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Sconfitto alle primarie, Manuel Valls pensa al voltafaccia? L’ex premier tra Hamon e Macron

epa05760405 French socialist party general secretary Jean-Christophe Cambadelis (C) holds the hand of the winner of the right-wing primaries ahead of France's 2017 presidential elections Benoit Hamon (R) and defeated candidate Manuel Valls (L) after the announcement of the results of the second round of Left-wing party primaries ahead of the 2017 presidential election in Paris, France, 29 January 2017. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

Mentre giovedì tutti gli occhi erano puntati verso l’Olanda, in Francia, Benoit Hamon ha presentato il suo programma elettorale, parlando a un pubblico ristretto presso la Casa dell’architettura di Parigi.

Il perno della proposta politica di Hamon resta il reddito universale di cittadinanza, per il quale il candidato socialista sarebbe disposto a sborsare ben 37 miliardi di euro. Dove trovare le risorse? Hamon è tornato a parlare di una tassa sui «superprofitti» delle banche. Il reddito dovrebbe essere inizialmente destinato a chi percepisce un salario lordo sotto ai 2800 euro. Stiamo parlando di 19 milioni di francesi circa. Non è propriamente una ricetta universale, ma allo stesso tempo non rappresenta «un salto nel buio». Inoltre, Hamon ha confermato l’intenzione di tassare l’utilizzo dei robot per creare un «fondo dedicato alla formazione dei lavoratori che hanno perso il posto proprio a causa delle innovazioni tecnologiche». Allo stesso tempo, il candidato socialista non ha escluso, per ragioni dogmatiche, di tornare a utilizzare le nazionalizzazioni temporanee come strumento  di salvaguardia del lavoro e mantenere la competitività dell’industria del Paese. Anche l’attenzione al tessuto delle piccole e medie imprese (pmi) sembra essere un punto importante del programma: Hamon vuole mettere a disposizione di queste ultime il 50 per cento delle commesse pubbliche. Da un punto di vista di diritti politici e civili, spicca la proposta di garantire il voto amministrativo agli stranieri residenti.

Ma per quanto il programma di Hamon possa essere ambizioso, nel quadro del sistema elettorale francese, l’offerta politica in sé, non basta per portare il socialista al secondo turno. Hamon ha disperatamente bisogno del sostegno del candidato radicale, Jean-Luc Mélenchon, il quale, per il momento rimanda al mittente qualsiasi speranza. Arnauld Montebourg, avversario di Hamon alle primarie, nonché ex Ministro dell’economia, ha parlato della situazione ai microfoni di France Inter: «Resta più di un mese di campagna. E’ possibile che ci siano delle evoluzioni. Chiedo a Mélenchon di ritirare la propria candidatura per permettere a tutti noi di arrivare al secondo turno. Ne abbiamo bisogno. Ci troviamo di fronte a un “passaggio storico”». E ha lanciato un monito: «Abbiamo già perso il Partito comunista, ora siamo di fronte al rischio di far scomparire anche il Partito socialista. Chi rimarrà a difendere il mondo del lavoro?».

Nel frattempo, Sylvia Pinel, Presidente del Partito radicale di sinistra (“Partie radical de gauche”, Prg) ed ex-candidata alle primarie, ha dato il suo appoggio ad Hamon. Il documento di intesa chiede al candidato socialista di spingere, a livello europeo, per una nuova forma di governance e per l’introduzione di un regime fiscale comune per le grandi società. In realtà, dopo essere stata sconfitta la primo turno delle primarie socialiste, Pinel aveva sostenuto Manuel Valls al secondo turno.

