Home Blog Pagina 921

Il sessismo spiegato a mia zia #LottoMarzo

Sessismo: s. m. [der. di sesso, sul modello di razzismo e per influsso del fr. sexisme e ingl. sexism]. Termine coniato nell’ambito dei movimenti femministi degli anni Sessanta del Novecento per indicare l’atteggiamento di chi (uomo o donna) tende a giustificare, promuovere o difendere l’idea dell’inferiorità del sesso femminile rispetto a quello maschile e la conseguente discriminazione operata nei confronti delle donne in campo sociopolitico, culturale, professionale, o semplicemente interpersonale; anche, con significato più generale, tendenza a discriminare qualcuno in base al sesso di appartenenza.

Il dizionario lo spiega così il sessismo, termine citato spesso nei dibattiti pubblici e in tv, ma mai abbastanza e forse senza riuscire a trasmettere a molte persone un’idea chiara e cosciente di cosa implichi davvero nella vita di tutti i giorni. Mia zia per esempio, che ha 60 anni, fatto l’operaia per tutta la vita e vive in un paesino di 1200 abitanti del nord est, non ha idea di cosa significhi “sesismo” (lo pronuncia così lei, quasi fosse una parolaccia, senza doppie e carico di quelle esse sibilate tipiche dell’accento veneto).
Le parole sono importanti diceva Nanni Moretti e allora usarne una al posto di un’altra non è un semplice vezzo, è questione di definire la realtà in un modo piuttosto che in un altro. Utilizzare un linguaggio sessista significa descrivere un mondo in cui ci si sente legittimati a offendere, sminuire, discriminare o imprigionare in ruoli preconfezionati qualcuno sulla base genere di appartenenza, e, per come sono sempre andate e continuano ad andare le cose, solo per il fatto di essere donne.
Non lo si fa solo con insulti, ma anche con frasi semplici e apparentemente innocue come: “cosa c’è per cena?”, “sei nervosa, hai le tue cose?”, “hai un bel faccino”. E a farlo non sono solo gli uomini, ma anche donne che, paradossalmente, hanno interiorizzato un linguaggio o atteggiamenti che discriminano il loro stesso sesso.
Per spiegare cosa accade e svelare certe frasi apparentemente innocue, dette senza riflettere (ma a volte anche dopo aver riflettuto), Pietro Baroni e Luz non molto tempo fa hanno realizzato un video contro le discriminazioni di genere intitolato “Parole d’amore”. Il filmato raccoglie una dopo l’altra una serie di battute (vere), frasi che una donna si sente dire in svariati momenti della propria vita e di fronte alle quali è giusto insorgere e indignarsi (anche questo facciamo fatica ad interiorizzarlo). Ve lo riproponiamo qui in occasione del #LottoMarzo e dello sciopero globale delle donne. Perché dovrebbe interessarvi? Perché la parità parte anche da qui, dal linguaggio e dalle parole che usiamo, così piccole ma terribilmente potenti e potenzialmente rivoluzionarie.

Di parità di genere parliamo anche nel numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Dovremmo essere tutti femministi

(Terrorizzato dall’idea di essere oggi l’ennesimo uomo che si infila nella retorica dell’8 marzo lascio lo spazio del mio buongiorno alle parole che la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie pronunciò nel 2013 durante una TED Talk. Molto meglio lei, credetemi.)

 

Dovremmo essere tutti femministi.

Dunque, mi piacerebbe iniziare parlandovi di uno dei miei più grandi amici, Okuloma Mmaduewesi. Okuloma viveva nella mia strada e si prendeva cura di me come un fratello maggiore. Se mi piaceva un ragazzo, chiedevo l’opinione di Okuloma. Okuloma è morto nel tristemente noto incidente aereo di Sosoliso, in Nigeria, nel dicembre del 2005. Esattamente quasi sette anni fa. Okuloma era una persona con cui potevo discutere, ridere e parlare apertamente. È stata anche la prima persona a chiamarmi femminista. Avevo circa quattordici anni, eravamo in casa sua, discutevamo. Entrambi infervorati con informazioni a metà prese dai libri che avevamo letto. Non mi ricordo su cosa vertesse questa discussione in particolare, ma ricordo che mentre continuavo ad argomentare, Okuloma mi guardò e disse: “Sai, tu sei una femminista.” Non era un complimento. Potevo capirlo dal suo tono, lo stesso tono che si usa per dire cose del tipo “Sei una sostenitrice del terrorismo.” Non sapevo esattamente cosa questa parola “femminista” significasse e non volevo che Okuloma capisse che non ne avevo idea. Allora l’ho messa da parte e ho continuato a discutere. E la prima cosa che avevo intenzione di fare, quando sono tornata a casa, era di cercare la parola “femminista” nel dizionario.

Ora, andando velocemente avanti, arriviamo a qualche anno più tardi. Ho scritto un romanzo su un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie e la cui storia non finisce molto bene. Mentre stavo promuovendo il romanzo in Nigeria, un giornalista, un uomo gentile, ben intenzionato, mi ha detto che voleva darmi un consiglio. E, mi rivolgo ai nigeriani qui, sono sicura che abbiamo tutti familiarità con la velocità con cui le persone forniscono consigli non richiesti. Mi disse che la gente riteneva che il mio romanzo fosse femminista e il suo consiglio per me – e stava scuotendo la testa tristemente mentre parlava – era che non mi sarei mai dovuta definire una femminista, perché le femministe sono donne infelici che non riescono a trovare marito. Così ho deciso di definirmi una “femminista felice.” Poi una docente, una donna nigeriana, mi disse che il femminismo non era la nostra cultura, che il femminismo non era l’Africa e che mi definivo una femminista perché ero stata corrotta dai libri “occidentali.” E mi ha divertito, perché un sacco della mie prime letture erano decisamente non-femministe. Penso di aver letto ogni singolo romanzo rosa della Mills & Boon prima ancora di avere sedici anni. E ogni volta che provo a leggere quei libri chiamati “classici femministi”, mi annoio e faccio davvero fatica a finirli. Ma ad ogni modo, dal momento in cui il femminismo era non-africano, ho deciso che mi sarei definita una “felice femminista africana.” Ad un certo punto ero una felice femminista africana che non odiava gli uomini, che amava i lucidalabbra e che indossava i tacchi alti per se stessa, ma non per gli uomini. Naturalmente molte di quelle cose erano ironiche, ma la parola “femminista” ha un bagaglio così pesante, un bagaglio negativo. Odiate gli uomini, odiate i reggiseni, odiate la cultura africana, quel genere di cose.

Ora, eccovi una storia della mia infanzia. Quando ero alle elementari, la mia insegnante disse all’inizio del quadrimestre che avrebbe dato alla classe un test, e chi avrebbe realizzato il punteggio più alto sarebbe diventato capoclasse. Bene, essere capoclasse era una cosa importante. Se diventavi capoclasse, dovevi scrivere i nomi di chi faceva rumore, e già soltanto questo dava un grande potere. Ma la mia insegnante dava anche un bastone da tenere in mano mentre si camminava in giro e si controllava la classe da chi faceva rumore. Ecco, naturalmente non era permesso usare il bastone, ma era una prospettiva entusiasmante per la bambina di nove anni che ero. Volevo così tanto essere capoclasse, e ottenni il punteggio più alto nel test. Poi, con mia sorpresa, la mia insegnante disse che il capoclasse doveva essere un ragazzo. Si era dimenticata di fare prima questa precisazione perché riteneva fosse ovvio. Un ragazzo aveva avuto il secondo punteggio più alto nel test e lui sarebbe diventato capoclasse. La cosa ancora più interessante di questa faccenda è che il ragazzo aveva uno spirito dolce e gentile e non aveva alcun interesse nel pattugliare la classe con un bastone. Mentre io, ero piena di ambizioni per farlo. Ma ero femmina e lui era maschio, e così divenne il capoclasse. E non ho mai dimenticato quell’episodio.

