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Pinar Selek: «Erdogan non ci metterà a tacere»

Pinar Selek FREDERICK FLORIN/AFP/Getty Images)

«Colpo di Stato del 12 settembre 1980. Mio padre è stato appena arrestato, insieme a centinaia di migliaia di oppositori. Il giuramento di fedeltà che ci fanno recitare due volte a settimana a scuola mi fa l’effetto di altrettanti colpi di manganello», scrive Pinar Selek ne La maschera della menzogna (Fandango). Anni dopo sarebbe toccata a lei l’esperienza del padre. Accusata di fiancheggiamento del Pkk, Pinar ha visto con i propri occhi l’inferno delle carceri turche dove è stata rinchiusa e torturata. In quegli anni durissimi la scrittrice e giornalista Asli Erdogan l’aveva sostenuta, dandole voce in articoli e interviste. Il “caso” ha voluto che ora le parti si siano rovesciate. Ed è Pinar a cercare di mobilitare l’opinione pubblica a sostegno dell’amica e collega. Ma ora pende sulla sua testa la spada di Damocle di una nuova decisione della Corte suprema che ha chiesto l’annullamento della quarta decisione di assoluzione pronunciata nel 2014. Dopo il fallito golpe dello scorso luglio Erdogan ha imposto una stretta confessionale e autoritaria al Paese. La dichiarazione dello Stato di emergenza lo “solleva” dal rispetto delle regole e delle leggi. Nel Paese continuano gli arresti di giornalisti e i licenziamenti in tronco degli insegnanti, mentre  il Parlamento è al lavoro per una revisione della Costituzione in senso presidenziale. È in questo contesto che è stata chiesta la riapertura del processo a carico di Pinar Selek. «Un processo kafkiano», come lo definisce lei stessa. «Continuiamo a lottare per la giustizia, con i mezzi che possiamo. Per il momento non è stata presa la decisione. – rimarca la scrittrice in una ampia intervista che esce sabato prossimo su Left – Voglio pensare che non cancellino la mia assoluzione. Non voglio pensare ad altre eventualità».
La libertà di espressione esiste ancora in Turchia? «No, non esiste più. Molti scrittori e artisti sono in prigione, in esilio o sotto minaccia. La Turchia è bloccata in un tunnel di orrore e non sappiamo come uscirne. La solidarietà internazionale è molto importante, è ossigeno che ci fa respirare».

L’articolo integrale è su Left in edicola

 

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Al via il congresso di Podemos. I militanti arrivati a Madrid gridano “Unidad!”

MADRID. Alle nove di questa mattina tutto intorno al Palacio de Vistalegre, periferia sud di Madrid, la fila era già lunga. Piove e la temperatura è scesa vertiginosamente, ma in migliaia sono comunque arrivati per la seconda Asamblea ciudadana, il congresso di Podemos. Due anni dopo l’exploit elettorale, il partito guidato da Pablo Iglesias oggi può contare su 5 milioni di voti e quasi mezzo milione di iscritti. Più del 30% dei simpatizzanti ha votato finora on line per scegliere tra i documenti presentati e per i candidati alla guida del partito. E una classe dirigente che cresce e oggi chiede la parola. A Vistalegre si deciderono le linee guida del partito in vista delle elezioni del 2020.

 

“Unidad!” è il grido con cui i partecipanti accolgono i loro dirigenti. La pista di quella fu l’antica piazza dei tori madrilena è tanto piena quanto carica. Dopo le accese polemiche delle ultime settimane, i militanti del partito invocano unità e provano così a scacciare lo spettro di una scissione, o comunque di una divisione. Sulla stampa spagnola, nelle ultime ore prima dell’avvio, è stato possibile leggere anche di un fantomatico partito che Errejon starebbe organizzando in caso di sconfitta del suo documento.

“Non siamo qui per parlare a noi stessi”, dice Pablo Iglesias, che dedica buona parte della sua presentazione (il suo documento si chiama “Podemos para todas” ed è stato presentato per primo) ai popolari di Mariano Rajoy. Sempre qui, nella apitale, in queste ore si sta svolgendo il 18esimo congresso del Partido popular – Adelante! è lo slogan selto dal partito che guida il governo di Spagna. Anche Errejon si rivolge ai partiti delle élites: “Abbiamo una cattiva notizia per voi. Da lunedì, saremo più uniti, più forti e con più volontà di prima”, dice Inigo presentando il secondo documento (“Recuperar la ilusion”). Il più applaudito? Miguel Urban di Anticapitalistas (il suo è il terzo documento, “Podemos en movimiento”), che fa esaltare la folla quando senza peli sulla ligua grida dal palco: “Qui non c’è nessun nemico interno. Il nemico è lì fuori”. E un appello all’unità arriva anche dalla coordinatrice di Podemos Andalucia, Teresa Rodriguez che gli sta accanto.

