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Nazifascismo. Lo sterminio “dimenticato” dei malati di mente

Perseguitati, schedati , sterminati è il titolo di una importante mostra fotografica e documentale aperta a fino al 14 maggio nella sala Zanardelli del Vittoriano a Roma. Un titolo lapidario che sbarra la strada ad ogni tentativo revisionista mentre il percorso espositivo, frutto della collaborazione di istituzioni medico psichiatriche a livello internazionale offre una ricostruzione storica di ciò che avvenne sotto il nazifascismo, e – soprattutto nella sezione tedesca, su richiesta delle stesse famiglie – ricompaiono i nomi, i volti, le storie delle persone affette da malattie psichiatriche che furono uccise nei lager, perché giudicate improduttive, un peso per la società, secondo una lucida e disumana logica nazista. L’esposizione non si accontenta di ricostruire l’accaduto, ma -ecco il punto che a noi è sembrato più importante – cerca di indagare le radici culturali di ciò che è accaduto . Per la prima volta qui la Società italiana di psichiatria fa pubblicamente i conti con il proprio passato.

Sul numero di Left in edicola da sabato 18 a farci da guida in questa mostra che ha già fatto tappa in altre città europee ed extraeuropee è la psichiatra e psicoterapeuta Annelore Homberg, presidente della Netforpp Europa, che ha collaborato alla realizzzione della sezione italiana.  «La nostra ricostruzione della storia ha che fare con una lunga ricerca. Per esempio, quando si dice che lo sterminio nazista è incentrato solo sull’antisemitismo, secondo me, si racconta soltanto una parte, per quanto assolutamente colossale, tragica, di questa storia. Il punto cardine è l’annullamento nazista di altri esseri umani, che non sono più visti e percepiti come tali e uguali. L’annullamento degli altri da parte del nazionalsocialismo riguardò anche i cittadini tedeschi non ebrei .La mostra fa vedere una sfaccettatura che all’estero è poco conosciuta». Continua su Left in edicola.

Ne parliamo sul numero di Left in edicola

 

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Dopo il flop della legge 107, Left racconta un’idea di scuola che insegna a essere liberi

BEIRUT, LEBANON - DECEMBER 22: Prime Minister of Italy Matteo Renzi visits the school of Syrian children at Bechamoun village of Mount Lebanon Governorate in Beirut, Lebanon on December 22, 2015. (Photo by Enes Kanli/Anadolu Agency/Getty Images)

«Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza». Questa frase di Gramsci, ormai diventata cult, non era frutto di retorica propaganda. Per l’autore dei Quaderni dal carcere rappresentava una precisa scelta politica, spiegata in centinaia di pagine. La scuola veniva considerata un elemento fondamentale per la formazione dell’uomo – scriveva proprio così – e quindi la politica di sinistra che si ponesse l’obiettivo di cambiare la società avrebbe dovuto per forza potenziare e promuovere l’istruzione dei suoi cittadini. Si è appellato a Gramsci anche Matteo Renzi nel suo discorso al Lingotto alla ricerca di una “egemonia culturale” per il Pd. Peccato che l’ex presidente del Consiglio sia stato l’artefice di una riforma della scuola semifallita, come del resto ha riconosciuto lui stesso dal palco di Torino: «Pensavamo che investire tante risorse sulla scuola fosse importante ma le modalità con cui lo abbiamo fatto sono discutibili».

A quasi due anni da quella legge 107 voluta fortissimamente dall’ex premier insieme a Stefania Giannini, l’unico ministro a essere “licenziato” dal governo Gentiloni, che cosa sta accadendo alla scuola italiana? E soprattutto, con quale idea di istruzione si può ripartire? Perché è indubbio che mai come adesso il sistema scolastico italiano necessiti di contenuti, di didattica, di una visione generale. In questi ultimi due anni il dibattito si è focalizzato infatti soltanto su singoli problemi dell’organizzazione scolastica, mentre in queste settimane si parla molto degli otto decreti attuativi.

Left questa settimana propone una ricerca un po’ più approfondita su quale potrebbe un’idea di scuola valida oggi, in una società complessa, in cui i bisogni culturali ed educativi dei bambini e dei ragazzi italiani cambiano in continuazione. Così nell’ampio sfoglio di primo piano affrontiamo il problema della formazione dei docenti con Giuseppe Bagni, presidente del Cidi (centro di iniziativa democratica degli insegnanti. Il quale auspica una maggiore collaborazione tra mondo accademico e mondo della scuola, superando quella separazione esistente fino a oggi che ha impedito una vera ricerca nella didattica delle discipline. Bisogna che si riacquisti fiducia nell’insegnante, dice. Con Giorgio Crescenza, che ha curato insieme con Angela Maria Volpicella Una bussola per la scuola (Edizioni Conoscenza) cerchiamo di definire quella “scuola che educhi a pensare, che valorizza le differenze” così diversa da quella che emerge dalla riforma renziana. Il saggio di Crescenza e Volpicella, con il contributo di pedagogisti ed insegnanti, vuole dare anche degli strumenti concreti, delle coordinate pedagogiche soprattutto.