Mi capita spesso di fare l’errore di pensare che se qualcosa che è ovvio per me, lo è altrettanto per chiunque altro. Ora, prendete il mio caro amico Louis , ad esempio. Louis è brillante uomo progressista, e facevamo delle conversazioni in cui mi diceva : “Io non so cosa intendi quando dici che le cose sono diverse o più difficili per le donne. Forse in passato, ma non adesso.” E non capivo come Louis non riuscisse a vedere qualcosa che sembrava così evidente. Poi una sera, a Lagos, Louis ed io siamo usciti fuori con degli amici. E per le persone qui che non hanno familiarità con Lagos, ci sono quei meravigliosi soggetti tipici di Lagos, una manciata di uomini energici che si ritrovano fuori dagli edifici e molto platealmente vi “aiutano” a parcheggiare la vostra auto. Ero rimasta colpita dalla particolare teatralità dell’uomo che ci aveva trovato un posto auto quella sera. E così, mentre ce ne stavamo andando, ho deciso di lasciargli una mancia. Ho aperto la mia borsa, ho messo la mano dentro la mia borsa, tirato fuori i soldi che avevo guadagnato facendo il mio lavoro, e li ho dati all’uomo. E lui, quest’uomo molto riconoscente e molto felice, ha preso i soldi da me, ha guardato Louis e ha detto: ” Grazie, signore! ” Louis mi ha guardato sorpreso e ha chiesto: “Perché mi ringrazia ? Non gli ho dato io i soldi”. Poi ho visto che Louis stava cominciando a rendersi conto. L’uomo credeva che, qualsiasi soldi avessi, in fin dei conti provenissero da Louis, perché Louis è un uomo.

Ora, gli uomini e le donne sono diversi. Abbiamo ormoni diversi, abbiamo diversi organi sessuali, abbiamo diverse abilità biologiche; le donne possono avere bambini, gli uomini non possono. Almeno, non ancora. Gli uomini hanno il testosterone, e sono in genere fisicamente più forti delle donne. Ci sono leggermente più donne che uomini nel mondo. Circa il 52% della popolazione mondiale è di sesso femminile. Ma la maggior parte delle posizioni di potere e prestigio sono occupate da uomini. La Premio Nobel per la Pace, recentemente scomparsa, Wangari Maathai, lo ha descritto in termini semplici e efficaci quando ha detto:

“Più alto si va, meno donne ci sono.”

Nelle recenti elezioni americane abbiamo sentito più volte della legge Lilly Ledbetter. E se andiamo oltre il bel nome allitterativo di questa legge, vedremmo che trattava di un uomo e una donna che fanno lo stesso lavoro, ugualmente qualificato e dove l’uomo viene pagato di più perché è un uomo. Così, in modo letterale, gli uomini governano il mondo. E questo aveva senso migliaia di anni fa. Perché gli esseri umani vivevano allora in un mondo in cui la forza fisica era l’attributo più importante per la sopravvivenza. La persona fisicamente più forte era la più adatta a comandare. E gli uomini in generale sono fisicamente più forti; naturalmente, ci sono molte eccezioni. Ma oggi viviamo in un mondo molto diverso. La persona con più probabilità di comandare non è la persona fisicamente più forte, è la persona più creativa , la persona più intelligente, la persona più innovativa, e non ci sono ormoni per questi attributi. Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, di essere creativo, di essere innovativo. Ci siamo evoluti, ma mi sembra che le nostre idee sul genere non si siano evolute.

Qualche settimana fa sono entrata nella hall di uno dei migliori alberghi nigeriani. Ho pensato di dire il nome dell’hotel, ma probabilmente non dovrei. E un guardiano all’ingresso mi ha fermato e mi ha rivolto delle domande irritanti. Poiché si suppone automaticamente che se una donna nigeriana cammina in un albergo da sola, allora è una prostituta. E, a proposito, perché questi hotel si concentrano sull’apparente offerta, piuttosto che sulla domanda, di prostitute? A Lagos, non posso andare da sola in molti bar rinomati e nei club. Semplicemente non ti lasciano entrare se sei una donna sola. Devi essere accompagnata da un uomo. Ogni volta che entro in un ristorante nigeriano con un uomo, il cameriere saluta l’uomo e ignora me. E qui qualche donna avrà detto: “Sì, anch’io l’ho pensato!” I camerieri sono prodotti di una società che ha insegnato loro che gli uomini sono più importanti rispetto alle donne. E so che i camerieri non intendono fare uno sgarbo, ma una cosa è saperlo razionalmente, e un’altra è sentirlo emotivamente. Ogni volta che mi ignorano, mi sento invisibile. Mi sento turbata. Voglio dire loro che sono tanto umana quanto un maschio, che sono altrettanto meritevole di riconoscimento. Queste sono piccole cose, ma a volte sono le piccole cose che pungono di più.

Non molto tempo fa ho scritto un articolo su cosa significa essere una giovane ragazza a Lagos e un conoscente mi ha detto: “Era così rabbioso.” Certo che era rabbioso. Io sono arrabbiata. Il genere, per come funziona oggi, è una grave ingiustizia. Noi tutti dovremmo essere arrabbiati. La rabbia ha una lunga storia nell’apportare un cambiamento positivo, ma oltre ad essere arrabbiata, io sono anche fiduciosa perché credo profondamente nella capacità degli esseri umani nel rinnovare se stessi per il meglio.

Il genere conta ovunque nel mondo, ma voglio concentrarmi sulla Nigeria e sull’Africa in generale, perché la conosco e perché è dove sta il mio cuore. E vorrei chiedere di cominciare adesso a fare sogni e progetti per un mondo diverso. Un mondo più giusto. Un mondo di uomini più felici e donne più felici, più onesti verso se stessi. Ed è così che bisogna iniziare. Dobbiamo crescere le nostre figlie in modo diverso. Dobbiamo crescere anche i nostri figli in modo diverso. Facciamo un pessimo lavoro con i ragazzi, nel modo in cui noi li alleviamo. Noi soffochiamo l’umanità dei ragazzi. Definiamo la virilità in modo molto limitato. La virilità diventa questa piccola gabbia rigida e noi mettiamo i ragazzi dentro la gabbia. Insegniamo ai ragazzi ad essere spaventati dalla paura. Insegniamo ai ragazzi ad essere spaventati dalla debolezza, dalla vulnerabilità. Noi gli insegniamo a mascherare la loro vera essenza, perché devono essere, come dicono in Nigeria, ” uomini duri!”.

