Trump (ri)chiude la porta ai musulmani. Stavolta prova a non violare la legge

Il nuovo ordine esecutivo sull’immigrazione di Donald Trump è pronto, ma la firma non avviene davanti alle telecamere: un tweet, una foto e poi il Segretario alla Giustizia, quello alla Sicurezza nazionale e il Segretario di Stato a presentarlo ai media. Meglio evitare gaffe e tenere un basso profilo, avranno pensato gli strateghi della Casa Bianca dopo il disastro di immagine della volta scorsa.
Dal punto di vista dell’obbiettivo che si pone, il nuovo ordine è brutto quasi come il primo, ma non contiene alcune delle misure più assurde e odiose che quello conteneva. Non è una conversione umanitaria dell’amministrazione ma una correzione di rotta dovuta alla bocciatura del primo da parte di un tribunale federale e di una corte d’appello. Il nuovo ordine firmato dal presidente blocca per 90 giorni gli ingressi negli Stati Uniti di persone provenienti da sei Paesi a maggioranza musulmana: Sudan, Siria, Iran, Libia, Somalia e Yemen.
Anche i programmi per rifugiati vengono sospesi, ma per 120 giorni: per i siriani in fuga, viene da dire, nessuna solidarietà. E nemmeno per gli yemeniti e i somali, Paesi dove si combatte e dove, in questo preciso momento storico, c’è un drammatico problema di mancanza di cibo. La differenza con il primo, anche in questo caso, è che non discrimina nei confronti dei siriani – che venivano esplicitamente nominati come rifugiati da non accogliere. Ma per non discriminare un gruppo, l’ordine blocca gli ingressi di tutti gli altri.
Oltre che essere pensato per aggirare il genere di problemi legali creato dal precedente, il testo sembra scritto per evitare troppa confusione. Quella che aveva provocato proteste, caos negli aeroporti e forme di discriminazione da parte delle guardie di frontiera. Le tre cose fondamentali scomparse dall’ordine esecutivo sono: non si distingue tra cristiani e musulmani, non c’è una preferenza per persone di una religione piuttosto che un’altra; alle persone con un visto valido emesso prima del 27 gennaio e a quelle con un permesso di lavoro che si trovassero all’estero al momento in cui, il 16 marzo, l’ordine entrerà in vigore, verrà concesso di entrare – un mese fa si prevedeva che anche i possessori di carta verde non venissero riammessi negli Stati Uniti; da ultimo scompare l’Iraq, Paese invaso dagli Usa dove l’esercito iracheno combatte al fianco di militari americani a Mosul contro l’Isis. Negare l’ingresso ai cittadini iracheni, mentre il Paese è alleato a combattere quel terrorismo che l’ordine serve a fermare, era grottesco. E in queste settimane, molti funzionari del Dipartimento di Stato e del Pentagono lo hanno fatto notare.
Evitare la discriminazione tra religioni e non impedire a chi ha già un visto di poter entrare sono tra le cose che fanno scommettere all’amministrazione Trump che l’ordine non verrà giudicato illegale dai tribunali – dove verrà portato dalle organizzazioni che si occupano di diritti civili, la Aclu, che avviò le prime azioni legali un mese fa, ha già annunciato i ricorsi. Lo spin dei funzionari che lo hanno presentato è: «Questo non è un divieto ai musulmani in qualsiasi modo o forma ma di una sospensione temporanea da Paesi in preda al caos o che sono sponsor del terrorismo». L’idea è quella di evitare casi drammatici come quelli capitati nelle ore successive alla firma del primo ordine esecutivo, che entrava in vigore dalla sera alla mattina, includendo persone e famiglie che erano già in aeroporto o su un aereo e si ritrovavano ad essere respinte senza modo di appellarsi alla decisione delle guardie di frontiera. La possibilità che ci sia un aumento dei comportamenti discriminatori da parte della polizia di frontiera, con un ordine come questo, è più che probabile: già un mese fa, in alcuni scali si era andato oltre il lecito e si erano implementate alcune delle istruzioni di Trump anche nei giorni immediatamente successivi alla bocciatura dei tribunali.
