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Possibile e Sinistra Italiana. Dopo i gruppi, la lista unitaria

C’è da dire che l’unione serve anche a rimediare alla scissione che ha più che dimezzato il gruppo di Sinistra italiana, con l’ex capogruppo Scotto e altri colleghi andati incontro ai bersaniani usciti dal Pd. Che quattro deputati di Possibile lascino il gruppo misto e vadano ad allargare quello di Sinistra Italiana (diventato Sinistra Italiana e Possibile), è però qualcosa in più di un’unione di convenienza, che fa i conti con i regolamenti parlamentari. C’è un percorso politico dietro, un percorso che vi abbiamo già raccontato su Left, anticipandovi la scelta dei gruppi, e che porterà a una sola lista alle prossime elezioni.

Lo dicono ormai da tempo, d’altronde, Nicola Fratoianni (appena eletto segretario di Sinistra Italiana) e lo stesso Civati, che da mesi ha assunto per sé il ruolo di collante. Il primo cita il modello di Podemos, per spiegare che l’unione si può fare anche senza esser ossessionati dall’idea di fondare un solo partito: «Podemos governa Madrid e Barcellona con delle coalizioni sociali, dei progetti di cui Podemos è solo un pezzo», dice. Sorvolando sul fatto che entrambi pensano alla loro formazione come il centro del progetto, lo stesso pensa Civati, con il suo Possibile che ha approvato con il voto del 92,77 per cento degli iscritti l’unione dei gruppi perché, scrivono in una nota, lo si può fare in autonomia. E quella dei gruppi, «Pur mantenendo l’autonomia dei rispettivi partiti», è «una questione di coerenza prima ancora che di scelta, di razionalizzazione prima ancora di unità».

La posizione, ancora – per spostarsi fuori dal parlamento – è la stessa di Rifondazione comunista di Paolo Ferrero e Eleonora Forenza, l’unica europarlamentare eletta con la lista Tsipras di cui ancora si hanno notizie. Ferrero – che da aprile non sarà più segretario – si spende da anni per l’idea della federazione. Per entusiasmarsi, certo, bisogna un po’ accontentarsi, forse, sicuramente evitare di pensare ai fallimentari precedenti (la stessa lista Tsipras, ma anche l’Arcobaleno), e bisogna per un attimo non pensare che l’azione di Bersani e Pisapia rischia di toglier acqua in cui nuotare. Ma l’idea sarebbe adesso quella di render il tutto più partecipato e stabilire delle pratiche comuni che tengano tutti stretti non solo in funzione di una soglia di sbarramento.

La vittoria di Le Pen sarebbe la fine dell’Unione europea?

epa05829502 Leader of France's far-right Front National political party and candidate for the 2017 French presidential elections, Marine Le Pen delivers a speech at a presidential campaign rally in Rignac, Southern France, 04 March 2017. French presidential elections are planned for 23 April and 07 May 2017. EPA/GUILLAUME HORCAJUELO

Il Commissario europeo agli affari economici, Pierre Moscovici, non ha dubbi: «La vittoria di Marine Le Pen alle prossime elezioni presidenziali francesi implicherebbe la fine dell’Unione europea come la conosciamo oggi». Lo ha affermato ai microfoni di Die Zeit.

Moscovici ha specificato che Bruxelles non ha «un piano B» per affrontare uno scenario “Le Pen all’Eliseo” ed è bene che non lo preveda. L’unica opzione possibile è quella di «una sconfitta del Front National».

Perché Moscovici è così drastico? Marine Le Pen ha più volte ribadito di voler uscire dall’Unione monetaria europea, se non del tutto dall’Ue. Ma Il Commissario ha anche attaccato Donald Trump e la nuova presidenza Usa: «lavorano per dividere i nostri interessi comuni».

Nel frattempo, le istituzioni europee cercano di  trovare risposte al populismo. Martedì una rappresentanza di sindaci di città europee ed eurodeputati si sono incontrati per definire proposte concrete. Il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, ha affermato che «le politiche di sviluppo per le aree rurali rappresentano la chiave per sconfiggere il populismo».

Se la classe politica europea sembra avere le idee chiare su quale sia il “nemico” numero uno, non si può dire lo stesso per quanto riguarda l’identificazione degli scenari futuri dell’Unione.