Intuire l’andamento è impossibile, ogni esponente del partito viene accolto con lo stesso entusiasmo dalle migliaia che hanno preso diligentemente posto sugli spalti. Oggi pomeriggio e domattina si continuerà a discutere di politica e nel primo pomeriggio di domani, intorno alle 14, verranno resi noti i risultati delle votazioni.

Addio globalizzazione? Destra, sinistra, dazi e TTIP nell’era di Trump e della Brexit

epa02740680 A container port in Shanghai, China on 18 May 2011. The European Union president called this week for fair trade practices between China and Europe, warning that Europe could turn to protectionism if current trends continue. The EU is China's largest export market, while European firms have been hammered by low-cost Chinese exports, European multinationals have complained of regulatory barriers hindering their ability to compete freely in China. EPA/Qilai Shen

Nel 1994, in Chiapas, il movimento zapatista insorse contro l’entrata in vigore del Nafta. Nel 2000 fu la volta di Seattle e della rivolta globale contro il Wto e la globalizzazione. Quella proseguita a Genova nel 2001 e negli anni a venire, quando ogni vertice globale veniva accolto da proteste. Che si trattasse di un Paese del Sud o di una capitale europea.

Gran salto in avanti: novembre 2016, una delle cose che consente la vittoria di Donald Trump è la promessa di gettare alle ortiche gli accordi commerciali esistenti, negoziarne di nuovi e vantaggiosi per gli Stati Uniti, imporre dazi alle merci importate, tornare a mettere «Prima l’America». Ora,«America first» è uno slogan che viene dritto dritto dal sovranismo isolazionista incarnato dal comitato che portava lo stesso nome e guidato da Charles Lindbergh negli anni che precedettero l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale – Freghiamocene degli inglesi, che hanno perso la guerra, sono gli ebrei che spingono e manipolano i media per portarci in una guerra non nostra”, era per sommi capi il discorso.

Ma qui – e soprattutto su Left in edicola – non parliamo della pericolosità di Donald Trump, quanto piuttosto di una specie di rivoluzione, quella che ha reso la globalizzazione il nemico numero uno della destra sovranista occidentale – e anche di un po’ di sinistra. Cosa è successo? Che dieci anni di crisi, i contorcimenti dell’Europa e chissà quanti altri fattori hanno cambiato il modo di guardare alle cose. Nei primi anni Duemila, infatti ciò che si contestava era la globalizzazione così come queste prendeva forma, i trattati scritti in segreto, penalizzanti per le società che li subivano e ottimi per favorire le multinazionali che li dettavano. Un discorso simile fatto da una parte degli oppositori del TTP, del TTIP e del CETA in questi mesi. Un discorso diverso da quello di chi afferma America o Francia o Italia first – che non a caso dice anche: fuori gli stranieri.

Tra le altre cose, 25 anni di globalizzazione e uno sviluppo tecnologico prodigioso hanno reso il mondo più interconnesso e piccolo che mai. A partire dal clima e dai passi necessari per frenarne il cambiamento, passando per la produzione di merci o per le grandi migrazioni. Affrontare più e meglio ciascun grande tema, fare in modo che gli scambi tra Paesi siano più razionali – nel senso del consumo di energia, dello spreco, della tutela dei diritti – ed equi in termini di distribuzione die benefici sarebbe dunque forse il tema.

Ma a che punto è la globalizzazione? Servono davvero i dazi? Cosa succederebbe a Italia ed Europa se si ricominciasse a imporre tariffe in entrata? E perché la leadership cinese è tanto affezionata alla globalizzazione come la conosciamo?

Su Left n. 6,  2017 in edicola dall’11 febbraio parliamo di tutto questo così:

Protezionisti di tutto il mondo… Dagli Usa all’Europa tornano il protezionismo e il sogno improbabile di chiudere  le frontiere. Ma solo in entrata. Il primo effetto della retorica trumpiana è l’ipotesi  di un’Europa a due velocità. Eppure il surplus tedesco non colpisce gli americani di Roberta Carlini

«Le fabbriche non tornano chiudendo le frontiere». L’amministrazione Trump promette il ritorno del lavoro industriale grazie ai dazi e all’abbandono dei trattati. «Sbaglia: non è la globalizzazione il problema ma il dollaro forte. E i benefici non sono arrivati a chi lavora». Parla l’economista Jared Bernstein, già capo economista del vicepresidente Usa Joe Biden e capo della task force per per la middle class voluta dall’amministrazione Obama di Martino Mazzonis

