Home Blog Pagina 935

Veramente la scissione sarebbe sulla data del congresso?

la direzione del Pd
L'entrata del Centro Congressi durante la Direzione del PD a Roma, 13 febbraio 2017. ANSA/ ANGELO CARCONI

«Hanno paura del congresso» accusa Matteo Renzi, che si atteggia a quello che proprio non capisce cosa abbia da protestare, adesso, ancora, la minoranza dem, con le sue varie anime, dopo che lui ha concesso il congresso che così insistentemente chiedevano.

Nella sua e-news, Renzi ricorda quando detto già nell’ultima direzione, quando ha risposto a Massimo D’Alema (che per primo ha detto: “O congresso o sarà scissione”) e agli «altri leader della minoranza». «Mi domando come sia possibile fare una scissione sulla data di convocazione del congresso e non sulle idee», continua dunque Renzi, provocatorio, «ma io non voglio dare alcun pretesto, davvero. Voglio togliere ogni alibi. E anche se il grido “congresso o scissione” sembra un ricatto morale, accettiamo di nuovo il congresso dicendoci: ragazzi, dobbiamo essere responsabili».

Lui, insomma, dice di aver fatto il suo. E in effetti ha proposto un congresso, da tenere però presto, perché – sempre senza passare per quello che ha messo la data di scadenza a Gentiloni, cosa in realtà fatta – lui vuole che il Pd sia pronto quando, «presto o tardi, ma comunque entro un anno», si voterà. Vuole farlo prima dell’estate, Renzi, o al massimo a giugno, ed è questo che non piace alla minoranza. Che si mostra preoccupata per il governo, che, dicono, non sarebbe da partito responsabile mandare via in un momento così delicato, con lo spread che risale etc etc. L’accusa mossa a Renzi è quella di ricercare invece un plebiscito, preoccupato solo del proprio smalto e incurante del destino del Paese.

A Renzi però l’accusa scivola addosso, consapevole che, in effetti, sembra così che la minoranza si stia preparando alla scissione sulla data di un congresso. Non proprio il massimo. E non solo: a Renzi non dispiace neanche l’idea che risulti Bersani, alla fine, il difensore, ancora una volta, di un governo di larghe intese. Bersani, che pone sì il tema del calendario, ma che lo fa anche sempre (e di questo bisogna dargli atto, anche se può porsi il tema della credibilità) segnalando la necessità di un cambio radicale di segno politico – confermato invece da Renzi – abbandonando ogni residua fascinazione per una Terza via fuori tempo massimo. Dice Bersani (che la terza via, una globalizzazione governata da sinistra, l’ha applicata e predicata per anni, e non lo rinnega) che ora la fase economica è cambiata e bisognerebbe adeguare le risposte, con più protezione.

A noi questa sì che sembra un motivo giusto per una scissione (e forse sarebbe stato il motivo per non farlo proprio il Pd), se non fosse che poi finora la minoranza ha votato tutto: non la legge elettorale, ma sì il jobs act, ad esempio, con l’abolizione dell’articolo 18 fatta proprio nel solco del mito delle briglie sciolte, non certo della protezione.

Ma insomma: la scissione ci sarà? Qui abbiamo imparato a dubitare. Ma intanto, è vero, viene paventata come mai prima, e così Roberto Speranza e Michele Emiliano, ben più dubbiosi di D’Alema e Bersani, ad esempio, saranno con Enrico Rossi al Teatro Vittoria di Roma, questo sabato mattina, pur confermando la presenza all’assemblea dem convocata da Renzi l’indomani. Aspettano una mossa dal segretario, dicono. Qualcosa che dimostri che il congresso sia un momento vero di discussione.