«L’ostinazione del presidente Trump a chiudere le porte in faccia a coloro che fuggono esattamente da quel terrore che lui sostiene di combattere sarà ricordata come uno dei peggiori capitoli della storia degli Usa. L’idea che misure del genere siano prese nell’interesse della sicurezza nazionale non sta né in cielo né in terra – si legge in una dichiarazione del segretario generale di Amnesty International Salil Shetty, che prosegue -. Questo nuovo decreto non fa altro che ristabilire molti dei più detestabili aspetti del precedente, calpesta i valori che gli Usa da tempo dichiarano di sostenere e minaccia di azzerare le speranze di migliaia di rifugiati. L’impianto anti-musulmano che è alla base di questo nuovo decreto dovrebbe apparire evidente a chiunque abbia seguito la lunga campagna di Trump per diffondere la paura tra le persone di fede musulmana».
Resta l’improbabilità di un ordine che punisce persone di sei Paesi come se fossero solo queste che costituiscono un pericolo e come se, anche volendo dare per buona l’idea che i terroristi siano i musulmani – cosa non vera, negli Stati Uniti – non potesse succedere che potenziali terroristi musulmani arrivino anche da Arabia Saudita (come Osama bin Laden), Giordania (come al Zarqawi) o Gran Bretagna. Un documento interno preparato dal’Homeland Security un mese fa segnala come negli ultimi anni, degli 82 attentatori reali o scoperti mentre preparavano attacchi, la metà avessero cittadinanza statunitense e nessuno o quasi venisse dai sei Paesi inclusi nell’elenco. Anche per questo, l’ordine è una pagina oscura: segnala come si tratti di un documento scritto e pensato per mostrare al proprio elettorato azioni risolute e non per reali esigenze legate all’anti terrorismo. E’ poi certo che il nuovo ordine sia un favore all’Isis e a quanti cercano proseliti nei Paesi inclusi nel bando e in Occidente. Come ha detto il senatore democratico Murphy: «Il presidente sta consegnando all’Isis argomenti d’oro per l’opera di reclutamento. Il sogno dei nostri nemici è di dipingere un mondo in cui occidente e Islam sono in guerra. L’ordine conferma questa loro tesi».
Il giudizio politico lo lasciamo a Bernie Sanders: «Chiamiamo l’ordine per quello che è: un tentativo razzista e anti-islamico di dividerci».
Let’s call Trump’s travel ban what it is: A racist and anti-Islamic attempt to divide us up.
— Bernie Sanders (@BernieSanders) 6 marzo 2017
Dopo Berdini. Ecco chi è il nuovo assessore di Raggi

Sarà Luca Montuori il nuovo assessore all’Urbanistica del Comune di Roma. Architetto e professore di progettazione urbanistica all’Università Roma Tre, 51 anni e figlio di Eugenio, urbanista di città come Sabaudia e Carbonia, e della stazione Termini di Roma.
Montuori è stato scelto dal sindaco pentastellato, dopo essersi immancabilmente confrontata con i consiglieri di maggioranza. Una riunione non particolarmente discussa, essendo Montuori attualmente capo segreteria dell’assessore alla Cultura (e vicesindaco) Luca Bergamo. E, come lui, con un passato nella sinistra veltroniana. Ex consulente di Walter Veltroni (2004-2008) per i progetti architettonici («fu una stagione meravigliosa»), sarà lui ad ereditare le beghe del suo predecessore Paolo Berdini, dimessosi a metà febbraio dopo le infelici dichiarazioni sulla giunta di Virginia Raggi uscite su la Stampa.
E proprio lo stadio della Roma (altro motivo di contrasto con Berdini, che ne era agguerrito oppositore), sarà il primo nodo da affrontare. Assieme al nuovo direttore generale Franco Giampaoletti, già dg del Comune di Genova, il neo assessore, dovrà lavorare – sempre in stretto contatto con l’As Roma e l’Eurnova di Luca Parnasi – al nuovo progetto di Tor di Valle, la cui bozza è attesa in settimana; capire come scavallare i vincoli della Sopraintendenza sull’Ippodromo; e infine realizzare la stesura della delibera di ‘novazione’, e cioè l’atto che servirà a validare definitivamente l’utilità pubblica dell’opera. «Siamo qui e cercheremo di migliorare i progetti», ha detto Montuori in conferenza stampa rispondendo proprio a una domanda sullo stadio e sugli altri importanti interventi urbanistici della città che lo attendono, come quello dell’ex caserma Guido Reni, un edificio enorme al Flamionio, il quartiere dell’Auditorium.