Alle scuole superiori, se un ragazzo e una ragazza, entrambi adolescenti, entrambi con la stessa quantità di soldi, uscissero fuori, ci si aspetta che sia sempre il ragazzo a pagare, per dimostrare la sua virilità. E ancora ci chiediamo perché i ragazzi sono più propensi a rubare i soldi dai loro genitori. Che cosa accadrebbe se sia i ragazzi che le ragazze venissero educati a non collegare la virilità con i soldi? Cosa succederebbe se l’atteggiamento non fosse: “Il ragazzo deve pagare “, ma piuttosto: “Chi ha di più, dovrebbe pagare.” Ora, naturalmente a causa del vantaggio storico, sono quasi sempre gli uomini ad averne di più oggi. Ma se cominciamo a crescere i figli in modo diverso, allora in cinquant’anni, in un centinaio di anni, i ragazzi non sentiranno più la pressione di dover dimostrare questa virilità.

Ma la cosa di gran lunga peggiore che facciamo ai maschi, facendo intendere che devono essere duri, è che li lasciamo con degli ego molto fragili. Più un uomo sente di dover essere un “uomo duro”, più è debole il suo ego. E poi facciamo un lavoro anche peggior con le ragazze, perché le educhiamo a soddisfare i fragili ego degli uomini. Insegniamo alle ragazze come farsi da parte, come farsi più piccole. Diciamo alle ragazze, “Puoi avere ambizione, ma non troppa. Dovresti puntare ad avere successo, ma non troppo successo, altrimenti potresti minacciare l’uomo.” Se in una relazione con un uomo sei tu a portare il pane a casa, devi far finta che non sia così. Soprattutto in pubblico. Altrimenti lo stai castrando. Ma se mettessimo in discussione la premessa stessa? Perché il successo di una donna deve essere una minaccia per un uomo? Che cosa succede se decidiamo di sbarazzarci semplicemente di quella parola, e non credo ci sia una parola inglese che mi piaccia meno di “castrazione”.

Un conoscente nigeriano una volta mi ha chiesto se fossi preoccupata dal fatto che avrei potuto intimidire gli uomini. Non ero preoccupata affatto. Infatti non mi è mai accaduto di essere preoccupata perché un uomo che si lascia intimidire da me è esattamente il tipo di uomo che non mi suscita alcun interesse. Ciononostante, ero rimasta davvero colpita da questa cosa. Perché sono femmina, ci si aspetta che aspiri al matrimonio. Ci si aspetta che faccia le mie scelte di vita tenendo sempre a mente che il matrimonio è la cosa più importante. Ora, il matrimonio può essere una buona cosa. Può essere una fonte di gioia, di amore e di sostegno reciproco, ma perché dobbiamo insegnare alle ragazze ad aspirare al matrimonio e non insegniamo ai ragazzi la stessa cosa?

Conosco una donna che ha deciso di vendere la sua casa perché non voleva intimidire un uomo che avrebbe potuto sposarla. Conosco una donna non sposata in Nigeria che, quando va a dei convegni, indossa un anello nuziale. Perché, dice lei, vuole che tutti i partecipanti alla conferenza le portino rispetto. Conosco giovani donne che sono così pressate da parte della famiglia, degli amici , anche sul posto di lavoro, per il matrimonio, e che vengono spinte a fare delle scelte terribili. Una donna che a una certa età non è sposata, la nostra società ci insegna a vederla come se avesse avuto un profondo fallimento personale. E di un uomo, che dopo una certa età non è ancora sposato, pensiamo semplicemente che non si sia mosso per fare la sua scelta.

È facile per noi dire : “Oh, ma le donne possono semplicemente dire “no” a tutto questo.” Ma la realtà è molto più difficile e molto più complessa. Siamo tutti esseri sociali. Noi interiorizziamo le idee dalla nostra socializzazione. Anche il linguaggio che usiamo nel parlare di matrimonio e relazioni dimostra questo. Il linguaggio del matrimonio è spesso il linguaggio della proprietà, più che il linguaggio della collaborazione. Usiamo la parola “rispetto” per intendere qualcosa che le donne mostrano ad un uomo, ma che di frequente un uomo non mostra una donna.

Sia gli uomini che le donne in Nigeria diranno – e questa è un’espressione che mi diverte molto – “L’ho fatto per la pace del mio matrimonio ” Ecco, quando lo dicono gli uomini, di solito riguarda qualcosa che comunque non dovrebbero fare. A volte lo dicono ai loro amici, è qualcosa che dicono ai loro amici in modo affettuosamente esasperato. Capite, qualcosa che alla fine dimostri quanto siano virili, quanto voluti, quanto amati. “Oh , mia moglie ha detto che non posso andare al club ogni notte, così, per la pace del mio matrimonio, ci vado solo nei fine settimana. ” Ora, quando una donna dice: “L’ho fatto per la pace del mio matrimonio”, di solito si riferisce all’aver abbandonato un lavoro, un sogno, una carriera. Noi insegniamo alle ragazze che, nei rapporti , il compromesso è quello che fanno le donne. Cresciamo le ragazze per guardare alle altre come concorrenti, non per lavoro, o per degli obiettivi – che credo possa essere una buona cosa – ma per l’attenzione degli uomini. Insegniamo alle ragazze che non possono vivere la sessualità nel modo in cui lo fanno i ragazzi. Se abbiamo figli maschi, non ci interessa essere al corrente delle loro fidanzate. Ma dei fidanzati delle nostre figlie, Dio ce ne scampi! Ma naturalmente, quando arriva il momento giusto, ci aspettiamo che queste ragazze trovino l’uomo perfetto che diventi loro marito. Noi sorvegliamo le ragazze  Lodiamo le ragazze per la verginità, ma non lodiamo i ragazzi per la verginità. E mi ha fatto sempre pensare a come tutta questa storia dovesse funzionare, perché… Voglio dire, la perdita della verginità di solito è un processo che coinvolge due persone.

Recentemente una giovane donna ha subito una violenza di gruppo in un’università in Nigeria. E la reazione di molti giovani nigeriani, sia uomini che donne, era qualcosa sulla falsariga di questo : “Sì, lo stupro è sbagliato. Ma che cosa ci fa una ragazza in una stanza con quattro ragazzi? ” Ora, se possiamo dimenticare l’orribile disumanità di tale risposta, questi nigeriani sono portati a pensare alle donne come intrinsecamente colpevoli. E sono stati educati ad aspettarsi così poco dagli uomini che l’idea degli uomini come esseri selvaggi senza alcun controllo è in qualche modo accettabile. Insegniamo alle ragazze la vergogna. ” Chiudi le gambe”, “Copriti.” Le facciamo sentire come se nascere femmine le rendesse già colpevoli di qualcosa. E così, le ragazze crescono fino ad essere donne che non possono dire di avere desideri. Crescono per essere donne che si zittiscono da sole. Crescono per essere donne che non possono dire quello che realmente pensano. E crescono – e questa è la cosa peggiore che facciamo alle ragazze – crescono per essere delle donne che hanno trasformato il dover fingere in una forma d’arte.

Conosco una donna che odia il lavoro domestico. Semplicemente lo odia. Ma finge che le piaccia. Perché li è stato insegnato che per diventare “buona materia da matrimonio”, deve essere – per usare una parola nigeriana – molto “casalinga”. E poi si è sposata, e dopo un po’ la famiglia del marito ha cominciato a lamentarsi che fosse cambiata. In realtà, lei non era cambiata. Si era solo stancata di fingere.

Il problema con il genere è che prescrive come dovremmo essere, piuttosto che riconoscere come siamo.

