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Ieri Giulio Regeni è morto ancora

"GIULIO era uno di noi ed è stato ucciso come veniamo uccisi noi". Il tratto elegante della grafia araba non ammorbidisce parole pesanti come pietre. El Teneen, uno dei più importanti writers egiziani le ha vergate in rosso, perché in nessun modo possano passare inosservate. "Era uno degli hashtag più popolari in Egitto quando si è saputo della sua morte: mi è sembrato giusto disegnarlo così, senza aggiungere troppo. Perché questo è quello che la gente pensa".

La politica è una scienza semplice: nonostante il cicaleccio che le sta intorno è tutta nelle azioni di chi governa, nel controllo dell’opposizione e nelle pressioni internazionali. Il resto è cerimonia, retorica, disonestà intellettuale, irrealtà, truffa. Abd al-Fattah al-Sisi, presidente di un Egitto che ci ha restituito Giulio Regeni martoriato e con addosso tutto il male del mondo, aveva promesso al nostro blando governo (al Renzi bis così come al precedente Renzi-Renzi) di mettersi a disposizione per la ricerca della verità e per il rispetto della vittima, dei suoi famigliari e dell’Italia intera. Gli abbiamo creduto (chi più, chi meno, chi per niente) poiché anche i carnefici talvolta sono indispensabili per fare chiarezza sulle colpe.

Khaled Shalab in Egitto era quel vigliacco generale che ebbe il coraggio di dichiarare a tutto il mondo che Giulio morì per un banale incidente stradale dichiarando fiero: «non c’è alcun sospetto crimine dietro la morte del giovane italiano, il cui corpo è stato ritrovato sulla strada desertica Cairo-Alessandria.» Evidentemente non gli bastò, come prova, il corpo sfigurato dalle incessanti torture che Regeni ha subito probabilmente per giorni interi. Del resto Shalab è lo stesso già condannato in Egitto per avere torturato un cittadino innocente nel 1999 e ormai deve averci fatto il callo. Non solo: secondo molti sarebbe proprio il generale ad avere provveduto all’operazione di tortura sul corpo indifeso dello studente italiano. Insomma: Shalab, in questa storia che si dipana poco e lentamente, è sospettato di essere il cattivo.

Nei giorni scorsi al-Sisi ha promosso Khaled Shalab nominandolo capo della polizia di Fayum, non distante dal Cairo. Promosso. Sì. Non si sa per quali meriti ma l’Egitto ha pensato bene di premiare il sospettato boia di Regeni alla faccia del tiepido Gentiloni, delle promesse sventolate e di una famiglia (quella di Giulio) che continua a farsi spezzare le vene del cuore da una vicenda che diventa più lugubre ogni giorno che passa. Il giudizio lo lascio a voi; la politica è una scienza semplice, del resto.

Buon mercoledì.

La lettera di Chelsea Manning ai compagni di cella: «Mi avete tenuta in vita»

Quello qui sotto è il testo della lettera pubblicata da The Guardian e scritta da Chelsea Manning alle persone con cui ha passato sei anni in carcere. Manning, perdonata dal presidente Obama con uno degli ultimi atti della sua presidenza, uscirà di galera a maggio. Qui la sua storia.


A coloro che mi hanno tenuto in vita negli ultimi sei anni: pochi minuti dopo l’annuncio del presidente Obama sulla commutazione di mia pena, le autorità carcerarie mi hanno separato dal resto della popolazione carceraria, mettendomi in un’area speciale dove mi trovo adesso. So che stiamo fisicamente separati, ma ci sarà mai lontani e mai soli. Recentemente, uno di voi mi ha chiesto «Ti ricorderai di me?» Mi ricorderò. Come potrei dimenticare? Mi avete insegnato cose che non avrei mai imparato altrimenti.

Quando avevo paura, mi avete insegnato ad andare avanti. Quando ero persa, mi avete indicato una strada. Quando ero intorpidita, mi avete insegnato a sentire. Quando ero arrabbiata, mi avete insegnato come calmarmi. Quando provavo odio, mi avete insegnato ad avere compassione. Quando ero distante, mi avete fatto tornare in me. Quando mi comportavo in maniera egoista, a condividere.

A volte, mi ci è voluto un po’ per imparare. In altre occasioni, dimenticavo, e mi aiutavate a ricordare.

