insomma, come Left ha più volte ribadito, siamo ancora lontani da forme di reddito minimo: il Rei è una necessaria ma insufficiente misura di sostegno alle fasce più povere della popolazione, e si fonda sulla estensione di uno strumento preesistente, il cosiddetto Sia, il sostegno di inclusione attiva erogato attraverso la carta acquisti prepagata eredità della social card di Tremonti. Nulla di universale e nulla di particolarmente innovativo rispetto all’impegno ad accettare proposte di lavoro che magari arrivassero. Ancora una volta un approccio che – com’è accaduto con i vari bonus e i condoni renziani – piuttosto che sul riconoscimento di diritti di base per tutti e sulla giustizia redistributiva, è fondato sulle strizzate d’occhio in tema di tasse e sulla “carità” ai più poveri, e nemmeno a tutti. Ancora una volta, una politica debole coi super-ricchi e debolissima, quasi inconsistente con i poveri.

L’unità solo professata e l’alibi della complessità

Un momento dell'evento 'E' ora di futuro, facciamoci riconquistare dalla buona politica', incontro con Giuliano Pisapia che lancia il nuovo progetto politico 'Campo Progressista', presso La Fabbrica delle E, Torino, 4 marzo 2017. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Non so se ne rendano conto, là a sinistra di quel che resta del Partito Democratico, di come appaia qui fuori il can can del movimento apparente di queste ultime settimane. Non so soprattutto se qualche sprovveduto possa sinceramente sperare che il Paese reale, quello che prende di rincorsa la coincidenza pendolare ogni mattina, abbia il tempo e la voglia di studiare ogni posizionamento tattico di ciò che avviene nel quadro politico del Paese.

In un’Italia storicamente bipolare scissa tra i filo governativi e quegli altri (e, ultimamente con l’aggiunta di quelli “contro tutti”, poi volendo essere ottimisti ancora tra destra e sinistra) il frastagliamento partitico e parlamentare ingenera una confusione pericolosamente funzionale. A sinistra, per esempio, i fuoriusciti da PD (sotto l’immediata sigla di “Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista”) ci tengono a dirci che sono contrari alle politiche renziane (che hanno tutti votato), di ritenere il PD un partito irredimibile (altrimenti ovviamente se la sarebbero giocata al congresso, verrebbe da dire) ma di volere sostenere il governo Gentiloni (che di Renzi è la naturale prosecuzione) dimenticandosi di dirci esattamente cosa farebbero loro e come. E, che a loro piaccia o no, la sensazione è che si siano seduti in un angolo in attesa della caduta dell’ex presidente del consiglio in posizione di concorso esterno congressoso.

Ieri Giuliano Pisapia (capo putativo di un movimento putativo come ‘Campo Progressista’) ci ha tenuto a dirci ancora una volta che il suo non sarà un partito (secondo la solita formula dell’antipolitica ma in salsa raffinata e borghese) ma che la sua missione sarà “federare”. Chi con chi, oltre a se stesso, rimane un mistero. Sappiamo però che all’unica domanda finalmente politica (“avrebbe votato il bonus degli 80 euro”) l’ex sindaco di Milano ha risposto con un salomonico “l’avrei votato ma non l’avrei proposto”: che significa più o meno che finché non sarà incoronato re probabilmente non potremo sapere la sua idea di Paese.

Con l’alibi della complessità si moltiplicano i cortili che professano unità dimenticandosi di dirci con chi è per fare cosa. Così la notizia di ieri dell nuovo gruppo parlamentare che tiene insieme Sinistra Italiana e Possibile fa apparire una mossa di buonsenso (praticare unità, oltre che dirla) qualcosa di straordinario.

Buon venerdì.

Se la politica è costruita sulle balle (in Italia come negli Usa)

TV STILL -- DO NOT PURGE -- House of Cards - Season 3 Key Art, Netflix

Il punto non è che fanno promesse che non possono mantenere o che, approfittando crescente debolezza del sistema d’informazione, i politici citino solo i dati a loro favorevoli oppure organizzino conferenze stampa che sono dei piccoli show. Quello, volendo, è il gioco delle parti tra politica e giornalismo.