Libero scambio, a difenderlo resta Pechino. Da quando ha scommesso sulla globalizzazione, il Partito comunista cinese deve continuamente riadattare la propria strategia di sviluppo e assecondare i bisogni della classe media. Così garantisce benessere in cambio della certezza di restare al comando di Andrea Pira

Un’Unione a differenti velocità? Il rischio è la disgregazione. Tra crisi e populismi molti vedono  con favore la proposta di Angela Merkel  di Andrea Ventura

Del rifiuto della globalizzazione parliamo su Left in edicola

 

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Di sinistra o “trasversali”? Podemos a congresso

Il pugno chiuso di Pablo Iglesias e le dita a V di Íñigo Errejón. Dietro i due gesti, due visioni della politica che si confrontano al secondo congresso di Podemos. Due anni e cinque milioni di voti dopo l’exploit. Da settimane, la stampa spagnola (e non solo) esaspera i toni e racconta “lo scontro” tra Iglesias ed Errejón. Ma non è di una lotta di potere che si tratta, né di uno scontro personale. A #Vistalegre2 si confrontano a viso aperto due idee diverse di socialismo del nuovo millennio. Gramsci vs Laclau, come fa giustamente notare Carlo Formenti. E due diverse concezioni di egemonia: una – quella di Iglesias – ispirata al blocco sociale di Gramsci, l’altra – di Errejón – al post marxismo di Ernesto Laclau.

Chi, cosa e come si vota.

Niente delegati e niente passerelle. I lavori sono cominciati il 5 gennaio e si concluderanno l’11 e il 12 febbraio nel palazzo di Vistalegre, periferia sud di Madrid. La Asamblea ciudadana è composta da tutti gli iscritti di Podemos, non ci sono delegati, e le decisioni sono prese con una votazione universale, le urne virtuali sono aperte dal 4 e verranno chiuse l’11 febbraio alle ore 14.00. I risultati verranno resi noti domenica 12.

I documenti sono tre: “Podemos para todas” del segretario generale uscente Pablo Iglesias, “Recuperar la illusion” del segretario politico e numero due del partito Íñigo Errejón e “Podemos in movimiento” degli Anticapitalistas Miguel Urban e Teresa Rodriguez, che seppure minoritari nei numeri hanno un notevole peso nelle decisioni del partito. Oltre a scegliere il documento e quindi la linea politico-organizzativa, la base eleggerà i due principali organi del partito: il Consejo Ciudadano, eletto favorendo le liste più votate e garantendo quelle che superano il 5%, è l’organo esecutivo, prende le decisioni che dirigono il partito; e la Secretaría general è un incarico unipersonale, e coincide con l’elezione del leader, con votazione diretta di tutti gli iscritti.

Sarà la base a decidere se ha ragione Iglesias oppure Errejón. L’importante, ricorda il politologo catalano Vicenç Navarro, è che «le nuove sinistre non commettano l’errore del passato, concentrarsi su una sola strada: la necessaria via parlamentare dev’essere accompagnata dalla via agitacional». Ed è forse questa la principale sfida di Podemos, e della sinistra europea.

Di sinistra, di errori commessi, di nuove e vecchie forme di socialismo parliamo sull’ultimo numero di Left in edicola dall’11 febbraio

Liberatevi lo stesso. Congresso o no. Renzi concederà una conta, convinto, giustamente, di vincerla. E la sinistra dem avrà così sprecato l’occasione di rompere con un partito che è al capolinea, come dice Macaluso. Nell’illusione di poter strappare qualcosa sulle liste elettorali  di Luca Sappino

Storia del Partito democratico. Un coacervo senza identità. Fatto il Pd dovevano essere fatti i piddini. Ma invece cosa è accaduto? Scarsa apertura alla società civile, giochi di potere, feudi interni e «nessuna volontà di trovare un’identità». A colloquio con gli storici Guido Crainz e Giovanni De Luna e il politologo Piero Ignazi di Donatella Coccoli

Socialisti europei, chi guarda a sinistra e chi no. Dopo l’era della Terza via e delle Grandi coalizioni, la svolta è a sinistra? Oggi quelli che hanno accettato il neoliberismo sono in difficoltà, mentre Francia e Portogallo fanno ben sperare. Mappa dei Socialisti d’Europa (occidentale)  di Tiziana Barillà

 

Del rifiuto della globalizzazione parliamo su Left in edicola

 

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Pisapia, i renziani che impallinano Gentiloni e la nostra copertina. Perché diciamo “Liberi tutti”

Due sono le notizie di giornata che danno ulteriore senso alla copertina con cui Left sarà in edicola da sabato 11 febbraio, “Liberi tutti”, con il Pd rappresentato come una gabbia da cui fuggire alla svelta, perché anche il congresso che Renzi concederà difficilmente, temiamo, potrà aprire una fase nuova (nuova veramente: non solo per i toni della comunicazione).