Dopo che Jean Claude Juncker ha presentato una bozza di Libro bianco sul futuro dell’Ue settimana scorsa, i capi di governo di Francia, Germania, Italia e Spagna si sono incontrati a Versailles per consolidare lo scenario di un’Europa a più velocità. Anche l’ex Presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, parlando a nome del gruppo europeo dei Popolari ha appoggiato l’idea. Allo stesso tempo però, Donald Tusk, il Presidente del Consiglio in carica, si è dimostrato scettico a riguardo. Infine, fonti ufficiali citate da EuObserer avrebbero detto che le dichiarazioni di Juncker, rappresenterebbero «un monito», più tosto che un «obiettivo concreto».

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Lo sciopero delle donne che i grandi giornali non hanno visto

Un momento al Colosseo della manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne "Non una di Meno", Roma, 26 novembre 2016. ANSA/ ANGELO CARCONI

Siamo alieni noi di Left o lo sono tutti gli altri? Se andate in edicola adesso, fino a venerdì 10, trovate un numero della nostra rivista con l’intera copertina dedicata allo sciopero globale delle donne di ieri. #LottoMarzo lo abbiamo titolato. E ci è sembrato logico oltre che giusto: perché il fatto che milioni di donne decidano di scioperare in tutto il mondo è quantomeno un evento politicamente straordinario, tanto più perché la protesta è spontanea: in tanti angoli del mondo si è protestato e discusso senza che un’organizzazione tradizionale le aiutasse a farlo – anzi, organizzazioni come la Cgil in Italia si sono guardate bene dal farlo.

Che obiettivo aveva questo sciopero? La partecipazione in piazza, l’adesione nei luoghi di lavoro e di cura. A giudicare dalla realtà, dalle immagini e dai dati, è dunque uno sciopero riuscito. Decisamente. Le piazze d’Italia si sono riempite, da Roma a Palermo, da Bologna a Bari, da Napoli a Venezia, fino al cantiere di Chiomonte in Val Susa. E si sono colorate di fucsia e nero anche altre piazze del mondo. Piazze impressionanti come quella di Madrid, emozionanti come quella di Istanbul. E mentre da noi era notte, in America Latina una marea di donne riempiva le strade delle grandi città e dei villaggi indigeni. Così anche negli Stati Uniti. #InternationalStrike #ParoInternacional: significa sciopero internazionale, globale.

Ma se qualcuno ieri avesse dormito tutto il giorno e questa mattina avesse guardato le prime pagine dei giornali italiani per sapere cos’è successo, non avrebbe saputo nulla. L’8 marzo non era ancora finito, infatti, che i principali giornali italiani avevano già deciso di archiviarlo. Niente titoloni, niente foto in prima pagina (tranne il manifesto e l’Unità), nemmeno quelle tanto caratteristiche che fanno un po’ carrozzone, folkore. Niente. Abbiamo letto solo un po’ di “polemichetta” della vigilia: favorevoli o contrari allo sciopero delle donne? Crea troppo disagio o no? Poi, più niente. Come se nessuno avesse paralizzato una città come Roma per chiedere libero aborto e reddito di autodeterminazione, dignità, parità, vita; per rivendicare che il femminicidio è il caso estremo, ma che la violenza non è un raptus ma un sistema che discrimina, economico e politico innanzitutto.

«Se le nostre vite non valgono, allora noi scioperiamo», hanno scritto in mille lingue su mille cartelli. Tra quelli che sfilavano a Roma ce n’era uno: “Attitudine ribelle”, che vuol dire anche scrivere quello che gli altri non vogliono vedere. Ma sui media non li avete visti. Ed è allora perfetta la sequenza con la nostra prossima copertina, dedicata proprio a questo, alla politica che si edifica sulle bugie. L’abbiamo chiamata #FakePolitics – come va di moda adesso – quella pratica che costruisce realtà parallele e ci sguazza dentro. Tra “supercazzole” e “gomme da cancellare”, in pugno a media incapaci di leggere la realtà, figuriamoci di scriverla.