In realtà aspettano più una mossa di Franceschini e Orlando, aspettano che qualcuno scarichi Renzi riaprendo così una partita altrimenti chiusa in partenza, un congresso che non avrebbe senso giocarsi con la certezza di finire «asfaltati». Perché se già l’addio al maggioritario mette in crisi l’idea del partitone unico, la leadership renziana, incontrastata, rende impossibile – pensa soprattutto la minoranza, che comunque farebbe un nuovo partito largo, con moderati e cattolici – spostare a sinistra il partito. Ma se Renzi tornasse ad esser una delle tante anime del Pd, magari segretario ma costretto alla mediazione (sulle liste, sui programmi, sulla segreteria, su un manifesto delle idee, come propongono Orlando e Zingaretti), beh, allora…

Della crisi (per noi definitiva) del Pd parliamo anche su Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Schiavo purché non inutile: la consuetudine del declino

Ieri mi è capitato di parlare con un amico. Quarantenne, una lunga storia d’amore fallita, un buon lavoro a tempo indeterminato perso nel giro di poche ore in un’azienda fallita anche se con gli antichi manager tutt’ora in ottima salute (nel campo dello sviluppo della pellicola, ormai diventata preistoria). E poi una serie di lavoretti che si immaginerebbero buoni per un adolescente e invece cadono tra capo e collo di un uomo fatto e finito. E con il dubbio persistente di essere, anche lui, un fallito.

Finita (male) la sua esperienza di coppia è tornato dai genitori. Suo padre e sua madre sono di quella generazione che crede che un disoccupato sia “uno con poca voglia”, appartengono a quel tempo in cui il lavoro era direttamente proporzionale alla voglia di spaccarsi la schiena e in cui le opportunità erano ovunque.

Lui, l’amico, ha passato l’ultimo anno a disperarsi fino a che è arrivato al punto di credere che anche la disperazione sia un costo troppo alto: siamo un Paese che progressivamente si riempie di persone che cercano la propria realizzazione minima provando a non avere costi. Mica guadagnare il giusto, no: costare niente.

Mi ha raccontato di avere trovato un lavoro a Civitavecchia, ultimamente. Qualche chilometro da casa. Prende 4 euro all’ora. Guadagna due chili di pasta all’ora. Mi dice che tra benzina, autostrada e un panino alla fine della giornata riesce a chiudere in pari: lavora senza guadagnare. Ma lavora, dice lui, e me lo dice con la soddisfazione di chi si sente un privilegiato. «Se stessi a casa sarebbe lo stesso ma almeno uscendo fuori casa tutti i giorni non possono dichiararmi sfaticato», mi ha detto. E io mi sono sbriciolato di fronte alla ferocia di chi pur non andando da nessuna parte ringrazia dio di sembrare comunque in movimento.

Chissà se si riesce a raccontare una cosa del genere. Se ci sono le parole per scriverla.

Buon giovedì.

L’Acropoli non si affitta. Il no della Grecia a Gucci

La Commissione archeologica della Grecia (Kas) dice no all’uso della Acropoli per una sfilata di Gucci. Nonostante il milione di euro offerto dal noto brand per l’affitto, e l’aggiunta di altri 55 milioni di euro per i diritti a girare e promuovere 900 secondi di show in passerella. Il Partenone e i monumenti dell’Acropoli richiedono tutela, non sono una merce qualsiasi. Questo è il messaggio che coraggiosamente viene da Atene, del tutto in controtendenza rispetto a quello che accade in Italia, dove il Ponte Vecchio fu noleggiato alla Ferrari dall’allora sindaco Matteo Renzi per una festa esclusiva, vi furono sfilate di moda con danze masai agli Uffizi e la soprintendenza del Polo museale fiorentino arrivò persino a stilare un prezzario per l’affitto di Boboli e di altri luoghi di altissimo pregio storico-artistico.
La decisione della Commissione archeologica greca, per altro, è maturata nell’arco di mesi, e alla fine è arrivato un secco no, nonostante i fondi per la cultura dopo la crisi siano ridotti all’osso nel Paese. Ma «il valore e il carattere dell’Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo», si legge in una nota della Commissione, mentre il direttore del museo Dimitris Pantermalis ha sottolineato che l’Acropoli non ha bisogno di pubblicità.