L’utilità pubblica però fortemente contestata proprio dai pentastellati, quando in Campidoglio sedevano fra i banchi dell’opposizione. Tanto che la procura in qualche cassetto ha un esposto depositato proprio Da Raggi, De Vito, Frongia e Stefàno che ne contestavano la pubblica utilità. Su che fine abbia fatto la denuncia, l’attuale presidente del Consiglio capitolino Marcello De Vito, raggiunto telefonicamente da Left, non ha voluto dare spiegazioni.
Sta di fatto che ormai lo stadio s’ha da fare. E non solo perché Grillo aveva dato personali rassicurazioni in questo senso da mesi alla società giallorossa, ma anche perché un accordo con l’ad Mauro Baldissoni nelle veci di James Pallotta, è stato raggiunto e annunciato.
Ma sebbene i fari dei media si siano abbassati, in realtà la questione è ancora scottante perché l’accordo potrebbe riservare spiacevoli sorprese per l’amministrazione. Cosa abbia comportato il taglio delle cubature – e delle relative torri di Liebeskind – in termini di opere pubbliche, ancora non si sa con certezza. Il nuovo “progetto 2.0”, come l’ha ribattezzato Raggi, per ora è stato presentato come vantaggioso per tutti, come #UnoStadioFattoBene, come recita il video di promozione lanciato due giorni fa dal Movimento 5 stelle: «La diminuzione delle cubature non inciderà se non su quelle pensate per concedere più spazi ai costruttori – spiegano – Marino aveva destinato 951mila metri cubi in più rispetto ai 153mila previsti giustificandole con una serie di opere pubbliche in gran parte superflue». Tra queste, «i due pontili sul Tevere, il sottopasso di via d’Asti, il prolungamento della metro b».
Cosa sarà superfluo, cosa regalato ai costruttori (come ha accusato Ignazio Marino) e cosa invece sarà una sottrazione fatale alla funzionalità dell’opera e al suo inserimento nel tessuto urbano, lo si scoprirà purtroppo solo una volta realizzato.
Quello che è certo è che il tempo stringe, perché il termine ultimo fissato dalla Regione per acquisire tutta la documentazione (progetto definitivo, parere unico e delibera), è il 30 marzo. Mentre la conferenza dei servizi, che slitta ormai da mesi, e che dovrebbe dare il via libera definitivo al progetto della società calcistica, è il 5 aprile.

La vicenda è talmente delicata che al nuovo responsabile all’Urbanistica verrebbe affiancato uno staff di 6 persone, scrive il Messaggero, trai quali – oltre ai tecnici interni che hanno gestito il dossier stadio – l’avvocato di Grillo Luca Lanzalone, che dall’inizio della vicenda ha seguito tutti gli incontri fra le parti e vigilato sulle trattative.
Resta invece ancora vacante, anche se per ora affidata a Montuori, l’altra delega che era di Berdini, quella ai Lavori Pubblici, per la quale Raggi sta cercando una donna.
Tutte le donne ribelli disegnate da Obey

Shepard Fairey, anche conosciuto come Obey, è diventato famoso al grande pubblico per manifesto Hope simbolo nel 2008 della campagna di Obama alla Casa Bianca. Dopo l’insediamento di Trump alla presidenza e in occasione della marcia delle donne su Washington, lo street artist (da sempre impegnato nella propaganda dei valori democratici e nella denuncia delle ingiustizie sociali) aveva realizzato una nuova serie di poster femministi che aveva poi venduto su Kickstarter per la cifra simbolica di 1$. I poster erano questi e il risultato il giorno della manifestazione fu quello che vedete nella foto qui sotto:



![]()
Ma non è la prima volta che Fairey dedica i suoi lavori alle donne o a personaggi icone del femminismo come per esempio l’attivista Angela Davis. In vista dell’8 marzo e dello sciopero globale, abbiamo raccolto qui molti dei poster e dei ritratti dello street artist dedicati alla propaganda della parità di genere.












