Left saluta la sua T, Left oggi perde il suo più grande interlocutore. Oggi Massimo Fagioli è morto. E noi dovremo fare i conti con quello che vorrà dire per noi. Per noi giornale, per noi comunità, per noi mondo di idee. Tante tantissime le sue, idee rivoluzionarie con cui abbiamo riempito anni di vita, di politica, di sinistra, di affetti, di figli… Indimenticabile per noi, che abbiamo fondato questo giornale, il giorno in cui andammo a chiedergli di scrivere per Left, ogni settimana. Tutte le settimane, senza sosta. Una scelta di campo netta. Chiara come il sole.
Impossible anche in questo momento dirvi quanto e quale sia stato il suo contributo, possiamo solo dirvi che non abbiamo mai conosciuto un altro essere umano come lui. Mai. Un’umanità immensa che non conosceva limiti. Limiti di generosità, di intelligenza, di originalità. Di affetto. Quello che ci ha sempre colpito di Massimo Fagioli era la presenza, non mancava mai, ogni volta che gli chiedevamo di capire, dai fatti di cronaca più efferati ai buchi di questa sinistra infelice che lui cercava e ricercava… lui era lì. Rispondeva pronto, pronto alla ricerca, alla lettura, alla scrittura. E ci ribaltava il pensiero. Lo ossigenava, lo ricreava o lo creava del tutto.
Left perde il suo più grande interlocutore. Lo rivendichiamo, con grande dolore. Oggi la perdita sovrasta ogni altra sensazione, ma nel tempo vi diremo e vi racconteremo perché e quando un giorno un uomo solo decise che tutto quello che studiava non funzionava. Non curava. Semmai “ammalava” le persone. E vi racconteremo perché se ne andò da ogni posto dove si faceva o non si faceva neanche finta di curare. Vi racconteremo perché si scontrò con la Società italiana di Psicoanalisi. E vi racconteremo perché non smise mai di fare ricerca.
Solo, per oggi… ciao Massimo.
Guarda >> L’ intervento di Massimo Fagioli alla festa di Left
Le relazioni transtlantiche, quella cosa che tutti più o meno abbiamo sempre data per scontata, sono a un minimo storico. O rischiano di esserlo. L’ultimo segnale, in grande amicizia, per carità, lo ha dato Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera europea, dopo l’incontro a Washington con Rex Tillerson, il Segretario di Stato fresco di conferma (e con Michael Flynn, discusso e forse in uscita, consigliere per la sicurezza nazionale, Jared Kushner, genero di Trump e incaricato per il Medio Oriente e il senatore McCain). La comunicazione di Mogherini all’Atlantic council è amichevole, ma non segnala il migliore dei climi. Del resto, alcune dichiarazioni del presidente Trump sull’Europa, che sembrano ribadire concetti espressi in Europa dai vari alleati politici del presidente (Le Pen, Farage, Salvini).
Sono più di dieci anni che a Europa e Stati Uniti capita di non andare d’accordo, dividersi: la prima grande spaccatura fu sull’invasione dell’Iraq, nel 2003, che vide i governi socialdemocratici di Francia e Germania rifiutarsi di partecipare a un’avventura priva di senso – Schroeder ci vinse le elezioni con quella scelta. Poi ci sono stati gli otto anni di Obama, scambi di elogi, convergenza, ma non lavoro comune. Inutile dire che la caduta del Muro di Berlino e la fine della divisione dell’Europa in due blocchi ha cambiato molto le cose, non c’è il collante ideologico/geopolitico a tenere insieme le cose. Ne andrebbe, volendo, trovato uno nuovo che non sia la crociata anti islamica. Ma vediamo cosa ha detto Mogherini tra Atlantic Council e conferenza stampa (qui il testo della conferenza stampa, qui il sotto l’incontro al think-tank).
«Stiamo entrando in un periodo in cui le relazioni tra Unione europea e Stati Uniti saranno di tipo più pragmatico e negoziato, ci sono molti campi in cui coincidiamo e dove è vitale un lavoro comune». Tradotto: niente è davvero scontato, specie se il messaggio che proviene da Washington è casuale, spesso critico con l’Unione e la sua natura.