Ciò che è interessante notare è anche questa decisione segna un cambio di direzione rispetto alla gestione dei beni culturali in Grecia, che nel 1951 offrirono i marmi e le colonne del Partenone come scenario  di lusso per la sfilata di Christian Dior e poi come location per spot di Coca-Cola, Lufthansa e Verizon. Ma non solo.
Durante del boom economico in cui la Grecia era la meta preferita dei vacanzieri e tira tardi da ogni parte del mondo. «Erano anni di sregolatezza e consumismo, mentre era ancora forte l’eredità comunista e anarchica all’epoca del Pasok. Il deficit saliva, ma il partito continuava ad appoggiare la deregulation per mantenere il consenso. A farne le spese sono state la tutela del patrimonio storico-artistico e la tutela del territorio.

Dalla Germania arriva una proposta alternativa (e non felice) agli “Eurobond”

Si chiamano “Accountability bonds” e con un po’ di fantasia potrebbero essere tradotti con “Bond di responsabilizzazione statale”. E’ la nuova frontiera di sperimentazione teorica economica che arriva dalla Germania e, più in particolare, da Monaco di Baviera.

Qui infatti ha sede l’Istituto per la ricerca economica (Ifo) , guidato negli anni passati dal noto economista ortodosso Hans Werner Sinn. Oggi però, lo scettro di direttore è in mano a Clemens Fuest. Ed è proprio di quest’ultimo la proposta targata “accountability bonds”. Ma di cosa si tratta esattamente?

In parole semplici, di una sorta di capovolgimento della logica degli Eurobond. Se questi ultimi dovrebbero teoricamente permettere di mutualizzare l’emissione di titolo del debito pubblico degli Stati Ue per permettere ai Paesi più deboli (in deficit) di godere dell’effetto reputazione dei Paesi più forti, gli “accountability bonds” mirano soprattutto a punire chi non ha in conti in regola.

Più nel dettaglio, la proposta prevede che, qualora uno Stato superi la soglia di deficit prevista dai trattati europei, questo possa finanziarsi indebitandosi soltanto tramite l’emissione di titoli soggetti a un tasso di interesse maggiorato di 4-5 punti percentuali rispetto alla “norma”.

Nell’ottica di Fuest, la Banca centrale europea (Bce) non sarebbe ovviamente autorizzata a ritirare dal mercato – anche soltanto per vie indirette – questi titoli, a differenza delle emissioni sovrane regolari che invece, già oggi, acquisisce.

In sintesi, la logica sottostante è la seguente: gli Stati tenderanno a ridurre il proprio deficit per evitare tassi di interesse maggiorati sui propri titoli di debito pubblico.

Inoltre, anche le banche commerciali sarebbero disincentivate ad acquistare questi “bond di responsabilizzazione”, visto che sarebbero obbligate a coprire l’eventuale esposizione al rischio con una propria quota di capitale.

La proposta di Fuest è parte integrante del volume “Der Odysseus Komplex” (“Il complesso di Odisseo”, tdr.), di cui è co-autore insieme a Johannes Becker, ed è stata resa pubblica stamani da Die Welt. Ma nell’ottica di Fuest, esisterebbe quindi soltanto la logica del “penalizzazione”?

Non proprio. Sebbene nell’articolo di Die Welt si metta l’accento su questo ultimo aspetto, si legge anche che sarebbe previsto una sorta di contrappeso, una sorta di “carota”. All’introduzione degli “accountability bond” corrisponderebbe infatti anche una parziale condivisione del rischio, a livello europeo, per quanto riguarda invece il resto delle emissioni di debito pubblico degli Stati. Ma nell’articolo non si entra in maggior dettagli.

Il quotidiano tedesco ha commentato la proposta di Fuest sottolineando che rimane difficile immaginare investitori pronti entrare in gioco per questo tipo di titoli pubblici. Inoltre, in base delle proiezioni della Commissione europea riguardo ai deficit dei bilanci pubblici, Francia, Spagna e Italia sarebbero i principali Stati penalizzati da un tale meccanismo.