Ed è proprio quest’ultimo ad aver occupato molto spazio negli editoriali  e nei commenti dei politici nel corso degli ultimi giorni. Mercoledì 14, Valls ha infatti annunciato che non sosterrà Hamon. Si tratta, a tutti effetti, di un colpo basso. Valls aveva assicurato il pubblico del contrario prima del secondo turno delle primarie del Ps (che lo avevano visto contrapposto proprio ad Hamon). Allo steso tempo, l’ex Primo ministro sembra sempre più vicino a Emmanuel Macron. Lo confermerebbero gli incontri continui con il leader del Modem, Francois Bayrou. Quest’ultimo aveva dato il suo appoggio al leader di “En Marche” (“In marcia”) già qualche settimana fa e sembra, a tutti gli effetti, tessere i fili delle alleanze per il giovane candidato ex- Ministro dell’economia. Un sostegno ufficiale a Macron, completerebbe il tradimento in grande stile.

Intanto, il quadro delle alleanze e spaccature nella sinistra francese, fa il paio con le voci tentennanti che arrivano da Bruxelles. Il leader del Gruppo dei socialisti e democratici (S&D), Gianni Pittella ha dato il suo sostegno a Hamon, definendolo «l’unico candidato dei socialisti alle Presidenziali francesi», ma ha anche specificato di «non condividere per intero il suo programma elettorale». Qualche giorno fa, anche Pierre Moscovici, Comissario europeo agli affari economici, aveva storto il naso di fronte alla proposta di introdurre un Parlamento per l’Eurozona, sulla scorta dei suggerimenti di Thomas Piketty.

Il prossimo appuntamento della campagna di Benoit Hamon è previsto per domenica 19 marzo, a Bercy.

 

 

 

Italia, la potenza industriale che scimmiotta le Isole Cayman

Tu ci dai 100mila euro per i redditi che fatturi all’estero e noi ti diamo la residenza. È quello che l’Italia dice, con una norma appena entrata in vigore, ai Paperoni del pianeta. Ma che immagine comunica di sé un Paese che introduce una norma come la cosiddetta flat tax, riconoscendo un maxi-sconto ai miliardari italiani e stranieri che erano residenti all’estero per nove anni negli ultimi 10? Sul numero di Left in edicola analizziamo le ragioni di questo provvedimento e le sue effettive ricadute. Scoprendo, ad esempio, che i primi a doversi arrabbiare per la flat tax dovrebbero essere i super-ricchi che risiedono in Italia da sempre e non hanno ceduto alla tentazione dei paradisi fiscali. I Paperoni di casa nostra, infatti, pagano ogni anno più del doppio rispetto ai 100mila euro forfettari versati da chi viene ora (o rientra) nel nostro Paese.

Siamo anche andati a vedere chi sono e dove vivono i super-ricchi nel mondo, cercando di capire se sarà sufficiente e davvero utile questo “sconticino” per spingerli a investire – come auspica il ministro Padoan – nell’economia italiana. Davvero per fare diventare Milano come Londra e New York basta far pagare meno tasse ai ricchi? E che c’entra questo con l’ipotesi che la Brexit determini una fuga delle imprese della finanza dalla City? Più o meno nulla, nonostante quanto raccontato dal ministro dell’Economia.

Nell’intervista che accompagna il sevizio, l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco boccia la tassa-regalo senza mezzi termini, spiegando che a suo avviso è fatta su misura di alcuni “amici” che vogliono venire o tornare in Italia «a poco prezzo». Ma gli introiti attesi, spiega Visco, «sono sciocchezze, che però hanno un effetto deleterio sui valori di una società».


Fisco e Paperoni  – di Roberta Carlini

Più che una tassa, la flat tax di Renzi è un maxi-sconto (forfettario) sui redditi esteri dei Paperoni. Che in cambio riportano la residenza in Italia. E le ricadute economiche? Ridicole. Nella corsa degli Stati allo shopping fiscale, il governo si modella sui “bisogni” dei super ricchi 

Metropoli a misura di miliardari – di Martino Mazzonis

Dove vivono i super ricchi? New York, Londra, Parigi, Francoforte, Shanghai. Centri finanziari, luoghi dove si respira un’aura di lusso e si spediscono i rampolli ad imparare a stare al mondo