«Noi non interferiamo sulla politica interna degli Stati Uniti, e in questi giorni ce ne sono di cose che succedono. Lo stesso vale con l’Europa – nessuna interferenza…Forse mettere “prima l’America” (America first, lo slogan, controverso, di Trump) significa occuparsi prima dell’America…Forse non è una buona idea invitarci a smantellare l’Unione, c’è bisogno di più, non di meno Unione». Tradotto: Trump e figure a lui vicine hanno parlato dell’Ue in termini poco lusinghieri, è sbagliato, non si fa, guardi a tutti i guai che ha in casa sua.
Mogherini in questo caso fa un riferimento velato ma diretto a Ted Malloch, possibile ambasciatore statunitense presso l’Unione, che in varie occasioni ha fatto commenti poco adatti a un diplomatico. Malloch, che viene anche accusato di raccontare due o tre bugie nella sua autobiografia, ha detto di recente: «Ho avuto un ruolo nel far saltare l’Urss, ora potrei averlo nel far saltare l’Europa» e anche «Basta giri gratis sulla giostra del bilancio del Pentagono, Francia, Germania e altri alleati nato dovranno aumentare la propria spesa militare». Malloch è un entusiasta della Brexit e ha promesso accordi bilaterali commerciali favorevoli a Londra. Tra le altre cose, si segnala l’idea che l’amministrazione Trump favorisce un’Europa debole per poter negoziare accordi commerciali bilaterali e non dover avere a che fare con l’Unione. Diversi leader europei hanno fatto sapere di non volere un ambasciatore così.
Non è finita: il sostegno diretto o indiretto, gli incontri e le visite alla Trump Tower dei vari Le Pen, Salvini, Farage, tutti dichiaratamente anti-europei, viene giudicato come una scelta di campo e un tentativo di influenzare il panorama politico europeo.
Ci sono poi i dissidi sulle questioni specifiche. Mogherini ha ribadito che nessun Paese europeo ha la benché minima idea di spostare la propria ambasciata in Israele a Gerusalemme. Mossa annunciata da Trump, che, ha detto il senatore Bob Corker a Politico, avrebbe voluto farlo in pochi giorni e che è stato fortunatamente bloccato. Sull’ucraian Mogherini dice: applichiamo gli accordi di Minsk e, solo poi, alleggeriamo le sanzioni. Trump e il Dipartimento di Stato non hanno detto nulla, o meglio sembrano voler tenere un atteggiamento diverso con Mosca, ma non hanno ancora trovato l’equilibrio tra cooperazione e mantenimento degli equilibri dati. Poi c’è l’Iran: Mogherini ricorda che l’accordo non è bilaterale tra Paesi ma internazionale e spiega di avere avuto rassicurazioni da parte americana. Ci sono punti di tensione e dissidio con l’Iran (diritti umani, Siria), ma l’Europa dialoga, mantiene canali aperti e commercia con il Paese e non ha apprezzato i toni usati dal nuovo presidente. L’alto rappresentante europeo non lo dice così, ma l’insistenza sull’Iran è un modo per segnalare che nel capitolo “buone relazioni” rientra un atteggiamento equilibrato e razionale nel trattare i rapporti con Teheran – dove tra l’altro si vota il 19 maggio e Trump è naturalmente diventato un argomento di campagna elettorale.
Un primo passaggio cruciale per testare le relazioni tra Europa e Stati Uniti, sebbene la cornice sia diversa, è il vertice Nato, alleanza che Trump ha definito “obsoleta”. Il vicepresidente Pence e il capo del Pentagono Matis saranno a Bruxelles e Monaco per un summit sulla sicurezza, riunioni sull’Isis e incontri di alto livello a partire da domani. Osservare le virgole e gli accenti sarà cruciale per capire il futuro di Nato ed Europa. Quanta pressione perché i partner Nato aumentino i loro bilanci militari fino al 2% (l’impegno è entro il 2024). E che punti di vista su Isis, Ucraina, Siria? Vedremo presto che miscela produrrà il cocktail di irrazionalità e impulsività del presidente, le idee di estrema destra e anti Unione di Steve Bannon, il tentativo di equilibrare ma perseguendo un’agenda nuova dei segretari Tillerson e Matis e il freno dell’apparato e di molti senatori importanti, preoccupatissimi per le scelte di politica estera di Trump. In queste ore il consigliere per la sicurezza nazionale Flynn è nella tempesta per aver telefonato all’ambasciatore russo prima di entrare in carica e prima che Obama approvasse nuove sanzioni contro Mosca in seguito all’hackeraggio della campagna Clinton. Flynn era stato licenziato da Obama per aver contrastato le scelte sulla Siria e ora potrebbe fare la stessa fine.Una possibilità è dunque che una qualche forma di equilibrio non si trovi e che le relazioni transatlantiche siano avviate a quattro anni di montagne russe.