Così il governo vuole disinnescare i referendum sul lavoro

Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, durante la conferenza stampa per presentare l'intervento di politica attiva per la ricollocazione dei 1666 lavoratori in esubero della sede di Roma di Almaviva, presso il ministero del Lavoro a Roma, 16 febbraio 2017. ANSA/GIORGIO ONORATI

«Dobbiamo dire al governo e alla maggioranza correggere solo quello che si vuole far passare per un errore di applicazione sarebbe una toppa peggiore del buco. Bisogna dire di no a un’arroganza che sul mercato del lavoro ha distrutto diritti, relazioni, rappresentanza e contratti», scrive Giorgio Airaudo, deputato di Sinistra italiana, per una vita sindacalista della Fiom, sul prossimo numero di Left, da sabato in edicola. «Il governo Gentiloni», continua Airaudo, che su Left ci aiuta a fare il punto su tutte le proposte di modifica presentate alla Camera in tema di voucher, «prova con ogni evidenza a ridimensionare e svuotare di significato il referendum, ma non credo sia possibile cancellarlo. Si tratta di un quesito radicale e definitivo. E l’unico modo per evitare lo svolgimento della consultazione sarebbe la cancellazione della legge».

Risponde così, Airaudo, anche alle voci che vorrebbero il governo pronto a intervenire con un decreto, più rapido e capace di svuotare – se non cancellare – di forza politica la campagna dei referendari. Eppure, se il punto di caduta della vicenda voucher fosse la proposta Damiano, difficilmente si potrebbe parlare di una sconfitta. Certo, il governo – sul decreto non c’è ancora l’intesa, comunque – eviterebbe di sottoporsi a un No popolare, ma i buoni lavoro tornerebbero a una dimensione ragionevole, consentiti solo per i lavoretti domestici e per retribuire – così propone Cesare Damiano, presidente Pd della commissione lavoro – pensionati e studenti che prestano braccia e menti per la vendemmia e i lavori stagionali. E sarebbe sicuramente un merito (anche) della Cgil, che ha raccolto le firme: un merito non da poco.

Più probabile in effetti è però che il punto di caduta sia più simile a quanto proposto proprio in commissione alla Camera Patrizia Maestri, la deputata a cui è toccato il compito di cercare una sintesi parlamentare. Maestri ha proposto un testo che estenderebbe i voucher, rispetto alla proposta Damiano, anche alle imprese con un solo dipendente – che in Italia sono moltissime, oltre due milioni e mezzo. Il loro sarebbe però un voucher più consistente, di 15 euro e non di dieci, e avrebbero un tetto massimo di 5mila euro all’anno. Il lavoratore, dallo stesso committente, potrebbe ricevere fino a duemila euro. Il referendum così resterebbe – lo dicono in queste ore dalla Cgil. Ma depotenziato? E soprattutto: se cala la passione sul quesito dei voucher, cosa succede a quello già più complesso degli appalti?

Tutte domande che a sinistra ci si pone. Se la pone anche un professore come Michele Tiraboschi secondo cui si vuole evidentemente «disinnescare una miccia» visto che il referendum «potrebbe esser visto come una bocciatura del jobs act». Domande a cui si aggiunge l’incognita sulla data del voto. Sinistra Italiana e però anche l’ex minoranza dem del Movimento democratico e progressista, stanno chiedendo che il governo proceda alla convocazione. Si guarda dunque al prossimo consiglio dei ministri. Pronti a protestare se il governo non dovesse accorparlo alle amministrative.

Licenziato dopo un trapianto: bastardi al lavoro

Non è tanto la notizia a provocare la pelle d’oca quanto i commenti: sull’altare della produttività (presunta, tra l’altro, poiché non c’è progresso senza dignità) questo Paese sta scivolando in una patetica deriva di affezione e mitizzazione per i bastardi. E noi chissà se ce ne stiamo accorgendo.

I fatti: Antonio Forchione ha 55 anni e fa l’operaio alla Oerlikon Graziano, un’azienda metalmeccanica di Rivoli (Torino) con 700 dipendenti nella sede piemontese e ben 1500 in tutta Italia. Attenzione: la Oerlikon Graziano era già entrata nelle cronache (quelle melmose) per la “pause collettive” di nove minuti che concede ai propri dipendenti che avevano provocato già un certo disgusto. Ma torniamo a noi: Antonio qualche tempo fa si ritrova con in mano una brutta cartella clinica che gli racconta di un tumore dentro il suo fegato e pochi mesi di vita.

Per fortuna un trapianto riesce ad avere un insperato successo e a gennaio, dopo sei mesi di “malattia”, Antonio ha potuto rientrare in fabbrica. Gli chiedono di usare tutte le ferie arretrate. Accetta. Sa, Antonio, che non potrà rientrare nella sua posizione lavorativa abituale ed è pronto a un demansionamento pur di arrivare alla pensione. Del resto riciclarsi per tornare utili è l’unica strada per molti lavoratori della sua generazioni. L’azienda invece lo licenzia: “inabile al lavoro” c’è scritto nel suo foglio di via.