Sul caso Consip (o meglio: sull’importanza del finanziamento pubblico)

Non so come andrà a finire l’inchiesta (anche se precedenti e Diritto inviterebbero a maggior prudenza). Non so quanto delle accuse troverà conferma, né sono riuscito a capire l’efficacia dello stesso reato di traffico di influenze, i cui confini mi sembrano però poco netti. Non so neanche se Renzi abbia “rottamato” il padre, come dice Grillo: fatti loro. Non so poi, anzi non credo, che Luca Lotti si debba dimettere, non fino a sentenza, ma penso sia ovviamente lecito tentare, dopo questo ennesimo caso e dopo tre anni e più, un bilancio dell’esperienza dei rottamatori alle prese col potere.
Quello che però so, sulla vicenda Consip, è che ancora un volta escono fuori i limiti e i rischi del sistema di finanziamento della politica che abbiamo scelto. Non colpisce anche voi che Romeo – ed è cosa certa – finanziasse tanto il centrosinistra e la fondazione di Matteo Renzi che il centrodestra, con la fondazione di Quagliariello? A me moltissimo, perché è evidente che la politica non più c’entra nulla, e che il finanziamento non è una forma di militanza riservata a ricchi ma impegnati imprenditori. Si finanzia – mi pare – con un altro fine: ingraziarsi un decisore pubblico, presente o futuro, e creare un debito che, si scommette, sarà ripagato.
E allora: faccio una domanda. Siccome sul finanziamento pubblico pare proibito abbandonare la lettura demagogica ormai largamente maggioritaria (anche se dare risorse pubbliche ragionevoli alla politica segnalo che consentirebbe di chiudere a quelle private, almeno a quelle di entità e intenzione corruttive), non possiamo almeno stabilire che chi finanzia partiti o movimenti politici, amministratori o eletti, non debba avere rapporti economici, commesse o appalti, con la pubblica amministrazione?
La domanda, ovviamente, è retorica. Mi rispondo da solo: no, perché non si contano le fondazioni che alimentano ognuna una singola corrente del singolo partito. E prova ne sia le risposte – che non sono arrivate, non dai grandi partiti, almeno – all’invito di Sinistra italiana, che giusto qualche giorno fa ha presentato in parlamento un testo che andrebbe in questa direzione. Peccato.
La lezione di Emma Watson sul femminismo: «Non è un bastone con cui picchiare le altre donne»


Emma Watson è una che sulle battaglie femministe ci ha messo la faccia. Lo ha fatto quando è stata nominata ambasciatrice delle Nazioni Unite per la parità di genere nel mondo a luglio 2014 e lo ha fatto quando poco dopo ha lanciato la campagna di sensibilizzazione HeforShe (perché il femminismo non è solo una cosa da donne, anzi) con un discorso che ha fatto storia.
Eppure, nonostante tutto questo, qualcuno ha storto il naso perché, per lanciare il suo ultimo film La Bella e la Bestia si è lasciata immortalare sulla copertina Vanity Fair America in uno scatto che, a detta di qualche femminista, mostra un po’ troppo (giudicate voi dalla foto qui sotto): «Ha tradito i valori femministi».
La risposta di Watson è arrivata però precisa e puntale e è stata l’occasione per impartire un’altra lezione preziosa su cosa significhi lottare e spendersi per la parità di genere:
«Questa polemica non fa altro che mostrare quanto siano diffuse delle percezioni errate di cosa sia il femminismo e di cosa implichi essere femministe. Il femminismo riguarda il dare alle donne la possibilità di scelta, non è un bastone con il quale delle donne bastonano le altre donne. Il femminismo è una questione di libertà, di liberazione e di uguaglianza. Non riesco davvero a capire cosa abbiano a che fare le mie tette con tutto questo».
Dell’impegno di Emma Watson e dell’importanza di essere femministi parliamo anche nel numero di Left in edicola dedicato all’8 marzo e allo sciopero globale delle donne.