In passato, anche il Comitato degli esperti economici, un organo consultivo del Governo federale, aveva proposto forme ibride di mutualizzazione del debito pubblico degli Stati Ue, che trovassero un equilibrio tra la logica della solidarietà e della responsabilità fiscale.

Leggi anche:

EuropaThe Guardian L’Europa a due velocità rischia di spaccare il Continente

FranciaLe Monde Un nuovo studio demografico illustra le qualifiche degli immigrati in Francia per andare oltre lo stereotipo dello “straniero che ruba il lavoro

L’Europarlamento ha approvato il Ceta. Perché non è una buona notizia

Protesters block access to the European Parliament with banners during a protest against the Comprehensive Economic Trade Agreement (CETA) between the EU and Canada, in front of the European Parliament in Strasbourg, France, 15 February 2017. EPA/PATRICK SEEGER

«Il testo è approvato», dice il neopresidente Antonio Tajani. Il Comprehensive economic and trade agreement, l’accordo di libero scambio tra Canada e Unione europea è stato approvato dal Parlamento europeo, con 408 voti a favore e 254 contro e 33 astenuti. A niente sono valse le 3 milioni e mezzo di firme per dire No al Ceta, né le dichiarazioni di contrarietà di 6mila municipi e 2.137 comunità. I gruppi di sinistra e della destra nazionalista hanno votato contro, mentre la grande coalizione che governa Strasburgo ha scelto il Sì. Con numerose defezioni del gruppo socialista.

«Una risposta al protezionismo di Trump», così il capogruppo dei Popolari Mandred Weber definisce il Ceta. Ma mentre gli eurodeputati dibattevano in aula, migliaia di militanti della Campagna #StopCeta protestavano sdraiate per terra: «È un assedio simbolico. Per approvare quella porcheria dovranno passarci sopra!», scrive Monica Di Sisto, portavoce della campagna #StopTtip, l’altro accordo – quello con gli States – che per il momento è un pericolo scampato.

Strasbourg, 15 febbraio. il blocco di protesta davanti al Parlamento europeo della campagna #StopCeta

Perché la Sinistra ha votato contro
«Noi votiamo contro perché consideriamo che il Ceta sia un attacco ai luoghi della decisione democratica e un pericolo per gli standard sociali e ambientali», spiega a Left Eleonora Forenza, eurodeputata del Gue/Ngl e membro della commissione Commercio Ue, mentre si divide tra gli interventi in Parlamento e le proteste di piazza. «L’approvazione del Ceta ha conseguenze reali sulla vita dei cittadini». Oltre ai danni che porta con sé, infatti, il Trattato con il Canada “sdogana” il Ttip, perché rischia di essere un vero e proprio cavallo di Troia per le multinazionali, anche in assenza del Ttip. «Sdogana i cosiddetti trattati di nuova generazione», ci aveva già spiegato Forenza lo scorso ottobre, «che hanno come obiettivo l’eliminazione delle barriere non tariffarie: ovvero i nostri standard di diritti fondamentali, come il lavoro e la salute. In pratica, con il Ceta approvato, a qualsiasi multinazionale basterà aprire una casella postale – o una sede legale – in Canada per avere tutti i privilegi attribuiti dal Ceta. In buona sostanza si otterrebbero gli stessi effetti del Ttip senza averlo approvato».