Inabile al lavoro oggi significa irrimediabilmente inutile. Non ci sono mediazioni. La dignità dell’uomo è tutta nella sua realizzazione. Anche professionale. Così Antonio oggi è ufficialmente “malato”, colpevole di essere guarito. Non c’è posto, tra mille e cinquecento persone, per un trapiantato. Che schifo.

Del resto un giorno ci interrogheremo sul quando abbiamo deciso che la cattiveria, la furbizia e l’essere bastardi con i fragili siano le caratteristiche essenziali per essere buoni imprenditori. Andremo a vedere come sia successa una barbarie del genere e come sia stato possibile che non ci accorgessimo di cadere nella ferocia. Quando abbiamo scelto che l’essere produttivi dipenda dall’essere di sana robusta costituzione, coscientemente servili e banalmente fedeli alla causa senza spirito critico. Ariani dell’imprenditoria. Insomma. In nome della produttività.

Buon giovedì.

Ronchey: “Un giardino Ipazia nella città della Chiesa che fece santo il suo assassino”

Rachel Weisz - Ipazia, nel film Agorà

A distanza di 15 secoli dal suo barbaro assassinio per mano di fondamentalisti religiosi che la fecero letteralmente a pezzi, cavandole gli occhi, Ipazia ha un riconoscimento a Roma. Nella città della Chiesa le viene intitolato un giardino, in viale Giorgio Morandi 69, non lontano dalla chiesa di San Cirillo, il vescovo che ordinò l’assassinio della filosofa neoplatonica, divenuta simbolo del libero pensiero e della laicità. A lei la bizantinista e filologa Silvia Ronchey ha dedicato qualche anno fa il libro Ipazia. La vera storia, che ha avuto il grande merito di sgombrare il campo da molte fantasticherie che sono circolate sul conto di questa donna straordinaria insegnava e teneva lezioni pubblicamente ad Alessandria di Egitto .Filosofa, matematica e astronoma, docente nell’Accademia platonica,visse tra il 370 e il 415 d.C.

Se la data della sua nascita non è certa, lo è invece quella sua morte, quando fu  massacrata, al culmine di un crescendo di scontri religiosi (è del 391 la distruzione del Serapeo), dopo che  l’editto di Costantino del  313 e poi Teodosio avevano fatto del Cristianesimo la religione di Stato. Con Gabriella Gentile e Valeria Pandinu, Silvia Ronchey oggi dalle 15,30  a Tor Sapienza parlerà di Ipazia inaugurando il giardino che porta il nome della filosofa, una targa che ha un significato simbolico importante, frutto del lungo lavoro collettivo di una serie di associazioni riunite nel Comitato Ipazia per la libertà di pensiero  ( fra le quali Uaar Roma, Anpi Roma, Ipaziaimmaginepensiero onlus).

Professoressa Ronchey, che sia inaugurato un giardino Ipazia nella città del papa che santificò il vescovo e assassino Cirillo, è quanto meno una bella notizia, non crede?
Sì, per altro la storia è molto” curiosa”: Cirillo è sempre rimasto santo del calendario ma alla fine dell’Ottocento Leone XIII lo ha fatto addirittura dottore della Chiesa. Non solo. Ratzinger nel 2007, celebrando Cirillo, lo ha lodato per il suo energico governo della Chiesa, senza spendere una parola su questa gravissima accusa che la storia unanimemente ha emesso su Cirillo a partire dalle fonti della Chiesa contemporanee e senza ombra di dubbio alcuno. Che un assassino sia così celebrato è cosa da inquietare non solo intellettuali cattolici ma anche il mondo della Chiesa.

Lei per prima con una petizione  ha dato il via al percorso che oggi arriva a conclusione.
Ci sono state più petizioni in realtà, questo risultato è il frutto di un lavoro collettivo. Che poi il giardino Ipazia sia  nei pressi della chiesa dedicata a San Cirillo mi pare importante. I fedeli cristiani hanno diritto di sapere anche qualcosa della sua vittima,Ipazia, che Cirillo fece uccidere. Che i fedeli,dopo essere stati a messa nella Chiesa di San Cirillo, portino i bambini al giardino Ipazia, mi pare magnifico. Che Cirillo si rivolti almeno nella tomba!