Il numero di Left in edicola è dedicato all’8 marzo
Schulz sceglie la destra dei “capri espiatori” come nemico: «È una disgrazia per la Germania»

Alexander Gauland, figura di primo piano del partito tedesco di estrema destra, Alternative für Deutschland (AfD), ha affermato che il governo tedesco dovrebbe negare l’ingresso in Germania a persone di fede musulmana che non provengono da Paesi in situazione di conflitto.
Dopo le affermazioni rilasciate da Geert Wilders in Olanda qualche settimana fa – l’Islam veniva paragonato al nazismo – anche nei pressi di Berlino si torna quindi ai “commenti spazzatura” in ambito religioso.
Nel frattempo, Martin Schulz, candidato cancelliere del Partito socialdemocratico (Spd) alle prossime elezioni federali di settembre, ha definito l’Afd una «disgrazia per la Germania». «Non offre soluzioni a nessun problema e trova soltanto capri espiatori», ha aggiunto Schulz, parlando ai colleghi di partito a Würzburg. Commentando proprio le parole di Gauland, Schulz ha ribadito che la costituzione tedesca prevede «il rispetto della dignità della persona umana, in quanto tale. Non in quanto “tedesca”».
Non è la prima volta che Schulz lancia un segnale al partito di destra radicale: l’ex Presidente del Parlamento europeo vuole probabilmente giocarsi la carta del “baluardo” democratico di fronte alle tendenze populiste.
Inoltre, Schulz è tornato a parlare di mercato del lavoro, ponendo l’accento sulla necessità di investire nella «formazione» dei lavoratori tedeschi. Si tratta insomma, di una riproposizione di politiche attive. Allo stesso tempo, il leader dell’Spd ha fatto un leggero passo indietro rispetto alla volontà di modificare in maniera sostanziale l’impianto della riforma di welfare, HartzIV.
Nei sondaggi, l’Unione cristiano democratica (Cdu) di Angela Merkel è tornata in testa, superando proprio la Spd. Si tratta in realtà dell’ennesima staffetta in vetta alle preferenze dei cittadini tedeschi nel corso delle ultime settimane
Leggi anche:
Grecia – Ekathimerini – Nuovo stallo tra Atene e creditori. L’accordo sulla seconda revisione del piano di bailout si allontana
Europa – Die Welt – Sebastian Kurz, Ministro degli esteri austriaco, vuole che i richiedenti asilo vengano ospitati in dei campi al di fuori dell’Unione europea
Regno Unito – The Guardian – Il quotidiano britannico lancia l’allarme: «Nelle università del Paese, esiste un’emergenza molestie sessuali»
Dall’Irlanda alla Ciociaria, storie di suore che distruggono l’infanzia
La macabra scoperta, avvenuta in Irlanda, di una fossa comune, con più di settecento cadaveri di bambini che erano stati affidati a una casa per ragazze madri gestita da suore, ha colpito tutti. Erano bambini di età diverse probabilmente morti per malnutrizione e per malattie non curate, durante tutto il periodo in cui quella struttura religiosa è stata in funzione, dagli anni Venti in poi. Non è la prima volta che in Irlanda emergono storie di violenze e abusi in conventi e altre strutture. Come ha raccontato nel 2002 il film Magdalene di Peter Mullan. Abbiamo chiesto allo scrittore Francesco Formaggi di commentare il risultato dell’inchiesta irlandese, mentre arriva nelle librerie il suo nuovo romanzo, Il cortile di pietra (Neri Pozza) , storia del piccolo Pietro, figlio di contadini poveri, affidato a un collegio trasformato dalle suore in un inferno di violenze sui minori. Il libro sarà presentato il 19 marzo a Libri Come, a Roma.
«In Irlanda l’inchiesta su questa terribile realtà va avanti da qualche anno, a colpi di indignazione, accuse e risposte false. Loro hanno avuto il coraggio di scavare alla ricerca della verità su queste case di accudimento», sottolinea lo scrittore. Sono certo che anche in Italia, se avessimo lo stesso coraggio di scavare, sia fisicamente, sotto i conventi e le chiese, sia culturalmente, sotto lo strato di sabbia della negazione, troveremmo la stessa verità. Che non dovrebbe creare scalpore per il fatto che i corpi di bambini ormai senza vita siano stati gettati nella terra come carcasse di animali, senza sepoltura, ma per il fatto che questi bambini erano trattati come bestie anche in vita.