La cosa peggiore  è l’idea che c’è dietro – Intervista a Vincenzo Visco di Raffaele Lupoli

«Dà un segnale di concorrenza fiscale e di Paese poco serio, che scimmiotta i paradisi fiscali». L’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco risponde così quando gli chiediamo cosa pensa della flat tax voluta dal governo Renzi

Questi i temi della copertina di Left in edicola

 

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Certe decadenze non finiscono. Fanno giri immensi e poi ritornano

Augusto Minzolini (S), Paolo Gentiloni (C) ed Enrico Letta (D) nell'Aula della Camera durante la seconda votazione per eleggere il presidente della Repubblica, Roma, 30 gennaio 2015. ANSA/ ETTORE FERRARI

Non c’è nulla nel salvataggio al Senato di ieri in favore del senatore Minzolini che possa lontanamente avere un significato politico: Minzolini è stato condannato, la sentenza è passata in giudicato, la legge Severino applicata a questo caso è fin troppo chiara e il voto della Giunta per le Immunità era arrivato dopo una lunga discussione e un’approfondita analisi.

Perché salvarlo quindi? Dal punto di vista di Forza Italia viene facile rispondere: il partito di Berlusconi ha già largamente dimostrato come il disprezzo nei confronti della magistratura basti da solo come motivazione valida per impegnarsi a smentirla ogni volta che se ne presenta l’opportunità: la storia recente tra l’altro dimostra che ciò che da qui appare come un’odiosa impunità in realtà riesca a confortare e convincere i propri elettori. Sul perché forse converrebbe un approfondimento più antropologico che politico, ma tant’è.

Ma i voti dei senatori del PD piuttosto dimostrano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l’involuzione inarrestabile di un partito che proprio sulla legalità e sul senso di opportunità aveva sbandierato per anni la propria diversità nei confronti del centrodestra. Che il salvataggio di Minzolini rientri in uno scambio di favori che parte dalla mozione di sfiducia respinta l’altro ieri nei confronti del ministro Lotti oppure che sia l’ennesimo passo di riavvicinamento ai vecchi amori del patto del Nazareno oppure ancora che sia condiviso nel senso poco importa: Forza Italia e Democratici si ritrovano amorevolmente convergenti. Ancora una volta in disdicevoli azioni politiche. Questo è il punto. Questo è lo status quo di un partito che di centrosinistra non ha più nemmeno l’ombra. Senza troppi giri di parole. E anche l’infelice e squinternata uscita di Di Maio che riesce a sbagliare un rigore a porta vuota commentando l’orrore in fondo ha l’aspetto rassicurante di chi rispetta perfettamente le parti in commedia.

Buon venerdì.

Voucher o non voucher è ora di cambiare stagione

Questo numero di Left arriva tra le mani del lettore mentre arriva la notizia che il governo abolisce i voucher e reintroduce la responsabilità solidale negli appalti tra committente e appaltatore. È una risposta al timore di questa maggioranza di finire di nuovo sotto in una consultazione popolare (la sconfitta del 4 dicembre è ancora cocente). Il governo ha prima deciso che gli italiani avrebbero dovuto votare il 28 maggio e poi invece di legiferare sulla materia. La mobilitazione promossa dalla Cgil ha raggiunto l’obiettivo. Ora staremo a vedere in che direzione andrà l’esecutivo con le nuove norme su materie che – insieme tante altre sulle quali si è legiferato in questi anni – sono tra i simboli di quello che Vincenzo Visco, riferendosi alla flat tax cui dedichiamo la copertina, definisce «neoliberismo post mortem». Già, perché guidati dalla retorica della deregulation partita con Berlusconi e completata in epoca renziana, abbiamo fatto strame di diritti e sicurezze, salvo poi accorgerci in fretta che il Jobs act aveva creato nuova precarietà, mentre l’abolizione dell’articolo 18 spianava la strada ai licenziamenti facili.