Franco Lorenzoni, maestro elementare, esperto di educazione e autore di un libro appassionato sulla scuola primaria, I bambini pensano grande (Sellerio 2014), in un’ampia intervista racconta che cosa sia adesso la scuola elementare, un luogo in cui gli studenti arrivano quasi fosse un “pronto soccorso culturale”. C’è da ricostruire tutto, relazioni e metodo didattico, cose non impossibili da realizzare e che tanti insegnanti riescono a creare ognuno nella propria scuola. «Non c’è da una parte una scuola accogliente, che cura le relazioni, e dall’altra una scuola seria e rigorosa che istruisce – dice Lorenzoni – . Questa contrapposizione la creano ad arte opinionisti come Galli della Loggia. La scuola diventa capace di costruire e diffondere cultura tanto più riesce ad essere accogliente, tanto più è in grado di curare le relazioni reciproche». Anche Lorenzoni tocca il tema della formazione degli insegnanti auspicando un miglior funzionamento delle facoltà di Scienza della formazione.
Ma a cosa serve la scuola? Risponde con una sua analisi Elisabetta Amalfitano, docente di Filosofia e autrice del libro Le gambe della sinistra (L’Asino d’oro, 2014) e di Dalla parte dell’essere umano. Il socialismo di Rodolfo Mondolfo (L’Asino d’oro, 2012). «A scuola impariamo a essere liberi», scrive Amalfitano. Perché significa pensare, scegliere, realizzare se stessi. E anche rifiutare un’idea di essere umano che certa cultura e politica propongono. Insegnare è un atto politico, nel senso più alto del termine. «Conoscere non è solo rapporto tra individuo e mondo, ma tra individuo e individuo: a scuola impariamo a vivere e a pensare insieme agli altri, socraticamente. La scuola è il luogo dove si realizza a pieno la dimensione sociale, dove è possibile rompere il muro dell’impossibile, dove si trasmette ai ragazzi l’idea che ce la possono fare, che possono cambiare, migliorare, essere diversi da come sono soliti pensarsi».

Infine, dopo il fallimento della Buona scuola cosa deve fare la sinistra per la scuola? Mentre il candidato alla segreteria Pd Michele Emiliano si limita a dire che bisogna «azzerare la legge 107», e mentre un breve accenno viene anche dallo scissionista Bersani, a sinistra del Pd in questo momento storico non si nota una grande attenzione al problema dell’istruzione e della conoscenza dei più giovani. Eppure, come hanno dimostrato le politiche scolastiche di altri Paesi europei, investire nella scuola, sarebbe fondamentale per lo sviluppo complessivo della società e dell’economia. Giuseppe Benedetti nel suo commento suggerisce un percorso: riprendere il pensiero pedagogico di Antonio Gramsci che già negli anni 30 si trovava a combattere sia contro l’idealismo gentiliano della scuola d’élite che contro il positivismo socialista che considerava la scuola solo come base propedeutica al lavoro. Nella sua idea di unità, di fusione tra sapere intellettuale e professionale, sta forse una possibilità di uscita anche per la scuola italiana di oggi. Dopo trent’anni di riforme che si contraddicono a vicenda ognuna portatrice di verità che non corrispondono alla realtà delle giovani generazioni,  ripartire da Gramsci può rappresentare un segnale di speranza anche per la sinistra che troppo spesso perde una visione generale dei problemi. E quello dell’istruzione necessita davvero di uno sguardo a 360 gradi.

Di scuola italiana parliamo sul numero di Left in edicola

 

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Lo Yemen non è un Paese per i bambini

HARADH, YEMEN - AUGUST 2010: Children in a hallway at Haradh Child Reception Centre, Haradh, Yemen, August 13, 2010. The trafficking of children to Saudi Arabia and outher Gulf countries is a serious problem in Yemen. Many are smuggled by child traffickers and forced into begging or menial labour jobs, according to Yemeni government officials, 923 Yemeni children were trafficked into neighbouring countries in the first half of 2010, and that is only the number that they know about. The true number may be much higher. The same sources indicate that over 100 000 children are begging on the streets of Saudi cities, most of them are from Yemen. Every month 70-90 children arrive at the Haradh Children's Centre. Some are interecepted by Yemeni police, others by the Saudi's. The Centre helps to try and reunite children with their parents, or to try to find them a new safe place to live. They also help parents to conduct criminal cases against the traffickers. One of the major difficulties the centre faces is that parents are often complicit in the trafficking of their own children. (Photo by Brent Stirton/Reportage by Getty Images)

Su Left in edicola raccontiamo i bambini yemeniti. Crediamo sia nostro dovere. Nel marzo 2015, il presidente Hadi, è stato costretto a fuggire dal Paese dai ribelli Houthi. Gli sciiti-zaidi Houthi erano sostenuti da reparti dell’esercito fedeli all’ex presidente, Saleh. Per rispondere a questa insurrezione sciita, l’Arabia Saudita ha formato una coalizione per ripristinare il governo yemenita al potere. La coalizione comprende gli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (con l’eccezione dell’Oman), l’Egitto e il Sudan, ed è sostenuta da Usa e Gran Bretagna. Due anni dopo la pace sembra lontana. Hadi governa dalla città portuale di Aden. La maggior parte degli altopiani del Nord e la capitale di Sanaa rimangono sotto il controllo Houthi. L’economia e la società yemenite sono nel frattempo in rovina.