Siamo stati amici in un modo che pochi possono capire. Non c’era spazio per la superficialità e ci si è messi a nudo. Potevamo nascondere quel che provavamo alle nostre famiglie e al mondo esterno, ma non avremmo mai potuto nascondere gli uni dagli altri.

Abbiamo discusso e abbiamo litigato. A volte su nulla di importante. Ma siamo stati sempre uniti.

Quando il carcere se l’è presa con qualcuno tra noi, tutti ci siamo alzati per difenderlo. Quando hanno cercato di dividerci e siamo stati discriminati in maniera sistematica, abbiamo riconosciuto la nostra diversità e respinto quei tentativi. Ho anche imparato da tutti voi quando scegliere di combattere (e quando no). Sono cresciuta grazie alla comunità che ho trovato.

Fuori del carcere è difficile credere che dentro ci comportiamo come esseri umani. Ma è naturale che sia così e che ci costruiamo reti per sopravvivere.

Non ce l’avrei mai fatta senza di voi. Non solo mi avete insegnato queste lezioni importanti, ma avete fatto in modo che mi sentissi accudita. Siete le persone che mi hanno aiutato ad affrontare il trauma del taglio dei capelli. Che mi hanno tenuta d’occhio dopo ho cercato di togliermi la vita. Siete quelli che avete scherzato e che mi hanno augurato buon compleanno, quelli con cui ho celebrato le feste. Sarete sempre la mia famiglia.

Molti di voi sono già liberi di vivere fuori delle mura del carcere. Altri torneranno a casa presto. Alcuni di voi hanno ancora molti anni di pena da scontare.

La cosa più importante che mi avete insegnato è come scrivere e parlare con la mia voce. Prima sapevo solo scrivere rapporti. Ora, scrivo come un essere umano, di sogni, desideri e le relazioni. Non ce l’avrei fatta senza di voi.

Da dove sono ora, continuo a pensarvi. Quando lascerò questo luogo a maggio, continuerò a farlo. E a tutti coloro che si sentono soli dietro le sbarre: sappiate che c’è gente fuori che vi pensa. E che non vi dimenticheranno.

No al patteggiamento per i Riva. E gli 1,3 miliardi per l’Ilva non arrivano. A rischio l’azienda e i processi

Una veduta del nuovo reparto zincatura dell'Ilva di Genova Cornigliano. 26 gennaio 2017 a Genova. ANSA/LUCA ZENNARO

No alla richiesta di patteggiamento. Il Gip del tribunale di Milano, Maria Vicidomini, ha ritenuto «incongrue» le pene concordate dalla procura meneghina con i difensori di Adriano, Fabio e Nicola Riva, indagati per il fallimento del gruppo Riva Fire (oggi Partecipazioni industriali) che controllava l’Ilva di Taranto.

Pene troppo basse dunque, secondo il Gip, rispetto ai reati commessi. Le contestazioni che i pm hanno mosso ad Adriano Riva, per il quale era prevista una condanna a 2 anni e 6 mesi di reclusione riguardano infatti le accuse di bancarotta, truffa ai danni dello Stato e trasferimenti fittizio di valori. Tra i 4 e i 5 anni, invece, la condanna patteggiata per Fabio Riva, nipote di Adriano, in continuazione con un’altra condanna definitiva. Fabio e l’altro nipote di Adriano Riva, Nicola (per il quale la pena concordata era inferiore ai due anni), sono entrambi accusati di bancarotta.

I pubblici ministeri avevano dato il loro placet alle pene ridotte dopo che la famiglia Riva aveva annunciato di voler far rientrare in Italia 1,3 miliardi confiscati per destinarli alla decontaminazione e alla riqualificazione dello stabilimento siderurgico (una parte, 230 milioni, sono destinati alla gestione corrente), come stabilito da un emendamento all’ultima legge di Stabilità.

Il rientro della somma è peraltro ancora sub iudice: il Tribunale federale di Losanna proprio ieri ha rinviato la decisione al 31 marzo facendo saltare i piani dell’azienda che prevedeva l’arrivo dei fondi entro febbraio. Secondo i pm, la somma depositata in sette trust sull’isola di Jersey nel 2009 sarebbe stata scudata “in maniera ingiustificata” rimanendo presso la banca Ubs. Ora i giudici svizzeri motivano lo slittamento della pronuncia con la mancata risposta all’istanza di sblocco dei fondi depositati nei trust: l’udienza davanti alla Corte dell’isola di Jersey sarebbe saltata per l’indisponibilità di un giudice.