Intanto il mondo cambiava, ma noi non ci accorgevamo che gli altri, almeno quelli che si dicono di sinistra, in Europa e non solo cambiavano direzione. Loro, quelli che vogliono costruire la nuova sinistra lontano da terze vie e altre scorciatoie pericolose, ragionano sui lati oscuri della globalizzazione e sui guasti causati dal prevalere dell’economia (e della finanza) sulla politica, sulla tassazione della rendita finanziaria e sul reddito minimo garantito. Sulle opportunità offerte da una ricchezza diffusa e sui guasti causati dalla forbice sempre più larga tra l’1% ricco del Pianeta e il 99% che arranca. I nostri ragionamenti invece sono ancora fermi a come fare concorrenza al ribasso: gli ingegneri che costano meno, le tasse che devono essere più basse per attrarre i super-ricchi, il lavoro che deve avere meno tutele per dare mano libera al mercato e ai suoi paladini. Il messaggio è sempre quello della “casa delle libertà”, per chi se la può permettere però. Usciamo – o almeno speriamo di farlo – da un quarto di secolo in cui contava essere furbi, in cui “fare un po’ di nero” era necessario e in cui pagare a cottimo un bracciante, un operaio o un creativo era già tanto. Della serie: “Di questi tempi che hai da lamentarti?”.

Ma la primavera è arrivata e i tempi possono non essere sempre cupi: è il momento di tornare a far respirare i diritti. Di un respiro profondo e lungo, alla luce del sole. Voucher o non voucher, occorre fare insieme una riflessione sul Paese che vogliamo. Non quello che strizza l’occhio ai miliardari sperando di ricevere in cambio una mancetta, ma quello in grado di guardare dritto negli occhi il futuro, a testa alta. Quello per il quale la giustizia sociale è l’aria di cui riempirsi i polmoni. L’aria nuova che serve a cambiare stagione.

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola

 

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«Liberi semi in libero Stato». A Roma la giornata dei contadini “spacciatori”

Una giornata di festa per dire no alla proprietà dei semi da parte delle multinazionali e diffondere attraverso il “libero scambio” la cultura delle biodiversità e della “giustizia ambientale”. Sarà una giornata di festa e al tempo stesso di riflessione quella che vedrà protagonisti – domenica 19 marzo al Mercato contadino presso dell’Ippodromo di Capannelle a Roma – piccoli agricoltori, appassionati di buon cibo e filiera corta, ambientalisti, artigiani e cittadini comuni.

Lo “spaccio” di semi, avrà luogo nel corso dell’intera Giornata della libertà dei semi, giunta alla quinta edizione e organizzata in collaborazione con l’Orto Botanico dell’Università Tor Vergata e il patrocinio di Seed Freedom e Navdanya International.

«Si potranno portare semi da scambiare in diretta per affermare e difendere la libertà di conservare, utilizzare e scambiare le sementi: un semplice gesto locale per essere parte della campagna globale finalizzata alla sensibilizzazione di cittadini e istituzioni intorno ai temi della biodiversità e della sicurezza alimentare» spiegano gli organizzatori. Tante le associazioni che sostengono il progetto presenti all’iniziativa: Greenpeace, Libera, Medici senza frontiere, Emergency, ActionAid, Cerealia Festival dei cereali, Res Ciociaria. Saranno presenti anche i docenti e gli studenti degli istituti agrari del territorio, i responsabili e i ricercatori dei centri di ricerca e delle amministrazioni di settore.

“Tutto ciò che mangi ha una conseguenza”, è lo slogan preso a prestito dal film “Food ReLOVution” che fa da filo conduttore di tutte le attività in programma, dai laboratori per bambini ai dibattiti passando epr il menù del pranzo. Sarà l’occasione per ricordare un mugnaio del mercato contadino che ha perso la vita per difendere il proprio molino dalle speculazioni finanziarie, il cui volto campeggia sul manifesto dedicato all’iniziativa. Durante la Giornata della libertà dei semi, infine, sarà possibile firmare a sostegno della campagna #StopGlyphosate, per vietare l’utilizzo del glifosato, il pericoloso erbicida utilizzato in agricoltura.