Ora, immaginate quanto saremmo stati più felici, quanto più liberi di vivere le nostre vere individualità, se non avessimo avuto il peso delle aspettative di genere. Ragazzi e ragazze sono innegabilmente diversi, biologicamente . Ma la socializzazione esagera le differenze, e allora diventa un circolo che si alimenta da solo.

Prendete la cucina, per esempio. Oggi è più probabile che siano in generale le donne a fare i lavori di casa rispetto agli uomini, cucinando e pulendo. Ma perché è così? È forse perché le donne nascono con un gene della cucina? O perché nel corso degli anni la società le ha portate a vedere la cucina come il loro ruolo? A dire il vero, avrei risposto che forse le donne nascono con il gene della cucina, fino a quando mi sono ricordata che la maggior parte dei cuochi famosi nel mondo, ai quali diamo il vistoso titolo di “chef “, sono uomini.

Ho sempre avuto rispetto per mia nonna, che era una donna davvero brillante, e mi chiedo come sarebbe stata se avesse avuto le stesse opportunità degli uomini quando stava crescendo. Oggigiorno ci sono molte più opportunità per le donne rispetto ai tempi di mia nonna, grazie ai cambiamenti nella politica, ai cambiamenti nella legislazione, tutti quanti molto importanti. Ma ciò che conta ancora di più è il nostro atteggiamento, la nostra mentalità, ciò in cui crediamo e il valore che diamo al genere.

Cosa accadrebbe se, nell’educazione dei figli, ci concentrassimo sulle capacità, invece che sul genere? Che cosa accadrebbe se, nell’educazione dei figli, ci concentrassimo sull’interesse, invece che sul genere? Conosco una famiglia con un figlio e una figlia, entrambi brillanti a scuola, due bambini davvero meravigliosi e adorabili. Quando il ragazzo ha fame, i genitori dicono alla ragazza, “Va’ a preparare degli spaghetti Indomie per tuo fratello.” Ora, alla ragazza non piace particolarmente cucinare degli spaghetti Indomie, ma è una ragazza , e quindi lo deve fare. Che cosa sarebbe accaduto se​ i genitori, fin dall’inizio, avessero insegnato, sia al ragazzo che alla ragazza, a cucinare gli spaghetti? Cucinare, tra l’altro, è una capacità molto utile da possedere per un ragazzo. Non ho mai pensato che avesse senso lasciare una cosa così importante, la capacità di nutrire se stessi, nelle mani di altri.

Conosco una donna che ha la stessa laurea e lo stesso lavoro di suo marito. Quando tornano dal lavoro, lei fa la maggior parte dei lavori di casa, e penso sia così per molti matrimoni. Ma quello che mi ha colpito di loro è che ogni volta che il marito cambiava il pannolino del bambino, lei diceva “grazie” a lui. Ora, cosa accadrebbe se lei vedesse come perfettamente normale e naturale il fatto che lui debba, a tutti gli effetti, occuparsi di suo figlio?

Sto cercando di disimparare molte delle lezioni di genere che ho interiorizzato quando ero piccola. Ma a volte mi sento ancora molto vulnerabile di fronte alle aspettative di genere. La prima volta che ho tenuto un corso di scrittura in una facoltà specialistica, ero preoccupata. Non ero preoccupata per le cose che avrei insegnato, perché ero ben preparata e stavo andando ad insegnare quello che mi piaceva. Invece, ero preoccupata per quello che avrei indossato. Volevo essere presa sul serio. Dato che ero una femmina, pensavo di dover automaticamente dimostrare il mio valore. Ed avevo paura che, se fossi apparsa troppo femminile, non sarei stata presa sul serio. Volevo davvero mettere il mio lucidalabbra brillante e la mia gonna femminile, ma ho deciso di no. Invece, ho indossato un vestito molto serio, molto maschile e molto brutto. Perché la triste verità è che quando si tratta di apparenza, cominciamo col prendere gli uomini come standard, come la norma. Se un uomo si sta preparando per un incontro d’affari, non si preoccupa di apparire troppo virile, e quindi non essere preso seriamente.. Se una donna si sta preparando per un incontro d’affari, deve preoccuparsi dell’apparire troppo femminile, di quello che dice, e se verrà presa sul serio oppure no. Vorrei non aver indossato quel brutto vestito quella volta. A dirla tutta l’ho bandito dal mio armadio. Se avessi avuto la fiducia che ho ora, nell’essere me stessa, i miei studenti avrebbero beneficiato ancora di più del mio insegnamento, perché sarei stata molto più a mio agio, e più profondamente e sinceramente me stessa.

Ho scelto di non dovermi più scusare per il mio essere donna e per la mia femminilità. E voglio essere rispettata in tutta la mia femminilità, perché lo merito.

Il genere non è un argomento di facile discussione. Sia per gli uomini che per le donne, quando si parla di genere a volte si incontra una resistenza quasi immediata. Posso immaginare ci siano delle persone qui che stanno pensando: “Donne sincere con se stesse?” Alcuni tra gli uomini qui presenti potrebbero pensare, ” Ok , tutto questo è interessante, ma non la vedo così.” E questo fa parte del problema. Che molti uomini non pensino attivamente al genere o non notino il genere, è parte del problema di genere. Che molti uomini dicano, come il mio amico Louis , “Ma tutto va bene ora.” E che molti uomini non facciano nulla per cambiarlo. Se sei un uomo ed entri in un ristorante con una donna e il cameriere saluta solo te, ti viene in mente di chiedere al cameriere: “Perché non l’ha salutata? ”

Poiché il genere può essere un argomento molto scomodo da discutere, ci sono modi molto semplici per chiuderla, per chiudere la conversazione. Alcune persone tireranno fuori la biologia evolutiva e le scimmie, e come le femmine delle scimmie si inchinino davanti ai maschi e cose del genere. Ma il punto è che noi non siamo scimmie. Inoltre le scimmie vivono sugli alberi, mangiano lombrichi a colazione, ma noi non lo facciamo.

Alcune persone diranno, “Beh, anche i poveri uomini hanno dei momenti difficili. ” E questo è vero. Ma non è di questo che tratta la conversazione. Genere e classe sono forme diverse di oppressione. In effetti ho imparato un bel po’ di cose sui sistemi di oppressione e in che modo siano ciechi l’uno verso l’altro, parlando con uomini neri. Una volta stavo parlando del genere con un nero e mi ha detto: “Perché devi dire ‘la mia esperienza di donna’ ? Perché non può essere la tua esperienza ‘come essere umano ‘ ?” Bene, questo era lo stesso uomo che si riferiva spesso alla sua esperienza da nero.

Il genere conta. Uomini e donne sperimentano il mondo in modo diverso. Il genere influenza il modo in cui viviamo il mondo. Ma possiamo cambiare la situazione. Alcune persone diranno: “Oh, ma le donne hanno il potere reale, il “bottom power”. E per i non nigeriani , “bottom power” è un’espressione che suppongo significhi qualcosa per intendere una donna che usa la sua sessualità per ottenere favori dagli uomini. Ma il “bottom power” non è affatto un potere. “Bottom power” significa che una donna ha
semplicemente una buona base dove attingere, di tanto in tanto, al potere di qualcun altro. E poi, naturalmente, dobbiamo chiederci quando questo qualcun altro è di cattivo umore, o malato o impotente.