La prima notizia è la mozione che alcuni deputati renziani hanno scritto per dire a Gentiloni che non si azzardasse ad alzare le tasse, mettendo così le mani avanti su una crisi di governo che presto o tardi (presto, spera Renzi) dovrà arrivare. La seconda è l’intervista che Giuliano Pisapia ha rilasciato a Aldo Cazzullo, annunciando che scende in campo di nuovo, «ieri a Milano, oggi in Italia», e che, sperando in una legge elettorale che preveda il premio di coalizione, vuole candidarsi con il nascituro Campo progressista ad «essere l’embrione del nuovo centrosinistra».

Partiamo dal documento dei renziani. Che così accusano Gentiloni, di fatto (sorvolando sul fatto che il ministro dell’economia sia lo stesso di prima, così come il 90 per cento dell’esecutivo), di esser pronto ad alzare le tasse, le accise su carburante e tabacchi, e di voler rispondere troppo diligentemente alle richieste dell’Europa. Richieste che i renziani, si deve intendere, avrebbero rispedito al mittente, fosse dipeso ancora tutto da loro. Che sia un attacco al governo, è indiscutibile. Tant’è che nel Pd qualcuno – neanche timidamente – lo dice: «È evidente che si tratta di una mozione politica che non entra nelle dinamiche economiche», dice ad esempio Francesco Boccia, dem e presidente della commissione bilancio, secondo cui «oggi non ha senso fare inutili discussioni con la commissione europea su uno 0.2 del rapporto Deficit/pil; rompere oggi per 3.4 mld e incorrere in una procedura di infrazione non mi sembra il caso» e, se proprio una mozione si voleva fare, questa doveva partire con «la premessa che è il governo Renzi che non è riuscito evidentemente a tagliare la spesa improduttiva».

E se evidente è la ricaduta politica della mozione. Evidente, anche se palazzo Chigi parla di «ricostruzioni fantasiose», è il conseguente fastidio del presidente del Consiglio. Che vede così cominciare il tiro al piccione che durerà per mesi, per tenere la giusta tensione di cui ha bisogno la strategia renziana, che prevede un ritorno alle urne il prima possibile. Nell’eterno replicarsi della guerra senza esclusione di colpi interna al Pd. Da cui sarebbe il caso di stare alla larga. Lasciandoli fare (le liti e pure la legge elettorale), organizzandosi, vedendo poi (poi) quali scelte richiederanno i frutti.

Ed eccoci all’intervista di Pisapia, che lancerà ufficialmente Campo progressista l’11 marzo. «La prospettiva» dice l’ex sindaco di Milano, «è ambiziosa: spostare il Partito democratico a sinistra. Per necessità numerica, il Pd è stato costretto a governare con forze che non erano né di sinistra né civiche. È il momento di andare oltre». Molte sono state le reazioni e molti i commenti – tra cui, vi segnaliamo quella di Jacopo Tondelli che, su Gli stati generali, nota come il disegno di Pisapia si basi su un entusiasmo troppo milanese, città che può falsare la prospettiva, perché invece, “che Milano sia un’isola a parte, anche dal punto di vista elettorale, lo hanno dimostrato anche tutte le recenti occasioni, dalle amministrative che hanno eletto Sala a sindaco al referendum costituzionale”.

Ma tra le accuse che – da chi sta più a sinistra, ovviamente – sono arrivate a Pisapia c’è quella di un peccato di politicismo. Politicista, si dice in sintesi (dice, ad esempio, Nichi Vendola) è porre a priori l’obiettivo del centrosinistra, di un’alleanza resa possibile non da una convergenza politica ma da una legge elettorale. Per noi c’è del vero. E non solo perché evidentemente politicista è un progetto politico che scommette su una sola tipologia di legge elettorale. «Penso», dice Pisapia, «che l’alleanza tra il Pd, noi, le liste civiche, gli ecologisti possa arrivare al 40 per cento. Certo, dipenderà se la legge elettorale consentirà le coalizioni. Siamo una forza autonoma; non possiamo certo entrare in una lista con il Pd».