Galeotti furono i portuali. Rajoy ubbidisce all’Ue e va sotto in Parlamento

Galeotta fu la deregulation del lavoro portuale. Con 142 voti a favore, 175 contro e 33 astenuti. Il governo di Mariano Rajoy è “andato sotto” in Parlamento nel voto sul decreto di liberalizzazione dei los estibadores, i portuali, che era stato approvato dal consiglio dei ministri il 24 febbraio scorso.

Nemmeno i 32 deputati di Ciudadanos (che si sono astenuti) hanno sostenuto il presidente Rajoy, che ha potuto invece contare solo sul partito nazionalista basco (Pnv) e su, 33esimo voto, il deputato è Inigo Errejon di Unidos Podemos, che ha però chiarito, ovviamente, di essersi sbagliato a premere il pulsante: «Un voto storico», ha invece detto, «una buona notizia: sono stati difesi i diritti dei lavoratori e il governo è rimasto solo».

La batosta è doppia, e vale per Rajoy (in Spagna che il governo non riuscisse a raggiungere nemmeno la maggioranza semplice, necessaria per convalidare un decreto legge, non succedeva dal 1979)  come per l’Europa, che chiedeva alla Spagna di rientrare rispetto a un’infrazione sulla libera concorrenza: i porti spagnoli, ad oggi, sono controllati dalla Sociedad Anónima de Gestión de Estibadores Portuarios (Sagep), una società analoga alle Compagnie dei lavoratori portuali italiane. Una sorta di società dei portuali a cui devono fare riferimento le aziende che intendono operare negli scali e assumere personale. Un obbligo che viola ogni principio del liberismo e viola anche il «diritto di stabilimento» sancito dall’articolo 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Ma il decreto non è passato. A poco sono servite le rassicurazioni del ministro allo Sviluppo economico Íñigo de la Serna Hernáiz – «Il mantenimento dei posti di lavoro è assicurato» – e nemmeno le minacce di Bruxelles: se la Spagna non cambia, la multa aumenterà, passando da 27.500 euro al giorno (ad oggi, dalla condanna, sono 23 milioni di euro), a 134.000 euro al giorno.

Le proteste nei porti
La debacle di Rajoy arriva dopo settimane di proteste nei porti spagnoli, con diversi scioperi bianchi che hanno provocato rallentamenti nelle operazioni di carico e scarico delle merci a Barcellona, ma anche in altri scali. Secondo l’International dockworkers council (il sindacato internazionale dei lavoratori portuali) se passasse la proposta del governo sarebbero a rischio 8mila lavoratori. L’ordine arrivato dall’Unione a Madrid è invece di uniformarsi al nuovo regolamento europeo. Secondo Bruxelles la Spagna non rispetta «la libertà di costituire impresa e fare assunzioni» (così la sentenza della Corte di Giustizia europea di dicembre 2014), sancita nel regolamento europeo che cerca di liberalizzare più di 300 porti e reti di trasporto, compresi i «core network e le comprehensive network», in tutta Europa: il 96% delle merci e il 93% dei passeggeri in transito nei porti Ue.

Il decreto legge di Rajoy
Con soli 4 articoli il decreto puntava a liberalizzare il mercato dei portuali, controllati come detto dalla Sociedad Anónima de Gestión de Estibadores Portuarios (Sagep). Il governo aveva proposto di smantellare la società trentennale, aumentando nei prossimi tre anni, ogni anno, la quota di lavoratori che le aziende che lavorano nei porti possono assumere ignorando i registri di categoria: il primo anno il 75% di occupati sarebbero comunque passati per Sagep, nel secondo il 50 e il terzo il 25. Per arrivare, infine, alla revoca dell’obbligo di iscrizione nel registro dei lavoratori portuali (che conta 6.156 iscritti) e alla trasformazione della Sagep in un ufficio per il lavoro.