Lo scandalo non riguarda dunque la mancata sepoltura per la quale i vescovi irlandesi ora si battono il petto?
Non riguarda affatto la sepoltura, né l’al di là, ma ciò che questi bambini hanno passato – e in alcuni luoghi ancora oggi passano – da vivi, quindi la negazione della loro infanzia, per non dire il totale annullamento, da parte delle istituzioni cattoliche, della realtà dell’infanzia.
Qui tocchiamo il cuore, il centro, del suo romanzo?
Nel mio romanzo un tema centrale è l’infanzia annullata. È accaduto mentre lo scrivevo, un paio di anni fa, che per la prima volta ho letto di questa storia irlandese. Mi ha fatto accapponare la pelle, perché anche nel mio romanzo c’è una fossa, e narravo una storia simile, che avevo però ricavato da alcuni racconti del mio territorio, il basso Lazio, la Ciociaria. Quelle narrazioni aleggiavano sulla palude delle fantasticherie o delle leggende popolari. Quando ho letto che in Irlanda avevano scoperto davvero una fossa comune, quasi non ci credevo.
Come ha letto queste similitudini fra le due vicende, quella irlandese e quella ciociara?
Mi ha fatto pensare che il problema è molto più ampio, e abbraccia la sfera che potremmo chiamare dell’educazione, che in uno Stato laico dovrebbe essere laica. Invece in Italia accade ancora oggi che le istituzioni cattoliche abbiano il monopolio culturale dell’educazione e della cura dei bambini. Penso che le famiglie dovrebbero smetterla di mandare i propri figli negli asili delle suore, e poi al catechismo, e poi in chiesa. Perché i preti e le suore fondano la loro identità su una astrazione, annullano l’umano, e questo li rende pieni di rabbia e, nei casi peggiori, totalmente anaffettivi. Non puoi voler bene a un bambino se pensi che sia una bestiolina, un essere umano non ancora compiuto, o peggio ancora, un mostro. Ma troppo spesso in Italia, soprattutto nei piccoli paesi, nelle zone più povere e isolate, per le famiglie non c’è alternativa. E alla luce di quanto ancora accade, alla fine di questo lungo filo rosso di nefandezze, il ritrovamento di una fossa comune di bambini dovrebbe essere la notizia che suscita meno indignazione.
Anche madre Teresa di Calcutta, come hanno documentato molte inchieste, non dava farmaci ai bambini malati perché pensava che il dolore li purificasse in vista del paradiso. Il culto della sofferenza come espiazione è intrinseco al credo cristiano…
E quando si parla di bambini, di accudimento dei minori, (e in generale delle così dette categorie deboli) l’indignazione straripa nell’incazzatura. Perché un bambino, sebbene possa resistere interiormente forse meglio di un adulto alle violenze invisibili degli altri esseri umani – grazie a una fantasia che conserva più intatta – non ha modo di scappare, di rendersi libero, di vivere una vita autonoma come meglio crede, di procurarsi da sé il proprio nutrimento e la propria crescita sana.
E poi ci sono i diritti, e le leggi. Bisogna smetterla di negare i diritti e violare le leggi; parlo del diritto al gioco, per fare un esempio, e della legge sull’aborto. Come ha scritto Saramago a proposito di un suo romanzo: “Se il Saggio sulla lucidità non causerà polemiche nella società, è perché la società dorme”. Ecco, mi viene da pensare che noi oggi dormiamo, ma non come si dorme la notte. Il nostro sonno purtroppo assomiglia più a chiudere gli occhi davanti a realtà che non vogliamo vedere».
La violenza che lei racconta ne il Cortile di pietra è fisica ma anche psichica.
Quella che fa più male è la violenza psichica, la violenza che non si vede, perché ti confonde, vuole farti impazzire, vuole farti scomparire, e spesso non sai da dove viene, soprattutto se sei un bambino, la senti soltanto, sulla pelle, come ventate di ghiaccio, ma non ti puoi difendere.