E l’Onu parla di una crisi umanitaria senza precedenti. Per fame. Su Left in edicola, per ricordare in qualche modo questo triste anniversario, pubblichiamo un bel reportage di Luisa Silvia Battaglia sul traffico di bambini yemeniti, delle storie di bambini soldato e della guerra che complici anche le potenze occidentali, ha ridotto il Paese al disastro. Dall’inizio del conflitto è aumentato del 500% il numero di bambini soldato e del 600% il numero di bambini e ragazzi morti o mutilati. Nel Paese a causa della guerra 19 milioni sono senza acqua potabile, 14,1 milioni sono senza accesso al cibo, 3,27 milioni di persone sono sfollate.

La situazione militare in Yemen (Ecfr)

 

Il reportage sui bambini yemeniti è sul numero di Left in edicola

 

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Dal Sichuan alla Siria, le foto della settimana

Photo by Wang He/Getty Images

Chengdu, provincia di Sichuan, Cina. Casa da tè “Guanyin pavilion”, si racconta che quando bruciò l’intera città, un centinaio di anni fa, fu l’unico posto che rimase indenne alle fiamme. (Photo by Wang He/Getty Images)

Bnei Brak, Israele. La festa di Purim, festività ebraica simile al carnevale con maschere, costumi e sfilate. (Photo MENAHEM KAHANA/AFP/Getty Images)

Il laboratorio di conservazione della Biblioteca Nazionale di Atene si trasferisce dallo storico edificio neoclassico nel centro di Atene nella nuova sede di 22.000 metri quadri in un edificio costruito dall’architetto Renzo Piano per la Niarchos Foundation Cultural Centre Stavros (SNFCC). Ansa EPA / Simela PANTZARTZI

15 marzo 2017. Damasco, Siria. Attacchi aerei da parte delle forze governative siriane a nord est del sobborgo di al-Qaboun in mano ai ribelli. (Photo AMER ALMOHIBANY/AFP/Getty Images)

Le forze irachene continuano ad avanzare nella città in mano allo Stato Islamico. Più di 80.000 persone hanno abbandonato le loro case in meno di tre settimane, da quando le forze di Baghdad hanno lanciato l’offensiva per liberare Mosul. (Photo ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)

17 marzo 2017. Ashkona, Uttara a Dhaka, Bangladesh. Un polizzioto della Rapid Action Battalion (RAB) di guardia sul luogo di fronte alla caserma dove un sospetto attentatore è morto in un attacco suicida. Foto ABIR ABDULLAH/Ansa

Agenti della Philippine Drug Enforcement Agency in borghese e in divisa scortano alcuni sospetti. Il presidente filippino Rodrigo Duterte ha ingaggiato una guerra al traffico della droga che da mesi insanguina le strade del paese asiatico. (Photo TED ALJIBE/AFP/Getty Images)

L’Eta sta per annunciare il disarmo definitivo. L’offensiva è di pace

RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT " AFP PHOTO / GARA.NET" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS A picture grabbed on Gara.net shows three ETA militants dressed in black shirts with white hoods over the heads and black berets making a declaration in an undisclosed location. Armed Basque separatist group ETA declared Thursday the "definitive" end to more than four decades of bombing and shooting for a homeland independent of Spain. Three ETA militants dressed in black shirts with white hoods over the heads and black berets made the declaration in a video on the Basque newspaper Gara's website. Sitting at a table with the band's emblem of the struggle -- an axe with a snake curled around it -- the masked activist in the centre of the trio delivered the potentially historic announcement. AFP PHOTO / GARA.NET

Secondo il quotidiano Le Monde, è imminente il comunicato con il quale l’Eta annuncerà il piano di disarmo, verso la resa delle armi. L’8 aprile, ancora secondo Le Monde, si terrà una grande iniziativa per restituire l’insieme dell’arsenale dell’Eta nascosto in Francia, alla presenza di centinaia di esponenti della società civile e di alcuni consiglieri regionali.

 

Dopo la rinuncia alla lotta armata del 2014, sono già centinaia le armi – fucili d’assalto, pistole ed esplosivi – rimasti nascosti in Francia. L’annuncio, assicurano i media, arriverà attraverso i media, molto probabilmente sui canali della Bbc. In attesa che il lehendakari, Iñigo Urkullu, si rechi alla sede del governo basco di San Sebastian per effettuare l’annuncio.