Ora si temono ripercussioni sulla prosecuzione di un altro processo collegato, quello con 47 rinviati a giudizio per disastro ambientale in corso davanti alla Corte d’Assise di Taranto. L’avvocato dei Riva, infatti, aveva già ottenuto un rinvio al primo marzo della prossima udienza proprio in vista degli esiti del patteggiamento. E la preoccupazione per gli esiti del processo Ambiente svenduto va di pari passo con quella espressa dal fronte ambientalista: l’attenzione per la ripresa della produzione e la gestione ambientale è di gran lunga superiore alla messa in sicurezza e alla tutela della salute di operai e cittadini.

«Dobbiamo capire cosa fa stare bene le persone. Lì è la sinistra»

MASSIMO FAGIOLI

“Ci vuole un pezzo. Decidi tu chi e come”.

“La terra ti sia lieve” hanno scritto tra i commenti al nostro saluto di ieri. La terra ti sia lieve.

Non c’erano molte cose lievi per Massimo Fagioli, forse l’amore per gli esseri umani. Quello era veloce e solido. Non mancava mai.

“Ci vuole un pezzo. Decidi tu chi e come” mi ha detto il condirettore di Left.

Io un pezzo non ci riesco a scriverlo, ho la testa pesante e gli occhi pieni. Agli undici anni di collaborazione con Left si aggiunge una vita, la mia, fatta del suo affetto, della sua intelligenza, della sua generosità stramba. Era strambo Massimo Fagioli, non pensava mai le cose che ti saresti aspettato, ti correva veloce a fianco e si fermava solo – ogni volta –  che gli chiedevi di capire.

Perché la rubrica di uno psichiatra su un settimanale generalista come Left? Ce l’hanno chiesto per undici anni. Forse la spiegazione migliore me l’ha data un giorno il commercialista, quello che ci faceva le buste paga e non solo, insospettabile… mi disse «e poi c’è la rubrica di Massimo Fagioli, per me “è la porta nel linguaggio dei sogni”».

Per noi di Left è stata la porta nella lunga e difficile ricerca del professor Massimo Fagioli di cui oggi leggerete sui quotidiani che per anni lo hanno guardato da lontano. A volte con rispetto a volte no. Noi invece ce la siamo andati a cercare. E gli abbiamo chiesto di darci un’occasione. Un’occasione difficile.

Perché su Left? Basterebbero poche pochissime sue frasi a spiegarlo: “Un uomo sano non può non essere di sinistra”, “Una rivoluzione senza armi, solo di pensiero e parola”; “La libertà è il dovere di essere esseri umani”; “Io vorrei un partito rivoluzionario che faccia ricerca sulla realtà umana”.

“Ilaria, lo vedi, cosa fa stare male le persone lo abbiamo capito, ora dobbiamo capire cosa le fa stare bene. Lì è la sinistra”. In una delle ultime interviste che mi ha concesso mi disse così e poi mi parlò della polpetta avvelenata degli 80 euro. Si indignava, e ogni volta mi ripeteva “La sinistra non sta nella soddisfazione dei bisogni, sacrosanta. Ma nella realizzazione delle esigenze”. Me lo ripeteva e me lo ripeteva. Finché non faranno una ricerca sulla realtà umana non razionale, non capiranno. Scrivilo e scrivilo.

A volte irrompeva, a volte arrivava silenzioso. Così faceva Massimo Fagioli. A volte irrompeva nella mia mattina, mi chiamava e mi diceva “hai letto?” con tutta quell’urgenza di capire e far capire. E io correvo ai ripari, scorrevo veloce quello di cui mi parlava oppure avevo un tonfo di soddisfazione perché avevo letto in effetti, ed avevo reagito in effetti. E quella reazione la dovevo a tutti quegli anni passati a ragionare e studiare con lui. Il più delle volte arrivava silenzioso, con le sue due pagine, senza aver la più pallida idea di cosa ci fosse nelle altre novanta… nel più totale rispetto delle reciproche libertà. Era impressionante.

“Ci vuole un pezzo. Decidi tu chi e come”.

