Il M5s sceglie il suo candidato sindaco a Genova. Ma per il consigliere regionale: «Oggi l’uno vale uno è morto»

In queste ore, sulla piattaforma del M5s Rousseau, è in corso la votazione per scegliere il candidato sindaco per il Comune di Genova. A sfidarsi, due attivisti rodati: Marika Cassimatis, docente, già candidata al Parlamento europeo, e Luca Pirondini, professore d’orchestra candidatosi con lo spot “Genova deve cambiare musica” e soprattutto molto vicino alla consigliera regionale Alice Salvatore. A votare con un click, in 1500.
E fin qui, niente di strano. Che la scelta dei rappresentanti del Movimento sia demandata a poche centinaia di persone, quando va bene, è polemica vecchia. Come è vecchio anche il poco preavviso con cui vengono indette le votazioni nel Movimento 5 stelle e troppo stretta la finestra temporale (dalle 10 alle 19). Cosa che tuttavia i votanti non mancano di far notare sui social: «Troppo poco tempo, la gente lavora!». Perfino Cassimatis non era al corrente della votazione:
Diverso stavolta è invece il metodo, chiamato non a caso “Metodo Genova”.
«Come stabilito dal metodo Genova accedono alla votazione online su Rousseau solo i candidati che hanno ottenuto 27 o più preferenze da parte dei candidati consiglieri comunali e candidati presidente di municipio». Oltre a questo, chi si candida a consigliere comunale o municipale, dovrà decidere a quale candidato sindaco sarà legato. La lista di consiglieri che il candidato sindaco vincente porterà con sé, sarà composta da i suoi elettori. Alla base c’è l’intenzione dichiarata di «limitare ed eliminare le correnti interne», come si legge sul documento. O eliminare il dissenso?
«Abbiamo inviato il modulo per candidarsi a oltre 1000 iscritti genovesi, tutti avevano la possibilità di partecipare – si difende Salvatori – Ma soprattutto questo metodo, sperimentale, è stato pensato perché la nostra volontà è quella di vincere e di governare. Ed è meglio avere un sindaco che sin dall’inizio è sostenuto da alcune persone piuttosto che uno che si trovi in consiglio a governare con chi non è d’accordo con lui».
Ma per moti attivisti «si tratta di liste bloccate». Il metodo, introdotto per la prima volta, ha scatenato infatti l’accesa opposizione fra militanti e soprattutto ex pentastellati. Fra i quali l’ex capogruppo M5s in Consiglio comunale Paolo Putti (fuoriuscito come altri 3 degli altri 4 colleghi di scranno, e fondatore del gruppo omologo al parmense di Pizzarotti, “Effetto Genova”), che oggi ha postato un’eloquente immagine della prima pagina di Cuore:
In queste ore, ha dichiarato: «Abbiamo perso tutti». In un lungo post, spiega perché il Movimento 5 stelle ha fatto perdere il Movimento 5 stelle.
Finalmente al via il referendum contro la precarietà. Si vota il 28 maggio
È fissata per il 28 maggio 2017 la data dei referendum sull’abolizione dei voucher e sulla responsabilità solidale negli appalti, promossi dalla Cgil e dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale a gennaio (al contrario di quello che avrebbe voluto l’abolizione del Jobs act). Essendo referendum abrogativi, sarà necessario raggiungere il quorum.
Cosa dicono i quesiti
La data – attesa e rivendicata ripetutamente dal sindacato, che nel frattempo era partito il 22 febbraio con la campagna referendaria #con2esì – è stata fissata stamattina dal Consiglio dei ministri, e coincide con la finestra elettorale delle amministrative (15 aprile – 15 giugno). Per i mille Comuni che dovranno rinnovare le proprie amministrazioni non c’è ancora una data. È Arturo Scotto, anche lui confluito in Articolo1 Dp, a chiederne l’accorpamento delle due votazioni, che, come ricorda il collega Francesco Laforgia, permetterebbe di risparmiare 300 milioni di euro.
Finalmente data #ReferendumLavoro. Si voterà il 28 maggio su #voucher e #appalti. Adesso necessario accorpare con turno amministrativo.
— Arturo Scotto (@Arturo_Scotto) 14 marzo 2017
A ruota, anche Michele Emiliano chiede un “election day” – come la segretaria Susanna Camusso e l’M5s – e dichiara apertamente la sua opposizione al progetto di legge del partito a capo della cui segreteria si sarebbe candidato: «Voterò due volte Sì ai referendum della Cgil», spiega «perché le norme sul lavoro vanno azzerate e riscritte da capo, col contributo di tutte le parti sociali. Farsi dettare le ricette sulla scuola e sul lavoro dai poteri esterni non va bene».
Esulta la Cgil, naturalmente.