 

L’offensiva di pace
Una «buona notizia per tutta la società basca». Così Arnaldo Otegi, portavoce di EH Bildu, uno dei leader più importanti della sinistra indipendentista basca. Dopo sei anni e quattro mesi di detenzione nella prigione di Logroño (nella regione della Rioja), Otegi è tornato in libertà il 29 febbraio 2016. È proprio Otegi a guidare la nuova linea politica della sinistra basca: apertura di una nuova fase politica nei Paesi Baschi, una «offensiva di pace” per far uscire il “movimento di liberazione nazionale e sociale” dallo stallo in cui è finita dopo cinquant’anni di lotta armata.

Bilbao 16 settembre 1998. La prima pagina di “Euskadi Informacion”

Non è il primo tentativo
La sera del 16 dicembre 2016 a Louhossoa, nei Pirenei-Atlantici, vicino Bayonne, ci fu l’ultimo tentativo. Quella sera, però, l’operazione si concluse con una spettacolare operazione di polizia e i cinque incaricati di restituire dieci casse di armi alle autorità francesi (che non si erano impegnate a riceverle) – un sindacalista, un agricoltore, un viticoltore e due giornalisti – vennero arrestati.
Oggi Txetx Etcheverry, militante di Bizi, organizzazione basca attiva sui temi sociali e ambientali, già presente a Louhossoa, dichiara: «Eta ci ha affidato la responsabilità del disarmo del suo arsenale, la sera dell’8 aprile Eta sarà completamente disarmata». A questo punto manca solo l’impegno delle autorità francesi ad accettare la consegna delle armi sotto il controllo degli osservatori internazionali. Il processo di pace ha avuto inizio il 20 ottobre 2011, con la conferenza internazionale di Ayete, a San Sebastian. Ma già il 10 gennaio dello stesso anno, gli etarres – inattivi da 17 mesi – avevano dichiarato il cessate il fuoco «permanente», «generale» e «verificabile dalla comunità internazionale». Batasuna, il braccio politico dell’Eta, era già stata messa al bando da otto anni e l’associazione aveva annunciato la rinuncia alla lotta armata, pur senza rinunciare alle istanze indipendentiste.

Chi è l’Eta
Euskadi ta azkatasuna, ovvero Patria basca e libertà, nasce nel 1959 con un gruppo di studenti universitari di Bilbao in rotta con il Partito nazionalista basco. Da quella scissione in poi, l’Eta – formazione di ispirazione marxista-leninista – assume un carattere politico e un obiettivo precisi: la creazione di uno Stato socialista indipendente. Euskal Herria deve, secondo Eta, riunire i territori di lingua basca, un idioma di origini antichissime e ignote: la comunità autonoma di Euskadi (Bizkaia, Gipuzkoa e Araba), la Navarra e le province francesi di Lapurdi, Zuberoa e Baxenbarre.

Le accuse di terrorismo
Quando il 20 dicembre del 1973, a Madrid, l’ammiraglio Carrero Blanco – capo del governo e successore designato del generale Francisco Franco – uscì da messa per recarsi al palazzo del governo, l’auto su cui viaggiava incontrò l’Eta. L’esplosione si solleva fino a oltre 30 metri d’altezza e uccide l’autista e l’agente di scorta, distruggendo anche le facciate di due edifici e della chiesa. Carrero Blanco è agonizzante, morirà poco dopo in ospedale. Degli 882 omicidi imputati all’Eta questo è senza dubbio il più eclatante. Il primo è quello del 7 giugno del 1968, quando viene uccisa la guardia civile José Pardines, da allora: 481 tra agenti di polizia e militari e 341 civili. Fino all’ultimo, il 5 dicembre 2008, con l’assassinio di Ignacio Uría Mendizábal, imprenditore di 71 anni che con la sua impresa Altuna y Uría stava realizzando la rete ferroviaria ad alta velocità dell’Euskadi. L’Eta è considerata un’organizzazione terroristica da Spagna, Francia, Stati Uniti d’America e Unione europea.

Una risposta a quelli che «senza voucher dovrò far lavorare la colf in nero»

Un' immagine di un voucher, Roma, 11 gennaio 2017. I voucher sono dei buoni lavoro erogati dall'Inps con cui il datore di lavoro puo' pagare alcuni tipi di prestazioni accessorie, cioe' che non sono riconducibili a contratti di lavoro in quanto svolte in modo saltuario. ANSA / ETTORE FERRARI

I migliori sono quelli che ora si lamentano: «senza voucher dovrò far lavorare la colf in nero». Ma un contratto, dico io, proprio no, ci avete mai pensato? Si può fare anche per poche ore a settimana, vi assicuro, e costa poco, perché – giuro – i contributi, già bassi di loro, sono in proporzione alle ore lavorate, così come la tredicesima. Però la lavoratrice o il lavoratore hanno alcuni diritti, come la malattia e le ferie, o il permesso di soggiorno.