Caro Feltri, dobbiamo raccontare la guerra non stare ai giochi di Assad

epa05775847 A handout photo made available by the official Syrian Arab News Agency (SANA) on 07 February 2017 shows Syrian President Bashar al-Assad (L) speaking to Belgian media in Damascus, Syria, 06 February 2017. According to SANA, Assad said statements by the US administration on prioritizing the fight against terrorism are 'promising', adding it was still early to expect anything practical. EPA/SANA HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Il vicedirettore de Il Fatto Quotidiano Stefano Feltri, a cui ieri abbiamo rivolto l’accusa di fare da megafono a Bashar al Assad, ci spiega che è meglio intervistare un dittatore che lasciarsi andare a livore (e forse anche un po’ di invidia) su Facebook. E nel farlo segnala l’articolo pubblicato ieri sul sito di Left. Non siamo degli ingenui: non è solo quell’articolo ad averlo fatto arrabbiare o ad aver determinato la necessità di scrivere ben tre articoli successivi alla pubblicazione dell’intervista-megafono al dittatore siriano che si fa chiamare presidente. Non è difficile intuire che in redazione, tra i lettori de Il Fatto – o in generale nel pubblico che visita il sito web del quotidiano – non tutti devono essere stati d’accordo con l’idea di dedicare l’apertura del giornale a un’intervista senza contraddittorio a una figura che definire controversa è un po’ come dire che a Matteo Salvini capita talvolta di usare toni sopra le righe in materia di immigrazione. Fa poi un po’ sorridere che il vicedirettore di un giornale dai titoli non proprio britannici e uso lanciare strali contro la classe politica ci rimanga male per un articolo un po’ polemico – ma forse, di nuovo, non è il mio articolo a essere stato il problema.

Ma veniamo agli argomenti con cui Feltri si difende, facendo un po’ la vittima, come non si confà al vicedirettore di un quotidiano importante che fa le sue fortune fustigando con sarcasmo la classe politica e spesso rivelando casi giudiziari importanti. È giusto fare un’intervista a un dittatore? La risposta è sì. Hanno fatto bene Peter Bergen e Peter Arnett ad andarsene ad Abbottabad nel 1997 e consentire a Osama bin Laden di dichiarare guerra all’Occidente? Eccome. Anche se quell’intervista è anche stata un veicolo del messaggio del leader di al Qaeda.

Il problema, notavamo ieri, è che sul giornale non c’era altro se non quell’intervista. Le regole di ingaggio sono quel che sono e, salvo forse in Italia, spesso le domande ai leader sono quelle giuste (guardate le conferenze stampa di Trump, quando di domande se ne fa fare, e di Obama). Ciò detto, intervistare un dittatore sanguinario a casa sua è un’altra cosa. Dire chi è quel dittatore scrivendo l’articolo, in un articolo accanto, invece è fare giornalismo. E siccome quell’intervista non è a pagina 12 e in taglio basso, non farlo è uno sbaglio. Molto peggio ha fatto, lo scrivevamo, L’Avvenire, che per giustificare l’intervista la accompagna con un corsivo in cui si spiega che Amnesty, Human Rights Watch e Medici Senza Frontiere, che hanno accusato russi e Assad di atrocità e di aver bombardato ospedali in maniera scientifica, sono degli ipocriti. Eravamo ipocriti allo stesso modo quando dicevamo che in Iraq, a Falluja, Abu Ghraib, gli americani commettevano orrori, forse. Del resto, Fulvio Scaglione, il giornalista del giornale dei vescovi a Damasco è lo stesso che ha scritto che Soros paga le manifestazioni anti-Trump, attingendo, nel farlo, a una serie di bufale e fake news e facendo una serie di collegamenti ingannevoli.