Cecilia Malmström, la commissaria europea al Commercio, l’ha definito «il più avanzato e moderno accordo commerciale mai negoziato dall’Ue». Per i sostenitori, il Ceta porterà un incremento del Pil dell’Ue di circa 12 miliardi di euro l’anno. L’accordo sopprime il 99% dei dazi, per 500 milioni di euro l’anno. Gli standard, dicono, sono garantiti: il Canada dovrà rispettare le normative di ambiente, sicurezza, sanità, alimenti, consumatori, lavoro dell’Ue. Niente carne agli ormoni o polli al cloro? I servizi pubblici sono al sicuro? Davvero le multinazionali non influenzeranno le discussioni parlamentari sui nuovi standard? «Sarebbe una battuta se non fosse una tragedia dire che il Ceta è la risposta progressista al populismo delle destre e al protezionismo di Trump. Voi proteggete il diritto al profitto, le multinazionali, prima delle persone. Noi vogliamo proteggere il lavoro, l’ambiente, la democrazia. Voi dite: “Il Ceta creerà posti di lavoro”, peccato che tutti gli studi abbiano dimostrato il contrario, e che saranno persi 230mila posti di lavoro, di cui 200mila solo in Europa. Trudeau ambientalista? Trudeau è colui che ha plaudito alla costruzione di un oleodotto in Usa e che si accinge a stringere accordi contrari alle direttive comunitarie. I socialisti avevano annunciato la fine della grande coalizione invece oggi possiamo vedere che la grande coalizione continua. Noi restiamo in coalizione coi cittadini e le cittadine».

Washington, 13 febbraio, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump riceve il primo ministro canadese Justin Trudeau alla Casa Bianca

I socialisti europei sono divisi
Se la Sinistra in Parlamento – quella del Gue/Ngl – ha votato compatta contro l’accordo, così non è stato per il gruppo europeo dei socialisti, S&D. «Il Ceta non porta alcun beneficio ai cittadini europeo, io voterò contro», dice Nicola Caputo dei Socialisti. Ma non tutti la pensano così. Per l’eurodeputata Pd (e quindi dell’S&D) Alessia Mosca il Ceta è una grande occasione per l’Europa adesso che può approfittare della ritirata protezionista dal mercato globale degli Stati Uniti di Trump: «Siamo convinti che la politica commerciale in Europa sia entrata in una fase nuova: non è più una battaglia tra protezionismo e liberismo, la questione è invece rafforzare gli scambi proteggendo i cittadini, i lavoratori, gli standard ambientali», ha detto Mosca, che coordina i Socialisti e Democratici in commissione Commercio internazionale del Parlamento europeo,

Lo staff di Trump comunicò di frequente con la Russia durante la campagna elettorale

epa05783715 Steve Bannon (C), Assistant to the President and Chief Strategist to U.S. President Donald J. Trump, sits with other members of Trump's staff at a press conference with Japanese Prime Minister Shinzo Abe in the East Room of the White House in Washington, DC, USA, 10 February 2017. Abe will visit Trump's Florida resort Mar-a-Lago this weekend. EPA/JIM LO SCALZO

Non è passato un giorno dalle dimissioni di Michael Flynn, consigliere di Trump per la sicurezza nazionale, che avrebbe promesso all’ambasciatore russo di cancellare le sanzioni decise da Obama prima di entrare in carica, che scoppia una nuova bomba putiniana. La notizia del giorno è che le agenzie di intelligence, che monitorano in maniera costante le telefonate dei funzionari stranieri residenti negli Stati Uniti, hanno registrato chiamate tra diversi membri dello staff dello staff di Donald Trump durante i mesi di campagna elettorale. Quel che non sappiamo e che le agenzie dicono di non aver verificato è se e come la campagna del presidente abbia complottato con i russi per influenzare il risultato elettorale.

A dare la notizia è il New York Times, dopo che il Washington Post si era aggiudicato lo scoop dei contatti tra Flynn e l’ambasciatore russo. A tenere i contatti sarebbe stato Paul Manafort, che si dimise proprio a causa dei legami troppo stretti con la Russia e i legami economici con i leader filorussi in Ucraina. Manafort ha risolutamente smentito, non appena è uscito il suo nome. Il New York Times scrive che Manafort è uno dei quattro le cui comunicazioni vengono sottoposte a vaglio, non sappiamo i nomi degli altri.

Sergei A. Ryabkov, vice ministro degli Esteri russo, aveva dichiarato nei giorni successivi all’elezione di Trump che «ci sono stati contatti…ovviamente conosciamo la maggior parte delle persone del suo staff». La gente di Trump aveva smentito.