Finalmente al voto !
il 28 Maggio 2017 si vota per il #ReferendumLavoro con 2 SI !
E’ questa la democrazia.#LiberailLavoro
🎈🎈🎈 pic.twitter.com/XyGYD5rkmJ— Filcams Roma e Lazio (@EFilcams) 14 marzo 2017
In realtà, però, la vittoria dell’indizione è minata dalle intenzioni del governo, che sta cercando di svuotare la portata dei referendum modificando il decreto Damiano. La proposta di modifica della disciplina del lavoro accessorio – che porta la firma di Patrizia Maestri (Pd) – è attualmente al vaglio in Commissione Lavoro alla Camera assieme ad altre 7. Ma, come ha scritto sul numero di Left in edicola Giorgio Airaudo, «soltanto una chiede l’abrogazione completa della normativa», ed è quella di Sinistra italiana. Perfino quella dei 5stelle non si discosterebbe particolarmente dall’originale dell’ex ministro del Lavoro. L’esame del provvedimento dovrebbe iniziare domani e terminare non si sa bene quando. «Dipende dal Governo», ha detto Maestri, «noi faremo il possibile».
Il motivo per cui Commissione e partiti si stanno dando tanto da fare sul testo di legge, è che al di là dei singoli quesiti e di cosa potrebbero eventualmente ed effettivamente abrogare, la consultazione del 28 maggio è molto di più di una semplice referendum: «Sarà un voto sulla precarietà in generale», scrive sempre Airaudo, «e sulla legislazione del lavoro che ormai da vent’anni – dal pacchetto Treu in poi – precarizza le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori, riducendoli ad apolidi senza contratti, senza diritti e senza regole», che come testimoniano anche i dati sul Jobs act elaborati dalla Fondazione Adapt (il centro studi fondato dal giuslavorista ucciso dalle nuove Br, Marco Biagi, padre del contratto a progetto e del lavoro occasionale), è aumentata a seguito delle riforme del governo Renzi. «Non può dirsi oggi raggiunto l’obiettivo principale del Jobs Act, più volte comunicato, di invertire il rapporto tra il flusso dei contratti a tempo determinato e quello dei contratti a tempo indeterminato», scrive il rapporto pubblicato dal fattoquotidiano.it, nonostante gli sgravi contributivi siano costati allo Stato l’equivalente di una manovra finanziaria, «circa 20,3 miliardi di euro». Alla riduzione della decontribuzione, nel 2016, ha corrisposto «una crescita netta di 221mila contratti a tempo determinato (+187%)”. Non solo, per quanto per mancanza di dati non sia evidente, l’istituto ha registrato, tra il 2014 e il 2016, l’aumento costante dei licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo».
Di questa precarizzazione estrema, «i voucher ne sono solo la manifestazione estrema».
Non solo. Com’è successo per il refrendum costituzionale del 4 dicembre scorso, che ha determinato di fatto la ritirata (momentanea) di Renzi, anche la consultazione del 28 sarà un voto che porterà i cittadini a esprimersi in merito alla gestione della materia lavoro del governo stesso. Sarà un nuovo appuntamento in cui i cittadini, più che alle elezioni, esprimeranno la loro opinione su chi li governa.
«Leggi anche: «Non possiamo dire mai di no e metà del lavoro resta al nero». Com’è la vita del voucherista
Attacco al paesaggio. Il governo Gentiloni fa la festa al Belpaese
Il 14 marzo 2017 la prima edizione della Giornata Nazionale del Paesaggio voluta dal Ministero dei beni e delle Attività Culturali. Ma ben vedere c’è ben poco da festeggiare. In Italia il consumo di suolo procede a ritmi vertiginosi, deregulation e abuso edilizio stanno sfiguranndo il volto del paesaggio nostrano. Invece di correre ai ripari, sulla strada aperta dal governo Renzi con la Sblocca Italia, il governo Gentiloni considera l’articolo 9 carta straccia. ” Non è cambiato nulla”, denuncia Vittorio Emiliani fondatore del Comitato per la bellezza e autore del libro Lo sfascio del Belpaese in uscita per Solfanelli. “Del resto, se i ministri, Franceschini alla Cultura e Galletti all’Ambiente, rimangono gli stessi, è ben difficile che qualcosa di rilevante cambi. E’ vero che Matteo Renzi ha una sorta di “questione personale” contro i Soprintendenti, ma Dario Franceschini è stato il suo braccio esecutivo e con lui Marianna Madia che nella riforma della Pubblica Amministrazione ha sottomesso i Soprintendenti ai Prefetti. Roba da Stato Sabaudo ante Unità d’Italia. Una autentica follia. Quindi l’articolo 9 della Costituzione continua a valere praticamente niente”.