Quello che più ci colpisce è il giudizio che Pisapia dà (o meglio conferma) di Renzi. «Ha lati positivi», dice sempre a Cazzullo, «coraggio e, all’inizio, capacità innovativa. Ha portato a termine riforme ferme da decenni, a cominciare dalle unioni civili; ma ha anche sbagliato sul referendum e su altre riforme che si sono trasformate in controriforme, ad esempio sul Jobs Act. Dovrebbe ascoltare di più. E non ha capito che i corpi intermedi sono importanti; a cominciare dai sindacati». Renzi, vi spieghiamo nei nostri servizi di copertina, vincerà il congresso che il Pd farà prima del voto. E se Pisapia punta il dito contro Alfano («Non possiamo stare con un partito di centrodestra», dice, «rispetto Alfano, ma dai diritti civili alle politiche per i giovani siamo diversi»), noi siamo qui a ricordare che non è certo Ncd ad aver obbligato il Pd ad abolire l’articolo 18, per dire, o a sdoganare i voucher, come d’altronde non è solo Ncd a tener ferma la legge sul testamento biologico o ad aver voluto lo stralcio delle adozioni dalla legge Cirinnà. Insomma. Il nostro dubbio è: sicuri si possa archiviare (ciò che politicamente è) il renzismo con Renzi e nel partito che Renzi ha prodotto?

Nel parliamo su Left in edicola e sullo sfogliatore

 

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Dalle proteste contro Trump alla periferia di Kabul. Le foto della settimana

(AMER ALMOHIBANY/AFP/Getty Images)

Una ragazza della tribù di The Long-horn (il lungo corno) con l’acconciatura tradizionale fatta da corna di animali ricoperta da lino, lana e pelo, usata in occasione della celebrazione del Flower Dance

4 febbraio 2017. New york. Manifestazione di protesta contro Trump

Lago di Qargha, periferia di Kabul. Un venditore afgano prepara il té per i clienti

Bilaliyah, città a est di Damasco, Siria. Un combattente del Jaish al-Islam, il gruppo ribelle più importante nella provincia di Damasco, ccombatte sia il regime che lo Stato islamico

6 febbraio 2017. Periferia di Amritsar, India. Un indiano Sikh sulla sua bicicletta nella nebbia.

Periferia di Kabul, Afghanistan. Una donna afghana prepara il cibo in una tenda nell’accampamento per sfollati. (Ansa EPA / JAWAD JALALI)

Striscia di Gaza, Palestina. Attacco aereo israeliano contro una postazione di Hamas il gruppo politico-terroristico che controlla la zona

Beit Lahia,Striscia di Gaza, Palestina. Uomini giocano a backgammon

7 febbraio 2017. Venezia, Italia. Un artigiano prepara le tradizionali maschere in vista del prossimo carnevale

Delpan, Tondo, Manila. Un incendio scoppiato nella zona vicino al porto ha causato la distruzione di centinaia di case

8 febbraio 2017. Pechino, Cina. La vetrina di un negozio di moda. Nell’ultimo mese la Cina ha raggiunto il livello più basso della crisi finanziaria che sta vivendo

Douma, periferia orientale di Damasco. Ragazze siriane ad un banchetto di cibo tradizionale

Aulnay-sous-Bois, Rennes, nord-ovest della Francia. Manifestazione di protesta contro l’abuso della polizia nei confronti di un ragazzo di colore dopo il suo arresto. Un ufficiale è stato accusato di stupro e altri tre di aggressione

Bazar di Cox, Bangladesh. Una ragazza Rohingya, un gruppo etnico di religione Islamica, nel campo profughi. Secondo una Stima delle Nazioni Unite negli ultimi mesi circa 69 mila Rohingya sono fuggiti dal Myanmar verso il Bangladesh dopo che l’esercito birmano ha lanciato una campagna denominata ‘clearance operations’. Il governo del Bangladesh ha dichiarato di avere intenzione di spostare i profughi in una remota isola nel Golfo del Bengala, nonostante le sue condizioni di inabitabilità e il rischio di inondazioni.

Campo profughi nella regione del Ghouta orientale, alla periferia di Damasco.

9 febbraio 2014. New York, Stati Uniti. Una forte tempesta di neve si è abbattuta nel nord est degli Stati Uniti

9 febbraio, 2017. Rio de Janeiro, Brasile. scontri durante la manifestazione di protesta la privatizzazione dell’acqua e della rete fognaria.