epa05738195 (L-R) Matteo Salvini, Leader of Italian party Lega Nord (Northern League), Harald Vilimsky of Austria's Freedom Party (FPOe), Geert Wilders, Leader of Dutch Party for Freedom (PVV), Marcus Pretzell, Member of the European Parliament for the German party Alternative for Germany (AfD), Marine Le Pen, Leader of French party Front National (FN) and Frauke Petry, Federal Chairwoman of the German party Alternative for Germany (AfD) pose on stage after their speeches at a conference of European right-wing party ENF, Europe Nations and Freedom, in Koblenz, Germany, 21 January 2017. Several European leaders of national right-wing parties will deliver speeches at the conference organized by the German party Alternative for Germany (AfD). EPA/SASCHA DITSCHER
«L’ideologia islamica è probabilmente più pericolosa del Nazionalsocialismo». È solo una delle frasi a effetto pronunciate dal leader del Partito per la libertà olandese (“Partij voor de Vrijheid”, Pvv), Geert Wilders, durante un’intervista rilasciata questa domenica al canale televisivo WNL.
Wilders è tornato a parlare in televisione dopo una lunga assenza e, soprattutto, in vista delle elezioni parlamentari olandesi che si terranno il 15 marzo prossimo. Il leader della destra radicale e islamofobica, ha ribadito che, vietando l’Islam nel Paese, non si reca danno allo stato di diritto. Al contrario, quest’ultimo «verrebbe rafforzato».
Ma come si può vietare l’Islam? Wilders ha ribadito di voler chiudere le «moschee» equiparandole ai «templi del nazismo». E il Corano? «Andrebbe bandito», anche se «non possiamo certo vietare di tenerlo in casa». Tutto ciò in un Paese in cui la popolazione di fede musulmana rappresenta il 6 per cento del totale. Passando a temi più “istituzionali”, Wilders vorrebbe seguire l’esempio britannico e portare i Paesi Bassi fuori dall’Unione europea.
Per quanto la retorica di Wilders possa far impallidire addirittura le etichette del “politicamente scorretto”, il suo partito – nel quadro di un sistema elettorale proporzionale puro -, rappresenta la prima forza politica nel Paese. Secondo gli ultimi sondaggi, il Pvv ottiene il 20 per cento delle preferenze – alle ultime elezioni aveva raccolto l’8 per cento.
Alle spalle del Pvv si colloca il Partito popolare per la libertà e la democrazia (“Volkspartij voor Vrijheid en Democratie”, Vvd) del Primo Ministro Mark Rutte. A seguire la battaglia per il terzo posto coinvolge il Partito ecologista di sinistra (“GroenLinks”), la formazione liberale D66 e il Partito Cristiano Democratico.
Per ora tutti hanno escluso un’alleanza con il Pvv, ma è realistico scartare la prima forza del Paese? Dal canto suo, Wilders non si fa troppi problemi. Se il voto di marzo dovesse confermare i sondaggi, secondo Wilders «nessuno potrà evitare il Pvv».
Sono più di 250 mila i bambini che nel mondo arruolati nelle guerre. Un crimine che li distrugge fisicamente e psichicamente. Gli adulti li usano come soldati, ma anche come spie, corrieri, messaggeri. Spesso si tratta di bambini violentati, abusati, rubati o venduti dalle loro stesse famiglie. «Parliamo di 250 mila bambini soldato ma non abbiamo unnumero preciso, il fenomeno è sfuggente e difficile da mappare», dice Andrea Iacomini, presidente Unicef Italia. Le aree di guerra in cui i bambini soldato sono più numerosi sono la Siria e lo Yemen, «dove solo nel 2016 si sono registrati mille casi di bambini reclutati come soldati». In Sud Sudan, in Centrafrica e in Myanmar si ha notizia di quasi 10 mila bambini reclutati come soldati. Ogni anno l’Unicef riesce a far liberare 200-300 bambini, poi comincia la ricerca dei loro familiari mentre i bambini fanno terapie psicologiche che puntano anche a liberarli dalle ideologie religiose che sono state loro imposte nell’addestramento.