Ora: so che molti lavoratori (in questo caso datori di lavoro domestico) quei diritti purtroppo non li hanno più, partite IVA, precari, imprenditori di se stessi. Ma, se potete permettervi qualcuno che faccia le pulizie al posto vostro, due tre quattro o trenta ore a settimana non importa, vi assicuro che con poco sforzo potete fare le cose per bene. Senza voucher. E parlar male dei vostri committenti, poi, con molta ma molta più coerenza.

Mi allargo, ma la dico così: il mercato del lavoro dipende anche da noi, dalle nostre abitudini, dalle nostre scelte. E, così come un po’ più di timidezza negli acquisti online e su alcune note app può arginare la dilagante economia dei lavoretti e la crisi di artigianato e commercio al dettaglio, così come dove e quando facciamo la spesa (la domenica? la notte? al mercato o in un centro commerciale?) spinge in un senso o nell’altro persino l’urbanistica, un contratto domestico avrebbe magari salvato i voucher nella dimensione in cui sarebbero potuti persino servire, tipo quella indicata da Cesare Damiano, per retribuire prestazioni veramente occasionali a vantaggio delle famiglie, tipo la baby sitter che viene una volta ogni tanto o il tuttofare che ridipinge una grata… no, il fabbro no, e neanche l’idraulico: quelli hanno, o dovrebbero avere, la partita Iva.

Lo sguardo di Vivian Maier mette a nudo gli americani

Vivian Maier,Senza titolo, Chicago, 1976.

È diventata un cult, una delle artiste più amate della fotografia. Come dimostrano anche le numerosissime mostre che le vengono dedicate in Italia. Quella che ha debuttato a Milano – Vivian Maier, una fotografa ritrovata – approda ora al Museo di Roma in Trastevere, squadernando 120 fotografie di Vivian Maier in uno spazio sensazionale come questo museo che si apre su un chiostro con giardino, nel cuore di Trastevere. La luce che inonda gli scatti di Maier attraverso le ampie vetrate incornicia e rende unico ogni singolo momento della sua visione, acuta, attenta, pronta a cogliere quegli attimi imprevedibili in cui, per strada, si rivela cosa davvero pensa una persona, chi è davvero al di là delle apparenze e degli abiti. Sono immagini silenziose che dicono più di molte parole.

Nel cogliere la cura con cui si è vestita una signora di colore, riuscendo a portare in primo piano la forza di quello sguardo timido e dolce, Maier racconta l’America in cui ha vissuto quella persona che incontriamo nei vividi ritratti che sfilano nel museo romano. Emerge così uno straordinario racconto delle metropoli statunitensi novecentesche dove le divisioni di classe erano e sono nettissime. Da un lato le bianche in pelliccia, tacchi e velina ad imitare le dive sui macchinoni, dall’altra i bambini neri, scalzi e scarmigliati, che guardano l’obiettivo con occhi grandissimi. Con un colpo d’occhio di borghesi con il cappello che, in fila leggono il giornale, Maier ci dice moltissimo dei valori wasp, dei bianchi americani ligi al mito del self made man ma pronti a serrare le file se i neri o altre minoranze tentano la scalata sociale. Eppure Vivian Maier non era una sociologa, né un’artista a tempo pieno. La maggior parte del suo tempo era occupato dal suo lavoro di bambinaia.

Vivian Maier, New York, 1953.

Il suo talento è stato scoperto solo alla sua morte, avvenuta nel 2009, all’età di 83 anni. Tre giorni prima della sua scomparsa un 28enne agente immobiliare di Chicago, John Maloof si mette a esaminare i negativi comprati per 400 dollari a un’asta di quartiere. In mezzo a quelle centinaia di pellicole compare d’un tratto quel nome: Vivian Maier. Gli scatti in bianco e nero (poi arriveranno quelle a colori a cui nella mostra Vivian Maier una fotografa ritrovata, dedica un’ampia e interessante sezione), rappresentano momenti di vita nelle strade  di Chicago, New York, Manila, Bangkok, Pechino.

Vivian maier New York, 1954.

Maloof  si è imbattuto in quella strepitosa scoperta andando alla ricerca di materiale fotografico per un libro sul quartiere, e quei rullini dati pegno a un commerciante per un conto non saldato furono per lui la scoperta di un tesoro. «All’inizio non me ne ero reso conto – racconta nel documentario  dedicato a Maier -. Capivo che quelle foto erano speciali ma non immaginavo di aver scoperto un pezzo di storia della fotografia del Novecento».
Ma decide di pubblicarle su Flickr. Nel giro di poche settimane fioriscono centinaia di commenti, gli esperti  lo tempestano di domande sull’autore delle foto, ma l’unica cosa che lui sa è quel che c’è scritto sul necrologio di Vivian Maier.  Tali John, Lane e Matthew Gensburg piangevano la morte di Maier “una seconda madre”.