Newcastle, Australia. Ballerini indigeni prima dell’inizio della National Rugby League

10 febbraio, 2017. Nelson, Nuova Zelanda. Uno dei peggiori spiaggiamenti di balene nella storia della nazione. Delle circa 400 balene che sono state trovate su una spiaggia remota più dei tre quarti erano già morte quando sono arrivati i volontari. (Tim Cuff / New Zealand Herald via AP)

Sanremo, noi tifiamo Samuel. E vi abbiamo preparato una playlist sul nostro canale Spotify

Taccuino alla mano e piedi penzoloni, seduto davanti alla tv. In onda c’è il Festival, e lui prende appunti: segna le frasi che gli piacciono di più delle canzoni, come si sta sul palco, come si canta e come si scrive la musica italiana. A sei anni “Samuel dei Subsonica” lo avreste visto così, come mamma e papà gli avevano raccomandato: “Se vuoi fare il cantante, se vuoi imparare a scrivere le canzoni, devi guardare Sanremo”. E lui ha obbedito, fino alla prima adolescenza. «Per me è stata una sorta di prima scuola elementare della scrittura. Quando mi è stato chiesto di andare a Sanremo, mi sono rivisto in quel bambino che prendeva appunti davanti alla tv. E mi è venuta voglia di andarci, da solo. Da cantante italiano che ama la musica italiana». Leggero, semplice, diretto, lineare. In una parola, Pop. Quello che, con Il codice della bellezza, debutta da solista dopo vent’anni di carriera è “Samuel senza i Subsonica”.

ASCOLTA LA PLAYLIST DI SAMUEL SU SPOTIFY

Samuel, sei da solo sul palco dell’Ariston. Con Subsonica tutto ok, sì?
Assolutamente sì. Anzi. Molti hanno pensato che questo fosse un momento delicato o addirittura drammatico per i Subsonica, perché tutti gli elementi fanno una cosa da soli, in realtà direi che è uno dei nostri momenti più belli. Noi abbiamo sempre distrutto tutto quello che abbiamo fatto anche se ha funzionato, per poterci poi ricreare in una forma nuova. A volte lo abbiamo fatto meglio, a volte peggio. Se fossi uno che ama i Subsonica, mi farebbe piacere poterli vedere nella loro nudità e nei loro angoli più fragili, perché quando sei da solo non puoi nascondere la tua parte più fragile.
È questo che hai ricercato, la fragilità?
Avevo la necessità di confrontarmi con i miei limiti e di assumermi la responsabilità di tutto quello che stavo facendo. Da solo. Con i miei lati positivi che nei Subsonica si vedevano di più, ma anche con le mie fragilità che erano nascoste dai lati positivi degli altri. Questo disco è veramente mio. Me ne assumo completamente la responsabilità.

Quale migliore occasione per riascoltare Samuel, tra Subsonica e Motel connection?
Vi abbiamo preprato una playlist su Spotify

L’intervista integrale a Samuel su Left in edicola

 

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Le mille e una velocità dell’Europa. Perché il dibattito non ha senso

epa05777748 German Chancellor Angela Merkel (L) looks at documents reading 'G20 Germany 2017' while she talks to German Chief of Staff Peter Altmaier (R) in a meeting of the federal cabinet at the Chancellery in Berlin, Germany, 08 February 2017. EPA/CLEMENS BILAN

Dopo il vertice europeo di Malta della settimana scorsa e, più in particolare, a partire dalle dichiarazioni di Angela Merkel, si è fatto un gran parlare di “Europa delle due velocità”.

Come hanno giustamente notato la maggior parte degli analisti politici, in realtà, non si è parlato di “due”, bensì di “diverse” velocità. Quest’ultimo concetto è stato poi tradotto in Italia, a sua volta, in “Europa dei centri concentrici” o delle “geometrie variabili”.

Eppure, quale che sia la definizione prediletta, poco importa: il concetto di un’Europa a geometrie variabili non è innovativo. Oggi, esiste infatti la così detta “cooperazione rafforzata”, una procedura di coordinamento fra Stati membri dell’Ue, regolata dai Trattati sul funzionamento dell’Unione europea.

Ci sono quindi due opzioni per leggere le affermazioni di Angela Merkel. O si è trattato di un invito a utilizzare più frequentemente la “cooperazione rafforzata”, oppure dietro alle parole del Cancelliere, si celano progetti più rilevanti di ristrutturazione dell’Ue.

La prima opzione sembra quella più credibile. Lo ha specificato Angela Merkel in persona da Varsavia, durante la conferenza stampa a seguito dell’incontro con il Primo ministro polacco, Beata Szydlo: «Già oggi viviamo una situazione in cui ci sono soltanto alcuni Stati membri che partecipano all’Unione monetaria. Allo stesso modo, non tutti aderiscono a Schengen. Ciò vuol dire che esistono già una varietà di conformazioni. E nei trattati è previsto il meccanismo della cooperazione rafforzata». Le parole del Cancelliere tedesco indicano quindi che in ballo c’è semplicemente l’utilizzo più frequente di strumenti già previsti.