In più la buona legge Cederna-Ceruti n. 394 del 1991 sulle aree protette rischia di essere manomessa, con quali conseguenze?
Un recente appello contro la legge Caleo (Pd) che stravolge la legge Cederma-Ceruti del ‘91 è stato rivolto a Paolo Gentiloni che per diversi anni diresse il mensile Nuova Ecologia da centinaia di esperti, di scienziati, di studiosi, di dirigenti o ex alti dirigenti dei Parchi. Per ora nessuna risposta. Ermete Realacci, ex presidente di Legambiente e presidente della Commissione Ambiente, territorio, lavori pubblici ha detto più volte che, nonostante le pressioni delle lobby, non avrebbe fatto passare com’era arrivata dal Senato la legge Caleo. Vedremo. Anche a lui sono giunte centinaia e centinaia di messaggi di protesta contro questa legge indecente con la quale il Pd realizza quanto non riuscì ai ministri berlusconiani Matteoli e Prestigiacomo. Ai presidenti non si chiede alcuna qualificazione specifica, i direttori saranno nominati dai consigli di amministrazione, anche questi senza garanzie tecnico-scientifiche, nei CdA vengono immessi gli agricoltori i cui interessi possono spesso configgere con i valori naturalistici e ambientali, viene ammesso il pagamento di royalties da parte di petrolieri, cavatori, installatori di ski-lift o di funivie, ecc. e altre nefandezze ancora. Contemporaneamente il consumo di suolo va avanti senza freni e la relativa legge è insabbiata. Lo Sblocca-Italia e la riforma Madia hanno convalidato il silenzio/assenso. I piani paesaggistici Stato-Regioni sono fermi alla misera cifra di due (Puglia e Toscana) e mezzo (le coste della Sardegna, grazie alla Giunta Soru, poi più nulla).
Il comitato per la bellezza insieme ad associazioni di base diffuse sul territorio stanno organizzando una risposta?
Le associazioni per la tutela, la stessa Assotecnici del Mibact, numerose associazioni di categoria si sono unite in un cartello chiamato Emergenza Cultura che il 7 maggio scorso ha portato in corteo e poi in piazza circa 2000 archeologi, storici dell’arte, architetti, archivisti contro la riforma/deforma Franceschini-Renzi-Madia. Pochi i giornali che ne hanno dato notizia. Eco in tv molto limitata. Una sorta di silenzio omertoso. Emergenza Cultura è diventato un sito molto frequentato che ospita interventi, denunce, proteste, Dossier regionali sul caos e la paralisi in cui è stata precipitata la tutela. Qualcosa filtra nei media, troppo poco però rispetto ai guasti enormi che si stanno provocando. Anche le principali associazioni naturaliste pungolate dal cosiddetto Gruppo dei 30 (del quale anch’io faccio parte) hanno prodotto documentate denunce contro la totale latitanza del ministro Galletti organizzando conferenze-stampa, convegni, manifestazioni.
Mancano però gli interlocutori politici?
Purtroppo nel Pd sono pochissimi i politici, i parlamentari ancora sensibili a questi drammatici problemi. Cito per tutti Walter Tocci che di recente ha redatto e presentato uno studio importante contro la frantumazione della Soprintendenza archeologica speciale di Roma, un vero scandalo da ogni punto di vista. Sensibili si sono anche dimostrati Serena Pellegrino di Sel (ora Si),Stefano Fassina, Pippo Civati, alcuni esponenti di 5 Stelle come la senatrice Michela Montevecchi. Per ora in ordine sparso però. La Giunta Raggi sta deludendo profondamente dopo l’uscita di Paolo Berdini dall’assessorato all’Urbanistica dopo mesi di frustranti dibattiti. Per contro i giovani stanno dimostrando un rinnovato interesse per i grandi temi del cambiamento climatico, papa Francesco ha pubblicato una Enciclica coraggiosa sui pericoli che corre il pianeta. Tanta sordità politica è davvero incredibile. Comunque noi non molleremo. Anzi intensificheremo gli sforzi.
Stipendio e indennità del super direttore. Un dettaglio non marginale del caso Sole24

Roberto Napoletano, per chi non avesse mai visto una puntata di Porta a Porta, è il direttore del Sole24ore. Il Sole24ore è il quotidiano dell’omonimo gruppo editoriale, che è di Confindustria e pubblica anche Radio24 e varie altre testate. Entrambi, gruppo e direttore, hanno sostenuto l’abolizione dell’articolo 18 e l’introduzione del contratto a tutele crescenti (che sarebbe più corretto chiamare “contratto a monetizzazione crescente”), quello che, in caso di licenziamento senza giusta causa, non prevede più il reintegro (salvo discriminazioni) ma appunto un indennizzo, la monetizzazione dell’ingiusto licenziamento: due mesi ogni anno di servizio, per un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità.