Feltri ironizza sui “colleghi autorevolissimi” che lo sgridano. Non sono tra quelli, è ovvio: non sono esperto di Medio Oriente e l’unica cosa di cui mi intendo davvero sono gli Stati Uniti – che poi anche quelli: ho giurato per mesi che Trump non avrebbe mai vinto. Ma quando scrivo mi documento, leggo. Specie se si tratta di una cosa delicata come l’intervista a un dittatore, che non ho avuto la fortuna di fare.

Veniamo al contesto, al tema, alla tragica guerra in Siria e alla missione dei parlamentari intenti a cercare di «costruire un processo di pace».  Oggi scopriamo – ma ne avevamo come il sospetto – che quei parlamentari sono soprattutto filo-russi. La cosa non ha importanza, va bene lo stesso, la pace va bene sempre. Ma saperlo è un’informazione rilevante. E capire cosa volessero proporre questi deputati, anche (stiamo aspettando una risposta da uno di loro, non arriva).

Quando parliamo di “megafono” ci riferiamo al fatto che in questi mesi Assad ha rilasciato più interviste di un presidente in campagna elettorale. Sentirlo parlare non è una novità e in quell’intervista, a parte le accuse, non c’è niente: non la proposta di un processo di pace, non una mano tesa e neppure una chiusura. C’è la sua versione dei fatti: gli altri sono terroristi, aiutati dall’Occidente, noi no. Altre interviste gli hanno ad esempio chiesto conto delle bombe a grappolo. Lui non ha risposto, come Trump non risponde quando gli si chiede di fornire elementi che corroborino le accuse lanciate contro Obama sulle intercettazioni durante la campagna elettorale. Entrambi ci fanno una brutta figura.

Ancora contesto? Torniamo a Scaglione (quello dell’Avvenire), cita Soros per dire che il panorama dell’informazione, in particolare sulla Siria, è tossico. Si intreccia con le reazioni sui social, con l’inquietante tifo rosso-bruno e con fake news di ogni genere. Sui social network c’è un movimento d’opinione (a cui piacciono Putin, Trump, l’Urss e Assad) che accusa Left di essere al soldo del miliardario americano-ungherese. La ragione è che abbiamo dedicato una copertina ai Caschi Bianchi. Per molti sono jihadisti travestiti, per altri eroi e forse sono un misto di cose. In molti ritengono come Assad che dietro la guerra siriana ci siano gli americani, la citazione di Hillary Clinton, «abbiamo creato noi l’Isis», viene citata a sproposito a ogni pié sospinto. Altri pensano che nel Paese si stia combattendo una guerra per procura che riguarda gli equilibri regionali, il conflitto sciita-sunnita (come in Yemen, Iraq e altrove) e molte altre cose ancora. Che hanno e avranno un impatto sulle nostre vite. Se si escludono i civili, ci sono pochi solo buoni e molti molto cattivi (Assad e l’Isis medaglia d’oro alla pari). Raccontare quella guerra, capirne le cause, cercare soluzioni è anche compito nostro. Prestarsi ai giochi di Assad è invece sbagliato.

Wilders non vince, ma l’Olanda non cambia. Perché il risultato olandese non è poi così buono

epa05851088 (L-R) Mark Rutte (VVD), Alexander Pechtold (D66) and Gert-Jan Segers (ChristenUnie) during a show of Nieuwsuur in The Hague, The Netherlands, 16 March 2016. According to initial exit polls in the Dutch parliamentary elections, Rutte's center-right VVD is projected to win 31 seats out of 150, and the far-right party PVV of Geert Wilders and the Democrats 66 (D66) party of Alexander Pechtold with 19 seats each. EPA/REMKO DE WAAL

Il partito Liberal Conservatore del Premier Mark Rutte esce vincitore dalle elezioni parlamentari olandesi del 15 marzo, aggiudicandosi 33 seggi su 150. L’incubo Wilders si è rivelato uno “spauracchio”. Con poco più del 13 per cento dei voti, il Partito per la libertà (Pvv) è arrivato secondo e raccoglie 20 seggi in Parlamento. Subito dietro, al terzo posto, i Cristiano Democratici (Cda) con 19 seggi.