Alcune persone diranno che una donna subordinata a un uomo è la nostra cultura. Ma la cultura è in continua evoluzione. Ho due bellissimi nipoti gemelli di 15 anni che vivono a Lagos. Se fossero nati cento anni fa, sarebbero stati portati via e uccisi perché era la nostra cultura, era nella cultura Ibo uccidere i gemelli. Quindi, qual è il punto della cultura? Voglio dire, c’è l’elemento pittoresco – la danza, ad esempio – ma la cultura riguarda anche la conservazione e la continuità di un popolo. Nella mia famiglia, io sono la figlia più interessata alla storia di chi siamo nelle nostre tradizioni e alla conoscenza delle terre ancestrali. I miei fratelli non sono così interessati come me, però io non posso partecipare. Non posso andare ai loro incontri. Non posso avere voce in capitolo, perché sono femmina.

La cultura non crea un popolo. Il popolo crea una cultura.

Quindi, se è effettivamente vero che la piena umanità delle donne non è la nostra cultura, allora dobbiamo renderla la nostra cultura.

Penso molto spesso al mio caro amico Okuloma Mmaduewesi. Possano lui e gli altri che sono morti nell’incidente di Sosoliso continuare a riposare in pace. Egli sarà sempre ricordato da quelli di noi che lo amavano. E aveva ragione, quel giorno, molti anni fa, quando mi ha chiamata femminista. Io sono una femminista. E quando ho cercato la parola nel dizionario quel giorno, questo è quello che diceva:

femminista: una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi.

La mia bisnonna, dalle storie che ho sentito, era una femminista. Scappò dalla casa di un uomo che non voleva sposare e finì per sposare l’uomo che aveva scelto. Si rifiutava, protestava, alzava la voce, ogni volta che sentiva di essere privata dell’accesso, dello spazio, quel genere di cose. La mia bisnonna non conosceva quella parola, ” femminista. Ma non vuol dire che non lo fosse. Molti più di noi dovrebbero rivendicare quella parola.

La mia definizione di femminista è:

femminista è un uomo o una donna che dice: “Sì, c’è un problema di genere oggi come oggi, e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio.”

Il miglior femminista che conosco è mio fratello Kene. Lui è anche un uomo gentile, bello e adorabile. Ed è molto virile.

Grazie.

#LottoMarzo è già cominciato (in Australia). Sciopero globale in 51 Paesi del mondo

#Lottomarzo è già cominciato. Alle 14 (ora italiana), infatti, in Australia è già scattata la mezzanotte dell’8 marzo. Per l’Italia manca ancora qualche ora, ma lo sciopero è globale e, incrociando le adesioni su internet, siamo arrivati a contare 51 Paesi in cui le donne scenderanno in piazza. Ecco la mappa di Left.

Sfatiamo il primo mito. Quello che ci vuole convinte che nel mondo ci siano 7 donne per ogni uomo. Non è affatto vero. Anzi, sulla terra ci sono più uomini che donne, per la precisione: 3,7 miliardi di uomini e 3,64 miliardi di donne, quindi c’è “un uomo virgola otto” per ogni donna. Il sorpasso è avvenuto nel 1962, e la forbice si è allargata con il passare degli anni. Come mai? Innanzitutto, per via della discriminazione di genere. Nella maggior parte dei Paesi infatti la maggioranza della popolazione è femminile, ma le politiche di due Paesi sono in grado da sole di provocare lo squilibrio mondiale: la Cina e l’India, dove si registrano alti tassi di infanticidio (soprattutto sulle neonate) e di aborti selettivi in base al sesso del nascituro. Non a caso la Cina ha quasi 50 milioni di uomini in più rispetto alle donne e l’India 43 milioni (anche se il record lo detengono gli Emirati Arabi Uniti con 274 uomini ogni 100 donne), mentre la nazione in cui, in assoluto, vivono più donne è la Martinica, dove ci sono 84,5 uomini per ogni 100 donne.

[mappa1]

Né Cina né India sono, purtroppo, nell’elenco dei Paesi in cui le donne hanno aderito allo sciopero dell’8 marzo. Ma dei circa 196 Paesi in cui si divide il mondo, sono 51 quelli in cui le donne scenderanno in piazza. La lista continua a crescere, quando manca ormai una manciata di ore al grande giorno. E, alla vigilia, le donne argentine tornano a scrivere alle donne di tutto il mondo, ecco un estratto.

Dallo scorso 19 ottobre, quando convocammo il primo sciopero nazionale delle donne fuori dalle strutture sindacali, un’idea è andata passando di bocca in bocca senza riconoscere frontiere né distanze: organizzare una misura di forza comune per ridare significato all’8 marzo, giornata internazionale delle donne. Lo sciopero internazionale delle donne è adesso un fatto. Questo 8 marzo non poterà dei fiori a noi altre, ma uno sciopero e una mobilitazione, in Argentina, in America Latina e in altri Paesi del mondo. Dalla Thailandia al Cile, dalla Polonia alla Corea del Sud, dai territori maya fino a quelli dei mapuches, in molte lingue, con le modalità che ognuna avrà scelto, con le rivendicazioni e le esigenze che sono state elaborate in ogni angolo, le assemblee si sono succedute nelle estati del Sud e negli inverni del Nord, sfidando l’idea del possibile, appropriandosi dello strumento dello sciopero perché le nostre richieste sono urgenti.

Perché la violenza machista non si placa e giorno dopo giorno siamo costrette a piangere le vittime di femminicidi ogni volta più crudeli mentre l’inattività dello Stato ci lascia tutte senza alcuna protezione. Per questo facciamo dello sciopero delle donne una misura ampia e attualizzata, capace di dare rifugio alle occupate e alle disoccupate, alle salariate e a chi vive di sussidi, alle lavoratrici in proprio e alle studentesse; poiché siamo lavoratrici e dobbiamo difendere le nostre vite e le nostre decisioni, noi scioperiamo.

A #LottoMarzo è dedicata la copertina del numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

L’Ungheria rinchiuderà i richiedenti asilo in container merci e filo spinato. Bambini compresi

epa04932216 Hungarian police block a street towards the closed border crossing between Serbia and Hungary in Roszke, on the Hungarian side of the border, while a refugee boy looks through the fence from Hogros on the Serbian side, 15 September 2015. Hungary declared a state of emergency in two counties along its border with Serbia, after it used a boxcar fitted with razor wire to block a major entry point there. Declaring the state of emergency paves the way for parliament to allow the army to reinforce police along the border, as new measures to crackdown on refugees go into effect. EPA/KOCA SULEJMANOVIC