Le intercettazioni furono decise a causa della preoccupazione degli apparati dell’intelligence per i riferimenti continui ed entusiasti di Trump ai russi e a Vladimir Putin e alla sua speranza che questi hackerassero le email di Clinton e le rendessero pubbliche – cosa che è successa poche settimane dopo. Le intercettazioni riguardano molte persone e non solo membri dell’intelligence russa.

Ieri la Casa Bianca aveva ammesso che il presidente sapeva dei problemi russi di Michael Flynn da un mese – e, quindi, ha aspettato molto prima di farlo dimettere – mentre il vice Pence, che aveva difeso il consigliere per la sicurezza nazionale pubblicamente, avrebbe saputo solo successivamente. Il caso di Flynn è leggermente diverso: le sue telefonate vengono registrate come quelle di tutti i membri delle alte cerchie dell’intelligence, quindi la sua è stata pura cialtroneria o arroganza. Mentre faceva promesse all’ambasciatore russo, Flynn sapeva (o avrebbe dovuto sapere) di essere registrato.

Le conseguenze politiche della vicenda sono grandi. I repubblicani hanno condotto diverse inchieste, audizioni e una campagna furibonda sul mancato intervento del Dipartimento di Stato e la cattiva gestione dell’attacco all’ambasciata Usa a Bengasi, che costò la vita a un diplomatico. Quello è stato uno dei modi per colpire Clinton in campagna elettorale. Ora i democratici e diversi senatori repubblicani chiedono un’inchiesta su questa vicenda. E più particolari emergono e più la cosa si fa brutta per il presidente in carica. La sua scelta di aver attaccato le agenzie di intelligence e i media non sta esattamente pagando: quando si ha qualcosa da nascondere è meglio evitare di mettersi contro questi due poteri.

«La donna è un ospite» e per abortire deve essere autorizzata dal partner. In Oklahoma ci provano

L’Oklahoma è uno Stato piccolo, rurale e povero. Famoso per i cowboy e le trombe d’aria. E per l’attentato sanguinoso di Oklahoma City, attacco terroristico di estrema destra costato la vita a 168 persone nel 1995. Percorrere le sue strade significa vedere campi sterminati di granoturco. Nel bar e negli autogrill ti capita di vedere adesivi sulla porta: no armi o non si entra senza camicia. In Oklahoma fa caldo, i contadini viaggiano in pick up e non è da escludere che molti abbiano un fucile accanto al sedile. L’Oklahoma è saldamente repubblicano, contro i suoi interessi, come capita anche ad altri Stati poveri e rurali dove un po’ di Stato aiuterebbe: lo Stato è 38esimo per numero di poveri e 46esimo per numero di persone che ottengono un’istruzione superiore. Ma l’Oklahoma è così repubblicano che gli eletti all’Assemblea legislativa dello Stato, da quando è stato eletto Donald Trump, hanno introdotto undici proposte di legge per limitare il diritto all’aborto. Che forse non è il principale problema dello Stato.

L’ultima in ordine di tempo, la prima che verrà votata, è una legge che prescrive l’autorizzazione di un maschio: le donne che vorranno interrompere una gravidanza non voluta dovranno insomma farsi firmare la giustificazione dal partner sessuale. Chiunque esso sia.

Justin Humphrey, il rappresentante che l’ha proposta, parlando con The Intercept ha dichiarato «Capisco che le donne sentano che si stia parlando del loro corpo. Io invece le definirei delle “ospiti”. Si sa, quando si entra in un rapporto sai che potresti diventare un ospite e così, sai, se non prendi precauzioni puoi rimanere incinta. Quindi dico: hey, è il tuo corpo e ne sei responsabile. Ma se ti comporti in maniera irresponsabile  poi non puoi fare la stessa cosa con un corpo che se tu ad avere invitato». Un discorso aldilà del bene e del male.