Io posso scrivere solo un ricordo troppo fresco. Posso riavvolgere il filo e raccontarvi di quando siamo andati in tre, più Sofia mia figlia che aveva poco più di un anno nel 2006, a chiedergli di scrivere per noi. Ci manca la T, partiamo dalle tre idee della Rivoluzione francese, Libertà Eguaglianza e Fraternità e aggiungiamo la T, e con quella T costruiamo quella Sinistra di cui discutiamo da anni. Ma quella T sta per cosa? Per Teoria, per Tempo…

Per Trasformazione disse. La T sta per Trasformazione. Partiamo da Marx e dalla sua volontà di trasformare il mondo e raccontiamo che per farlo bisogna prima trasformare noi stessi, ci ha detto Massimo Fagioli. Partiamo dal comunismo e superiamolo. E poi ci ha chiesto Libertà. Assoluta libertà. Nessun intervento, nessuna riscrittura… come si fa solitamente sui pezzi dei collaboratori. Uno spazio, la libertà assoluta e lui. Puntuale. Silenzioso o rumoroso. Ogni settimana. In piena libertà. Ma non si capisce niente, la protesta di tanti. “Io scrivo così”, la sua risposta. Non è importante capire, l’importante è sentire. Ripeteva. Difficile essere i suoi editori. Lo capimmo subito.

Sentire e reagire, la capacità di reagire era il fondamento di tutto. L’indignazione di Massimo Fagioli di fronte alle “non” reazioni rimarrà per me la cosa più indimenticabile di tutte. Quella capacità di rifiutare il brutto per tirarti fuori il meglio sarà forse la cosa di cui farò più fatica a fare a meno. L’indignazione di fronte al non riconoscimento di “pari umanità” per i migranti, per quel modo di pensare stolido e anaffettivo, per quel fare “pezzi” di vite umane. Non esistono razze per gli esseri umani, mi diceva di continuo. Esistono per i cani, ma non per gli esseri umani, l’uguaglianza della nascita umana è assoluta. Bambino, donna e trasformazione dell’uomo, uno dei suoi titoli più celebri. Più cari per me.

Così ci lascia, e la terra gli sia lieve, certo. Dei tanti libri, della sua rivoluzione teorica, dello scontro con la teoria freudiana che voleva il bambino polimorfo e perverso sin dalla nascita avete letto e leggerete, delle sue ricerche sono popolati ben 23 libri. Della sua indignazione intelligente, un’indignazione creativa, noi continueremo a far tesoro. Perché «abbiamo un altro modo di pensare che ci permette, anzi, ci costringe a denunciare assurdità mentali e di comportamento», così scriveva qualche anno fa Massimo Fagioli. Poi molto altro.

“Ci vuole un pezzo. Decidi tu chi e come”. Questa mattina ci vuole un pezzo mi ha detto il condirettore di Left. Eccomi. Io riesco a scrivere solo questo.

Piketty sceglie: «Con Hamon per cambiare l’Europa»

epa04559052 French economist Thomas Piketty speaks during the presentation of his book 'Capital in the Twenty-First Century' at the National Congress in Santiago de Chile, Chile, 13 January 2015. EPA/SEBASTIAN SILVA

«Abbiamo bisogno di un’assemblea permanente dell’Eurozona, in cui ogni Paese sia rappresentato da deputati provenienti dai parlamenti nazionali in proporzione al numero di cittadini degli Stati membri e dei gruppi politici”.  È la proposta concreta e precisa che Thomas Piketty, economista di fama mondiale e autore de “Il Capitale nel XXI secolo”, ha avanzato ai microfoni di “Questions Politiques”, trasmissione di France Inter.

In passato Piketty ha spesso focalizzato i suoi interventi sulla crisi dell’Unione europea. Ma da settimana scorsa scorso c’è un motivo in più per prendere sul serio le parole dell’economista francese: Piketty è diventato consigliere per gli affari europei del candidato del Partito socialista francese alle Presidenziali del 2017, Benoit Hamon.

L’economista propone quindi la creazione di un «organismo democratico che permetta di prendere le decisioni in maniera riflessiva» e, soprattutto, «fuori dalla logica degli interessi nazionali». Questo Parlamento dovrebbe essere composto da 100-150 deputati e sostituire il Consiglio dei Ministri delle Finanze dell’Eurozona.