Sarà bene ricordarlo: il diritto d’asilo è protetto da convenzioni internazionali e prevede tra le altre cose un trattamento umano per le persone che chiedono la protezione di un Paese straniero perché sono in fuga da guerre o persecuzioni. Sarà bene ricordarlo, l’Ungheria aderisce a quelle convenzioni internazionali e così fa l’Europa, che non sarà il massimo dal punto di vista delle politiche di bilancio, ma è ancora uno dei luoghi del mondo dove alcune regole di umanità si rispettano più che altrove.
Non nel Parlamento ungherese, che ha approvato una legge che prevede la detenzione di tutti i richiedenti asilo, vecchi e bambini compresi, nel periodo in cui la loro domanda viene vagliata. Le convenzioni lo vietano, l’Europa e l’Alta corte per i diritti dell’uomo avevano censurato una pratica simile – non stabilita per legge – già nel 2013. L’unica cosa consentita ai richiedenti asilo sarà tornarsene oltre il confine con la Serbia, ovvero fuori dall’Unione europea. La legge prevede anche l’accompagnamento al confine di persone entrate nel Paese senza titolo per farlo, ovunque si trovino in Ungheria – ad oggi le autorità potevano farlo se la persona veniva fermata entro i 10 chilometri da un confine. Ora, sottolineiamolo: una persona che vuole richiedere asilo non necessariamente sa come si fa, spesso non entra nel Paese con un titolo legale ma clandestinamente e può essere in confusione. Per il Parlamento di Budapest questo non è un problema: i richiedenti asilo possono farlo solo nelle zone di transito dove vengono rinchiusi e, dunque, se entrano nel Paese in altro modo, commettono un reato e possono finire in carcere.
La legge viene duramente criticata dalle grandi organizzazioni internazionali e dall’Unhcr, che non è una Ong ma l’agenzia Onu che si occupa di rifugiati. Questo un passaggio del testo diffuso: «Ogni richiedente asilo, bambini compresi, verrà detenuto in container per navi circondato da filo spinato per periodi lunghi, detenere bambini non è mai lecito». Già, perché i luoghi di detenzioni previsti dalla legge sono quei campi di transito aperti nei mesi in cui il flusso di persone lungo la rotta balcanica dei rifugiati era al suo apice. Erano inumani allora, lo sono ancora di più adesso, che il flusso di persone si è drasticamente ridotto.
Proprio il calo dei flussi getta una luce diversa sulla legge approvata dal Parlamento: la volontà del governo di Viktor Orban è quella di mostrare al popolo di lavorare contro l’immigrazione. Una scelta politico-ideologica in risposta a un’emergenza che al momento non c’è. Il provvedimento somiglia all’ordine esecutivo di Donald Trump, che blocca qualsiasi richiedente asilo dall’entrare negli Stati Uniti per i prossimi 120 giorni: ovvero fare qualcosa per affrontare un tema scottante che non ha soluzioni facili e immediate ma che, se si è promesso di risolverlo con i muscoli, ha bisogno di azioni vistose, anche se inutili.
Il corredo ideologico a queste misure, Orban lo ha fornito molte volte, l’ultima è di qualche giorno fa con un discorso alla Camera di commercio durante il quale ha parlato dell’importanza «dell’omogeneità etnica» dell’Ungheria perché «mischiarsi getterebbe il Paese nel caos». Farebbe ridere se non fosse inquietante. Tra l’altro il 2% della popolazione ungherese ha origini tedesche, il 3,2% è Rom e, sarà bene ricordarlo, l’Ungheria dopo il 1490 è stata parte dell’impero Ottomano e tra il 1867 e il 1918 è stata parte dell’Impero austroungarico. L’omogeneità etnica, dunque, è un’invenzione. Nel 1910, poi, c’erano anche il 5% di ebrei, ma forse a ripulire l’Ungheria da quelli ci ha pensato Adolf Hitler, che ne ha uccisi intorno ai 600mila (oggi sono lo 0,11% della popolazione, e sono preoccupati).
Le pratiche poliziesche dell’Ungheria nei confronti dei rifugiati sono diventate tristemente famose negli anni passati, con le detenzioni, i respingimenti e il rifiuto di Budapest di entrare a far parte di quel sistema di redistribuzione dei rifugiati messo in atto dalla Commissione europea – che a oggi ha ricollocato 13 mila rifugiati su 200mila che ne prevedeva.
Queste leggi e questo clima sono un incoraggiamento alluso di metodi brutali e violenti da parte della polizia. Diverse organizzazioni internazionali (MSF, Human Rights Watch tra le altre) hanno denunciato e documentato episodi da lager: pestaggi a freddo, persone lasciate nella notte in mezzo alla neve senza vestiti adeguati, altre costrette a strisciare attraverso rotoli di quei fili spinati taglienti, umiliazioni e selfie dei poliziotti con i pestati. Prima però gli viene fatta una foto con un cartello che dice che sono stati trattati bene.Il ministero degli interni ungherese smentisce seccamente. Medici senza frontiere ha diffuso alcune foto qui sotto. Giudicate voi.

#LottoMarzo, quello che la ministra Fedeli non ha capito

La ministra all'Istruzione, Valeria Fedeli, durante l'Inaugurazione dell'Anno Accademico dell'Accademia Albertina a Torino, 28 gennaio 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

«Mah, la piattaforma mi mette in difficoltà», ha risposto la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli al giornalista di Repubblica nell’intervista pubblicata oggi. E per un attimo sembrava voler ammettere che il governo italiano sia in difficoltà davanti alle discriminazioni di genere in ogni luogo d’Italia. Del resto, lei viene dal mondo del sindacato, è una donna, ne avrà viste di discriminazioni.

E invece niente affatto. Per la ministra le questioni che porteranno milioni di donne in piazza e in assemblea in 51 Paesi del mondo, incluso il nostro, si riducono a: «La parità comincia a casa propria, mio marito lava i piatti e fa la spesa». E se una donna non ha il marito? Verrebbe da chiedere a primo impatto. Ma continuiamo a leggere e – andando oltre chi rifaccia il letto al mattino in casa Fedeli – proviamo a capire se la ministra è d’accordo o no con lo sciopero. «Questa piattaforma non ha unito, e mi dispiace. Il Parlamento italiano ha fatto passi concreti. Non riconoscerli non è utile», dice affranta Valeria Fedeli.

Prendiamo uno di questi passi, quello a cui siamo ormai più “affezionati”: il Jobs act che anche la ministra ha votato. «Il Jobs act ha varato una delega contro le dimissioni in bianco: è una conquista importantissima», rivendica. Peccato che abbia contribuito al contempo a precarizzare il lavoro e le vite di tutti, in particolare delle donne. Peccato che il divario salariale sia ancora almeno del 10,9% in meno per le donne, peccato che le donne rappresentino il 51,5% dei destinatari di voucher, peccato che le pensioni delle donne siano in media il 29% inferiori a quelle degli uomini. Peccato.

La ministra Fedeli a un certo punto dell’intervista si chiede: «Non basta?», riferendosi a ciò che Parlamento e governo hanno fatto fin qui. Evidentemente no, ministra. Non basta. E, evidentemente, non basta nemmeno la sola presenza femminile nei luoghi della politica per femminilizzarla.

P.s. Al collega Paolo G. Brera che nel corso dell’intervista chiede e commenta «Ma il tema del lavoro quasi non c’è…», consigliamo l’accurata lettura degli 8 punti della piattaforma. A entrambi consigliamo la lettura di Left, in particolare del n. 48. A tutte le altre e a tutti gli altri, buono sciopero.