A livello internazionale parole di incoraggiamento sono arrivate da parte di Rajoy, Hollande e dagli esponenti del Gruppo dei liberali al Parlamento europeo, nonché dai Lib Dem britannici. Per tutti, la mancata vittoria del populismo rappresenta la notizia più importante.

Eppure, il risultato non ha abbattuto il morale della destra radicale europea. Anzi. Il segretario del Front National (Fn), Nicolas Bay, si è complimentato con Wilders, descrivendo il risultato come «un vero successo». Si tratta in effetti, di una mezza verità, considerando che Wilders ha aumentato i propri seggi rispetto al 2012, mentre. Allo stesso tempo, il Vvd di Rutte ne ha persi ben 8. Nelle ultime settimane, però, la dinamica dei sondaggi aveva segnalato il recupero di Rutte e la discesa di Wilders: il premier, inseguendo il PVV sui suoi temi, ha fatto in modo di riprendersi una parte dell’elettorato. Lo spauracchio di un successo di Wilders ha poi forse portato molti olandesi alle urne: rispetto alle europee, quando gli xenofobi erano andati benissimo, ha votato molta più gente. E anche rispetto al 2012.

E la sinistra? Il Partito socialdemocratico (PvdA) raccoglie letteralmente i cocci, precipitando da 38 a 9 seggi. Una batosta formidabile che dimostra, una volta di più, l’effetto che le larghe intese provocano sui partiti socialdemocratici. Gli altri due partiti, GroenLinks (sinistra ecologica) e il Partito socialista (Sp) arrivano a 14 seggi: entrambi aumentano il loro bottino rispetto al 2012.

La gioia dei militanti della Groenelinks

Jesse Klaver, leader di GroenLinks, viene identificato come vincitore morale delle elezioni. Ha portato il suo partito da 4 a 14 seggi. Ma forse, paradossalmente, si trova nella situazione più difficile. Da stamani sono infatti partite le speculazioni sul gioco delle alleanze per creare una coalizione di governo. Nel Parlamento sono entrati 13 partiti. Sommando i seggi delle formazioni liberali e di destra (Vvd, Cda, D66), non si arriva a una maggioranza (76 seggi) stabile. GroenLinks diventa conseguentemente un potenziale ago della bilancia.

D’altra parte, Wilders è escluso a prescindere. Nonostante il leader del Pvv abbia confermato la sua disponibilità a creare un governo, tutte le formazioni avevano categoricamente rifiutato un tale scenario già prima del voto. Il partito socialista sembra ideologicamente troppo distante e punta da sempre su una strategia di opposizione forte. Rimane il partito socialdemocratico. Ma dopo il tracollo, come potrebbe insistere sulla stessa strategia?

Rimane quindi Klaver. Durante la campagna, il giovane leader ha parlato di ideali, ma ha anche fatto capire che sarebbe aperto a un compromesso. Il lato pragmatico del giovane olandese potrebbe avere la meglio. Ma, in questo caso, quale sarebbe il destino di GroenLinks?

Al di là dei ragionamenti partitici, rimane un dato di fatto. L’Olanda non cambia, anzi. La destra rimane fermamente al governo e si è spostata più a destra di quanto no fosse già. Probabilmente più di prima, considerando la caduta dei socialdemocratici. Wilders, dall’opposizione potrà giocarsi la carta della “vittima del sistema” e influenzare l’agenda politica. E’ quello che già ha fatto durante l’ultima legislatura. Ed è una dinamica che ha portato i Paesi Bassi a diventare un Paese in cui la xenofobia ha fatto breccia non solo a destra, ma anche tra i partiti di sinistra. A parte, GroenLinks. Appunto.