Quale sarebbe la logica di funzionamento dell’assemblea, rispetto a quella che oggi prevale nell’Eurogruppo? Quella della negoziazione e del compromesso razionale tra posizioni politico-economiche – invece che tra interessi nazionali – diverse.

La questione non è peregrina, soprattutto in un momento in cui si parla molto di Europa delle due velocità. Eppure, seguendo il consiglio di Piketty, il salto istituzionale sarebbe ben più importante: «La realizzazione di una tale modifica presuppone il cambiamento dei trattati», sottolinea l’economista francese.

Piketty ha sostenuto che Hamon è l’unico candidato all’Eliseo che può vantare una credibilità politica adeguata per portare avanti il progetto di trasformazione dei trattati: Fillon ha infatti negoziato in prima persona il Fiscal Compact nel 2012; e Macron lo ha applicato senza remora negli anni a seguire. Pesantissimo poi, il giudizio generale su quest’ultimo: «Ha commesso degli errori, creato dei disastri economici insieme a Hollande e non ha mai fatto un minimo di autocritica».

E Jean-Luc Mélenchon? Secondo Piketty, il candidato della sinistra radicale ha in mano soltanto un piano “B”, ovvero quello dell’uscita dai trattati. Difficile cambiare l’Ue in questo modo. Hamon invece, «propone una soluzione positiva ai problemi del Vecchio Continente».

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Complotti e bugie alla Casa Bianca, il consigliere per la sicurezza Flynn dimissionato

epa05791639 Embattled National Security Advisor Michael Flynn (C) flanked by Kellyanne Conway (L) and Jared Kushner (R) attends a press conference with US President Donald J. Trump and Canadian Prime Minister Justin Trudeau in the East Room of the White House in Washington, DC, USA, 13 February 2017. Flynn is facing growing scrutiny for discussing U.S. sanctions against Russia with the Russian ambassador to the U.S. prior to Trump taking office. EPA/JIM LO SCALZO

Era stato tra i primissimi a essere scelti, è stato il primo a lasciare. Dopo giorni di voci e rivelazioni sui contatti avuti con l’ambasciatore russo a Washington durante la fase di transizione tra la presidenza Obama e quella Trump, Michael Flynn, generale in pensione e Consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Usa, è stato costretto a dimettersi. La notizia è giunta alle 11 della sera negli Usa, fuori tempo massimo per il prime time televisivo anche sulla costa Ovest, ed è un pessimo segnale per la tenuta di una compagine di governo che fa acqua da tutte le parti. Poche ore prima Kellyanne Conway, che fa un po’ da interfaccia non ufficiale tra Trump e i media, aveva dichiarato:  «il presidente ha piena fiducia nel generale Flynn».

Il problema è che, con il passare dei giorni, le notizia sui rapporti intercorsi tra questi e l’ambasciatore Kisyliak aumentavano. Prima erano chiamate pro-forma per stabilire un contatto durante la transizione, poi abbiamo saputo che ci sarebe stata la promessa di cancellare le sanzioni approvate da Obama per la vicenda dell’hackeraggio russo fatto nel tentativo di influenzare le elezioni, infine, sembra che i contatti ci fossero già stati prima del voto di novembre. Ovvero mentre Mosca lavorava per influenzare il risultato elettorale. Nella sua lettera di dimissioni, Flynn non parla di questo ma dice di non aver informato il vicepresidente Pence in maniera compiuta sulle telefonate. Pence ha quindi mentito – o informato male il pubblico perché non a conoscenza dei fatti – quando ha difeso pubblicamente Flynn. Mettere il vicepresidente in una situazione difficile è qualcosa che non si fa. Tanto più se è in corso un’indagine che ti riguarda perché sei sospettato di aver preso soldi per aver tenuto conferenze pagate in Russia mentre eri generale. Vietato dalla legge. Infine c’era il timore, avanzato dal Dipartimento di Giustizia, che per via di quelle telefonate, Flynn fosse ricattabile da parte dei russi. Non il massimo per la figura più vicina al presidente quando si parla di sicurezza nazionale – per la cronaca: due figure di primo piano della Duma russa hanno postato sui social frasi che condannano le dimissioni forzate di Flynn.