Tor Sapienza è un quartiere di Roma di cui le cronache hanno parlato per tensionisociali legate al razzismo verso gli immigrati. Nella antica megalopoli Alessandria d’Egitto Ipazia era espressione di una cultura cosmopolita, anche questa coincidenza mi pare interessante.
Ipazia era la tutrice della pluralità, sappiamo che la sua attività di insegnamento comprendeva anche un lavoro politico. Su di lei sono state dette molte cose. Non dobbiamo pensarla come una sorta di Galileo donna, anticipatrici  di chissà quali teorie, come lascia pensare il filme di Amenabar Agorà. Nelle accademie platoniche si insegnavano anche i numeri e la scienza degli astri,  ma lei era principalmente una filosofa. Aveva un ruolo carismatico dovuto alla sua sapienza, all’ascendente che esercitava sugli intellettuali. Era una politica abile, grintosa, aveva libertà di parola  (parresia) era una che diceva lutto in faccia, non si lasciava intimidire in riunioni di tutti uomini.

Dunque Ipazia non era solo una studiosa ma svolgeva un ruolo politico di mediazione, fra gruppi espressione di differenti culture e spesso in conflitto?

Voleva tutelare i vari gruppi che allora si scontravano dalle fasce integraliste che crescevano al loro interno. Perché questo poi è il vero problema. C’erano fasce integraliste cristiane e ebraiche ed è molto probabile che l’assassinio di Ipazia abbia a che fare con la politica da tenere rispetto alla politica di aggressione che il vescovo Cirillo aveva intrapreso con un sanguinosissimo pogrom contro gli ebrei. Ipazia e il prefetto augustale romano che era suo ammiratore e discepolo,  avevano avversato moltissimo la Chiesa. Cirillo era un fondamentalista fanatico e aizzò i monaci parabolani che erano delle vere e proprie miliziani. Una vicenda che il  film di Amenabar rappresenta bene, mostrandoli come talebani, violenti, rozzi. All’epoca c’erano stati molti fatti dii sangue e questo pogrom aveva scatenato un conflitto durissimo, al punto da influenzare le scelte di Teodosio.

Quello di Ipazia fu un assassinio eminentemente politico dunque?

Sì, ne sono profondamente convinta, più difficile farci rientrare altre questioni, che oggi definiremmo femministe o le sue scoperte, come vorrebbero certi romanzi. Nei secoli Ipazia è diventata letteralmente un mito e la sua storia si è arricchita di fatti favolosi leggendari. Fondamentalmente era una filosofa che esercitava in modo coerente un ruolo attivo nella città senza che il suo genere glielo impedisse in quel luoghi e in quel tempo.
La realtà alessandrina era diversa da quella della Grecia del V secolo quando, come dicono gli studi di Eva Cantarella, le donne erano costrette a vivere nascoste nel gineceo e senza diritti?  Purtroppo se di bassa estrazione sociale le donne erano considerate quanto delle capre o altru animali domestici.  Pensiamo per esempio a Socrate e Santippe, l’oggetto di un amore intellettuale non era lei,  semmai  il giovane Alcibiade. Al contempo però  c’era una grande tradizione di insegnamento che coinvolgeva anche le donne delle classi più alte. Studiando Ipazia, Gilles Menage arrivò a stilare un catalogo delle donne filosofe che in certo modo fu l’inizio degli studi di genere. Ci fu un appannaggio femminile a partire dalle scuole pitagoriche, ciniche, platoniche.

il Comitato Ipazia per la libertà di pensiero è costituito da: ANPI Trullo – Magliana Sez. “F.Bartolini”; Ipazia ImmaginePensiero onlus;Donne di Carta; Associazione Filomati-Philomates Associaton; Associazione Toponomastica Femminile; G.A.MA. DI; UDI Monteverde; Circolo UAAR Roma, Civiltà Laica Roma, Adriano Petta.