Come è nato il romanzo?
Il cortile di pietra ha avuto origine da una miscela di esperienze personali, leggende o dicerie popolari e racconti di amici. Sono stato in un asilo di suore da bambino, ma credo di non aver resistito più di una o due settimane, avrò avuto quattro o cinque anni. Proprio non ci riuscivo a stare lì dentro, mi facevano impazzire, già a quell’età non potevo sopportarle quelle suore, ed era così tanta la voglia di scappare che ancora me la sento addosso. Ho chiara in mente un’immagine: io bambino davanti alla porta aperta dell’asilo, i piedi sull’uscio, sotto di me le scale che scendono in strada, verso la salvezza, verso casa, via da quel postaccio. Ma un attimo prima di scappare realizzo che i miei due fratelli più piccoli sono ancora lì dentro, e non posso lasciarli, li devo salvare. Così torno indietro, li trascino via con me, ma un attimo prima di uscire una suora ci scopre e ci riporta dentro per le orecchie. Poi come tutti ho dovuto subire il catechismo fino alla cresima. Per fortuna quando mi costringevano ad andare a messa io dormivo. Le storie popolari che invece hanno stimolato il nucleo più prettamente narrativo del romanzo sono legate al mio territorio, dove sono nato e cresciuto ad Anagni, e riguardano il ritrovamento, durante alcuni lavori di restauro in un convento di monache di clausura, di scheletri di bambini sepolti sotto il cortile. Le chiamo storie popolari perché, per quando abbia cercato documenti e fonti, non ho mai trovato niente di fattivo. Però ho conservato i racconti di amici paesani, uno in particolare, di una ventina di anni più grande di me, Mario, che ha vissuto l’infanzia in un collegio di suore. Nei pomeriggi di pioggia, al bar, davanti a una birra, mi ha raccontato tutto: i soprusi, le botte, la fame che pativano; tutto quello che succedeva in quel collegio, tutte le nefandezze delle suore, un pomeriggio dopo l’altro.
Quanto è diffuso il problema in Italia, che diversamente dall’Irlanda non ha mai affrontato pubblicamente questioni come gli abusi sui minori da parte dei preti nonostante inchieste stringenti come i due libri inchiesta di Federico Tulli, Chiesa e pedofilia?
Il mio lavoro è quello del romanziere, e quando mi sono messo a scrivere questo romanzo, ormai cinque anni fa, ero mosso principalmente da una esigenza interiore di raccontare l’infanzia, per come la conoscevo io, con tutte le paure e i vuoti che avevo vissuto ma anche con tutta la gioia e vitalità e la capacità di resistere del bambino che ero stato. E poi, dopo i racconti del mio amico sul collegio e la leggenda dei cadaveri dei bambini sotto il cortile del convento delle suore ecc., avevo già molto materiale su cui lavorare. Non mi serviva altro. Ma quando avevo quasi terminato la prima stesura – durante la quale non avevo smesso di cercare informazioni ed esperienze soprattutto sulla vita quotidiana in un collegio negli anni Cinquanta – ho sentito il bisogno di documentarmi, e l’ho fatto, inizialmente nel modo indolente e furtivo dei romanzieri, che non cercano tanto la verità dei fatti e l’attendibilità delle fonti, quanto la verosimiglianza della suggestione e la realtà delle esperienze umane. Poi però ho cominciato a notare che più volevo elementi di realtà, più chiedevo fatti documentati, più le persone diventavano vaghe e indolenti. Mi è successo all’Archivio di Stato. Mi sono presentato con una domanda specifica, alla ricerca di documenti che potessero provare l’effettiva scoperta o rinvenimento, a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta, di cadaveri di bambini sepolti nei conventi di suore sul territorio italiano. L’unica cosa che ho trovato è stata una reazione indignata: “Ma lei chi è? A che le servono queste informazioni?”, e poi: “Queste storie non sono vere, sono solo dicerie, ma dove l’hai sentite, anche se fossero vere non le direbbero mai” ecc. Poiché avevo un romanzo da scrivere, e non una inchiesta da fare, ho rinunciato ad approfondire la questione, ma dal punto di vista giornalistico potrebbe essere interessante continuare, perché- ne sono convinto – la violenza è intrinseca al sistema educativo della Chiesa.
