Home Blog Pagina 934

Il clima infuocato nel Pd spiegato da un incredibile fuorionda di Delrio

Graziano delrio fuorionda
Il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, al termine della Direzione del PD a Roma, 13 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

 

 

In edicola c’è l’intervista al Corriere con cui Matteo Renzi si mostra dialogante e continua a dire che la minoranza cerca solo un pretesto e che, nei fatti, ha paura di contarsi. Graziano Delrio, come altri esponenti dem, ha commentato l’intervista concentrandosi sulla mano tesa (più che sugli schiaffi che la stessa mano continua a dare). Dice Delrio: «L’appello di Renzi è molto importante: ha tolto ogni alibi a coloro che pensano che la scissione si possa fare su una settimana in più o in meno per il congresso. Se qualcuno ha deciso nessuno lo farà desistere, ma tutti sono indispensabili nel partito e adesso non ci sono più alibi». Online, però, arriva su tutti i giornali un fuorionda che racconta un’altra storia. L’audio è di prima dell’intervista, ovviamente, del 16 febbraio. Ma è decisamente favorevole alla versione di Bersani.

Graziano Delrio, pedina fondamentale del governo e del renzismo, ma da sempre renziano atipico, parla infatti con Michele Meta, presidente della commissione Trasporti della Camera, a margine di un convegno nella sede nazionale del Pd. «Barano o fanno sul serio?», chiede Meta a Delrio, riferendosi alla minoranza che minaccia scissione. «No fanno sul serio. Una parte ha già deciso» gli risponde il ministro, che però gira la conversazione sui renziani spiegando che una parte è persino contenta, perché pensa «che diminuiscono i posti da distribuire», e che quindi è meglio così. Ma non «capiscono un cazzo», aggiunge Delrio, «perché sarà una cosa come la rottura della diga in California, si forma una crepa e l’acqua dopo non la governi più».

Ma è il passaggio su Matteo Renzi, che è ancora più interessante. «Si adopera per contrastare sta roba, Matteo?», dice Meta. Delrio risponde: «Si è litigato di brutto perché non è che puoi trattare questa cosa qui come un passaggio normale. Cioè, tu devi far capire che piangi se si divide il Pd, non che te ne frega, chi se ne frega. Non ha fatto neanche una telefonata, su… come cazzo fai in una situazione del genere a non fare una telefonata?».

Già, come si fa? È questo, evidentemente, ciò che contesta la minoranza, il fatto che a Matteo Renzi non importi nulla dell’unità del partito, che non la ricerchi nei fatti ma solo per posa. «In direzione ho visto solo dita negli occhi», ha detto Bersani l’altro giorno, allundendo al fatto che le relazioni del segretario partano sempre con toni concilianti ma finiscano in realtà sempre con un guanto di sfida, così che tutto sembra solo un trucco retorico, per far passare gli altri come i soliti «rosiconi» che sanno di perdere e quindi portano via il pallone.

Che poi può esser anche vero. Renzi il congresso alla fine l’ha concesso, e difficile sarebbe giustificare una rottura sulla data, se così fosse, su un congresso da fare prima o dopo le elezioni amministrative, prima o dopo aver stabilito che il governo Gentiloni durerà fino alla fine della legislatura. Però esiste un tema di civile convivenza, che è anche politico. Perché si può anche decidere che i partiti debbano esser meno di parte di parte possibile e più larghi possibile (tant’è che, in caso di scissione, l’idea della minoranza è di rifare il Pd, praticamente, continuando nell’idea della convivenza con un’anima più moderata – cioè più moderata di quanto non siano già loro). Ma serve un alfabeto politico comune, serve una capacità di conciliazione che Renzi – come riconosce Delrio, non volendo – non ha. Il ragazzo – e l’ha dimostrato a palazzo Chigi – è un tipo divisivo. Che non solo quindi ha spostato a destra il partito ben oltre non l’avesse già portato la precedente dirigenza (che c’ha messo del suo, ma mai avrebbe abolito l’articolo 18, per dire, né tolto l’Imu a tutti), ma che con la sua ossessione contro «i caminetti» e, invece, per le direzioni-show in streaming ha realizzato un partito che è più chiuso, più di potere, meno ospitale.