Vivian Maier, senza titolo e data

Comincia così la ricerca di Maloof, che alla fine trova quegli ex bambini ora adulti che gli raccontano di Vivian nata a New York nel 1926 ma cresciuta in Francia fino ai 25 anni. Emerge il ritratto di una donna riservata, che usava la sua Brownie (poi passerà alla Leica) come strumento di rapporto tra lei e il mondo. «Non ha mai stampato i 100mila negativi accumulati in 60 anni di scatti: le foto erano solo un modo per comunicare con gli altri», spiega Maloof, che dal 2007 è diventato il paladino e il primo divulgatore dell’opera della bambinaia franco-americana, come si racconta nel film Alla ricerca di Vivian Maier (Feltrinelli Real Cinema) . La mostra, Vivian Maier, una fotografa ritrovata, curata da Anne Morin e Alessandra Mauro è accompagnata da un catalogo Contrasto e resta aperta al Museo di Trastevere fino al 18 giugno.

Scuola, oggi sciopero dei sindacati di base. Tutta colpa delle deleghe

Il ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, in occasione dell'inaugurazione di "Corporea", museo del corpo umano, presso la Città della Scienza a Napoli, 04 marzo 2017. ANSA/CESARE ABBATE

Oggi è sciopero generale della scuola promosso dai sindacati di base, Usb, Cobas, Unicobas, Orsa, Cub scuola, Feder Ata, Anief. La protesta parte da lontano, visto che l’astensione dal lavoro è stata proclamata già a gennaio, quando cioè la nuova ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, aveva inviato in Parlamento i testi delle otto deleghe che completeranno la Buona scuola. I sindacati oggi in piazza non hanno visto in quel gesto una differenza rispetto alla precedente gestione – contestatissima – della ministra Giannini. Anzi, a più riprese, hanno denunciato il fatto che forse quegli otto provvedimenti così importanti per l’assetto futuro del sistema scolastico italiano, potevano aspettare ancora un po’, poteva essere richiesta una proroga. Non è andato giù il metodo adottato: oltre un anno e mezzo in cui i dirigenti e gli esperti del Miur sono andati avanti per conto proprio senza coinvolgere il mondo della scuola. Lo sciopero è appunto per chiedere il ritiro degli otto decreti attuativi.

Su temi, ricordiamo, fondamentali per il sistema scolastico italiano: l’istruzione professionale, l’intero sistema della scuola 0-6 anni, l’insegnamento per i disabili, la formazione iniziale del docente, valutazione ed esami di Stato, diritto allo studio, cultura umanistica, scuola italiana all’estero. Così oggi tutti i sindacati di base si uniscono per uno sciopero che rappresenta una sfida per il governo. La Cgil aveva scioperato l’8 marzo. Manifestazioni sono in programma a Roma, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Cagliari, Palermo, Catania. Partecipa alla manifestazione anche la rete dei comitati Lip per la scuola della Costituzione. Qui i motivi della protesta secondo il comitato Lip di Bologna.

Intanto le deleghe affidate al giudizio delle Commissioni Istruzione e cultura di Camera e Senato, sono tornate a Palazzo Chigi con il parere – non vincolante – dei parlamentari. Su un aspetto, la stabilizzazione dei docenti della seconda fascia di istituto in cui vi sono precari abilitati e specializzati di sostegno e i docenti con 36 mesi, la proposta uscita dalla settima commissione sulla delega relativa alla formazione iniziale ha ottenuto il consenso dei sindacati come la Cgil ma anche delle opposizioni come M5s. Rimangono però molti altri aspetti critici. Tra questi, il sistema dell’inclusione di alunni disabili. Secondo le famiglie e i sindacati, la delega depotenzia la legge 104 e smantella la rete esistente tra famiglie, scuole e enti locali. La rete dei 65 movimenti che alcuni giorni fa ha portato la protesta davanti a Montecitorio spiega perché il “tentativo di ripulire e aggiustare il decreto non va bene”.

C’è timore anche per l’unificazione del sistema 0-6: i sindacati di base in sciopero oggi temono che si perda la caratteristica di scuola laica e pubblica a favore magari delle private e delle paritarie.
Ancora nulla di nuovo poi per l’altra trattativa in corso a Viale Trastevere: il piano mobilità e la chiamata diretta. Un’altra eredità pesante della Buona scuola che si cerca di smussare per garantire criteri più trasparenti ed equi nell’assegnazione dei docenti alle scuole bypassando i super poteri del preside, il caposaldo, ricordiamo, della riforma renziana.