Bene. Anzi male.
Dalle carte dell’inchiesta sui bilanci del Sole24, infatti (inchiesta che come sempre bisognerà vedere dove ci porterà) è venuto fuori – qualche giorno fa, ma mi ero distratto – che Napoletano e il suo editore avevano uno speciale accordo in caso di licenziamento del direttore. “In caso di recesso da parte della società non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo, la società sarà tenuta a corrispondere al dott. Napoletano, in aggiunta all’indennità sostitutiva del preavviso prevista dal contratto nazionale di lavoro”, dice la scrittura privata, “una somma lorda forfettaria e onnicomprensiva pari a 36 mensilità della sua retribuzione lorda fissa (ad oggi pari a euro 750.000 lordi su base annua)”.
La redazione del Sole 24 Ore ha votato sciopero a oltranza fino all’uscita del direttore Roberto Napoletano #sole24ore #cdr
— Cdr del Sole 24 Ore (@Cdr_Sole24Ore) 10 marzo 2017
Ora. Stabilire un’indennità aggiuntiva è una cosa che – non solo nei giornali – per le figure apicali, si fa, per via del rapporto tipicamente fiduciario. Due cose però colpiscono. La prima, come nota Francesca Fornario, è che a Napoletano evidentemente non piaceva poi tanto il contratto a tutele crescenti, tant’è che le ha volute maggiorare un bel po’.
La seconda: mi aiutate voi a calcolare quanti precari si assumono con – non dico 750mila, che nessuno pensa che il direttore non possa guadagnare bene – ma 500mila euro? Senza articolo 18, eh, quanti? Quindici? Dieci? Quanto giornalismo (giornalismo sano, per chi lavora e per chi legge, ascolta o guarda) si fa con 500mila euro l’anno?
1917. Il sogno rivoluzionario e un nuovo modo di fare arte
Furono le tessitrici di Torshilovo e le dipendenti del deposito di tram dell’isola Vassilievsky a ribellarsi per prime, accendendo la miccia di un processo che nel giro di otto mesi avrebbe fatto crollare la monarchia culminata con l’ assalto del palazzo d’inverno deigli zar da parte dei bolscevichi. Da una manifestazione per festeggiare la giornata internazionale della donna partì una rivolta ben più politicizzata e consapevole, che sfociò in rivoluzione.
Dal 1917 a oggi la rivoluzione russa continua ad essere oggetto di studio. Non solo sul piano economico- politico, ma anche e soprattutto su quello della storia dell’arte: come uno dei rarissimi momenti in cui il sogno progressista dell’«uomo nuovo» e di una società più giusta e solidale ha acceso la fantasia dei pittori, ma anche quella di leader capaci. Certo, ci voleva un politico come Lenin che non aveva frequentato solo i libri di Marx ma anche i cabaret dadaisti a Zurigo. Fu capace di immaginare treni dipinti dai futuristi per far alzare la testa anche ai contadini russi, da molti secoli sfruttati come schiavi della gleba.
Ma soprattutto ci voleva la straordinaria inventiva di pittori cubo-futuristi o dalla vena fiabesca come Chagall e il primo Kandinskij per dare forma e colore, movimento e profondità al sogno di un futuro più umano dove l’arte, la musica, il teatro avrebbero avuto un ruolo di primo piano.
Ripercorre i ruggenti anni Dieci del Novecento – che in Russia videro emergere decine di nuovi talenti – il docufilm, Revolution. La nuova arte per un mondo nuovo, che sarà proiettato nelle sale cinematografiche italiane il 14 e il 15 marzo per iniziativa di Nexodigital. Un’opera straordinaria perché la regista Margy Kinmonth ricostruisce tutta la parabola della rivoluzione russa nell’arte fino ai drammatici esiti finali, attraverso documenti di archivio, spezzoni dei film di pionieri del cinema come Dziga Vertov e Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn e una serie di inedite interviste. Non solo a storici dell’arte e direttori di musei come, Mikhail Piotrovsky dell’Ermitage e la direttrice della Galleria Tret’jakov Zelfira Tregulova. Ma anche andando a scovare artisti di oggi, nipoti e pronipoti di quei pittori raggisti, cubo-futuristi, costruttivisti e supramatisti che furono protagonisti della prima entusiasmante stagione rivoluzionaria. Per poi essere censurati, perseguitati, esiliati, internati nei gulag e non di rado uccisi se non accettavano di rinunciare allla propria ricerca per sposare un opprimente realismo socialista. Accadde soprattutto sotto il regime di Stalin, ma già Lenin, dopo le geniali aperture iniziali, aveva fatto retromarcia. Nel film lo raccontano in toccanti testimonianze il nipote di Rodčenko e il regista Andrej Konchalovskij, parlando di suo nonno pittore.
Passare all’opposizione, diventare dissidenti rispetto al regime, dopo aver partecipato attivamente alla rivoluzione non era una scelta facile. Perché si rischiava la vita, ma anche perché – come Majakovskij negli anni Trenta – in molti non rinunciavano ai loro ideali di cambiamento e credevano o si illudevano di poter continuare a fare ricerca . Fra questi Alexandr Rodčenko, nome di spicco dell’avanguardia costruttivista, che si era fatto conoscere illustrando fotograficamente del poema di Majakovskij Pro Eto. Le sue opere innovative compaiono su riviste dall’estetica dirompente come Kino-Fot e Lef, collegata al Fronte di sinistra delle arti nato per iniziativa dello stesso Majakovskij per promuovere la cultura rivoluzionaria. Rodčenko pensava che cambiare punto di vista sul mondo potesse portare a cambiare il mondo, in senso progressista e socialista. Che avrebbe permesso di guardare oltre l’orizzonte chiuso delle dfferenze di classe e delle ingiustizie sociali. Come il suo giovanissimo pioniere del 1930 che guarda il cielo. Prospettive inusuali e movimento sono le chiavi della sua estetica. Scandite dal ritmo delle diagonali le sue foto offrono una visione dinamica della realtà. Accusato dalla censura di regime di essere troppo «formalista» e «occidentale» fu costretto ad abbandonare i ritratti e le sue vertiginose e affascinanti foto delle architetture moscovite per dedicarsi ad eventi sportivi, parate, cerimonie, spettacoli circensi. Cercando ogni modo per continuare -seppur in modo più nascosto – la propria ricerca.
Mentre la rivoluzione russa arriva sul grande schermo (nelle sale del circuito Nexodigital e a Cinemazero di Pordenone) il Mudec di Milano dal 15 marzo rende omaggio a Vasilj Kandinskij con 49 opere che raccontano i prodromi della svolta verso l’astrazione. Nella mostra Kandinskij il cavaliere errante, promossa da 24 Ore Cultura, le curatrici Anna Masoero e hanno deciso di esporre anche 85 opere – icone, stampe popolari e oggetti di arte decorativa, che ben raccontano le radici della pittura d’avanguardia russa profondamente legata a leggende e fiabe popolari ma anche ad una religiosità diffusa che la rivoluzione di ottobre riuscì a nascondere sotto il tappeto dell’ideologia senza riuscire a laicizzare davvero il Paese. Una vena spiritualista scorre sotterraneamente in larga parte dell’arte rivoluzionaria, spesso- come nel caso di Kandinskij – cercando un’ispirazione irrazionale, alludendo a una realtà umana non cosciente, che si esprime per immagini. Di quella fase di ricerca ricca di fantasia sono espressione le opere di Kandinskij in mostra negli spazi del Museo delle Culture s Milano, (che dal 24 al 26 marzo ospita dibattiti e presentazioni di libri nell’ambito di Book Pride).
Le opere della mostra Kandinskij il cavaliere errante,provengono dall’Ermitage di San Pietroburgo, dalla Galleria Tret’jakov, dal Museo di Belle Arti A.S. Puškin e dal Museo Panrusso delle Arti Decorative, delle Arti Applicate e dell’Arte Popolare di Mosca e in gran parte non sono mai state esposte in Italia.
Tantissime sono le mostre e gli approfondimenti dedicati alla rivoluzione dell’arte in Russia in giro per l’Europa. Per continuare ad approfondire, fino a metà aprile è aperta la mostra Revolution. Russian Art 1917-1932 alla Royal Accademy di Londra. I curatori Ann Dumas, John Miller e Natalia Murray hanno costruito un percorso che racconta la convivenza , tra il 1917 e il 1932, tra forme di sperimentalismo astratto e di realismo non convenzionale ( che nulla a che fare con l’ottusità del realismo socialista). In quel quindicennio in Russia si sperimentò a tutto raggio fra architettura, pittura, fotografia, cinema, grafica pubblicitaria, ceramiche e molto altro. Dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo e dalla Galleria Tretyakov di Mosca provengono circa duecento opere altre sono prestiti di collezioni private internazionali. Scandita da sezioni tematiche, la mostra inizia con un approfondimento dedicato all’iconografia leninista, contestualizzandola storicamente. Lenin prese il potere nel 1917 potendo contare solo su 350mila bolscevichi, quando la Russia allora aveva 140 milioni di abitanti, per lo più contadini legati allo zar e alla Chiesa ortodossa. Per diffondere gli ideali rivoluzionari, come accennavamo, Lenin trasformò perfino i vagoni ferroviari in tele. È del 1918 il suo Piano di Propaganda Monumentale grazie al quale tappezzò il Paese di scritte, slogan, parate, bandiere. Ma non bastava. Allora cercò di risemantizzare, di dare un contenuto diverso, all’iconografia sacra, tanto diffusa in Russia. Cominciò così una propaganda che tendeva a rendere “sacra” la sua figura. Una operazione che toccò l’acme con Stalin, che attuò un vero e proprio culto della personalità. Ritratti “irreverenti” come quello Georg Rublev (1930), non sarebbero più stati possibili e fu bene presto rinchiuso nello studio dell’artista. La propaganda figurativa consentiva solo ritratti monumentali in mezzo a un fiorire di madri con bambini e operai al lavoro. La roboante pittura di Alexander Deineka ne divenne l’emblema .
Siamo stati a vedere la chiusura della campagna di Jesse Klaver, speranza della sinistra in Olanda
Gli ultimi sondaggi che arrivano dall’Olanda, mostrano un Partito della libertà (Pvv) che non riesce a superare il tetto del 15 per cento. Se i numeri fossero confermati, Wilders non avrebbe diritto allo “scettro” di primo partito, ma i sondaggi, specie quelli relativi a partiti ai margini dello spettro politico vanno presi con le molle. Ma conta veramente qualcosa arrivare primi? In fondo, tutti i partiti hanno già escluso da tempo un’alleanza con il leader originario di Venlo. E soprattutto, il Pvv non è certo l’unico partito a giocare la carta anti-migranti. Motivo per il quale ci si potrebbe rallegrare soltanto in parte di una sconfitta del PVV. In un sistema elettorale proporzionale puro, il destino è, in ogni caso, quello del governo di coalizione.
La vera novità partitica delle ultime settimane arriva invece da sinistra e porta il nome di Jesse Klaver, leader del partito GroenLinks (“Sinistra ecologica”). Ne abbiamo parlato ieri su Left. Tra le formazioni dell’arco progressista, GroenLinks è quella che fa meglio sperare ed è l’unica che combina, da programma elettorale, posizioni pro-welfare e pro-integrazione delle minoranze etniche. Klaver rappresenta l’unica opposizione (con un certo peso elettorale) al discorso xenofobo di Geert Wilders, su tutti i fronti del tema “immigrazione-identità”: dai rifugiati, passando per i lavoratori dell’Europa dell’Est, fino ad arrivare ai cittadini olandesi con un passato migratorio o di fede musulmana.
Eppure, non per tutti il discorso del giovane leader è abbastanza netto. Per alcuni Klaver “ è troppo intellettuale”, per altri “non fa pesare abbastanza le sue origini marocchine”. La critica arriva soprattutto dalle comunità delle seconde e terze generazioni, quelle con genitori nati nelle ex-colonie dei Paesi Bassi. Una cosa è certa a un giorno dal voto. Se la sinistra dovesse avere una maggioranza, sarebbe il candidato Premier numero uno.
Siamo andati ad Amsterdam a seguire la chiusura della campagna elettorale di GroenLinks, all’Afas arena.
Il vangelo secondo Klaver
Le luci sono più verdi che rosse e, per certi versi, sembra di stare a una puntata di The Voice, non a una convention di un partito politico. In effetti, prima ancora che Klaver faccia il suo ingresso in scena, sul palco si susseguono un poeta, due rapper e una cantante soul. GroenLinks è in fin dei conti un prodotto dei tempi che corrono: la politica deve essere anche spettacolo.
Cinque minuti di Klavert a 360° (in olandese)
Dicono che Klaver somigli un po’ a Trudeau e un po’ a Obama. Ma se è per questo, veste pantalone blu e camicia bianca, proprio come Renzi. Quando si lancia sul palco dell’Afas arena gremita di gente – 5mila persone secondo i media – è tutto un boato. Il pubblico è giovane, con una netta predominanza bianca.
Eppure, i riferimenti di Klaver quando parla della traiettoria del proprio partito, vengono da lontano. Cita Gandhi: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci». L’arena di infiamma e Klaver insiste: «È una metafora della mia carriera politica degli ultimi anni». Poi parla di discriminazione, citando la lettera di un ragazzo di Groningen, cittadina del nord dei Paesi Bassi. Si chiama Romano e, nonostante sia nato in Olanda e abbia un accento perfetto, subisce un razzismo becero. Quello al quale però «dopo un po’ ci si abitua». Klaver gli assicura che per lui «questa non può essere la normalità». Che «combatterà questo razzismo». E che vuole «indietro l’Olanda che tutti conoscono […] il Paese delle libertà, dell’uguaglianza e dell’empatia».
Ed è proprio l’empatia (lo sottolineava ieri Ilaria Giupponi qui su Left) il perno della retorica “Klaveriana”: «Se c’è una cosa che ci ha fatto progredire come società, se c’è qualcosa che ci permette di andare oltre, questa cosa si chiama “empatia”. L’idea che dobbiamo rimanere uniti. Guardatevi intorno e noterete che le cose che uniscono, sono più di quelle che ci dividono», afferma il giovane. Il riferimento alla dialettica di Obama è lampante.
Ma Klaver è europeo e quando, nel suo discorso, tocca la filosofia politica si sente: «Dobbiamo unirci nella lotta contro l’ “economicismo”. Contro la convinzione che esista una sacra trinità: quella della crescita, del mercato e di sempre “meno Stato”». È un credo che ha distrutto molto «più di quello che pensiamo». «Ha ridotto la società al mercato, il valore delle cose ad un prezzo, le persone alle macchine», aggiunge Klaver. È quindi il tempo di una «nuova Trinità», quella «della condivisione equa, della sostenibilità e dell’empatia».
Come si fa raggiungere tanto? Innanzitutto bisogna scalzare i partiti dell’ “establishment” – i Conservatori Liberali del Premier Mark Rutte, i Cristiano democratici e i liberali della formazione D66 – perché rappresentano «l’arroganza al poter, lo status quo». Klaver predica: «Fate di noi un grande partito e ripoteremo gli ideali nella politica. Dateci ancora un po’ di più e saremo un alleato chiave nelle negoziazioni dopo il voto. E se arriveremo a essere il primo partito, creeremo un governo di sinistra». Qualcosa che nei Paesi Bassi, «manca da 40 anni». Secondo il giovane olandese è l’unica scelta del «cambiamento», per una «nuova politica progressista». Parola di Jesse.

Il dibattito Rutte – Wilders
Intanto, ieri sera, si è consumato l’ultimo scontro Tv tra il Primo ministro uscente, Mark Rutte, e Geert Wilders, il leader del Pvv. I due si sono scontrati in occasione dell’ultimo dibattito elettorale prima del voto. Sebbene l’Europa non sia stata al centro della campagna fino a questo momento, ieri l’Ue è stata oggetto di un acceso scambio di battute. Wilders spinge esplicitamente per un’uscita dall’Unione. Rutte ha invece citato uno studio del 2014, commissionato dal suo partito e secondo il quale una così detta “Nexit” comporterebbe la perdita di circa 1.5 milioni di posti di lavoro all’economia dei Paesi Bassi.
Ma la Nexit è uno scenario realistico? Improbabile. In primo luogo, come ha affermato Hans Vollaard, un esperto di processi di integrazione europea dell’Università di Leiden, dopo il voto, una maggioranza di deputati sarà comunque contrario a un’uscita dall’Ue. Tradotto: non ci sarebbero i numeri per organizzare un referendum sul tema. In secondo luogo, l’euroscetticismo puro nel Paese arriverebbe massimo a un 15 per cento. In ultimo, in Olanda l’istituto referendario non ha un carattere vincolante.
In marcia per dire No alla mafia del caporalato. Aderisci all’appello

Una Marcia nazionale per dire No. No allo sfruttamento sessuale accanto a quello lavorativo, alla riduzione in schiavitù, a condizioni di vita e di lavoro disumane, a violenza fisica e psicologica. E poi a finte cooperative, abuso dei voucher e buste paga false, a lavoro grigio e nero. Sono tante e diverse le forme in cui si manifesta il caporalato nel nostro Paese, dal Nord alle campagne del Sud, nei confronti di lavoratrici e lavoratori stranieri ma anche italiani. Eppure dall’incrocio delle inchieste della magistratura, dei numerosi report – oggi è stato presentato a Roma il quinto Rapporto Agromafie di Eurispe e Coldiretti – e del lavoro sul campo di attivisti, giornalisti e ricercatori emergono alcune costanti. Innanzitutto, il caporale è l’ultimo anello di una catena che salda diversi interessi all’insegna della riduzione dei costi: dalla grande distribuzione che stabilisce il prezzo, passando per i mediatori e i produttori che cercano di massimizzare il loro profitto. E spesso nell’affare entrano anche le mafie, che controllano buona parte della filiera, a partire dai mercati ortofrutticoli, le grandi centrali di raccolta, smistamento e trasporto dei prodotti ortofrutticoli coltivati in Italia o importati dall’estero. Talvolta con la complicità della politica locale.
Da qui l’urgenza di un’iniziativa che accendesse i riflettori evidenziando con forza alcune questioni da affrontare con urgenza, e l’idea di una Marcia nazionale contro il caporalato da realizzare ad aprile in Puglia.

Sono circa 100mila i lavoratori e le lavoratrici che in Italia sono sottoposti a caporalato e, nel caso degli stranieri, alla tratta internazionale di esseri umani. Un giro d’affari che arricchisce mafie e criminali e che cresce di anno in anno: si stima che nel 2016 l’economia illegale in agricoltura abbia raggiunto un valore di 21,8 miliardi di euro, con un balzo del 30% rispetto al 2015.
Nei giorni scorsi alcuni episodi eclatanti hanno riacceso i riflettori sul fenomeno. Il quotidiano britannico The Guardian ha raccontato la storia di Nicoleta Bolos, bracciante rumena nelle campagna del ragusano costretta ad avere rapporti sessuali con il proprietario della serra in cui lavorava in cambio della possibilità di continuare a lavorare a nero e pagata una miseria. Violentata, picchiata e sfruttata. Che non si tratti di un caso isolato lo conferma dalle pagine di Left in edicola da sabato 11 marzo Bruno Giordano, magistrato vittoriese presso la Corte di Cassazione: “Le donne rumene di Vittoria e non solo vengono arruolate, a volte con tutta la famiglia, in cambio di alloggi rurali e di 2,50 euro all’ora per lavorare nelle serre anche 12 ore al giorno. Un lavoro gravemente sfruttato e senza tutele per la salute.: incidenti e malattie ormai sono una costante. E a volte seguono ricatti e festini sessuali che sono una vergogna nella vergogna».
Dopo un altro episodio sconcertante, la morte di due braccianti maliani nel “Gran ghetto” di Rignano Garganico (Foggia) la notte tra il 2 e il 3 marzo, un gruppo di scrittori e attivisti – Leonardo Palmisano, Marco Omizzolo, Giulio Cavalli e Stefano Catone – ha lanciato l’idea di una Marcia nazionale contro la mafia del caporalato da tenersi lunedì 17 aprile (a partire dalle 11 a Borgo Mezzanone, Foggia) proprio in Capitanata, attraverso i ghetti e i luoghi dello sfruttamento, con l’obiettivo di attirare l’attenzione di media e politica e ottenere nuove misure dopo la pur utile approvazione, a ottobre 2016, della nuova legge contro il caporalato. A partire da una profonda revisione del sistema di accoglienza dei migranti e richiedenti asilo.
Left aderisce e contribuisce all’organizzazione della marcia diffondendo l’appello alla mobilitazione e le rivendicazioni dei promotori, raccogliendo le adesioni di singoli cittadini, associazioni, enti e istituzioni. L’appello #MarciaNoCaporalato per una Marcia nazionale contro la mafia del caporalato è disponibile all’indirizzo www.left.it/MarciaNoCaporalato e per aderire basta scrivere a [email protected].
Barzelletta Salvini: critica la legge sulla legittima difesa. Che ha scritto la Lega

Ma chi l’ha scritta quella legge buonista che fa tanto incazzare Salvini ormai in tour permanente a fare il pieno dal benzinaio che spara, a cenare dal ristoratore che spara e a innamorarsi di chiunque a cui per sbaglio parta un colpo sfortunatamente mirato alla perfezione? Loro. Lega Nord, Forza Italia, Udc e Alleanza Nazionale.
Era il 20 dicembre del 2002 e questi presunti “sceriffi” da cortile brogliavano una proposta di legge dal titolo “Modifica all’ articolo 52 del codice penale in materia di diritto all’ autotutela in un privato domicilio”, abbreviato in un marchettara “autodifesa” per renderla più golosa. In calce a quella proposta (che divenne legge il 13 febbraio del 2006) spiccano le firme di Calderoli, Brignone, Peruzzotti e Tirelli, tutti senatori del Gruppo Lega Padana (erano ancora i tempi in cui gli stranieri erano i terroni, prima di diventare filonapoletani per un pugno di voti e qualche schizzo in più di notorietà) e la Lega, udite udite, stava al Governo dove Salvini chiede di tornare per “risolvere i problemi di sicurezza in Italia”.
Le promesse vane del resto funzionano solo con la marmaglia senza memoria e con il culto della superficialità. La vicenda di Lodi intanto comincia a sbrodolare qualche bugia di troppo: secondo il Procuratore “la dinamica non è così chiara come sembra, ci sono delle cose che non tornano” e un testimone dichiara di avere sentito due colpi distinti (la famosa raffica partita per sbaglio, evidentemente) e “la versione di Mario Cattaneo non collima – dice sempre il Procuratore – con quella del figlio”.
Perché? Perché il vero dramma non è tanto l’episodio (e pare che anche la famiglia del Cattaneo ne sia ovviamente e per fortuna molto scossa) ma questo cavalcare avvoltoio di chi tromboneggia nella propaganda e poi si sbriciola alla prova dei fatti e della storia.
E sparare con chi spara è un’illegittima difesa patetica, pericolosa e confusa.
Buon martedì.