Quello delle fake news, invece – quello a cui dedichiamo la prossima copertina di Left – in edicola, è un altro livello. Lì il politico crea o diffonde notizie false. È un vero e proprio avvelenatore di pozzi, a volte consapevole, altre no. Sempre colpevole, però, complice nel trascinare l’opinione pubblica lì dove spesso la portano le bufale. Verso la diffidenza, l’egoismo, il disprezzo. La paura.

Su immigrazione, Europa, economia e lavoro. Persino scienza e medicina. Qui da noi il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e la destra sovranista di Matteo Salvini sono ovviamente i campioni. Ma, tra strategia ed errore, in molti ci cascano. Un numero inventato, un fatto “alternativo” (come insegna Trump) fa comodo ai più. Anche a Matteo Renzi, ovviamente, che pure, appena di fake news si è cominciato a ciarlare su twitter, ha fatto suo il tema, evidentemente trendy.

Dei numeri del jobs act, vi raccontiamo in edicola, della finta scheda elettorale per il Senato post riforma, quella che per Renzi doveva dimostrare che i senatori, con la sua riforma, sarebbero stati eletti. Una balla. Di Grillo che soffia sul vento anti vaccini, perché casta e nemici sono pure gli scienziati e nessuno è immune, neanche i ricercatori dell’Istituto nazionale di geologia e vulcanologia che abbasserebbero la classificazione dei terremoti (!) per interessi oscuri.

Bufala è che in Italia la pubblica amministrazione costi uno sproposito e sia un carrozzone (lo dice sempre Berlusconi, lo ripetono in molti: è un falso, spendiamo meno e abbiamo meno dipendenti pubblici di molti paesi Ue). Poi le bufale sui migranti, quelle che non si contano più. La politica italiana, insomma, ha i suoi bei ballisti. Ma (fortunatamente?) non siamo soli.


Due settimane fa il presidente Trump ha accusato Obama di averlo fatto spiare durante la campagna elettorale. Una notizia falsa senza tema di smentita. Obbiettivo raggiunto dal presidente repubblicano non era quello di mettere sotto accusa il suo predecessore – se non tra i suoi seguaci, metà dei quali già pensa sia un musulmano non nato in America – ma di far spostare l’attenzione dei media che da due giorni titolavano sulle bugie raccontate sui rapporti con la Russia dal suo Segretario alla Giustizia. Un esempio come un altro di notizie false utilizzate come strumento di battaglia politica.

Non è la prima volta, la storia è piena di episodi in cui l’uso di notizie false o non verificate ha determinato crisi, prodotto guerre: il genocidio del Ruanda comincia anche perché una emittente radiofonica, Radio Télévision Libre des Mille Collines, diffonde notizie false sui Tutsi. La radio è pensate per parlare agli strati bassi della popolazione e diffonde un messaggio di odio. Da anni, invece, il pubblico dell’America conservatrice si alimenta di teorie del complotto ascoltando i programmi radio e navigando sui siti degli speaker della talk radio conservatrice. Oggi, il rappresentante più abile e moderno di quel mondo parallelo dei media è lo stratega della Casa Bianca.

Il numero di Left in edicola da sabato 11 marzo  si occupa dell’uso politico delle fakenews e poi di fact checking, cercando di capire come e perché le notizie false stiano diventando uno strumento di battaglia politica e persino geopolitica. Ci occupiamo della crisi di credibilità dei media che è reale ma viene alimentata, ad esempio dalla destra xenofoba francese o dal presidente Trump, che considera i media mainstram il suo primo e più pericoloso nemico. Poi raccontiamo anche come la politica si stia abituando ad un uso delle notizie distorto e manipolato come strumento di propaganda.  Ci occupiamo anche di cosa sia, perché serva e come funzioni il fact checking e raccontiamo la storia della macchina di propaganda russa.