«Inseguendo gli xenofobi li aiutate». 160 Ong scrivono ai capi di Stato d’Europa

epa05802463 A sailing boat of the NGO ProActiva Open Arms sails the coast of Barcelona at the end of a demonstration organized by entities supporting the campaign 'Casa Nostra, Casa Vostra' (lit: Our Home, Your Home) under the slogan 'Stop excuses. Let's take in now' to call for the reception of migrants and refugees in Barcelona, northeastern Spain, 18 February 2017. EPA/QUIQUE GARCIA

Centosessanta organizzazioni della società civile, associazioni, Ong europee, grandi e piccole, laiche e religiose, hanno scritto una lettera comune ai capi di Stato d’Europa chiedendo rispetto per i diritti di migranti e rifugiati. Da Amnesty a Human Rights Watch, da Mani Tese a Oxfam, passando per Medici senza frontiere, tutte queste organizzazioni fanno un passo comune per segnalare quanto siano preoccupate per un’Europa preoccupata più di tenere lontane le persone, rispedirle in paesi, anche pericolosi, piuttosto che non tenere fede ai propri valori fondativi. Inseguendo i populismi xenofobi, dicono le Ong, si finisce con il farle vincere. Abbiamo tradotto il testo della lettera.

Cari capi di Stato e di governo,

Siamo organizzazioni della società civile, sostenute da centinaia di migliaia di persone in tutta Europa, lavoriamo con chi è meno fortunato per alleviare la povertà, fornire servizi essenziali e difendere i diritti delle persone.

Con il populismo xenofobo in crescita in tutta Europa e nel mondo, rivolgiamo un appello alla leadership affinché sostenga i diritti e i valori che sono stati i principi fondanti dell’Unione europea per 60 anni. Insieme, dobbiamo evitare che legittime preoccupazioni circa la gestione delle migrazioni vengano utilizzate per far deragliare il progetto europeo.

Assistiamo ogni giorno alla solidarietà diffusa verso le persone che fuggono da guerre brutali, persecuzioni, violazioni dei diritti umani, instabilità e povertà estrema. In tutta Europa e nel mondo, vediamo persone accogliere rifugiati e migranti nelle loro comunità, aprire le proprie case e donare denaro, beni di prima necessità e tempo. Proprio questa settimana, molti di loro sono andati fino a Bruxelles per ricordarvi di mantenere l’impegno di trasferire i richiedenti asilo dalla Grecia e “portarli qui”.  (…)

Siamo orgogliosi dell’impegno europeo per il diritto internazionale e dei diritti umani e ci aspettiamo da voi che favoriate e promuoviate questo impegno in casa e all’estero. Eppure, quando grandi masse di persone bisognose sono arrivate nell’estate del 2015, l’Europa non è riuscita a dare una risposta comune e rispondere con umanità, dignità e solidarietà. A oggi, le nazioni europee non sembrano intenzionate a rispondere in linea con i loro obblighi nei confronti del diritto internazionale ed europeo (…)

Vi abbiamo ascoltato ribadire il vostro impegno per i valori europei – il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani. Ma ci aspettiamo di vederli messi in pratica. Troppi leader si sono preoccupati di impedire alla gente di raggiungere l’Europa, con il rischio di ridurre l’accesso alla protezione a chi ne ha più bisogno.

Avete la responsabilità di gestire le migrazioni in modo equo, anche rispondendo alle legittime preoccupazioni dei cittadini. La risposta deve essere fondata sui principi e basata su fatti, non sulla retorica populista. Forza non significa voltare le spalle ai più bisognosi. Forza è trovare una strada in linea con i valori fondativi dell’Europa.

Inoltre, se l’Ue ei suoi Stati membri vogliono rimanere attori internazionali credibili non possono aspettarsi che Paesi come la Turchia, la Giordania e il Libano ospitino milioni di rifugiati, e contemporaneamente spingere i migranti e i rifugiati verso le frontiere dell’Unione, tenere migliaia di persone in condizioni di vita disumane sulle isole greche, o spedirli indietro in zone di guerra come la Libia. Le vostre decisioni hanno come conseguenza la vita e la morte, e se continuate ad abbassare gli standard, i Paesi di tutto il mondo seguiranno il vostro esempio.

Invece di contrastare l’ascesa di xenofobi e populisti, la risposta dell’Europa è troppo spesso quella copiare le loro ricette. Ma un approccio basato su deterrenza e frontiere chiuse non può sostituire una politica efficace di lungo termine. Ci aspettiamo saggezza politica che difenda l’umanità e la dignità e che affronti le paure della gente, invece di alimentarle. Ci aspettiamo, politiche migratorie sostenibili a lungo termine che garantiscano il rispetto dei diritti delle persone. Tra le misure necessarie ci sono: l’espansione di percorsi sicuri e regolari verso l’Europa, visti umanitari o simili, aumento degli spazi di reinsediamento e un migliore accesso ai regimi di ricongiungimento familiare (…) Altri problemi globali quali l’instabilità, la povertà, la disuguaglianza e il cambiamento climatico devono rimanere in cima all’agenda europea.