La mano tesa di Renzi, che proprio tesa non è

Il segretario del PD Matteo Renzi al termine della direzione nazionale del partito a Roma, 13 febbraio 2017. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

«Michele è così, gli voglio bene anche per questo. Dieci giorni fa minacciava le carte bollate per fare il congresso, adesso chiede di rinviare. Però è simpatico». Michele è ovviamente Michele Emiliano. E a parlare è Matteo Renzi, con l’intervista che dovrebbe esser il passo richiesto dalla minoranza, la mano tesa che sostituisca «le dita negli occhi» che finora dice di aver esclusivamente visto Bersani.

Ma Matteo Renzi è sempre Matteo Renzi e quindi la mano tesa dà anche qualche schiaffetto (sempre con «affetto» e «un sorriso», renzianamente, si intende). «Stiamo facendo il congresso perché l’hanno chiesto loro» dice infatti Renzi al Corriere: «Io voglio evitare qualsiasi scissione. Se la minoranza mi dice: o congresso o scissione, io dico congresso. Ma se dopo che ho detto congresso loro dicono “comunque scissione”, il dubbio è che si voglia comunque rompere. Che tutto sia un pretesto».

E dunque: «Toglieremo tutti i pretesti, tutti gli alibi. Vogliono una fase programmatica durante il congresso? Bene. Ci stiamo. Martina, Fassino, Zingaretti, hanno lanciato proposte concrete. Vanno bene», continua Renzi, che però poi frena su un congresso troppo in là. Sempre, beninteso, perché lui vuole sostenere al meglio il governo: non è come sembra, che lui non vuole perder troppo tempo per non veder allontanarsi sempre più un ritorno a palazzo Chigi. Ma dirlo è l’occasione per un’altra stoccata. «Diamo tutti una mano all’Italia, diamo tutti una mano al governo. Gentiloni merita il nostro sostegno sempre, non “provvedimento per provvedimento” come sosteneva qualcuno fino a qualche giorno fa», dice, alludendo alle prime ore di vita del governo, quando Bersani in effetti quello diceva, mentre oggi chiede che si decida, prima di affrontare congresso e primarie, che il governo durerà fino alla scadenza naturale della legislatura. Incurante così, Bersani, di alimentare i dubbi di chi vede nella richiesta di rinvio il tentativo di rosolare Renzi, altrimenti imbattibile, spingere pezzi della maggioranza ad abbandonarlo e renderlo almeno un leader più incline alla concertazione (ricordandogli che Veltroni quando si dimise da segretario non si ricandidò).

Perché sono veramente convinti, Bersani, Emiliano, Rossi e Speranza, che il Pd sia altro rispetto al modello maggioritario e leaderistico di Renzi. Che questo non sia il compimento del modello del partito-primaria. Tant’è che in caso di scissione, portandosi appresso anche pezzi moderati, quello rifarebbero: non una cosa rossa ma un original Pd, un movimento ulivista che tenga tutto dentro, salvo Renzi.

Ops

Il padre del premier Matteo Renzi, Tiziano, passeggia vicino alla Galleria Colonna a Roma 23 Dicembre 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Quindi l’indagine Consip, tra generali dei carabinieri indagati e Luca Lotti impegnato da settimane a minimizzare, alla fine arriva anche a Renzi per via indiretta attraverso l’avviso di garanzia al padre dell’ex premier. Un’inchiesta come tante altre, numerosissime, che in questi anni ormai ci hanno abituato a guardare di sbieco la politica con la diffidenza che si riserva alle professioni cadute in disgrazia nel sentire comune.