Non vogliono addormentarsi per paura di morire e non parlano più. In Siria un bambino su 4 avrà problemi mentali

I bambini in Siria sono soggetti a "torture raccapriccianti, incarcerazioni e rapimenti": lo denuncia un rapporto di Save the Children, che chiede queste "atrocità" siano meglio documentate dagli organismi dell'Onu. Ciascuno dei bambini intervistato ha assistito all'uccisione di "almeno un familiare". "Ho visto un bimbo di sei anni. Era quello che torturavano di più. Non gli hanno dato da mangiare e bere per tre giorni. Poi è morto, hanno trattato il cadavere come fosse quello di un cane", racconta Wael di 16 anni. ANSA / US SAVE THE CHILDREN +++ NO SALES +++ EDITORIAL USE ONLY +++

Hanno conosciuto solo la guerra. Hanno 6 anni e non hanno vissuto altro. Niente infanzia, niente, spensieratezza, niente sicurezza né protezione. E sono 3,7 milioni. Sono i bambini della Siria nati negli ultimi 6 anni, ovvero da quando è iniziato il conflitto che sta devastando il Paese. Secondo l’allarme lanciato dalla organizzazione umanitaria Save the Children, sono 5,8 milioni i bambini che vivono ancora sotto i bombardamenti e hanno bisogno di aiuti. Di questi, un bimbo su quattro rischia conseguenze devastanti sulla salute mentale.
Le vittime sono oltre 470.000, 6,3 milioni sono gli sfollati all’interno del Paese, e 4,9 milioni i rifugiati che lo hanno dovuto abbandonare. Tra cui 2,3 milioni di bambini.

Nel suo rapporto Ferite invisibili (Invisible wounds), l’organizzazione ha indagato l’impatto psicologico che la guerra ha e avrà sui bambini, e il quadro che ne emerge è – prevedibilmente – terribile.

L’aumento dell’aggressività nei confronti di familiari e amici è il tratto minimo e praticamente comune a quasi tutti i bambini (l’81 per cento), al quale si aggiungono incubi notturni, autolesionismo e tentativi di suicidio. Sono bambini, e tentano la fuga dalla vita. Molti di loro hanno il terrore di addormentarsi per la paura di non svegliarsi più. «La mancanza di sonno e di riposo è estremamente pericolosa per la salute fisica e mentale dei bambini e può portare a gravi conseguenze di natura psichiatrica nonché a malattie a volte mortali», si legge nel rapporto. Mentre «la metà degli adulti intervistati denuncia che i bambini non riescono più a parlare», spiegano i ricercatori. Alcuni ormai sanno solo gridare. Fanno fatica a respirare e soffrono di paralisi temporanee degli arti. Inoltre, «sono tantissimi i bambini che soffrono di minzione involontaria e di frequente enuresi notturna (lo riferisce il 71% degli adulti)». Basta un colpo di vento che fa sbattere una porta a generare razioni di panico.

Il terrore principale dei bimbi, com’è comprensibile, è di perdere la loro famiglia, di esserne strappati con la violenza. Due bambini su tre dicono di aver perso uno dei loro cari, e molti hanno visto uccidere i propri genitori, familiari, amici. Altri semplicemente sparire nel nulla. Nelle 13 aree assediate sono moltissimi i bambini rimasti soli. Ed è proprio qui che al dramma della solitudine e della guerra, si aggiunge quello dell’assedio: essere irraggiungibili a qualsiasi tipo di aiuto. Niente fame, medicine, e carburante per il riscaldamento.

E ancora: gli adolescenti ormai fanno uso di droghe per affrontare lo stress sono almeno uno su due; le violenze domestiche sono aumentate e il 59% degli intervistati conosce bambini e ragazzi reclutati nei gruppi armati, alcuni anche sotto i 7 anni.

La fine dell’infanzia
Oltre a tutto questo, c’è la necessità di diventare presto adulti, nel solo senso di riuscire a procacciarsi da vivere. Niente scuola, niente riferimenti, e ancora: niente protezione. E’ così che molti piccoli siriani diventano venditori ambulanti nella migliore delle ipotesi. Come sguatteri dei soldati, o reclutati nei gruppi armati, nel peggiore. In violazione delle leggi internazionali sui diritti umani. «La guerra è un business e spesso i gruppi armati sono gli unici che hanno il denaro per pagare», ha spiegato un ragazzino intervistato nel dossier.
Mentre le bambine sono spesso costrette a matrimoni forzati con famiglie ricche dai genitori, che sperano così di offrire loro una via di fuga o sopravvivenza e preservarle da abusi e violenze sessuali. Generando invece spesso tentativi di suicidio.

La perdita del “senso di futuro”
Dall’inizio del conflitto sono oltre 4000 le scuole bombardate, circa due al giorno. Mentre quelle lasciate in piedi sono obiettivi futuri quindi i bambini non possono frequentarle. E sono 150.000 gli insegnanti che hanno lasciato il Paese. Non andare a scuola crea problemi di socializzazione, oltre che di apprendimento: «Ci sono bambini come mio fratello che hanno dimenticato tutto quello che avevano imparato a scuola. Lui non sa più fare neanche due più due. Tanti non sanno riconoscere più neanche le lettere dell’alfabeto. Non vado più a scuola da due anni e ho paura del mio futuro», racconta Zainab, 11 anni, da un campo di sfollati interno alla Siria.

«Questa ricerca dimostra che le conseguenze del conflitto sui bambini siriani sono devastanti», denuncia Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia. «Bambini che sognano di morire per poter andare in Paradiso e avere così un posto dove poter mangiare e stare al caldo o che sperano di essere colpiti dai cecchini per arrivare in ospedale e magari poter scappare dalle città assediate. Genitori che preferiscono dare in spose le proprie figlie ancora bambine perché non possono occuparsi di loro, generandone la disperazione che in alcuni casi le porta addirittura al suicidio. Bambini lasciati orfani della guerra che pur di avere qualcosa da mangiare si uniscono ai gruppi armati». Una situazione insostenibile, e soprattutto intollerabile, per Neri: «Non possiamo rimanere a guardare mentre si consuma questa tragedia sulla pelle dei bambini. Devono immediatamente smettere i bombardamenti sui civili e gli aiuti devono raggiungere le popolazioni con particolare attenzione al sostegno psicologico per i più piccoli e vulnerabili».

La mancanza di aiuto e di supporto psicologico
La psichiatria non è vista di buon occhio, in Siria, anzi: la malattia mentale è uno stigma che isola ancora di più i bambini, non garantendogli il supporto medico. Prima della guerra, erano solo due le strutture ospedaliere a garantire supporto psichiatrico su 21 milioni di abitanti. Come si legge nel rapporto, «la guerra ha esacerbato questo gap, in un momento in cui è invece cresciuta la necessità di intervento. Solo il 20% delle strutture sanitarie attualmente funzionanti offrono servizi di salute mentale di base e la richiesta di posti eccede quelli disponibili”. E i pochi fondi a disposizione prediligono altri aspetti, né garantiscono la continuità di cui questi interventi necessitano.

«La continua esposizione ad eventi traumatici e a esperienze negative ha portato la maggior parte dei bambini siriani a vivere una condizione di stress tossico, con conseguenze sul loro stato di salute mentale e fisica, che può interrompere il loro sviluppo», spiega il dg dell’organizzazione. Ma, c’è un ma: «Nonostante la condizione psicologica di questi bambini sia drammatica, sono comunque estremamente resilienti. Non sono ancora desensibilizzati alla violenza e provano ancora emozioni importanti. Non siamo al punto di non ritorno e per questo è fondamentale intervenire subito e restituire loro quella speranza di futuro di cui hanno bisogno. La comunità internazionale deve muoversi subito per mettere fine al conflitto e per supportare questi bambini anche dal punto di vista psicologico, perché è in gioco non solo il presente ma il futuro di un Paese e della generazione che sarà chiamata a ricostruirlo», conclude Valerio Neri.