Voi e i vostri governi dovete valutare l’impatto delle vostre politiche sui diritti umani e le condizioni di vita di donne, uomini e bambini in movimento, così come l’impegno di lunga data dell’Europa di sostenere questi diritti e migliorare la vita delle persone in tutto il mondo.

A ridosso del 60 ° anniversario dell’Unione europea vi chiediamo di mostrare solidarietà e rispetto per l’umanità. Vi chiediamo di essere leader capaci di plasmare il futuro. L’impegno per i valori fondamentali dell’Unione europea non può vacillare. Solo un’Europa che difende i suoi valori può essere offrire leadership forte e credibile in un mondo scosso da populismo crescente e i cosiddetti “fatti alternativi”.

La storia europea è piena di persone che sono state costrette a fuggire dalle loro case a causa di guerre e persecuzioni. Il lavoro che le nazioni europee hanno fatto per sviluppare e proteggere i diritti delle persone nel corso degli ultimi 70 anni non può andare perduto. Solo un’Europa che difende i diritti di tutti, senza eccezione, è l’Europa di cui possiamo andare fieri.

“Ni una menos”. #LottoMarzo nel Messico che conta 7 femminicidi al giorno

CITTÀ DEL MESSICO. Un cartello gigante, con tante linee vuote in cui scrivere i nomi di tutte le donne che non possono esserci, che non possono scioperare altrimenti il giorno dopo verrebbero licenziate. L’opera d’arte dell’artista femminista Lorena Wolfer circola per le strade di Città del Messico e riempie l’assenza attraverso la presenza delle altre. Perché il corpo di una è quello di tutte.

8 marzo 2017. Si marcia per strada, con lo stesso slogan nella testa: se il mio corpo non vi interessa, allora producete senza di me. Tutto è iniziato un anno fa, nell’aprile 2016, con una manifestazione in cui si gridava “Ni una menos” (non una in meno), slogan lanciato dalle donne latinoamericane per il resto del mondo. Si rivendicava la vita, si passava dallo storico slogan: “Ni una mas” (non una in più) ad affermare che “ci vogliamo vive”, puntando sulla presenza dei corpi più che sulle assenze.

Quando i giornalisti stranieri chiedono i dati dei femminicidi in Messico, ripetono sempre due volte la domanda, perché pensano di non aver capito bene. La risposta invece è sempre la stessa: dei 32 Stati della Repubblica federale messicana oggi è Estado de México ad occupare il primo posto per femminicidi con 7.745 vittime dal 2006 al 2014 (il dato è dell’Observatorio Ciudadano Nacional del Feminicidio, Ocnf). Poi i giornalisti cercano il dato generale, ma quello è da aggiornare ogni istante. Nessuno può darlo con certezza, perché ogni giorno vengono uccise in media 7 donne in tutto il Paese, con un indice di impunitá del 90 per cento. Questo vuol dire che  molto probabilmente non conosceremo mai il nome di nessuno degli assassini delle 7 donne che verranno uccise oggi.

Prima che un altro anno passasse, le donne messicane hanno organizzato uno sciopero nazionale e dall’America Latina la mobilitazione si è estesa nel resto del modo. Questa volta saranno i corpi più vulnerabili a lanciare il messaggio politico più importante: se ci uccidete, allora noi paramos, ci fermiamo.

“Un genocidio, una vera e propia guerra non dichiarta contro i nostri stessi corpi”, scrivono nei comunicati, le associazioni e le famiglie delle vittime che da anni lottano da sole per ritrovare i corpi, o solo pochi frammenti, delle loro figlie, sorelle, amiche. Per ritrovare, sì, perché l’indice delle scomparse (desapariciones) in centro america è più alto oggi di quello vissuto durante le dittature degli anni Settanta: solo in Messico dal 2006 ad oggi si contano, tra uomini e donne, più di 26 desaparecidos e desaparecidas. E le madri che non vedono più ritornare le loro figlie a casa, già dopo una settimana lo sanno: ogni desaparición è un femminicidio annunciato. Questo 8 marzo ci sono anche loro, con quei cartelli sempre attaccati al collo, quasi come se le fotografie delle loro figlie scomparse siano diventate un prolungamento dei loro stessi corpi.