 

Su Left questa settimana “Il flop della Buona scuola”

 

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A Genova il blog di Grillo revoca il simbolo alla sua candidata

La docente Marika Cassimatis sarà la candidata sindaco del M5s a Genova. E' l'esito della votazione online alla quale hanno partecipato 700 iscritti certificati. ANSA/FACEBOOK +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++

Ed ecco un altro colpo di mano del blog di Grillo che non è di Grillo ma è di Grillo. Il leader dei pentastellati ha arbitrariamente deciso di revocare l’utilizzo del simbolo alla lista M5s di Genova, perché la candidata sindaco Marika Cassimatis, nonostante avesse battuto il suo avversario Luca Pirondini, non è gradita.
La Cassimatis infatti, è una grillina ortodossa, di quelle legate al territorio e soprattutto a molti dei compagni di percorso che però oggi sono quasi tutti fuoriusciti: 4 consiglieri comunali su 5, tra cui il capogruppo Paolo Putti, un consigliere regionale, Francesco Battistini, e consiglieri di altri comuni, che contestano la svolta verticistica del Movimento. Ad accuse e fuoriuscite, sebbene provenienti da persone con ampio seguito sul territorio, nemmeno stavolta è seguita una riflessione dei vertici del Movimento.

Eppure Marika Cassimatis era stata votata proprio seguendo il “metodo Genova”, appositamente elaborato dallo staff assieme alla referente regionale e fedelissima di Grillo, Alice Salvatore, che blindava e secretava le liste dei candidati consiglieri.

Secondo il nuovo elaborato elettorale, infatti, il candidato sindaco può essere votato solo dai candidati consiglieri. In caso di vittoria del loro eletto, questi ne vanno a costituire automaticamente la lista. Peccato che nessuno, tranne lo staff, al solito, conosca i nomi dei candidati consiglieri. Eccetto, a quanto pare, lo sfidante Pirondini, che a votazioni aperte aveva poco sportivamente accusato la contendente alal candidatura di essere “amica dei voltagabbana”. Post che poi Pirondini ha cancellato, per sostituirlo con un caloroso in bocca al lupo, che alla luce dell’epilogo suona un po’ come la pugnalata di Bruto.

Il metodo, fortemente contestato da gran parte della base, e apertamente denunciato da tutti gli eletti usciti dal Movimento ligure, oltre a non essere trasparente e a proporre delle vere e proprie liste bloccate, sarebbe stato elaborato appositamente per costituire una lista di cui potersi fidare – come hanno dichiarato Alice Salvatore e Grillo, nelle motivazioni della revoca: «Non possiamo permetterci di candidare persone su cui non siamo sicuri al 100%». A conferma di questo, il “metodo Genova” conteneva una clausola: «Il Garante del MoVimento 5 Stelle si riserva il diritto di escludere dalla candidatura, in ogni momento e fino alla presentazione della lista presso gli uffici del Comune di Genova, soggetti che non siano ritenuti in grado di rappresentare i valori del MoVimento 5 Stelle».

Ma perché solo ora, dopo che ad aver perso è l’uomo della consigliera regionale? Perché «dopo l’esito delle votazioni di martedì – spiega l’ignoto ghost writer per conto del garante – mi è stato segnalato, con tanto di documentazione, che molti, non tutti, dei 28 componenti di questa lista, incluso la candidata sindaco, hanno tenuto comportamenti contrari ai principi del MoVimento 5 Stelle prima, durante e dopo le selezioni online del 14 marzo 2017». 

Come sempre, non è dato sapere chi sia questo qualcuno, né portare contro-deduzioni, essendo la decisione “irrevocabile”. Nè tantomeno è stata contattata la candidata sindaco per chiederle la sua versione dei fatti.

Però un indizio lo dà lo stesso post di scomunica: «Rimetto a tutti gli iscritti certificati del MoVimento 5 Stelle la decisione se non presentare nessuna lista per le elezioni comunali di Genova o se presentare la lista, arrivata seconda per un distacco di pochi voti, con Luca Pirondini candidato sindaco». Una parvenza di democrazia che svanisce appena si legge che il tempo per la votazione – e dunque per trovare e votare un altro sindaco – sarà aperta oggi 17 marzo dalle 10:00 alle 19:00.

«Le avvisaglie del fatto che si stesse andando verso un movimento autoritario e non più democratico, con decisioni calate dall’alto sulla base, c’erano tutte», dice a Left Francesco Battistini, consigliere regionale Cinquestelle attualmente autosospeso. «Con oggi, questa realtà diventa palese. Purtroppo anche una votazione on-line con un metodo – anche questo – imposto dai vertici, che non ha dato immediatamente i frutti sperati, visto che tutto era pilotato per far vincere il delfino della Salvatore, Pirondini, è stata completamente sconfessata sempre su decisione del capo politico. Per la serie, se non vinco la partita mi porto via il pallone».

Battistini, attualmente nel Gruppo misto regionale, ci dice: «Non siamo li a lavorare per un logo o per un partito, ma per dei principi. Che oggi quel simbolo non porta più con sé. E a giornata di oggi lo testimonia, perché  nessuna organizzazione democratica si sarebbe comportata così».

Ma a quanto pare, poco importa.

Mentre parliamo, sul telefono di Battistini continuano ad arrivare messaggi di persone che dichiarano che d’ora in poi, non voteranno più Movimento 5 stelle. Beppe, sicuro di averci guadagnato?