Esiste poi la seconda opzione. Quella secondo cui, dietro alle parole di Merkel si celerebbe un progetto di un’integrazione rigida che rafforzerebbe in ogni caso gli interessi tedeschi a danno del resto dell’Europa. Ma è veramente così? Improbabile.

Un qualsiasi progetto di ampio respiro implicherebbe infatti la ristrutturazione e la modifica dei trattati: un’operazione difficile, per non dire impossibile considerati gli attuali rapporti di forza e, soprattutto, la stessa volontà del governo tedesco. Lo confermano sempre le parole utilizzata da Merkel nell’ottobre del 2016, in occasione della giornata dell’industria tedesca: «[Il Governo tedesco] non crede che in questo momento l’Europa abbia bisogno di una modifica comprensiva dei trattati o di un trasferimento di competenze».

Ma se non c’è un’ambizione di riforme profonde, perché Merkel ha lanciato un dibattito su un’ovvietà? Ovvero, sull’esistenza degli strumenti di cooperazione rafforzata e sul loro possibile utilizzo?  Forse, per capirlo, bisogna tornare all’estate del 2015, quella delle negoziazioni sul terzo bailout greco.

Il 3 giugno 2015, Sigmar Gabriel ed Emmanuel Macron, al tempo rispettivamente Ministri dell’Economia di Germania e Francia, avevano co-firmato un editoriale dal titolo “L’Europa non può attendere: Francia e Germania devono fare uno scatto in avanti” (“Europe cannot wait any longer: France and Germany must drive ahead”, tdr.), pubblicato dal The Guardian e da altri quotidiani europei.  L’articolo era un vero e proprio manifesto sintetico per un’Europa sociale ed economica. I punti chiave del testo? Un’Unione europea sociale con un sistema di coordinamento efficace dei sistemi di welfare nazionali (con un serpente di salari minimi per evitare la competizione sleale al ribasso), la costituzione di una capacità fiscale comune, riforme istituzionali e strutturali congiunte, meccanismi che prevedano la ristrutturazione ordinata di debiti pubblici senza incorrere in misure di risparmio eccessive.

Cosa vuol dire? In sintesi, ammesso che a Berlino e Parigi ci sia mai stata la volontà di procedere verso un’integrazione più profonda, questa aveva tratti solidali e di sinistra, non certo ordoliberali. Tant’è vero che, negli stessi giorni del 2015, era circolata la notizia riguardo alla presenza di un documento segreto, redatto da Merkel e Hollande, in cui si sostenevano posizioni ben più moderate rispetto all’editoriale di Macron e Gabriel.

In altre parole, con le sue dichiarazioni sulla “cooperazione rafforzata”, Angela Merkel ha voluto soprattutto negare il contrario di ciò che ha detto, ovvero che non ci sarà una riscrittura dei trattati guidata da Berlino e Parigi, per quanto la situazione europea possa diventare critica. E lo ha fatto in maniera elegante, senza nemmeno citare il punto nevralgico della questione. In un certo senso, Merkel ha fatto in modo che gli altri, parlando dei rischi legati all’ “Europa delle due velocità” – da lei stessa evocata – buttassero via il bambino insieme all’acqua sporca.

Resta poi da capire quanto sia attuale la riflessione di Gabriel e Macron. E’ difficile dirlo, considerato che il primo si è messo da parte nella corsa per il Cancellierato in Germania. Certo, non è un segreto che l’ex Segretario generale del partito socialdemocratico continui a pesare – e come – sulla Spd e sul pensiero ancora poco “strutturato” di Schulz. Dal canto suo, Macron è uno dei favoriti per la vittoria finale alle Presidenziali francesi di questa primavera.

Ed è qui, in effetti, che si arriva al secondo punto fondamentale – per altro non ancora sollevato nel dibattito – della questione: parlare di maggiore integrazione – che sia nella forma debole di una “cooperazione rafforzata”, o di una riformulazione più ampia – non ha senso prima di conoscere i risultati elettorali di Francia e Germania del 2017. Le Pen seppellirebbe entrambe le opzioni con una risata.

Questo Merkel lo sa. E proprio per questo motivo, viene da pensare che il suo messaggio fosse diretto soprattutto ai suoi alleati interni e agli elettori tedeschi. Con buona pace dei Primi ministri del Vecchio continente che credono ancora che questo governo tedesco possa risolvere i problemi dell’Europa.