Anche la reazione della Casa Bianca alle dimissioni ha un suo interesse. Un mese fa, appunto, il Dipartimento di Giustizia aveva messo sull’avviso l’amministrazione Trump e nessuno aveva reagito. «È un mese che ci occupiamo di questo casino» ha detto in forma anonima un funzionario. Ovvero Trump si è tenuto – e quindi il suo staff ha mentito – Flynn sapendo che andava licenziato o dovendo trovare una scappatoia. In Tv Comway ha detto: «Avevamo fiducia, poi c’è stata la conferma che il vicepresidente è stato fuorviato». Non una bugia, ma una non verità, una risposta concordata con Trump («ci ho parlato personalmente») che non tocca il nodo centrale, il mese di silenzio.

Il presidente se la prende con i leaks con un tweet: che succederà se quando mi occupo di Corea del Nord ci saranno le stesse fughe di notizie. Il tema però non è neppure quello – quanto alla Corea, Trump non sembra troppo preoccupato dalla sicurezza, come potete leggere sotto.

L’imbarazzo per l’amministrazione è grande. Flynn è stato una delle facce visibili della campagna elettorale, un sostenitore di Trump della prima ora, uno che si era dimesso dall’esercito contro le scelte di politica estera di Obama e che aveva gridato «rinchiudetela» con il pubblico durante il suo intervento alla Convention repubblicana e nei comizi, riferendosi a Hillary Clinton. Il tema era «Clinton crede di essere al di sopra della legge». Appunto.

«Sbattetela dentro», Flynn alla convention repubblicana

 

L’imbarazzo è tanto più forte perché sappiamo tutti che all’interno dell’amministrazione è in corso uno scontro furioso di tutti contro tutti. Il team della sicurezza nazionale, i funzionari che se ne occupano, sentono di essere stati spodestati dal gruppo ristretto di collaboratori del presidente che tende a fare le scelte cruciali: Steve Bannon, il genero Jared Kushner, il giovane Stephen Miller, Kellyanne Comway – nella foto in alto, Flynn saluta tra Kushner e Comway, siamo alla conferenza stampa con il premier canadese Trudeau, segno che la decisione di mandarlo via è stata presa successivamente. L’apparato si ribella, passando informazioni alla stampa. Flynn è vittima anche di questo. Tutti i segnali indicavano che il suo ruolo era stato ridimensionato a prescindere dalle telefonate con i russi: c’è stato un braccio di ferro e lui lo ha perso.

Flynn era già finito nel mirino più volte per aver parlato dell’islam come di una religione malata di cancro – quello del radicalismo – per aver discusso con lo staff di Bush e essere stato licenziato da Obama. Sul suo pensionamento le versioni erano molto diverse: il generale sostiene di essere stato cacciato perché si rifiutava di vendere l’idea che al Qaeda fosse in difficoltà, l’amministrazione Obama dice invece che Flynn aveva un pessimo modo di lavorare, un pessimo carattere e gestiva male il personale.

Di ieri anche le voci che vorrebbero il presidente scontento di Reince Priebus, capo dello staff e garante per il partito repubblicano. Un amico di Trump, che ci ha passato la serata tre giorni fa, rilascia un’intervista spiegando che Priebus non va bene e che si stanno cercando sostituti. Un messaggio? Chissà. Certo è che in questi giorni Trump sembra scegliere la sua cerchia ristretta, la stessa che gli ha consigliato alcuni passi falsi (il testo dell’ordine esecutivo su immigrati e richiedenti asilo musulmani) ma che è fedele e ha poco rispetto per le regole. L’apparato viene messo da parte e lo stile di governo è quello di uno show costante, con colpi di scena, psicodrammi e scarsa attitudine a rispettare le procedure. Anche quando si tratta di sicurezza nazionale.

Due giorni fa Trump e il premier giapponese Shinzo Abe si trovavano a Mar-a-Lago, il club esclusivo di proprietà di Trump la cui tariffa di iscrizione è raddoppiata dopo l’elezione (da 100 a 200mila dollari), quando arriva la notizia del test missilistico coreano. Trump non si alza da tavola e comincia a gestire la situazione dal salone del ristorante, davanti agli ospiti. Che postano foto e notizie su Facebook. Uno di loro, Richard De Agazio, fotografa la scena e poi si fa fotografare (qui sotto) assieme al soldato che segue sempre il presidente portando the football, la valigetta con i codici nucleari. Anche lui in sala. E dire che una delle polemiche trumpiane contro Clinton che meglio avevano funzionato era quella sull’uso di un server privato di posta invece di quello protetto.