Oggi tutte marciano e usano la propria vulnerabilitá come messaggio politico: Ciudad de Juarez, la città più pericolosa del mondo per le donne, sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti, è oggi tutto il Messico. E questo sistema, riproducibile con maggiore o minore intensità in tutti i contesti, riguarda i corpi di tutti.

L’epidemia di violenza, i salari delle donne e altre notizie europee

Equality Now, una organizzazione non governativa che si occupa di disuguaglianza di genere, ha pubblicato un rapporto dal titolo “The global rape epidemic” (“L’epidemia globale dello stupro”). Nello studio, gli autori dimostrano come la violenza sessuale sia ancora una problematica sociale, le cui proporzioni vengono largamente ignorate. Nel dettaglio, l’analisi monitora 82 giurisdizioni per capire come vengono trattati i crimini a sfondo sessuale nei vari contesti nazionali.

Tra i Paesi europei, Belgio, Olanda e Lussemburgo sono osservati speciali. In questi ultimi stati, lo stupro viene considerato ancora un crimine “morale”, invece che “violento”. Una definizione che rende meno severa la pena per chi viene giudicato colpevole. Il rapporto indica come il 35 per cento delle donne sul pianeta, abbiano subito episodi di violenza fisica o sessuale. Lo stupro è considerato legale in 10 delle 82 giurisdizioni analizzate.

Nel 2015, la Banca mondiale aveva invece pubblicato il rapporto “Women, Business and the Law: Getting equal”. I risultati della mappatura effettuata dall’istituzione internazionale, indicavano che in ben 100 Paesi (su un totale di 173 analizzati) le donne subiscono discriminazioni di genere sul posto di lavoro. In 18, gli uomini possono addirittura impedire alle rispettive mogli di lavorare. 155 ordinamenti prevedono norme che impediscono alle donne di godere di pari opportunità economiche.

In occasione della giornata mondiale delle donne, il The Guardian ha raccolto le voci di donne prominenti nella sfera politica e civile, chiedendo agli intervistati di indicare il prossimo passo da compiere nella direzione dell’uguaglianza di genere.

Secondo Nicola Sturgeon, leader del Partito nazionalista scozzese, nonché Primo ministro, va data «priorità assoluta alle politiche di investimento sociale nei confronti dei bambini sotto ai tre anni». La responsabilità di gestire gli affari famigliari rappresenwolta ancora l’ostacolo principale a una piena uguaglianza tra uomo e donna.

Settimana scorsa, l’eurodeputato Janusz Korwin-Mikke, 74, ha ribadito le sue posizioni discriminatorie nei confronti delle donne. Come riporta Euractiv, il politico polacco, orfano di un gruppo politico di appartenenza, avrebbe dichiarato che «è normale che le donne guadagnino meno degli uomini», visto che «queste ultime sono mediamente minute, meno possenti e meno intelligenti». In seguito a una riunione parlamentare, Korwin-Mikke rischia ora da una semplice multa, all’interdizione per alcune sessioni del Parlamento.

Le elette al Parlamento europeo dal 1979 e per Paese

Ieri, Martin Schulz ha promesso che, nel caso dovesse diventare futuro Cancelliere tedesco, il governo sarebbe composto per metà da donne. Un equilibrio perfetto che esiste già in Canada e in Svezia.

Ma il nord Europa rappresenta veramente un paradiso della parità di genere? Secondo un’inchiesta de El Pais, la risposta non può che essere ambigua. Le ricerche del quotidiano spagnolo dimostrano che in Svezia, nonostante decenni di politiche attive volte a ridurre le discriminazioni economiche e sociali, si riscontra uno dei tassi di “machismo” più elevati nell’Unione europea.

Nel frattempo, il Parlamento britannico sta discutendo sulla legalità dell’esistenza di codici di abbigliamento per donne sul posto di lavoro. 150mila cittadini hanno infatti firmato una petizione contro l’obbligo per le donne di dover indossare specifici indumenti. L’iniziativa era stata lanciata da Nicola Thorp vittima di un licenziamento ingiustificato, nel dicembre del 2015. La ragione? Si era rifiutata di indossare le scarpe con i tacchi.