E così oggi riparte la grancassa della sarabanda del “così fan tutti” da una parte e della “fiducia nella magistratura” dall’altra in questo eterno balletto di strepiti gli uni contro gli altri. I renziani passeranno tutto il giorno a dirci che “però la Raggi è indagata lei e i suoi collaboratori, mica un parente” facendo finta di non sapere che la cricca fiorentina (al di là dei rilievi penali che eventualmente emergeranno) è stata a lungo una cosa sola mentre il M5S può continuare a percorrere la strada del “voi siete peggio”.

Un brutto spettacolo, comunque. È che a forza di giocare alla pornografia giudiziaria contro la sindaca di Roma (quando ci sarebbe così tanto da dire e discutere sulle responsabilità politiche) alla fine si è scesi nell’agone del fango e se ne accettano le conseguenze: le baruffe sull’onestà finiscono per trovare sempre qualcuno più puro che ti epura, del resto.

Allora sarebbe il caso, forse, di non cadere nell’euforia della vendetta (che boccone prezioso, il padre di un ex presidente del Consiglio) e ricordarsi che l’indagato numero uno rimane sempre lui, Matteo, per questioni meramente politiche: una sorta di concorso esterno alle politiche destrorse simulandosi centrosinistro e una visione di gestione del partito partito solidale solo con i proprio sodali, come avviene nei clan. Questo è il punto. Questo.

Buon venerdì.

(un pensiero solidale ai giornali che relegarono questa inchiesta ai box piccoli piccoli di cronaca ritenendola “una bufala” e alle alte cariche dello Stato che hanno espresso solidarietà agli indagati ritenendola una “cosa minima”. A forza di fake-news dappertutto si stanno consumando le peggiori figure di palta da parte dei benepensanti dirigenti e editorialisti del so-tutto-io. Bravi. Avanti così)

Ciao carissimo Massimo

Maggio 2013. Teatro Eliseo, Roma. © DANIELE SCUDIERI (ImagoEconomica)

Massimo Fagioli è scomparso lunedì 13 febbraio. Domani 18 febbraio il saluto alle ore 10 in via Roma Libera 23, luogo in cui dal 1980 si tenevano i seminari di Analisi collettiva.

Mi sono sempre chiesto perché si piange. Sono due giorni che non faccio altro. Massimo Fagioli sono sicuro avrebbe avuto una risposta bella, delle sue. Straordinaria, come sempre. Non ho mai avuto occasione di chiederglielo perché avere a che fare con Massimo Fagioli era tutto fuorché piangere. Era una continua sfida al pensiero, all’intelligenza, all’emozione. A trovare dentro di sé parole e idee nuove che però non erano mai adeguate, mai abbastanza profonde come quelle che riusciva a trovare lui e a regalarti in cambio di niente. Voleva che tutti, senza distinzione, realizzassero un di più, un meglio. Il di più e il meglio era la realizzazione di nuova umanità. Una capacità di amare. Una capacità di sentire. Perché la sua guerra, per tutta la vita, è stata contro l’anaffettività, il non sentire. Aveva elaborato un pensiero nuovo che permette di comprendere la verità più profonda del pensiero umano, la sua origine, la sua fisiologia e la sua patologia. Qualcosa di mai esistito nella storia dell’uomo. Massimo Fagioli interpretava i sogni per curare la malattia mentale.  E poi, quando la malattia scompariva, interpretava i sogni per fare ricerca. Ricerca sulla realtà mentale. L’interpretazione del sogno evidenziava il pensiero nascosto, la genialità del pensiero non cosciente che vedeva “oltre”. A volte, è vero, può essere capitato di piangere. Ma erano lacrime di realizzazione di un nuovo per una separazione dal passato.

Aver partecipato all’Analisi collettiva è stato un privilegio unico. È una storia che dovremo riuscire a raccontare. Non so come e non so quando. Fa parte dell’obbligo di essere esseri umani che lui ci ha fatto conoscere e realizzare. Il suo scopo è sempre stato la realizzazione dell’altro. Sempre. Il suo rapporto con l’altro essere umano puntava sempre a questo, ogni attimo della sua vita Massimo Fagioli ha pensato a questo.