Racconta la storia di Pratheepa, ex bambina-soldato tamil, il libro La bambina con il fucile, scritto da Susanna De Ciechi a partire dalla testimonianza della ragazza, una delle migliaia di bambini sfruttati nella guerra civile in Sri Lanka. Il medico Massimiliano Fanni Canelles, presidente di Auxilia onlus, l’ha incontrata quando è andato nel Sud-Est asiatico, per aiutare la popolazione locale, dopo lo Tsunami
«L’incontro con Pratheepa è uno di quelli che lasciano il segno» dice Susanna De Ciechi che per conto dell’associazione Auxilia ha raccontato la sua storia in un libro. «Io sono una “ghost writer “e scrivo le storie che gli altri mi raccontano, scelgo quelle che mi piacciono. Per scrivere in forma narrativa le vicende di Pratheepa, la bambina soldato, ho trascorso molti mesi raccogliendo le loro testimonianze e documentandomi. Così ho scoperto l’agghiacciante realtà dei “soldatini per forza”, le violenze sulle piccole vittime, le conseguenze di una guerra poco nota, durata ventisei anni, e le responsabilità dell’Occidente che gode dei propri privilegi sempre a spese dei più deboli. Ho anche avuto la prova di ciò che poche persone possono riuscire a fare, sia pure con scarsissimi mezzi, per aiutare le vittime della violenza». Un’esperienza che, dice la scrittrice, sotto molti aspetti, le ha cambiato la vita.
«Quando ho iniziato a scrivere ho cercato di assumere lo sguardo dei miei protagonisti, come faccio sempre. Attraversare la vita di Pratheepa è stato sconvolgente, come immagino possa essere per il lettore sapere, pagina dopo pagina, che il libro racconta una storia vera che supera i limiti consentiti dall’immaginazione». Ma La bambina con il fucile è anche «una testimonianza di grande coraggio e di impegno civile e ci dice che non possiamo continauare a far finta di niente nei confronti di chi subisce violenza, ciascuno di noi può contribuire a cambiare le cose anche attraverso dei piccoli gesti. Dobbiamo passare dal pensiero all’azione».
Maggi Giovanni---foto Quarto Stato dopo servizio da Milano
C’è la Boldrini che si inalbera per le offese sul web. Dice che l’odio quando si spalma sui social è più rarefatto ma ugualmente pericoloso, così come l’odio sui marciapiedi. E ha ragione. Eccome. Ho una lista di vigliacchetti da tastiera che mi scrivono scuse tentennanti sottoscritte dal proprio avvocato frignando come implumi distratti. Ma “l’odio del web” lei, la Boldrini, vorrebbe intestarselo, ci tiene a dirci che è la sua battaglia e da Presidente della Camera dei Deputati apre un sito come potrebbe fare uno qualsiasi per qualche spicciolo di euro.
C’è La Stampa (maiuscola) che si intesta la battaglia per la post-verità: dice che le bufale sono pericolose perché spostano i voti senza consapevolezza e premiano gli urlatori. Hanno ragione, per carità. Tutte le ragioni del mondo. La verità sta all’ecologia intellettuale di una società come l’ossigeno per i nostri polmoni. Ma denunciare non significa esserne detentori, questo no, per favore no: ritenersi portatori unici della verità è una bufala mitomane come quelle che ci si ritrova a denunciare. Mi pare.
Dice Grillo che l’onestà non è più di moda. E la storia di questo Paese (e i numeri, anche) gli danno tutte le ragioni del mondo. Ma ritenere l’onestà come requisito indispensabile della propria azione politica non significa certificare come onesti tutti i propri tesserati (o amici): Marra e Romeo sono nella migliore delle ipotesi due imbecilli, due furbi nell’ipotesi peggiore. L’onestà si pratica, con tutte le difficoltà del caso, senza appuntarsela sul petto. Mi pare.
Dice Renzi che il cambiamento è un valore. L’ha addirittura trasformato in un feticcio. E intanto ha fatto politica nel modo più vecchio (nel senso deteriore del termine) che si sia mai potuto immaginare. Così alla fine il cambiamento si è svuotato, è diventato un guscio secco e alla fine è finito per essere retorica buona per la spazzatura. Credere di essere l’unico cambiamento possibile è il modo migliore per essere portatore del peggiore vecchismo. Mi pare.