Il governo abolisce i voucher. Ma occhio alla fregatura

Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, durante la seconda giornata di lavori della kermesse organizzata da Matteo Renzi al Lingotto, Torino, 11 marzo 2017. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

«Siamo contrari all’abolizione dei voucher», diceva Matteo Renzi non troppo tempo fa, nel maggio 2016, rispondendo a un’interrogazione alla Camera. Argomentava così la sua certezza, l’allora presidente: «I percettori di voucher oscillano tra 1,9% e 2,7% della forza lavoro, in larga parte turismo e commercio», «è emersione del nero», «se ci sono eccessi siamo pronti a discuterne».

Oggi, evidentemente, deve aver cambiato idea, anche se non lo dice e anzi si noterà che a palazzo Chigi non c’è più lui e che non è neanche più segretario del Pd: insomma, si dirà che non è sua responsabilità, l’ennesima giravolta. Perché invece oggi i voucher – i buoni lavoro da dieci euro lordi il cui uso è esploso – vengono aboliti, integralmente, come chiede il quesito referendario della Cgil, rinunciando persino alla proposta di Cesare Damiano, il presidente della commissione lavoro della Camera che suggeriva di tornare più o meno a come lui, da ministro, aveva applicatolo lo strumento comunque voluto dal forzista Maurizio Sacconi. I voucher, dice ragionevole Damiano – e per la Cgil sarebbe già stata una vittoria, una soluzione forse persino più corretta della diretta abrogazione – sarebbero rimasti per le famiglie, per pagare baby sitter & co e solo per alcuni lavori stagionali, come la vendemmia, e destinati a studenti o pensionati.

Ma si abolisce, dicevamo, (quelli già venduti si potranno spendere fino al 31 dicembre) ed è una buona notizia (e prova ne sia i tanti, da Confindustria in giù, che protestano: “Un passo indietro di vent’anni”, titola il Sole). Ma siccome nessuno, né Renzi né Poletti né un big del Pd, ha contestualmente preso la parola per chiedere scusa e dire “ci siamo sbagliati, per anni abbiamo difeso quello che, in un Paese che già ha decime di contratti compreso uno sul lavoro occasionale, è uno strumento di precarietà”, la buona notizia ha un lato meno buono.

Perché l’abrogazione, votata dalla commissione lavoro sotto forma di emendamento al testo base di riforma e poi fatta propria dal governo che procede rapidamente per decreto, è evidente, non è arrivata per valutazioni di merito, perché una riflessione innescata dalle firme Cgil («Abbiamo fatto proprio bene a raccogliere le firme», dice Landini) abbia modificato le convinzioni renziane. No. Il punto – con non poca delusione di chi al merito tiene e, legittimamente, è convinto dell’utilità dei buoni lavoro – era disinnescare il referendum, quello sui voucher e poi, di conseguenza, rimasto solo e meno comprensibile, quello sugli appalti.

Ai voucher tanto cari si rinuncia, quindi, per evitare che la consultazione potesse diventare un voto sull’intero Jobs act – così come il referendum costituzionale è diventato anche un voto su Renzi. Per evitare che la consultazione svelasse, così vicini alle urne nazionali, l’esistenza di un fronte largo a sinistra di Renzi, un fronte lasciato scoperto dal Pd, e questa volta non liquidabile come un'”accozzaglia”. Una sinistra alla sua sinistra non deve esistere, invece. Va negata, smontata. Anche addossandogli la responsabilità dei voucher stessi, creatura, dice Renzi, del governo Prodi, quindi della sinistra dem, quindi degli scissionisti. Una bugia (fu Renzi ad alzare il limite, per dire, da 5 a 7mila euro), come gli replica subito Damiano: «Renzi ha detto che i voucher ‘sono stati inventati dal Governo Prodi, con Damiano ministro del lavoro’. Si tratta di una affermazione falsa: sono stati introdotti nel 2003, come sanno tutti, dal Governo Berlusconi con la cosiddetta legge Biagi».
«Io», continua Damiano, «da ministro del lavoro del Governo Prodi li ho solo “attivati” nel 2007 per la vendemmia, ad utilizzo esclusivo di studenti e pensionati. Nel 2008 infatti furono venduti 500 mila voucher ed emerse lavoro nero». Insomma: «è con i governi successivi che si arriva a 134 milioni di tagliandi, nel 2016». «Noi, anzi, al tempo stesso eliminammo il lavoro a chiamata, successivamente reintrodotto dal Governo Berlusconi: è non mi pare che il Governo Renzi abbia proposto di cancellare il Job on call come fece Prodi».

Anzi. Jobs on call. È proprio qui che si potrebbe nascondere l’ulteriore fregatura dell’abrogazione: perché in Parlamento, ai malumori degli onorevoli più liberisti, sta arrivando una promessa per loro rassicurante. Tolti i voucher, si penserà a un modo per rendere il contratto a chiamata molto più leggero (ancora più leggero), puntando al modello dei mini job tedeschi.