I bambini in Siria sono soggetti a “torture raccapriccianti, incarcerazioni e rapimenti”: lo denuncia un rapporto di Save the Children, che chiede queste “atrocità” siano meglio documentate dagli organismi dell’Onu. Ciascuno dei bambini intervistato ha assistito all’uccisione di “almeno un familiare”. “Ho visto un bimbo di sei anni. Era quello che torturavano di più. Non gli hanno dato da mangiare e bere per tre giorni. Poi è morto, hanno trattato il cadavere come fosse quello di un cane”, racconta Wael di 16 anni. ANSA / US SAVE THE CHILDREN +++ NO SALES +++ EDITORIAL USE ONLY +++

L’evento “Ferite di Guerra”
Domenica 12 marzo 2017 alle ore 17.30, presso la Galleria Vittorio Emanuele a Milano (lato Silvio Pellico), si terrà l’evento pubblico organizzato da Save the Children, “Ferite di guerra”. Le note del Maestro Giovanni Allevi e le voci degli attori Cesare Bocci e Isabella Ferrari racconteranno la quotidianità che vivono milioni di bambini siriani, ancora oggi intrappolati nelle città assediate o nel limbo dei campi profughi nei Paesi limitrofi. Per accendere ancora una volta i fari su questo incubo inioziato 6 anni fa.

Stanley Kubrick fotografo e sul set

Nel discorso di accettazione per il premio Griffith della Director’s Guild Award, Stanley Kubrick dice del suo mestiere: «Sebbene spesso si abbia la sensazione di cercare di scrivere Guerra e pace nell’autoscontro di un Luna park, quando finalmente ottieni quel che volevi, non c’è niente al mondo di paragonabile». Nello stesso discorso, Kubrick aggiunge, parlando di Griffith, che definisce il regista che ha creato l’industria cinematografica come la conosciamo e che ha fatto diventare il cinema un’arte, ricorda che, come Icaro, Griffith ha osato troppo e si è bruciato, passando gli ultimi 17 anni della sua vita fuori dal mondo del cinema. «Ho citato il mito di Icaro, ma non ho mai capito se significhi: “non cercare di volare troppo in alto” o “dimentica le piume e la cera e fai un lavoro migliore su quelle ali!”. L’autore di Rapina a mano armata, Arancia meccanica, Barr Lyndon, Orizzonti di Gloria, Dr. Stranamore e pochi altri capolavori (13 in tutto e tre brevi documentari) è morto il 7 marzo 1999. In alto una serie di foto scattate tra la fine degli anni ’40 e i primi ’50 a New York, dove era nato e una foto di una festa in casa sua nel 1998. In basso scatti sul set e il discorso registrato alla Guild Director’s Award, l’anno prima della morte.

Sul set di The Shining

Sul set di Dr. Stranamore

Embed from Getty Images

Sul set di 2001 Odissea nello spazio, assieme ad Arthur C. Clarke, autore del racconto the Sentinel a cui è ispirato il film

Il breve discorso alla Director’s Guild Award nel 1998


Schäuble non si fida più della Commissione europea: troppo politica

Mentre in Europa, tra Est e Ovest, si consuma lo scontro sull’Unione a “due velocità”, una seconda sfida sta passando inosservata: quella tra il Commissario europeo, Pierre Moscovici, e il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. Lo riporta Handelsblatt, uno dei principali quotidiani economici tedeschi.

Il terreno di scontro? Il ruolo della Commissione europea nel futuro dell’Ue e la possibilità di istituire un “Ministro del tesoro dell’Eurozona”.

In particolare, Moscovici spinge per la creazione di una capacità fiscale per l’Unione monetaria, ovvero di un budget destinato a favorire spesa pubblica nei Paesi membri. Proprio oggi, a Bruxelles, Moscovici ha detto che «il Commissario economico dovrebbe anche occupare il ruolo di presidente permanente dell’Eurogruppo» e coordinare una politica fiscale comune.

Dal canto suo, Schäuble propone un ampliamento del ruolo – e, di conseguenza, dei poteri – del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Oggigiorno, quest’ultimo è diretto da Klaus Regling e rappresenta un fondo finalizzato al sostegno di Paesi che, in situazioni di crisi, si impegnano a implementare riforme strutturali.

Ma da domani – questa, appunto, la visione del ministro delle Finanze tedesco – il Mes dovrebbe garantire il rispetto dei trattati e, in particolare, delle regole sul deficit. Insomma, dopo gli ultimi due anni di amministrazione “politica” da parte di Juncker, Schäuble non si fida più della Commissione e spinge per un nuovo organo “neutrale”.

Le posizioni dei due leader europei è quindi agli antipodi. Intanto ieri sera Moscovici è volato a Berlino per discutere con i pesi massimi del Partito socialdemocratico tedesco (Spd).

Leggi anche:

Regno UnitoThe Guardian Altro che Brexit. Il governo di Theresa May rischia una sconfitta in Parlamento sul tema dei rifugiati minori non accompagnati

EuropaEuractiv  – Mentre i capi di governo di Francia, Germania, Italia e Spagna si incontrano a Versaille, il così detto gruppo “Visegrad” si oppone alla prospettiva delle due velocità

La lezione ce la danno gli alunni da quella scuola media di Vercelli

È andata così: in classe è arrivata un circolare urgente firmata dalla preside che diceva: «A partire da oggi con effetto immediato, gli alunni con entrambi o anche solo un genitore di origine non italiana seguiranno le lezioni scolastiche in un’aula diversa rispetto a quella del resto della classe». In fondo c’era anche la firma, il timbro, i numeri incomprensibili del protocollo e tutte quelle altre cose che rendono terribilmente serie le comunicazioni a scuola.

È successo a Vercelli, ieri, con la complicità di genitori e insegnanti: alla scuola media Pertini di Vercelli è andata in scena una finta operazione razzista per vedere la reazione degli studenti di fronte a un ordine ingiusto. La decisione non è stata accettata: gli studenti hanno alzato la voce, alcuni hanno impedito fisicamente che i compagni stranieri venissero portati fuori dalla classe e alcuni si sono organizzati per stendere una protesta formale al ministero.

Le insegnanti si dichiarano «confortate dal risultato dell’esperimento». I ragazzi hanno affidato le proprie riflessioni ad alcuni post-it pubblicati su Facebook: c’è chi scrive di «agitazione, tristezza, paura, incredulità», chi racconta di avere proposto di spostarsi tutti insieme perché «siamo tutti studenti, non esistono stranieri» e chi (tra gli stranieri) si è sentito rassicurato perché sa che «c’è qualcuno che tiene a me».

Cosa hanno di straordinario questi studenti? Nulla: sono puliti, naturali, umani. O forse, meglio, sono straordinariamente non intaccati dalla rabbia, dalla disperazione, dalla paura e dalla bava che c’è qui fuori, tra gli adulti. E il punto di rottura, quel dirupo in cui la naturale solidarietà si schianta, il momento della vita che convince ad avere il diritto di essere feroci, quel secondo in cui scatta nella testa il bullone per cui l’autodifesa è possibile solo con la strage dei bisogni degli altri, quel punto lì è il nodo che ci interessa trovare, analizzare e estirpare. È un compito da esploratori degli umani bisogni e del comune sentire. Sarebbe la politica, anche. Quella maiuscola.

Buon martedì.