A sinistra (ancora) si combatte la guerra di chi ha la sinistra più lunga (e più a sinistra) rispetto agli altri. Ero un neonato quando i puri scacciavano i meno puri e intanto si finiva con percentuali da prefisso telefonico: chissà come saremo felici quando avremo trovato quello che è di sinistra purissima. Lui. Da solo.
Le battaglie non si intestano, si combattono. Pretendere di essere i portatori unici di una battaglia giusta finisce per trasformarla in una tenzone tra fazioni che ne svilisce il senso. Facciamo un patto: amatevi tutti un po’ meno e combattete un po’ di più. Sarà un Paese migliore. Credo.
epaselect epa05605231 Secretary-General of Podemos Party (We Can), Pablo Iglesias speaks during the investiture debate at Spanish Parliament's Lower Chamber in Madrid, Spain, 27 October 2016. According to the political calendar, the investiture vote of People's Party (PP) candidate and acting Prime Minister Mariano Rajoy in the Congress must be held before 31 October 2016 or the nation will go straight to its thir election in a year. EPA/Javier Lizon
MADRID. Di sinistra o “trasversali”? Ci eravamo chiesti alla vigilia di questo congresso. Alla fine ha vinto la linea di Pablo Iglesias. «Un mandato di unità e umiltà», lo definisce nella sua rielezione il segretario generale del partito. È domenica, il secondo e ultimo giorno di lavori per il congresso di Podemos e i risultati non si sono fatti attendere. Con largo anticipo dal palco del Palacio di Vistalegre, intorno a mezzogiorno, Pablo Echenique ha cominciato a leggere i risultati ufficiali. Hanno votato più di 150mila persone. El coleta ha fatto il pieno: oltre il 50% dei voti per il suo documento politico “Podemos para dotas”, 37 consiglieri su 62 nel Consejo Ciudadano Estatal (cioè una maggioranza del 60% nella direzione del partito) e l’89% (con 128.700 preferenze) per l’elezione diretta come leader del partito. Si ferma a poco più del 30% il documento di Inigo Errejon, “Recuperar la ilusion”, a poco più del 10% invece “Podemos en movimiento2, di Miguel Urban e Teresa Rodriguez.
Anche oggi il refrain dentro il Palazzetto è stato “Unidad!”. La platea dei militanti intensifica l’applauso quando Iglesias abbraccia un Errejon che appare frastornato. Podemos, assicura Iglesias nel suo discorso d’investitura, sarà un partito «unitario, fraterno e unito» concentrato sull’obiettivo delle elezioni del 2020: battere i popolari di Mariano Rajoy. Dopo gli annunci e gli applausi è il momento dei progetti. Sul palco si succedono alcuni esponenti delle principali battaglie che Podemos ha portato avanti in questi due anni. Sul palco e fuori, il palazzetto è un mosaico di battaglie per il lavoro, lotte territoriali e rivendicazioni che sono giunte a Madrid da tutta la Spagna. Le abbiamo ascoltate, e ve le racconteremo con calma sul prossimo numero di Left. Intanto, a Vistalegre cala il sipario, mentre si intona “L’estaca”, la canzone catalana che è ormai divenuta un po’ l’inno del partito. La folla canta, si abbraccia. Il pericolo di divisioni è scongiurato, almeno per ora. Quando si spegneranno i riflettori chi si è battuto duramente in questi giorni riuscirà a lavorare fianco a fianco? Qui se lo augurano tutti.
Il campo 022 di Koblias è un informal tent settlement, uno dei tantissimi micro campi nati in Libano dove trovano asilo i siriani in fuga dalla guerra. Dove solo la dignità degli abitanti impedisce di definirlo inferno. Ma le condizioni di vita sono durissime. Su Left, il reportage integrale di Luigi Spera, con le splendide foto di Marco Negri.
«Beirut. Il vento s’insinua tra le tende. Le pareti di plastica, spoglie, vengono scosse. Le grida dei giochi dei bambini non smettono di fare da sottofondo, mentre i volti degli adulti si fanno più tesi, preoccupati. Il freddo sta arrivando, la neve comincia a cadere sulle strutture instabili divenute case e anche prima che le butti giù riscaldarsi è un problema. Sulle montagne del Libano, nella Valle della Bekaa, l’inverno è rigido. Sotto i tappeti incredibilmente puliti e profumati che fanno da pavimento alle baracche, non c’è altro che terra».