Indizi da destra sulla legge elettorale

Dipende dal premio. È una delle cose che vi raccontiamo sul numero di Left che trovate in edicola in questi giorni: il nodo della legge elettorale è il meccanismo del premio di maggioranza – ancora più della sua entità, che la Corte vuole comunque misurata. Andrà alla lista che, superata una sorta soglia (il 40 dell’Italicum?), arriva prima o alla coalizione? Molto – se vi interessa l’evoluzione delle scissioni e contro scissioni a sinistra – dipende dal premio. Dipende dal premio, ad esempio, se gli scissionisti dem saranno o no alleati del Pd (dopo essersi uniti con Pisapia) oltre che dall’esito del congresso.
E se la discussione sulla legge elettorale arranca (incagliata sui capolista bloccati), oggi però abbiamo qualche indizio. Alla loro prima iniziativa pubblica, un informato parlamentare del neonato Movimento democratico e progressista – articolo 1, infatti, ci diceva così: «Alleanze? Dipende dalla legge, se ci sarà o meno un premio di coalizione. E se ci sarà il premio dipende da Forza Italia. Perché i 5 stelle non lo vogliono e allora servono i voti e le pressioni dei forzisti per approvarlo». Bene. Nel centrodestra qualcosa si sta muovendo.
«Ma che partita vuole giocare Berlusconi?», continuava la nostra fonte, «se vuole tentare di prendere il premio, ma non riesce a tenere i litigiosi alleati tutti in un listone, allora chiederà il premio di coalizione. Se invece si accontenta di poter dire “dopo il voto si passa da me”, spingerà per un proporzionale più liscio». Delle due vie disegnate, al momento, pare però preferita la prima. Berlusconi ha infatti messo da parte l’idea della lista unica del centrodestra, intervistato dal Tempo questa domenica, e parlato apertamente di coalizione. L’unico al momento escluso dai suoi piani è Angelino Alfano, «perché Forza Italia non è un taxi» e perché – dice Berlusconi – «per ricostruire il centrodestra sono disposto ad accettare molte cose ma non posso fare a meno di considerare che una serie di governi di sinistra (!) sono stati resi possibili da eletti del centrodestra».
Per il resto l’invito a Matteo Salvini e Giorgia Meloni è più che esplicito. «Il centrodestra è l’unica realtà che unita può raggiungere il 40 per cento e guidare il Paese», dice Berlusconi secondo cui un accordo con Lega e Fratelli d’Italia è «necessario». Insomma: «possiamo essere una coalizione guidata da un progetto comune».
A ricordarci che nulla è ancora deciso ci pensa Giorgia Meloni, che oggi replica al leader di Forza Italia e lo fa citando ancora l’idea di un listone (anche se si dice ancora scottata per l’esperienza del Pdl), opzione che quindi è sempre aperta, ennesima dimostrazione che nel centrodestra vanno molto meno per il sottile, e dopo anni in cui se ne sono dette di tutti i colori, se dovesse servire non si faranno troppi problemi a ritentare la convivenza tra l’anima più moderata e quella sempre più “sovranista” di Meloni, Salvini e compagnia.
Anche lì si discute ancora sul nodo primarie e non sarà indolore individuare un leader, ma qualcosa insomma sta succedendo. E sono tutti indizi per capire cosa toccherà in sorte alla sinistra dove si spera si voglia evitare di andare al voto con due o magari tre liste a sinistra del Pd e dove però anche la nascita di una lista di sinistra (Pisapia più i bersaniani, in sintesi) che però si allea col Pd (Renzi o no) avrebbe come probabile esito il prosciugamento della sinistra che da quell’alleanza rimarrebbe fuori e che, una volta tanto, sembra aver trovato il modo per non procedere in ordine sparso, ognuno col suo atomo.

Delle grandi manovre a sinistra parliamo sul numero di Left in edicola, con la copertina dedicata allo sciopero dell’otto marzo