Ho avuto il privilegio e l’onore di lavorare con lui per tanti anni. Anni bellissimi. Ogni volta erano invenzioni sempre nuove, con una fantasia e un amore per gli altri che non ho mai trovato in nessun altro. Una volta dissi in un’intervista che Massimo Fagioli era un genio. Lui fu felice di questa mia battuta. Per me è sempre stata l’unica verità possibile perché era la realtà. Aveva una mente che era una fonte inesauribile di idee e pensieri. Una bellezza unica. Irripetibile. Lavorando con lui ho avuto il privilegio di correggere l’articolo che inviava puntuale ogni settimana. Il sabato, verso le 13 mi chiamava, per dettarmi “i grassetti”, “i verdini”, “il sopratitolo”. Poi si parlava a volte di politica, a volte di cultura, a volte di fisica, a volte di Melania, mia figlia: “Dai un bacione alla pupa!” mi diceva. Ogni volta mi ringraziava. E io dicevo sempre “no, grazie a te!”.

Negli ultimi due mesi magari era solo un messaggio. Ma sempre puntualissimo. Mai una volta, nemmeno una, è mancato all’appuntamento. Ha continuato a scrivere. Sempre. L’ultima volta Massimo l’ho sentito domenica 5 febbraio. Pochi minuti, per correggere l’articolo, come sempre. Una virgola, una parola da sistemare, poche cose perché era sempre perfetto Mi ha detto “Melanina è felice!”. Aveva un rapporto più che speciale con i bambini. Unico. Marcella Fagioli lo ha raccontato nel dicembre del 2015: «Una storia, una ricerca, una teoria che rende l’infanzia felice».

Anche questa settimana troverete in fondo al giornale la rubrica di Massimo Fagioli. Con il suo disegno, le tre strisce colorate, la campanella verde e la sua foto. Ha scritto questo articolo pochi giorni fa. Abbiamo deciso di lasciarla là dove è sempre stata, come voleva lui. Diceva «È meglio che io stia in disparte. Io sono difficile, andate avanti voi, ora tocca a voi».

Oggi dedichiamo tanta parte del giornale a lui. È qualcosa che ci necessita da dentro, da quell’obbligo di essere esseri umani. Un riconoscimento necessario. Non so perché gli esseri umani piangano. So per certo che è una caratteristica solo umana. Forse è una memoria di quando sono nati, quando si realizza quella fusione silenziosa tra materia ed energia che fa il pensiero umano. Forse qualcosa di più e meglio lui lo avrebbe potuto dire con il suo magnifico linguaggio. Mi torna in mente il finale di Diavolo in corpo. Le lacrime che fanno un volto nuovo sul viso della protagonista femminile. La realizzazione di una donna. «Separarsi costringe ciascuno ad essere se stesso, a realizzare la propria identità, senza confusioni. A rischiare, a cercare sempre qualcosa di nuovo. Da soli. Senza protezioni». Ciao carissimo Massimo. Ci mancherai tanto, tantissimo. Ma sono certo che ce la faremo… anche stavolta, grazie a te.

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

«La parola è realizzazione»

L’intervista che vi riproponiamo, comparsa sul n. 41 di Left, del 24 ottobre 2015, è una delle ultime che il direttore, Ilaria Bonaccorsi, ha fatto a Massimo Fagioli, scomparso lunedì 13 febbraio.
Domani 18 febbraio il saluto alle ore 10 in via Roma Libera 23, luogo in cui dal 1980 si tenevano i seminari di Analisi collettiva.

L’appuntamento è per venerdì 30 ottobre (e poi di nuovo il 6 novembre), il luogo è l’aula magna dell’Università La Sapienza di Roma e il tema è la “Teoria della nascita e ricerca sulla realtà umana: 40 anni di Analisi collettiva”. A celebrare 40 anni di studio ed attività clinica del professor Fagioli ci pensano ben due dipartimenti del primo ateneo della Capitale (Neurologia e Psichiatria e Studi Orientali) che hanno chiamato a raccolta filosofi, economisti, antropologi, fisici e psichiatri per discuterne. Noi un bilancio di questi 40 anni di storia proviamo a farlo con il protagonista.

Professore, cos’è l’Analisi collettiva?

Questa domanda è impossibile! Se non vogliamo limitarci alla cronaca dei fatti e provare a fare un discorso serio, posso dire che non l’ho fatta io. È stata la gente ad arrivare e a chiedermi l’interpretazione dei sogni. Io ho solo risposto a questa domanda collettiva, di anonimi.

Più volte ha scritto che tutto è iniziato con una ragazza che le ha detto “Ho fatto un sogno”…

In verità c’è una premessa, io fui chiamato dall’università di Roma per fare una supervisione a giovani psichiatri. Fino a quando (dopo un’interruzione avvenuta il 4 novembre del 1975) l’11 interpretai la fantasia di sparizione e il gruppo di 15 psicanalisti se ne andò. Al loro posto ci fu un afflusso di decine e decine di persone, e il 13 gennaio del 1976 una ragazza dal fondo della sala, disse “io ho fatto un sogno”. Quella fu la grande svolta, perché io invece di dire “questo no, l’interpretazione dei sogni si fa nello studio privato…”, ho risposto. Questo è il cardine di tutta la storia dei 40 anni.

E perché non ha detto No alla ragazza?

Non lo so. Mi è venuto spontaneo, io oramai avevo rotto e denunciato l’imbecillità della teoria di Freud. Venivo da esperienze psichiatriche a Venezia, a Padova, in Svizzera con Binswanger, il primariato in una comunità terapeutica autosufficiente, il completamento di tutto il training analitico, e mi è venuto spontaneo rispondere in questa maniera. Ho detto Sì.

Quindi possiamo dire che il passaggio è stato da una supervisione per specialisti a un setting dove si fa cura, formazione e ricerca?

Certamente sì. L’orario non l’ho mai toccato, il luogo ho dovuto cambiarlo per ovvie ragioni: non ci si entrava più, la stanza era piccola, e il direttore aveva detto basta. Per cui nell’80 sono passato allo studio privato dove sto e lavoro tuttora. Questi sono i fatti, ma il significato è perché ho risposto Sì a quella ragazza. Penso sia stata una mia svolta personale, all’interno di una ricerca che era iniziata già nel ’57. Volevo capire come funzionava il discorso della mente e delle malattie della mente. Nessuno le conosceva, anzi nessuno aveva neanche pensato di andarsi a vedere cos’era la realtà mentale non cosciente. Quel terzo di vita in cui si dorme. Non si è mai scoperta la parola negazione confusa con il rifiuto. Al massimo c’erano le panzane alla Walt Disney, per cui “i sogni son desideri”.

E invece cosa sono i sogni e perché dovrebbero avere tutto questo peso?

I sogni sono trasformazione del pensiero cosciente in pensiero senza coscienza. Dal pensiero verbale al pensiero per immagini. Non c’è la parola, non c’è linguaggio articolato, il sogno è pensiero libero. Il linguaggio articolato in ogni modo è un linguaggio imparato mentre il sogno no, esprime spontaneamente qualcosa che viene da dentro. C’è la creazione di immagini, il problema è che, da Platone fino ad Heidegger, nessuno si è voluto rapportare con le immagini, ma soltanto con il linguaggio articolato. Ed invece io non ho avuto paura di questo mondo oscuro della notte e non mi sono rifugiato nella cretineria delle libere associazioni che non è scoperta dell’inconscio ma libero esercizio di memoria cosciente (perché questo ha fatto, in verità, Freud). Mentre l’immagine onirica non è mai ricordo cosciente che riproduce esattamente quello che è accaduto nella veglia, perché crea un’immagine nuova sotto stimolo di quello che si è pensato e vissuto nella veglia, però trasformandolo. È un linguaggio personale.

Lei ha sempre dichiarato che la storia dell’Analisi collettiva è una storia di sinistra. Mi spiega cosa c’entra una prassi di cura e ricerca con la sinistra?

Direi più di ricerca che cura, ci sarebbe da fare un discorso un po’ filosofico perché anche il politico cura. Il politico risolve guai della città e dei cittadini, deve far star bene i cittadini. Quello che conta per me è la teoria, non ci può essere sinistra se non si capisce che l’essere umano nasce nel rapporto uomo-natura. Questa è la verità umana, feto in rapporto con la luce. Nell’uomo alla nascita c’è una reazione della sostanza cerebrale alla luce, questa reazione è la pulsione di annullamento che è alla base della creatività umana.

Discorsi difficilissimi questi, io l’ho sentita dire più volte che la sinistra è capire “cosa fa stare bene le persone”, partendo dalla premessa che “gli 80 euro sono polpette avvelenate, da cui va tolto il veleno”… vuole spiegarci quale è il veleno?

La cecità sulla realtà umana, per cui la sinistra, anche storicamente con Marx e il comunismo, pensa all’uomo soltanto come corpo funzionante. Da Cuba alla Russia fino alla Cina, hanno sempre assicurato il benessere fisico, ma considerare la sola soddisfazione dei bisogni non è sufficiente, non siamo animali. Bisogna realizzare le esigenze.

“Realizzare le esigenze” fa star bene?

Sì. Chiaramente non si deve negare il benessere fisico, questo va mantenuto – e per assurdo lo ha fatto meglio il capitalismo con la tecnologia, poi certo distrugge, perché subentra il razzismo di far star bene solo quelli che pagano e di lasciar morire i poveri – ma occorre andare oltre, va scoperta la propria nascita, per poi trovare la propria identità. Io quello che dico alle migliaia di persone che sono venute all’Analisi collettiva: non mi interessa affatto la vostra felicità, mi interessa la vostra identità. Un’identità umana che superi la scissione storica tra coscienza e non coscienza che sarebbe soltanto animalità, cattiveria, peccato originale, male radicale, nulla ebraico.

Quindi esser di sinistra vuol dire eliminare questa scissione storica tra anima e corpo?

Sì. Essere di sinistra è rivolta, ricerca, emancipazione, liberazione. È rivoltarsi a questa crudeltà che considera, per esempio, che l’uomo nasce animale perché l’umanità deve essere data dal battesimo che risolve il peccato originale… che sono queste stupidaggini, questa repressione? La realtà umana è movimento. E il movimento è trasformazione.

Alla Sapienza si celebrano i suoi 40 anni di attività. È soddisfatto?

Non sono soddisfatto! (ride), perché la soddisfazione ha a che fare con i bisogni del corpo, qui la parola è realizzazione che è legata alle esigenze e quindi all’identità. Io ogni giorno mi gioco tutta l’identità con l’Analisi collettiva. Persino la salute fisica, perché se fallisco, se mi ammalo (e sarebbe normale alla mia veneranda età!), l’Analisi collettiva fallisce. Mi hanno messo con le spalle al muro.

Nei prossimi 40 anni che farà?

Mah… oramai sono prigioniero! Cerco di rubare le ore al tempo per scrivere, correggere, disegnare, fare i seminari, devo fare ancora tantissime cose.