Le Fakenews e la fakepolitica su Left in edicola:

Se la politica è costruita sulle balle di Alessandro Lanni

Dalle microspie di Obama all’invasione islamica: notizie clamorosamente false usate come strumento per giustificare le proprie scelte, consolidare il consenso e alimentare la sfiducia. Un gioco che rischia di travolgere politica e media in crisi d’identità

Fakebusters, vademecum  per cacciatori di bufale di Gabriela Jacomella 

Dentro e fuori le redazioni, verificano e controllano le sparate dei politici, le false notizie scientifiche e le notizie strumentalizzate per fini propagandistici. Guida al fact checking un mestiere non nuovo, oggi messo in discussione ma indispensabile

A Mosca si dice feik, in Europa si dice Mosca di Michela AG Iaccarino

Post, semi, pseudo verità, disinformazione, controinformazione sono racchiuse in un’arte che da sempre alla Moscova si chiama disinformazija, sottogenere della maschirovka, camuffamento, di cui gli uomini nelle auto nere non hanno mai nascosto d’essere maestri

Anche noi abbiamo  i nostri incalliti ballisti di Tiziana Barillà e Luca Sappino

Grillo predilige la scienza e la salute, dai vaccini ai terremoti. Renzi l’economia e il lavoro. Salvini, ovviamente, gli immigrati e l’euro. Ma di fake news in Italia ne girano parecchie. Alcune pericolose, altre solo incredibili

Balle&politica. Ne parliamo sul numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Idee dentro le parole. A questo serve Left

A che serve Left? Ci sono momenti in cui me lo chiedo. Dopo undici anni di intenso e a tratti disperato lavoro, in questi giorni di marzo (che non scivolano via) la domanda si ripropone e si propone. Fake politics abbiamo scritto, per raccontarvi del livello raggiunto da una politica falsa, che racconta il falso. Anzi che si “edifica” sul falso. Neanche più sull’interpretazione della realtà, lontana – come più volte abbiamo scritto – dalla verità delle cose umane. Sul falso. Battaglia persa allora?

A che serve ancora Left? «Occorre indubbiamente onestà», lo abbiamo scritto l’ultima volta nel 2015. Serve a questo Left? A dispensare pillole di onestà culturale e anche politica? Forse la risposta è buona.

Ma è sufficiente? Ci aspettano mesi difficili, sballottati tra insopportabili primarie Pd e sinistre frantumate in mille rivoli che rischiano di essere invisibili. Noi dobbiamo continuare a elaborare idee e onestà? Dobbiamo cercare di trasmettere ancora, pensavo, quell’anelito di ricerca di una propria onestà, intesa come coerenza irrinunciabile? Serve a questo Left?

Serve a mostrare che non è e non deve essere come ce la raccontano i più? Perché in mezzo ai Putin, ai Trump, ai Salvini e alle Le Pen, a tutti gli urlanti del mondo, i nostri fake politics, ci sono i Sanders e gli Hamon. Però perdono, ci diranno. Per ora. Ma sono una minoranza, insisteranno. Forse, perché in verità ce ne sono un sacco, siamo un sacco. Una marea di donne in questi giorni ha manifestato e una marea di uomini in questi stessi giorni ha lavorato anche per loro. E una marea di giovani ancora una volta «ha deciso di non essere più spettatore», come ha dichiarato Benoît Hamon a Riccardo Iacona, e lo ha votato in massa benché parlasse di «sinistra».

Allora forse è bene raccontare ancora che in mezzo alle balle di Renzi, Salvini e Grillo, dal Jobs act alle invasioni, ci sono un sacco di verità belle. Per esempio c’è chi immagina un ministero del Tempo libero per «liberare le persone dal tempo di lavoro», per darne ad altri e per liberare la persona. «Perché occorre liberare del tempo per noi e perché vedrete che la società del tempo libero creerà posti di lavoro, perché non c’è crescita economica senza cultura». Parole? Belle parole che hanno dietro idee. Per esempio che il tempo libero è cultura, che la persona si realizza nel tempo lavoro e in quello per sé, che è possibile una transizione ecologica invece di inseguire solo logiche contabili, e che questo lo possa fare solo la sinistra (sempre Hamon, scusatemi!). Perché, come diceva Mitterand scherzando, «i centristi non sono né di sinistra né di sinistra».

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA