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«Il decreto Minniti sembra pensato per punire il disagio sociale»

MARCO MINNITI

Ieri la Camera ha discusso, ma non votato, il decreto Minniti sulla sicurezza, un testo che contiene diverse misure pessime, tutte dettate dall’idea di tranquillizzare l’opinione pubblica inseguendo la Lega di Salvini e i suoi deliri sulla legittima difesa alla texana. Del resto, anche nel dibattito in Aula, diversi parlamentari del centrodestra hanno riconosciuto al titolare degli Interni una identità di vedute su alcuni temi. Left ne aveva parlato nel numero dell’8 marzo e anche qui. Gli articoli da noi pubblicati si concentravano soprattutto sulle norme relative all’immigrazione e ai richiedenti asilo (che fanno il paio con gli accordi con la Libia in materia).

Due giorni fa Sinistra italiana e Possibile avevano tenuto una conferenza stampa per segnalare i pericoli e le storture di questo testo relative ad altre questioni. Nel frattempo, da diversi comuni del Nord arrivano notizie sull’applicazione del decreto da parte dei poteri locali: ubriachi a cui viene vietato l’ingresso in stazione, a Gallarate il sindaco leghista ha emesso un’ordinanza che prevede il nuovo Daspo (multa e obbligo a lasciare la città) per writer e persone ubriache. Una caccia al diverso e allo sfigato per far sparire il disagio dalla vista dei cittadini per bene. Ne abbiamo parlato brevemente con Giulio Marcon, capogruppo di Si alla Camera dei deputati.

Partiamo dalla vostra posizione: perché la filosofia che anima questi provvedimenti è sbagliata?

È un decreto chiaramente elettoralistico, che usa la sicurezza come clava e strizza l’occhio alla Lega salviniana sul suo terreno. La verità è che ci sono vizi gravi e un profilo che lede le regole del nostro Stato di diritto e potrebbe persino essere anti-costituzionale.

Non le sembra di esagerare? Quali sono i temi che vi fanno assumere una posizione così netta?

I poteri ai sindaci su questioni delicate come il trattamento riservato ai senza fissa dimora, ai rifugiati, ai tossicodipendenti, alle occupazioni sono una cosa grave. È una potenziale stretta securitaria nelle città in un periodo storico in cui non vi è un allarme sicurezza più grave che in passato, non su questi temi. E c’è un’idea di fondo che punta a risolvere grandi questioni sociali del nostro tempo come questioni di ordine pubblico. È l’antica filosofia del punire i poveri e il disagio».

Mi faccia degli esempi concreti.

Ricorda le ordinanze del sindaco di Treviso Gentilini, quello che prometteva di sparare sale sugli immigrati e vietava di sedere sulle panchine perché gli stranieri le usavano, a suo dire, come bivacco? Bene, con le nuove norme i sindaci avranno facoltà di intervenire su grandi questioni, e contro chi viene vissuto come un fastidio. Il decreto parla di moralità, lesione dei principi di convivenza, decoro urbano. Sono tutte categorie molto vaghe che consentono di intervenire in ogni luogo e spazio pubblico. Non voglio che i barboni dormano in stazione d’inverno? Non voglio gente nei giardini? Non voglio che i filippini o i sudamericani che si riuniscono il giovedì, quando hanno la mezza giornata libera, stiano assieme e mangino in un parco? Posso, se sono un sindaco che sposa l’idea securitaria di Lega e destra – e contenuta in questo decreto – vietare, chiudere ed emettere ordinanze in questo senso.

C’è infine l’allargamento del Daspo anche alle occupazioni di spazi pubblici: si attribuiscono poteri di intervento su temi quali le occupazioni delle case e quelle di spazi sociali, ma queste questioni si affrontano in maniera politica e non per via amministrativa.

Questo è un tema su cui è pensabile vedere un voto della sinistra unita in Parlamento secondo lei?

Vedremo, su questa materia sarebbe importante trovare unità a sinistra. Noi stiamo provando a dire delle cose. Aspettiamo di vedere cosa faranno gli eletti del Mpd (il gruppo appena formatosi con fuoriusciti dal Pd e da Sel, ndr).

Il trucco per essere leader è andare fuori tema

Prima c’è Beppe Grillo che ci spiega perché, per legge, non è lui a dovere rispondere dei contenuti del suo blog. E così di colpo “l’organo ufficiale” da cui partono anatemi e espulsioni si trasforma in una sparuto sito tra amici. La responsabilità politica del Movimento 5 Stelle (sventolata ripetutamente nella sua veste di “fondatore”, poi da “garante”, poi da un temporaneo “passo di lato” seguito da un “rinnovato impegno in prima fila”) vale se c’è da bombardare gli avversari politici ma diventa un rivolo occasionale, se serve. Leader a corrente alternata. Il punto politico? Niente, si parla d’altro.

Luca Lotti invece si presenta al Senato per discutere della mozione di sfiducia nei suoi confronti e smette di essere Lotti. Decide di difendersi prima nel ruolo di garantista confuso (ma ve lo ricordate il PD nei confronti della Cancellieri, Lupi e la Idem, per dirne qualcuno?), poi diventa renzianissimo renziano (“Oggi è in atto il tentativo di colpire me non per il mio ruolo – ha detto Lotti in Aula – ma per quello che nel mio piccolo rappresento: quel tentativo di riformismo a cui anche io ho partecipato partendo da Firenze.”) e alla fine indossa i panni del giudice (“Io non ho mai passato informazioni riservate a Marroni. Sostenere il contrario significa incorrere in un reato di calunnia”). Se la verità giudiziaria la deciderà un tribunale (e ha ragione Lotti a chiedere che venga accertata in fretta, come chiedono del resto tutti i cittadini onesti e anche non ministri di questo Paese)  la discussione sull’opportunità politica del suo rimanere non ha avuto risposte.

Intanto lui, Renzi, dice che non gli piacciono i voucher e briga con Gentiloni (super partes ma inter Renzis) per evitare il referendum del 28 maggio: così tutta la retorica del suo governo (Poletti in testa) ora è carta straccia. La difesa di un governo secondo le occasioni.

Poi c’è Salvini che ogni tanto ci ricorda che alcune sue sono solo “provocazioni”, ci sono quelli che sono stati “malintesi” e così via. Una sequela lunghissima di benaltristi che nel corso di pochi giorni passano dall’essere Maradona o leader di movimento a semplici cittadini che meritano un po’ di silenzio e hanno il diritto di lamentarsi della troppa curiosità. Un giorno vorrebbero essere la soluzione universale ai nostri problemi e il giorno dopo ci chiedono di essere lasciati in pace. L’importante, del resto, è galleggiare. Galleggiare e autopreservarsi. Sempre.

Buon giovedì.

(p.s. torna l’accozzaglia del NO. Pd e Lega Nord insieme contro il referendum della CGIL. “Votate come quelli! Vergognatevi!”, vi ricordate gli insulti in occasione del referendum sulla Costituzione? Ecco. Ora le parti si invertono. Che ridere. Ogni tanto la drammaturgia della politica si supera e apparecchia scenette indimenticabili)

L’ultimo film Pixar parla delle bellezze del Messico, chissà che ne pensa Trump

Durante l’ultima campagna elettorale Donald Trump ha spesso fatto riferimento ai messicani come ai bad hombres, uomini cattivi, spacciatori, stupratori e gente che viola la legge. Proprio per questo Coco, l’ultimo film della Pixar, di cui qui sotto vediamo il trailer appena diffuso, fa piacere. Il cartone diretto dal regista di Toy Story3 Lee Unkrich è ambientato in Messico nel dìa de los muertos, il giorno dei morti. Le voci del film sono di Benjamin Bratt, Gael García Bernal, Renée Victor e Anthony Gonzalez. E speriamo facciano infuriare l’amministrazione Trump.

Cosa chiede la Cgil per rinunciare al referendum sui voucher. Sapendo che il governo pensa ad altro

Un' immagine di un voucher, Roma, 11 gennaio 2017. I voucher sono dei buoni lavoro erogati dall'Inps con cui il datore di lavoro puo' pagare alcuni tipi di prestazioni accessorie, cioe' che non sono riconducibili a contratti di lavoro in quanto svolte in modo saltuario. ANSA / ETTORE FERRARI

L’idea del decreto c’è, perché vero è l’obiettivo del governo di sminare i referendum sul lavoro promossi dalla Cgil, anche se a Palazzo Chigi scommettono sul mancato raggiungimento del quorum, reso già più complicato dalla scelta di non accorpare la consultazione, convocata per il 28 maggio, con le amministrative. Ma è sempre meglio esser sicuri.

L’idea dunque c’è, ma non c’è ancora l’intesa con tutta la maggioranza, con un pezzo del Pd e con gli alfaniani ancora convinti che sarebbe meglio non cedere e giocarsela alle urne («Soprattutto se il prezzo per evitare il referendum è di fatto abrogare i voucher», dice ad esempio Maurizio Sacconi, «molto meglio andare a vedere cosa diranno i cittadini». Per questo Giuliano Poletti dice che sul decreto «non sono previste dichiarazioni», oggi, e, prendendo tempo, lascia così spazio alle reazioni. Che comunque ci sono, visto che la strada sembra sempre più segnata.

E Susanna Camusso per la Cgil non può così che ribadire una posizione che è molto chiara, e rigetta la palla al governo e al Parlamento, dicendo che ogni valutazione del sindacato sarà fatta solo ad approvazione definitiva di una nuova legge e che la disponibilità a disinnescare il referendum ci sarà solo se pienamente soddisfatti. «I confronti», dice Camusso, «sono sempre i benvenuti ma il nostro giudizio arriverà solo alla fine, dopo che l’eventuale decreto legge sarà stato convertito dal Parlamento: non prima perché una legge convertita è il frutto di un dibattito parlamentare. E se poi lo cambiano?». «Il referendum», continua la leader Cgil, ricordando che comunque la decisione spetterà al comitato promotore, «è superabile solo a fronte di una legge già approvata. Siamo disponibili a ragionare sulla loro permanenza se i voucher riguarderanno solo le famiglie e non già la pubblica amministrazione e le imprese».

In quel caso, in effetti il successo sarebbe nei fatti, riconducendo i voucher in un perimetro persino più stretto della loro prima applicazione con ministro Cesare Damiano. Non è l’abolizione, ma spingerebbe comunque le imprese verso l’uso del lavoro a chiamata – obiettivo finale – che è un contratto vero e proprio per il lavoro occasionale, già esistente, con più tutele e limiti più definiti (400 giorni di impiego nell’arco di tre anni, ad esempio).

Si potrebbe considerare una vittoria, dunque, con il solo problema che non è quella l’ipotesi su cui sembrano orientarsi governo e maggioranza, più inclini a mantenere i bonus lavoro anche per le imprese più piccole, seppur con soglie più basse, pare a 3mila euro all’anno (e in questo caso in molti nel Pd hanno già annunciato che voteranno Sì con la Cgil, come lo stesso Damiano). E quello sì che sarebbe una beffa, perché, come ricorda la capogruppo di Sinistra italiana al senato, Loredana De Petris, «il solo modo per evitare il referendum è una legge che recepisca le richieste del comitato promotore senza cercare di truccare le carte».

Se Beppe Grillo non è Beppe Grillo, allora chi è Beppe Grillo?

February 23, 2017 - Rome, Italy - Beppe Grillo leave the Hotel Forum after meeting with the deputies of Five Star Movement. (Credit Image: © Andrea Ronchini/Pacific Press via ZUMA Wire)

Facile in questo momento fare dell’ironia sul blog di Beppe Grillo che non sarebbe gestito da Beppe Grillo. Appena pubblicata la memoria difensiva depositata dal “garante” dei Cinque Stelle per la causa intentatagli dal Pd nel 2016 – nella quale declina ogni responsabilità e titolarità di qualsiasi portale o profilo che porta il suo nome – il web, con la schiera di parlamentari Pd in testa, si è scatenato.«Ha un blog a sua insaputa», ha commentato Debora Serracchiani. Difficile resistere, in effetti, alla tentazione di evidenziare le contraddizioni. Immaginiamo come si sarebbe scatenato il comico Grillo se fosse accaduto il contrario, ovvero se fosse stato lui a ricevere un testo in cui, mettiamo, Renzi si fosse giustificato per qualche sua uscita sfortunata, adducendo come motivazione: «Non ho scritto io i miei discorsi». Così come è difficile prendere sul serio una spiegazione che, va detto, suscita inevitabilmente ilarità.

 


Oggi con un post a sua firma su quello stesso blog, Grillo (o chi per lui) corregge il tiro, spiegando che sul sito ci scrive un po’ chiunque («persone che gratuitamente offrono contributi per il Blog»), e che «i post di cui io sono direttamente responsabile sono quelli, come questo, che riportano la mia firma in calce». Gli altri, quelli non firmati, come quello oggetto della querela, «non sono direttamente riconducibile al sottoscritto». Ma a chi sono riconducibili allora quegli scritti? 

Al di là delle accuse di sdoppiamento di personalità rivolte al leader, la questione è seria. Perché riguarda ancora una volta l’assunzione di responsabilità in merito ai contenuti del blog.

Non è tanto la responsabilità legale che ci sta a cuore in questa sede: sappiamo che è riconducibile al signor Emanuele Bottaro, titolare del dominio, alla Casaleggio Associati, società che gestisce il portale, così come, spiace dirlo, a Grillo stesso, come scritto nello Statuto dell’Associazione: «Spetta al signor Giuseppe Grillo la titolarità e gestione della pagina www.beppegrillo.it», e sul blog medesimo, «titolare del trattamento ai sensi della normativa vigente».

Ma è sulla responsabilità morale che pende come un macigno quella mancanza di trasparenza che spesso il guru e comico Grillo imputa agli altri e alla politica. Chi scrive i post che spesso dettano la linea a quella che potrebbe presto rivelarsi la prima forza politica del Paese? E quelli che condannano attivisti, espellono eletti, censurano autonomie? Chi li autorizza?
Anche in merito ai post firmati ci sarebbe qualcosa da ridire: non trattandosi di un giornale ma di un organo di comunicazione – pur se sui generis – di un partito, chi e in base a quale filiera decisionale decide di dare l’accesso e il diritto di parola a un attivista o a un eletto anziché a un altro, dando vita a un’indubbia sproporzione di visibilità?

Il capo politico – come da sua definizione, è bene ricordarlo – di questo “Non-partito” dice di non avere «alcun potere di direzione né di controllo sul blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato». Non è responsabile in alcun modo (non «gestisce», non «modera», non «dirige») delle opinioni che essendo pubblicate sul suo sito, hanno forza di indirizzo politico. È il blog a promuovere (come specificato dal “non-Statuto”, all’articolo 4) la sensibilizzazione sociale, culturale e politica a cui si rifà il www.movimento5stelle.it. Grillo ha quindi una non-responsabilità.

Benissimo. Prendiamo atto dell’ulteriore passo indietro del leader rispetto al Movimento (dopo aver tolto solo formalmente il suo nome dal simbolo), ma al di là delle pur interessanti diatribe sull’intestazione dei domini (toglierà il suo nome anche dal sito?), resta un punto sul quale il “Movimento della Trasparenza” dovrebbe essere disposto a fare – e pretendere – chiarezza: l’identità dei propri vertici e di chi assume decisioni politiche e di orientamento politico.

Su questa questione i cosiddetti dissidenti hanno più volte cercato di strappare delle risposte. Se non è Grillo, chi è questo benedetto e misterioso staff?

I post sono spesso violenti, giudicano senza possibilità di replica, e danno visibilità (negativa o positiva) in maniera arbitraria ad alcune questioni locali ignorandone altre. Sono commissionati in base a una sorta di “piano editoriale” politico? Sappiamo per certo da fonti interne che non tutti possono semplicemente mandare “un pezzo” via mail allo staff con richiesta di pubblicazione. Chi decide dunque e in base a quali criteri? Sarebbe “trasparente” e soprattutto “onesto” che si conoscesse nome e cognome di chi assume queste decisioni e in base a quali criteri le o gli sia stato affidato questo ruolo. Soprattutto per una forza che si candida a governare il Paese nel nome del cambiamento.

Tutto quel che dovete sapere sul voto in Olanda e su Wilders

epa05849117 PVV (Freedom Party) leader Geert Wilders casts his vote at a booth in The Hague, the Netherlands, 15 March 2017. Netherlands is holding parliamentary elections. EPA/REMKO DE WAAL

L’Olanda sta votando e visto che in queste settimane ci siamo molto occupati delle prime elezioni importanti d’Europa, mettiamo in fila qui sotto tutti gli articoli che abbiamo pubblicato in queste settimane, sulla rivista e sul sito. La campagna elettorale è stata condizionata fortemente dalla crociata anti islamica di Geert Wilders, uomo-partito e rappresentante di punta della destra xenofoba europea. Negli ultimi giorni, si è aggiunta la disputa tra il governo olandese e la Turchia.

Il sistema elettorale olandese è proporzionale secco e i partiti proprio per questo sono molti. I governi sono comunque di coalizione e tutti si sono impegnati a non formarne con il PVV.

Gli ultimi sondaggi indicano che un PVV in calo rispetto alle rilevazioni precedenti. Vedremo si si tratta di un dato reale o di una rilevazione sbagliata, come spesso è accaduto in diverse tornate elettorali recenti, dagli Usa al referendum costituzionale italiano. Qui sotto gli ultimi due sondaggi: nel primo il PVV è addirittura quinto, vince il partito di governo e la sinistra avanza sia grazia al 22% dei Groenlinks di Klaver sia a D66. Nel secondo si contano i seggi: in arancione lo stato delle cose, poi le ultime due rilevazioni. Il PVV è terzo ma di poco. Il VVD di Rutte resta primo. Cresce la sinistra, ma meno che nell’altra rilevazione.

[divider]Leggi anche:[/divider]

Cosa pensa Wilder e perché ha condizionato la campagna elettorale olandese – un reportage da Amsterdam di Alex Damiano Ricci
Un reportage dal comizio di chiusura del leader dei Verdi di sinistra, Jesse Klaver
Un ritratto di Klaver, leader meticcio e speranza della sinistra olandese di Ilaria Giupponi
Un’analisi dello scontro tra Turchia e Olanda: a chi giova?

Il voto di Jesse Klaver EPA/ROBIN VAN LONKHUIJSEN

 

Cosa pensa Wilders e perché ha condizionato la campagna elettorale olandese

epa05217673 Members of the Dutch branch of the anti-Islam movement Pegida (Patriotic Europeans Against the Islamization of the Occident) demonstrate at the court where the trail against Geert Wilders of the Party for Freedom (PVV) will take place, at Schiphol, Badhoevedorp, The Netherlands, 18 March 2016. Wilders is standing trial for allegedly inciting hatred against the Dutch Moroccan minority. EPA/JERRY LAMPEN

Amsterdam – Geert Wilders ama paragonare l’Islam al nazionalsocialismo, le moschee ai «templi del nazismo» e il Corano al Mein Kampf di Adolf Hitler. Lo ha fatto durante un’intervista televisiva per poi definire, durante un comizio nei pressi di Rotterdam, parte della giovani olandesi di origine marocchina come una “feccia” con cui si dovrà, prima o poi, fare i conti. È grazie a questi toni sopra le righe che il suo Partito per la libertà (“Partij voor de Vrijheid”, Pvv) è giunto in testa ai sondaggi. Domani, 15 marzo, il Pvv potrebbe diventare la prima forza politica del Paese: i sondaggi lo danno intorno al 20%, il suo potrebbe essere il primo partito ma difficilmente troverebbe alleati per governare. A sfidarlo, alle prossime elezioni politiche, c’è un po’ tutto il panorama partitico olandese, a partire dai Liberal-Conservatori (“Volkspartij voor Vrijheid en Democratie”, Vvd) del Primo ministro uscente Mark Rutte.

Il programma di Geert Wilders, condannato a fine 2016 per incitamento alla discriminazione, è tanto conciso e quanto surreale: rimettere in mano agli olandesi il destino del Paese e arrestare «l’invasione islamica». Sebbene molti elementi del suo programma si trovino anche nei manifesti di altri partiti, nessuno ha la “credibilità” del leader del Pvv quando si parla di “fermare l’Islam”. Come corollario – e sulla scia del voto britannico del 2016 – Wilders spinge per una “Nexit” (termine che evoca Brexit coniugando le parole “Netherlands” ed “exit”) e per il blocco totale dell’immigrazione. Il tutto è farcito con una retorica contro le élite, un progetto di welfare spostato a sinistra (stop all’aumento dell’età pensionabile) e l’introduzione nella Costituzione di un istituto referendario vincolante per il governo.

“Chi siamo e dove siamo diretti?”. Non è una soltanto una domanda ontologica, ma anche «l’interrogativo cardine della campagna elettorale» olandese, nell’anno 2017. Lo chiarisce a Left Hans Vollaard, esperto di politica e dei processi di “disintegrazione europea” presso l’Università di Leiden. «Immigrazione, integrazione, norme e valori: sono questi i temi principali del dibattito elettorale, seguiti dalla discussione sui servizi di sanità. E i primi sono interrogativi che hanno a che fare con la globalizzazione e il processo di integrazione europea. Il panorama politico si sta spaccando in due. Da un lato c’è chi vede nella globalizzazione e nel multiculturalismo benefici economici e un “arricchimento culturale”, dall’altro c’è chi vi riconosce una minaccia economica fatta di multinazionali, “migranti che rubano il lavoro”, e un rischio per l’identità del proprio Paese». Secondo Vollaard, si tratta di una spaccatura trasversale e che disintegra il vecchio confronto tra una sinistra aperta al mondo e una destra culturale “conservatrice”. In questo contesto, «i partiti che giocano la carta “immigrazione” e “multiculturalità” in senso positivo si contano sulle dita di una mano: il partito liberale D66, il partito ecologista di sinistra GroenLinks e il partito delle seconde e terze generazioni di migranti, Denk».

Gli altri partiti, invece, strizzano tutti l’occhio alla “ventata xenofoba”. A gennaio, i quotidiani olandesi hanno pubblicato una lettera del Primo ministro democristiano, Mark Rutte, destinata agli elettori e agli immigrati. Il messaggio? “Adattamento o espulsione”. E la sinistra? «Il Partito socialista riconosce ormai nei lavoratori dell’Est un rischio per gli olandesi “doc”, mentre il vice primo ministro socialdemocratico Lodewijk Asscher gioca la carta del cosiddetto “patriottismo progressista”: una riformulazione in chiave “civica” di ciò che, altrimenti, si definirebbe nazionalismo», spiega Vollaard. In altri termini, quella del Pvv rappresenterebbe soltanto una delle varianti – tra le più estreme – in competizione lungo l’asse “immigrazione-identità-valori”. Wilders pone un accento “identitario” e “culturale” straordinario nel dibattito sulla migrazione. «Ma agli occhi dei cittadini cosa cambia?», si chiede il professore, sottolineando che ormai non sembra esserci spazio nemmeno per una distinzione tra rifugiati e migranti Ue. «Per molti elettori le questione culturali ed economiche si riducono a un unico nucleo concettuale, ovvero alla domanda: “Con chi vuoi condividere le tue risorse?”». In un quadro del genere, chi la “spara più grossa”, vince. Eppure «Wilders non ha nemmeno un merito particolare in questo senso», afferma Paul Lucardie, politologo, studioso del populismo in Olanda e autore di Democratic Extremism in Theory and Practice (“Estremismo democratico in teoria e nella pratica”, 2014). Lucardie in passato aveva definito il populismo nei Paesi Bassi come un “correttivo democratico”, ma a Left specifica che «non interpreterebbe Wilders in questo modo», anzi: «Wilders si è affermato seguendo le orme di Pim Fortuyn. Se a quest’ultimo va riconosciuto “il merito” di aver abbattuto dei tabù e di aver ampliato il raggio di azione del dibattito democratico incorporando i temi dell’immigrazione e dell’euroscetticismo, il contributo di Wilders alla democrazia è dannoso». Per il politologo il fatto che Wilders faccia campagna per l’introduzione del referendum non rappresenta un elemento distintivo della sua proposta politica, anzi, «è un obiettivo secondario. La sua priorità è l’Islam. Senza contare che è ambivalente rispetto al valore degli istituti democratici: un giorno elogia le virtù della democrazia rappresentativa, mentre il giorno successivo parla di “pseudo-Parlamento che agisce contro il volere del popolo”».

Ma come si spiega allora il successo di Wilders? Merito del suo carisma? Di una struttura partitica solida? E soprattutto, chi sono i suoi elettori? «Wilders è sveglio e “popolare”, ma non lo definirei “carismatico”: non mobilita chi non si interessa alla politica», afferma Lucardie, prima di sottolineare che «semmai, sono le minacce ricevute nel corso degli anni, a donargli un qualcosa di speciale». Il capo del Pvv usa molto bene l’immagine di leader su cui pende una taglia di al Qaeda (di recente ha anche sospeso la campagna elettorale ufficialmente per ragioni di sicurezza), richiamando alla memoria l’omicidio del 2 novembre 2004, quando un estremista musulmano sparò e accoltellò Theo Van Gogh, autore del corto sull’Islam Submission. Definire il suo un partito solido equivale però a raccontare una barzelletta. «Il Pvv è inesistente», afferma perentorio Lucardie.

«Basti pensare che, formalmente, Wilders rappresenta l’unico iscritto al partito». Non è un modo di dire. Si tratta di «un caso unico, probabilmente a livello mondiale». Gli stessi deputati del gruppo Parlamentare, non sono iscritti al Pvv. Tanto meno i candidati che gli elettori trovano sulla tessera elettorale. «Wilders decide tutto da solo, ma questo è anche il suo limite: non può essere ovunque». Alle ultime elezioni municipali, il Pvv si è presentato soltanto a L’Aia e ad Almere. In questo il Pvv somiglia alla Lista Pym Fortuyn, di cui raccoglie l’eredità.
Secondo Vollaard, un terzo degli elettori olandesi ha posizioni di sinistra per quanto riguarda le questioni di welfare e un’impostazione culturalmente conservatrice. Un profilo che farebbe il paio con l’offerta politica di Wilders. Entrambi gli esperti interpellati da Left ritengono che «Wilders riesca a intercettare diverse classi sociali, ma che il suo elettorato sia caratterizzato in maniera preponderante da un livello di educazione e salario più bassi della media». Secondo Vollaard, si tratta poi di elettori «ricettivi a una comunicazione senza filtri, traducibile in tweet da 140 caratteri, e sensibili al messaggio anti-establishment». Parte dell’elettorato popolare classico di sinistra percepisce poi un peggioramento delle prospettive economiche per i propri figli: «Contano i tagli al welfare e al sistema educativo-universitario degli ultimi anni». Eppure, su questo fronte Wilders dovrebbe in teoria subire la competizione del Partito socialista olandese. E la precarizzazione nel mondo del lavoro? Secondo Lucardie si tratta di un problema che riguarda soprattutto «i giovani con alti livelli di educazione e che difficilmente sono attratti da un messaggio di chiusura come quello del Pvv».

Rimane l’elemento geografico. Alle elezioni del 2012 il Pvv ha ottenuto un punteggio sopra la media nelle zone periferiche di alcune città, come Rotterdam, e più in generale lungo i confini del Paese. «Wilders ottiene consensi nell’Olanda sud-orientale, nella regione di Limburg, perché è originario di Venlo (cittadina nel Sud-Est del Paese, ndr)», sottolinea Lucardie. Ma non soltanto. Tutta l’area periferica del Nord, lungo il confine con la Germania, distribuisce voti al leader populista: «Zone de-industrializzate e impoverite che 200 anni fa erano anarchiche, successivamente caratterizzate dall’egemonia comunista e che ora appoggiano il leader populista». Lucardie legge dunque nell’espressione elettorale di quella regione anche un di voto di protesta. Anche perché qui, a differenza che nelle periferie urbane, di “islamizzazione” non si può certo parlare.

La corsa del partito senza iscritti e del leader di Venlo si potrebbe fermare, dopo il voto, per la mancanza di partiti disponibili ad allearsi con lui, che però fa la voce grossa dichiarando che se vince gli altri non potranno ignorarlo. Per Paul Lucardie «l’eventualità più concreta è quella di una coalizione di 4-5 partiti che escluda Wilders, a prescindere dal risultato del suo partito». Un’alleanza «fragile» certo, ma è una situazione che si era già verificata negli anni 70. L’alternativa sarebbe un governo di minoranza guidato da Wilders, che con un partito praticamente inesistente alle spalle difficilmente sarebbe in grado di gestire la formazione e la vita di un esecutivo. Sia Vollaard sia Lucardie pensano però che l’obiettivo di Wilders sia quello di «ottenere il maggiore consenso popolare possibile, senza doversi assumere alcuna responsabilità». «Non sarebbe perfetto?», chiede Vollaard. «Potrebbe continuare a fare la “vittima dell’establishment” e, allo stesso tempo, avere un’influenza indiscutibile sulle politiche del governo». Influenza che in fondo esercita già, a giudicare da come le altre formazioni politiche sono impegnate a mettere in campo proposte discriminatorie nei confronti di migranti e minoranze dietro il paravento della lotta al terrorismo.

Dopo il Brexit, non solo Scozia. Anche in Irlanda del Nord e Galles si parla di indipendenza

New British Prime Minister Theresa May (L) meets with Scotland's First Minister Nicola Sturgeon (R) at Bute House in Edinburgh, Scotland, 15 July 2016. It is Theresa May's first visit to Scotland as Prime Minister. ANSA/ANDREW MILLIGAN UK AND IRELAND OUT

“Brexit”, “Nexit” e “Frexit”: nel corso degli ultimi anni si è parlato molto del rischio di disintegrazione europea causato dalla fuoriuscita di Stati membri – appunto, Regno Unito, Paesi Bassi e Francia – dall’Unione stessa.

Eppure, le notizie degli ultimi giorni dovrebbero far emergere anche un’altra tendenza, esattamente opposta: l’aumento del rischio di disintegrazione per gli Stati membri che decidono di uscire dall’Ue.

L’esempio più lampante in questo senso è proprio quello del Regno Unito. Se Nicola Sturgeon, il Primo ministro scozzese, ha ufficialmente aperto un dibattito parlamentare per fissare la data per un secondo referendum di indipendenza, anche le altre amministrazioni devolute hanno lanciato segnali importanti a Theresa May.

Come scrive Tom Batchelor su The Independent, l’iniziativa scozzese ha scatenato immediatamente una reazione, non tanto a Westminster e Downing Street – in fin dei conti scontata -, quanto proprio in Irlanda del Nord e nel Galles.

Nella prima “regione”, la leader del Sinn Fein, Michelle O’Neill ha detto che ai cittadini dell’Irlanda del Nord andrebbe offerta, tramite referendum, la possibilità di riunirsi con i propri “fratelli” dell’Eire.

Nel Galles invece, ci ha pensato la leder del Plaid Cymru, Leanne Wood, ha infilare il dito nella piaga: «Un’indipendenza scozzese provocherebbe la fine del Regno Unito». Lungi dall’essere un richiamo all’ordine per Edimburgo, Wood ha aggiunto: «In una situazione del genere, il Galles dovrebbe decidere cosa fare del proprio futuro».

In un certo senso è come se l’appartenenza all’Ue diventasse un’arma in mano agli esecutivi regionali per alimentare uno scontro tutto interno ai singoli Paesi. Lo stesso prova a fare in fondo la Catalogna, quando dice che non vuole far parte della Spagna, bensì dell’Unione europea.

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Se Avvenire, il Fatto e il Tg1 fanno da portavoce ad Assad

epa05775848 A handout photo made available by the official Syrian Arab News Agency (SANA) on 07 February 2017 shows Syrian President Bashar al-Assad (C) speaking to Belgian media in Damascus, Syria, 06 February 2017. According to SANA, Assad said statements by the US administration on prioritizing the fight against terrorism are 'promising', adding it was still early to expect anything practical. EPA/SANA HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Lo scorso mese Amnesty International ha diffuso un rapporto che parlava di esecuzioni extra-giudiziali nelle carceri di Assad. Nelle stesse carceri si consumano e si sono consumate per decenni torture e maltrattamenti di ogni tipo. In questi anni abbiamo avuto anche notizia e molte conferme – ma possiamo dire non certezza – di un uso indiscriminato di armi chimiche vietate dalle convenzioni internazionali.

Una cosa la sappiamo di certo: la Siria prima della guerra non era un Paese dove le persone godessero di diritti civili e democratici, l’apparato di sicurezza e controllo era enorme. La rivolta cominciata sull’onda delle cosiddette primavere arabe nel gennaio 2011 èha preso vita per quelle ragioni. Grandi manifestazioni pacifiche represse nel sangue hanno determinato l’inizio della guerra civile. Certo, nella protesta c’era anche la mano della Fratellanza musulmana. Del resto, in larga parte del Medio Oriente l’assenza di partecipazione politica ha reso la religione uno dei luoghi del dissenso. Ma questo non è un trattatello sulla guerra siriana e neppure sul fallimento delle primavere arabe, strette tra la voglia di milioni di giovani urbani di esserci e la forza dei partiti religiosi (più o meno moderati) di cacciare regimi che li tenevano alla larga dal potere nonostante i consensi interni.

Qui parliamo di un’incredibile intervista, pubblicata dal quotidiano dei vescovi Avvenire e da Il Fatto Quotidiano, firmata dal vicedirettore Feltri, quattro articoli sulla Siria in un anno, e diffusa dal TG1, al dittatore siriano Bashar al Assad, al potere dal 2001, dopo essere subentrato a 30 anni di dittatura di suo padre. Nella lunga intervista (identica) pubblicata dai due quotidiani, che accompagnavano una delegazione parlamentare che di propria iniziativa visitava Damasco – tra i promotori Stefano Maullu di Forza Italia e Fabio Massimo Castaldo dei Cinque Stelle, di cui sarebbe interessante conoscere le posizioni in materia -, Assad spiega che gli europei hanno aiutato i terroristi, che la Russia ha sconfitto l’Isis – più o meno unica forza in campo – e spiega che in Francia c’è wahabismo diffuso per colpa dell’eccesso di tolleranza e che di diritti umani e politica si parla dopo la guerra.

Su il Fatto l’intervista con cui si apre il giornale è accompagnata da poche righe del rapporto Unicef che ci ricorda come i bambini siano la vittima principale di questa guerra sporca – bambini, sia chiaro, uccisi da Assad, dai russi, da al Qaeda, dall’Isis, dai ribelli laici e forse anche dai curdi, che sono i più simpatici della partita. Poi c’è un ritrattino di Assad, sempre chiamato con deferenza presidente. Sul sito del quotidiano diretto da Marco Travaglio c’è anche un resoconto della visita e, con diverse ore di ritardo, è comparso anche un ritratto più feroce (segno che qualcuno ha fatto notare che il modo di presentare l’intervista era imbarazzante). L’intervista del Tg1 è leggermente più “cattiva”: due domande in cui gli si chiede conto del parere Onu (“Dopo la caduta dell’Urss, Usa, Francia e Gran Bretagna, hanno usato l’Onu per affermare i propri interessi e rovesciare i Governi che non si allineavano ad essi” è la risposta).

Peggio di tutti fa il quotidiano dei vescovi, che talvolta si lamenta del massacro dei cristiani – avvenuto per mano Isis – ma poi su Assad commenta: «Ong, organizzazioni umanitarie, l’Onu, nazioni politicamente rivali e altri soggetti accusano Bashar al-Assad di crimini atroci. Bombe sui civili, massacri nelle carceri, stupri di massa, pulizia etnica… (…) Scoprire ora, negli anni di una guerra civile in cui nessuno si è risparmiato quanto a crudeltà, che la Siria non è, quanto a sistema politico, un modello di democrazia ma un regime, è un esercizio futile e spesso ipocrita. Non è quindi sorprendente che lo stesso Assad sorvoli sul tema dei diritti umani». Di converso, e adottando gli stessi criteri, si potrebbe decidere che indignarsi per il fatto che l’Isis non rispetti i diritti umani dei cristiani è ipocrita. A noi però pare che i crimini degli uni e degli altri, anche se in guerra, sono orribili.

L’Isis ci fa orrore, così come ci paiono orrende le carceri di Assad. La pietà cristiana riguarda gli esseri umani, non i cristiani o i musulmani o gli ebrei. Credevamo. E ritenevamo anche che il pacifismo non valesse solo a tratti – quando Bush bombarda i cristiani iracheni alleati di Saddam tramite Tareq Aziz sì, quando i cristiani sono le vittime dei tagliagole no. Era orrenda Abu Ghraib, è orrenda Guantanamo, lo sono gli occhi chiusi occidentali di fronte a quanto accade in Yemen per mano saudita. E le denunce delle organizzazioni internazionali come Amnesty, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere hanno riguardato ciascuno di quei casi. E oggi la Siria.

Sui social network ci accusano spesso di essere pagati da George Soros, nemico di Putin, di Assad e noto finanziatore dell’invasione dei rifugiati siriani – a sua volta voluta, che te lo dico a fare, da Obama. È probabile quindi che non abbiamo diritto di parola sulla vicenda. Siamo ipocriti anche noi. Ma nell’era delle bufale e della necessità di produrre informazione rigorosa, specie di fronte a crisi drammatiche come quella siriana, ci pare proprio che Avvenire, il Fatto e il Tg1 si siano prestati a fare da portavoce a un dittatore sanguinario. E, nel caso del quotidiano della Cei, anche peggio: con il commentino si mettono le mani avanti: “Sì, abbiamo intervistato un macellaio, e allora?”.

L’intervista appare come una parte dell’offensiva diplomatica per riammettere Assad nel consesso civile, per farci ri-abituare alla sua presenza. Un po’ come è capitato con l’amico al Sisi in Egitto e un tempo capitava con Gheddafi e le gheddafine che distribuivano il Corano. Ora, la geopolitica e gli equilibri regionali sono una cosa seria e può darsi che sia interesse dell’Italia, della Chiesa e di tutti che Assad, a questo punto, resti in sella. Ed è anche possibile che i nostri interessi nella regione coincidano in parte con quelli russi. È roba da diplomazie però, non per giornali.

L’informazione serve ad altro, a raccontare, far capire, provare a spiegare, leggere, fornire elementi di giudizio. È una cosa seria, l’informazione. Dare un microfono in mano a un dittatore per consentirgli di dare la sua versione dei fatti senza raccontarne altri (o addirittura accusare Onu, Ong e organizzazioni internazionali di ipocrisia), non è informazione ma propaganda. In questo caso propaganda al servizio di un regime sanguinario.

Dare peso alle parole (e pagarle care): l’esempio dell’eurodeputato polacco sessista

Sì, lo so, che mettere in un titolo “l’esempio dell’Europa” di questi tempi provoca gastriti e rischi di sincopi sgomente ma la sanzione comminata ieri a Janusz Korwin-Mikke (eurodeputato, ahinoi, famoso per le provocazioni razziste che l’hanno reso “macchietta” buona per il percolato degli intolleranti) da parte del Parlamento Europeo ci riporta a un senso della misura (e delle regole, anche verbali) che da noi appare ancora piuttosto lontano.

Nel corso di un dibattito sulla disuguaglianza salariale qualche settimana fa Korwin-Mikke aveva dichiarato testualmente: «Giusto che le donne guadagnino meno, perché sono più deboli, più piccole e meno intelligenti» citando come esempio probante della sua squinternata tesi il fatto che «tra i primi cento giocatori di scacchi non c’è nemmeno una donna.»

Provate a immaginare la scena qui: da una parte ci sarebbe stato il darsi di gomito divertito sottovoce di qualcuno che avrebbe sminuito il tutto parlando di una provocazione, dall’altra ci sarebbe stato il coro d’indignazione e nel mezzo quelli del “diritto di opinione”. Un gran chiasso in televisione, pance solleticate e qualche nota di censura.

Lì invece hanno deciso che le parole di Korwin-Mikke meritano una punizione esemplare: trenta giorni senza diaria (solo perché è il massimo previsto dal regolamento), dieci giorni di sospensione dai lavori parlamentari, e un anno senza poter rappresentare il Parlamento europeo in qualsiasi delegazione, conferenza o foro interistituzionale. Perché le parole pesano, costano e sono (soprattutto in politica) uno strumento di lavoro di cui avere cura.

E “la libertà di espressione”? Ha risposto il Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani: «il comportamento dei deputati è improntato al rispetto reciproco, poggia sui valori e i principi definiti nei trattati, e in particolare nalla Carta dei diritti fondamentali, e salvaguarda la dignità del Parlamento (….) i deputati si astengono dall’utilizzare o dal tenere un comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo durante le discussioni parlamentari e dall’esporre striscioni.»

Le regole. Chiare. Precise. Non interpretabili. Appunto.

Buon mercoledì.