Non è la prima legge inutile e insensata votata in Oklahoma e non sarà l’ultima. Dal 2011 a oggi 20 testi votati dall’assemblea sono stati bocciati dai tribunali o il governatore, che deve controfirmare le leggi, ha messo il veto. Ad esempio sulla legge approvata che prevedeva il carcere per i medici che praticavano interruzioni di gravidanza – un diritto sancito dalla Corte Suprema nel 1973 dalla celeberrima sentenza Roe contro Wade. Quel che la legge segnala è che gli anti abortisti sono sul piede di guerra e sperano nella presidenza Trump. Del resto il presidente, appena entrato in carica ha firmato un ordine esecutivo che blocca i fondi federali a Planned Parenthood, organizzazione che ha centinaia di cliniche in tutto il Paese dove si praticano interruzioni di gravidanza, ma soprattutto consultori e ambulatori di salute delle donne. La marcia delle donne a Washington è stata una risposta anche a quell’ordine e alla promessa di Trump di cancellare Roe contro Wade.

Una cosa da sapere in più sull’Oklahoma? È il primo Stato del Paese per numero di madri under18 e 46esimo per numero di persone coperte da assicurazione sanitaria. Due bei record. Ora i legislatori repubblicano vogliono aggiungerne un altro.

 

Aria irrespirabile: in India e Cina milioni di morti l’anno. L’Italia male in Europa

New Delhi

L’aria dell’India sta per raggiungere e superare quella della Cina in senso negativo. Secondo State of Global Air, uno studio appena pubblicato sulla qualità dell’aria mondiale e prodotto dai ricercatori americani dell’Health Effects Institute e dell’Institute for Health Metrics and Evaluation lo sviluppo rapido alimentato dal carbone è il respoinsabile. In India muoiono in media un milione e centomila persone l’anno a causa della pessima qualità dell’aria determinata dall’inquinamento da carbone – che Donald Trump ha promesso di ricominciare a estrarre in West Virginia e nella zona delle miniere abbandonate e di utilizzarlo per le industrie americane.

Ma mentre i decessi legati all’inquinamento atmosferico in Cina si sono assestati negli ultimi anni grazie a una politica aggressiva di investimenti in energie rinnovabili e a qualche controllo in più, il tasso è salito in India, dove i dati sullo smog nelle grandi città superano di molto i livelli di esposizione ritenuti accettabili e i morti sono aumentati di 300mila unità in 15 anni. A Nuova Dehli c’è un’emergenza ambientale costante e le scuole rimangono spesso chiuse. In confronto Pechino è un paesino di montagna.

Tra il 1990 e il 2015 l’India ha registrato un aumento attorno al 50 per cento dei primi decessi legati alle particelle sospese nell’aria note come PM2.5 (o polveri ultrasottili), che rimangono sospese nell’aria per annidarsi nei polmoni e produrre cancri, polmonite, bronchite cronica e malattie cardiache si legge in State of global air.

Insieme, i due giganti asiatici pesano per più della metà di tutti i decessi a livello mondiale prodotti dall’inquinamento ma India e vicino Bangladesh hanno sperimentato l’aumento più rapido degli ultimi sette anni e hanno le più alte concentrazioni di PM2.5 al mondo. Il problema serio è che l’India non sembra in grado, al momento, di cambiare il proprio modello energetico: nonostante gli annunci, poco si è fatto in materia di energie rinnovabili e il fumo di carbone non sembra essere destinato a scomparire presto dall’aria delle città indiane.

Se dall’Asia ci spostiamo al mondo possiamo osservare come sia l’Asia il continente con l’aria peggiore, mentre Europa e Nord America sono quelle meno inquinate (più scuro è più inquinato, da notare l’Arabia Saudita e l’Egitto).

E l’Italia? Le due figure qui sotto rappresentano l’inquinamento da PM2.5 e da ozono raffrontate con il resto dei paesi europei. Si noti come l’aria che respiriamo è piuttosto peggiore di quella della media degli altri Paesi europei che non siano quelli dell’est (la media globale è in nero, in alto). Quanto a ozono, siamo messi peggio di tutti e, se parliamo di decessi, siamo sotto la Russia e la Germania, che evidentemente sconta l’inquinamento delle aree ad alta industrializzazione.