 

Dole, Chiquita e Dal Monte: compagnie di banane accusate di finanziare crimini contro l’umanità

COLOMBIA - agricoltura nella foto : Armenia , mercato delle banane Ph. Mauro Guglielminotti / Overseas / FARABOLAFOTO *** Local Caption *** Banana - banane - bananera

Avrebbero finanziato armi e crimini gravissimi, le big del frutto sudamericano. È quello che emerge da un documento di 125 pagine redatto dai magistrati della Fiscalía colombiana, che getta un’ombra pesantissima sulle quasi 200 compagnie coinvolte nel commercio delle banane nella regione dell’Urabá, nel nord del Paese sudamericano. Potenze mondiali del mercato ortofrutticolo come Dole, Chiquita e Dal Monte sono accusate di aver finanziato fra il 1996 e il 2004 il Frente Arlex Hurtado, uno dei gruppi più attivi del Bloque Bananero, l’organizzazione paramilitare che garantiva “protezione” e “sostegno” alle imprese attive nella regione.

Le autorità colombiane ritengono che i soldi versati, come una sorta di pizzo, da Chiquita & co al Frente siano serviti per acquistare armi con le quali sono stati perpetrati crimini e abusi gravissimi. La lista è lunga: “omicidi, spostamento forzato di civili, sequestri, stupri, torture e reclutamento illecito di persone”.

Grazie al processo di pace attualmente in corso tra il governo guidato da Juan Manuel Santos e i guerriglieri delle Farc, è la prima volta che nel travagliato Paese latinoamericano delle corporation straniere vengono accusate di serie violazioni dei diritti umani.

In un comunicato del ministero della Giustizia, si legge che «è chiaro come le compagnie che si occupano della commercializzazione delle banane hanno finanziato in modo volontario gruppi armati con l’obiettivo specifico di assicurarsi la sicurezza nella regione». Un’affermazione sostanziata da quanto rivelato ai magistrati da Raúl Emilio Hasbún Mendoza, l’ex comandante del Frente Arlex Hurtado. È stato infatti Mendoza a fare i nomi delle società coinvolte nell’abbraccio mortale con i paramilitari e a raccontare i dettagli delle operazioni portate avanti in quasi un decennio di massacri. Tra queste il trasporto illegale di 3.400 fucili AK47 e di casse contenenti 4 milioni di munizioni, “conservate” nel porto di proprietà della azienda ortofrutticola Banadex.

Val la pena ricordare che la Chiquita, una delle compagnie più in vista in tutta questa vicenda, già nel 2007, per i suoi “rapporti” con i paramilitari, era stata obbligata a pagare una sanzione pecuniaria di 25 milioni di dollari dal ministero della Giustizia statunitense, mentre numerose altre multinazionali occidentali, come la Coca Cola, sono da tempo accusate di aver intrattenuto rapporti indicibili con le squadre della morte che a lungo hanno terrorizzato la popolazione colombiana.

Herrou, il contadino ribelle che fa passare i migranti è stato (quasi) assolto

epa05782235 French farmer Cedric Herrou (C) arrives at the court for his trial for illegally assisting migrants, in Nice, France, 10 February 2017. Cedric Herrou was given a suspended fine of 3,000 euros. Herrou, convicted of helping migrants enter, travel and stay in France, said it is an act of humanity and not a crime, and says it is his civic duty to keep helping the migrants. EPA/SEBASTIEN NOGIER

Tremila euro di multa, sospesa, per Cedric Herrou contadino ribelle francese che ha sfidato e infranto le leggi per ospitare decine di migranti irregolari in roulotte nella sua fattoria nella valle della Roya, nei pressi del confine franco-italiano di Ventimiglia.
Una vittoria per Herrou, visto che il procuratore aveva chiesto una condanna a otto mesi (sempre con pena sospesa, cioè il contadino non sarebbe finito in carcere). Herrou all’uscita dal tribunale ha promesso di continuare ad aiutare i migranti, cosa che ritiene essere un dovere civico.
Il contadino 37enne francese è l’ultimo simbolo di quei cittadini comuni europei che scelgono di infrangere le norme per aiutare i migranti in fuga da guerre o povertà in Medio Oriente e in Africa.
Durante il processo Herrou ha dichiarato di aver agito perché «ci sono persone che hanno perso la vita in autostrada, ci sono famiglie che soffrono dopo che lo Stato francese ha chiuso i confini senza curarsi delle conseguenze».

Left ha passato diversi giorni con Herrou, nella sua fattoria e sulle tracce dei migranti che passano il confine. Sul numero in edicola un lungo reportage, anche fotografico, di Filippo Trojano che racconta una vicenda di passione civile.

Su Left in edicola, la storia e il fotoreportage di Filippo Troiani dalla fattoria di Herrou

 

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