Solar panels used to generate power outside an office building in Los Angeles, California on August 4, 2015. President Barack Obama's Clean Power Plan to slash electricity-generated CO2 emissions was welcomed as a courageous step towards a lower-carbon future, but not yet enough to brake dangerous planet warming. Obama announced August 3 that power plant owners must cut carbon dioxide emissions by 32 percent from 2005 levels by 2030. AFP PHOTO / MARK RALSTON (Photo credit should read MARK RALSTON/AFP/Getty Images)
In una fase in cui le attività tradizionali dell’alta finanza non rendono più come una volta, la finanza verde offre il duplice vantaggio di una crescita rapida e costante e di un’immagine positiva, che fa bene alla reputazione. Per questo grandi banche, compagnie assicurative, agenzie di rating, trader e fondi d’investimento hanno subito preso posizione al tavolo, attratti da previsioni come quella dell’Agenzia internazionale dell’energia, secondo cui da qui al 2035 la sola transizione energetica muoverà investimenti per circa 50mila miliardi di dollari.
I regolatori, però, sono stati molto meno reattivi, sia a livello globale sia su scala nazionale. I ritmi di crescita a due cifre e l’incremento degli attori in gioco non sono finora stati sufficienti a convincere governi e istituzioni finanziarie del bisogno di stabilire norme e vincoli condivisi per il settore. E questo spiana la strada alle regole fai da te e ai progetti che sotto il manto “green” nascondono impatti ambientali e sociali pesanti, e immancabilmente, speculazione.
Ammontano a circa 42 miliardi di dollari le obbligazioni “sostenibili” messe sul mercato nel 2015, ovvero il 272% in più rispetto al 2014. Poi 93,4 miliardi nel 2016 e un nuovo raddoppio fino a 200 miliardi nel 2017, secondo le stime di Moody’s. Un giro d’affari globale stimato in quasi 695 miliardi di dollari.
L’inchiesta integrale sui green bond, la potete leggere sul numero di Left in edicola.
La Presidenza Trump può essere usata come manuale di scienza e storia della politica, perché la rappresentazione che mette in scena ogni ora del giorno da due settimane è quella di un governo costituzionale scosso come in uno shaker da uno dei suoi poteri, quello presidenziale. Il leader populista che si definisce la “bocca” del popolo – «è il popolo che ha vinto non io, che parlo per il popolo» come ha pressapoco detto Trump il giorno dell’inaugurazione – ritiene di godere di più legittimità degli altri organi dello Stato, anche del Congresso che comunque è stato parzialmente rinnovato due anni fa e quindi registra una volontà meno recentemente testata della sua e quindi, prevedibilmente, meno autorevole.
È questa visione di legittimità istantanea, presente e viva nella persona e nelle parole del leader, che la presidenza Trump rappresenta, secondo uno schema che è populista nello stile e plebiscitario nel metodo. E per questo deve mostrare un attivismo senza posa, poiché, come da manuale, la leadership populista cerca il plebiscito permanente e deve quindi produrre permanentemente prove di legittimità. Fare o cominciare a fare, subito, quello che ha promesso in campagna elettorale, a tutti i costi, anche tirando per i capelli se stesso come il barone di Munchausen – il leader al governo è anche sempre in mobilitazione, ricoprendo due ruoli: il potere costituito e il potere che costituisce se stesso.
Un presentismo regimentato che assorbe tutta la politica – quella istituzionale e quella extra-istituzionale; quella che decide e quella che giudica – senza lasciare a nessun spazio. Non alla stampa e all’opinione, sbeffeggiata ogni qualvolta non canta nel coro, ovvero quando fa il suo lavoro e non quello del leader. Non gli altri poteri dello Stato e soprattutto quello meno politico e – nella mente plebiscitaria di Trump presumibilmente meno legittimo: il giudiziario. Ed è questo l’altro capitolo del manuale: l’assalto del leader populista plebiscitario alla divisione dei poteri, al potere indipendente da quello politico in particolare, e l’affermazione della sua sovranità come la più autentica.