 

 

 

Dal «che fare?» al «sì, ma per fare che cosa?»

Dopo la direzione del Pd, che ha dato il via al proprio congresso, sorge spontanea una domanda, da rivolgere a tutti coloro che si ritengono di sinistra in questo paese o almeno generalmente progressisti.

Davvero pensiamo che tutto questo serva a cambiare? Che a prescindere dal Congresso ci si possa davvero confrontare con ciò che è successo in questi ultimi anni, con il voto pressoché unanime di tutto il partito, senza alcuna discussione (non dico rivolta, dico discussione) nella base? Che si possa mediare ancora? Con chi? Con Minniti sull’immigrazione? Con Boschi sulle riforme? Con Renzi stesso sull’impianto generale? Con chi ha fatto politiche ambientali come quelle dello Sblocca Italia? Con chi pensa di rilanciare il ponte sullo Stretto?

Non è un problema l’Alfano fuori da loro, il problema è l’Alfano dentro di loro. E le ricette della destra che hanno non solo introiettato ma trasformato nel loro manifesto politico. E culturale.

Si può pensare di allearsi con chi ha negato l’emergenza povertà per anni? Con chi ha aumentato le disuguaglianze con bonus e mance? Con chi ha dato messaggi a dir poco contraddittori su qualsiasi argomento? Con chi ha nascosto i problemi delle banche per ragioni elettorali (e ragioni elettorali applicate alla Costituzione)?

Davvero possiamo fare finta di niente? Aspettarci un confronto con chi è stato ministro e non si è differenziato nemmeno di una piega? Davvero pensiamo che esistano formule magiche per sistemare tutto quanto, dall’Ulivo «arbre magique» a Pisapia, che non ha mai avuto nulla da dire sulle politiche di questi anni, evocato come una «formula» nemmeno fosse un’abracadabra? Davvero pensiamo che si possa considerare trascurabile il voto del 4 dicembre e come si è votato il 4 dicembre?

Se vogliono tutti «proseguire nelle riforme di questi tre anni», come hanno di fatto detto, riconosciuto o concesso tutti quanti, che cosa abbiamo da dire loro? E che senso ha?

In Francia voteremmo due candidati diversi. Perché dovremmo votare lo stesso in Italia? Su.

Proviamo a fare dell’altro e a fare di meglio.

L’autore è segretario di Possibile

La maxi operazione per dieci grammi di hashish. Con il morto.

Certo sarebbe una forzatura pensare che il sedicenne di Lavagna suicida ieri sia solo il risultato di quella perquisizione della Guardia di Finanza che ha messo sotto sopra la sua abitazione (come da legge) sotto gli occhi disperati della madre dopo avergli trovato dieci grammi di hashish in tasca durante un controllo antidroga all’interno di un istituto scolastico ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i focosi sostenitori del proibizionismo delle droghe leggere (Giovanardi in testa, per citarne uno a caso) di un’operazione militare (che ha dato esito negativo) messa in moto per una canna dentro le tasche dei pantaloni di un minorenne.

Il giovane ha deciso di lanciarsi dal terzo piano del suo appartamento mentre i militari parlavano con la madre rientrata di corsa a casa dal posto di lavoro per assistere alla perquisizione. Giù, nel cortile, il lampeggiante acceso dell’auto dei finanzieri e il solito capannello di persone che mormorano: in Italia farsi trovare con una canna in tasca scatena una caccia degna dei peggiori criminali. E fa niente che tutto questo avrebbe portato a una semplice segnalazione in Prefettura: la vergogna è un mostro che ognuno interpreta a suo modo e troppo spesso uccide.

Ha ragione il senatore Manconi che si chiede: «Chi glielo spiega ora, ai genitori del sedicenne di Lavagna, cui erano stati sequestrati dieci grammi di hashish, che la normativa sulle sostanze stupefacenti mira a tutelare la salute e l’integrità fisica e psichica dei giovani?». Più del proibizionismo uccide questo melenso senso del decoro e questo maledetto perbenismo di un Paese che legalizza le slot (gestite in gran parte da un clan di mafia), sopravvive sul tabacco, ha un pezzo di classe dirigente con le narici sporche di cocaina e converge con le mafie. Forse sarebbe bastato spiegarli questo, al sedicenne volato giù dalla finestra, dirgli che in certi campi questo è un Paese con il passato davanti a sé. Ma è tardi.

Buon martedì.

Renzi concede il congresso. «Vediamo chi ha più popolo»

Matteo Renzi in direzione
Matteo Renzi durante il suo discorso alla direzione Pd, Roma, 13 febbraio 2016. ANSA/L'UNITA'.TV ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++ NO TV USE ++

Inizia – come fa spesso – vestendo i panni del responsabile, Matteo Renzi, nell’ennesima (e sempre campale) direzione del Partito democratico. Maglioncino blu girocollo, Renzi esprime molto fastidio per «il ritorno dei caminetti» e per la politica che «dopo il referendum ha rimesso indietro le lancette», prima di dire che lui si fa volentieri carico di sbloccare la discussione interna al Pd.

«Abbiamo fatto analisi del voto, interviste col capo cosparso di cenere», dice convinto comunque di aver già fatto il suo: «Mi sono dimesso da Palazzo Chigi. Ho pagato il pegno. Ma se uno degli errori della campagna è stata la personalizzazione, proviamo almeno a depersonalizzare ora». Quindi Renzi è pronto a fare di più, responsabile. solo che poi parla di Trump, di Le Pen, di globalizzazione. E si dimentica il tono pacato. E comincia la campagna congressuale. «Non posso più prendere in giro la nostra gente. Non potete più prendere in giro la nostra gente», dice ad esempio, accusando la minoranza interna, annunciando che è lui a interrompere quella che gli pare proprio una melina e a chiedere il congresso.

Con questo piglio Matteo Renzi concede dunque la conta a cui abbiamo dedicato l’ultima copertina di Left. Concede il congresso, per rispondere alle recenti dichiarazioni di D’Alema e Bersani: «Io non voglio scissioni e se scissione deve essere voglio che sia senza alibi, soprattutto quello del calendario». «Si fa il congresso», dice Renzi, che quindi (anche se non lo dice  nell’introduzione, lasciando i più nel dubbio) si dimette da segretario, dando così inizio all’unico iter previsto, salvo la scadenza naturale, dallo statuto dei dem. «Ma chi perde non vada via col pallone», è l’immancabile provocazione del segretario: «Non lasci solo chi vince, come è successo a Roma con Giachetti».

Renzi così vuole incastrare la minoranza, è evidente, allontana «il ricatto» della scissione e mette allo stesso modo un timer sulla testa di Gentiloni. Perché Renzi vuole un congresso rapido («con le regole dell’altra volta»), una conta che è convinto di vincere: «Vediamo chi ha più popolo», continua, prima di tirare alcuni facili colpi, che anticipano la campagna. Il primo: «Leggo che qualcuno voleva il congresso per costruire alternativa al renzismo. Troppo onore. Io penso dovremmo costruire alternative al trumpismo, al massimo al grillismo». Il secondo. Renzi, impaziente di discutere di programmi, prima decanta i fasti del jobs act e poi, retorico, attacca: «In questi giorni mi sono anche chiesto se abbiamo fatto bene negli ultimi vent’anni. Abbiamo fatto bene su Telecom? Abbiamo fatto bene su Ilva? Mi fa piacere poter discutere con voi. Io non vedo l’ora che parta la commissione d’inchiesta sulle banche, perché è sembrato a un certo punto che il problema fossero due o tre banchette toscane». E via a citare la banca 121 (salentina e quindi, nel vocabolario dem, dalemiana) o quelle del Veneto.

«Noi torniamo alla politica. Vi aspettiamo lì», continua nel lancio della sfida. Preoccupato però di rassicurare almeno un po’ il governo, di fare almeno il gesto. Non si dica insomma che vuole il congresso presto per tentare presto di tornare a palazzo Chigi. È così (tant’è che Bersani gli chiede invece di mettere in sicurezza Gentiloni decidendo insieme che la legislatura arriverà alla fine e di fare il congresso con più calma) ma non si può dire. «Quanto si vota non lo decido io», dice, «e questa visione alla Giucas Casella, ‘quando lo dico io’, va rimossa. La discussione sul voto verrà fatta da chi ha responsabilità istituzionale. Quello che deve essere chiaro, a tutti, è che il congresso Pd non si fa per decidere il giorno in cui si fanno le elezioni politiche. Ma da qui a un anno, prima o poi, si dovrà però votare. Io allora dico: facciamoci trovare pronti».