L’intervista è tratta da numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Jannis Kounellis, l’artista che veniva dal mare

Kounellis

E’ morto ieri all’età di 80 a Roma, Jannis Kounellis. Veleggiando dalla Grecia, aveva trovato in Italia la sua nuova casa, diventando uno dei più importanti protagonisti dell’Arte Povera, risposta creativa e umanissima alla desertificazione proposta dalla Pop art di Warhol, che sbancava alla Biennale di Venezia. Per ricordare il grande artista che ha rienvenatato l’epica parlando di migranti con le sue immagini riproponiamo l’incontro pubblicato su Left nel 2013 alla vigilia di una sua suggestiva mostra nell’antica pescheria di Trieste

Antichi banchi di pesce e relitti di vecchie imbarcazioni. Su cui dall’alto piovono pietre, pesanti come le tempeste che colgono i pescatori al largo d’inverno. È anche una metafora del viaggio per mare e dei pericoli che i migranti devono affrontare la nuova, grande, installazione che Janis Kounellis ha realizzato nella sala degli incanti della ex pescheria di Trieste, progettata nel 1913 dall’architetto Giorgio Polli. «Uno spazio bellissimo, illuminato da grandi finestre. Ma soprattutto uno spazio “preciso”. Perché – spiega l’artista – un luogo può essere bello ma se non è preciso per un progetto, resta solo un bello spazio». Qui Kounellis ha trasportato delle vecchie barche che giacevano in depositi, «rottami che a Trieste si trovano facilmente», e le ha disposte al centro della sala con un gesto pittorico e teatrale che al nostro sguardo pare creare una scena epica alta e popolare.

«Epos? Non saprei – si schermisce lui – quello che posso dire è che, finito il lavoro, mi sono accorto che evocava una deposizione». Non una deposizione dell’amato Caravaggio o di Mantegna, autori altre volte indirettamente richiamati nelle opere di questo maestro dell’arte di origini greche. «Non c’è qui un riferimento preciso ad una tela o ad un’altra – precisa -. La storia dell’arte italiana è costellata da centinaia di deposizioni. Qui invece che un corpo viene “deposta” una barca. Sulla nuda pietra del banco del pesce. Ma il significato è lo stesso». E ugualmente tragico. «L’elemento tragico è consustanziale alla tradizione cristiana, segnata dalla brutta morte del figlio di Dio» ha detto Kounellis in una recente intervista ad Alfabeta Due: «Una storia violenta connota il cristianesimo mentre la tradizione asiatica e quella cinese, per esempio, mettono al centro filosofi come Buddha e Confucio».

Ma durante questo nostro incontro il discorso prende un’altra strada: «Quello che mi interessava qui – spiega – era l’andamento drammaturgico della deposizione. Noi abbiamo una cultura drammaturgica. E se vai a vedere tutta l’iconografia dell’arte italiana è fortemente drammaturgica». La scena teatrale è evocata in questa installazione anche da una serie di sedie vuote, poste a latere. Come raccontano i curatori di Kounellis Trieste, Davide Sarchioni e Marco Lorenzetti, nel catalogo Skira che è uscito il 7 settembre in contemporanea con l’inaugurazione di questa installazione, Kounellis torna a confrontarsi con un tema a lui da sempre caro: l’uscita dal quadro per “conquistare” una visione e una spazialità più ampia, senza tuttavia cancellare la storia della pittura. «Ho cominciato a lavorare sull’uscita dal quadro negli anni Sessanta» ci ricorda questo longevo maestro del contemporaneo che, poco più che ventenne, approdò in Italia alla fine della guerra civile greca. Mentre lavorava a una propria innovativa poetica, di fatto, continuava a studiare la tradizione, cercando il modo per rinnovarla.

«In tutti i Paesi la modernità è fatta di tradizione – dice Kounellis a left -. Altrimenti sarebbe modernismo, non sarebbe modernità. E dunque non si può negare la tradizione, fa parte della logica del nuovo ma anche del mio tentativo di pormi sempre in modo dialettico. La tradizione, per me, entra a piano titolo in questo clima di novità». Novità che per Kounellis non è mai stato nuovismo. Fine a stesso. Negli anni in cui imperava la Pop Art, insieme a Merz, Pistoletto, Fabro, Paolini, Penone e altri artisti riuscì a dare vita a un articolato progetto che Germano Celant definì Arte Povera. Un movimento che attraverso la scelta di materiali “naturali” e la ricerca di una spazialità tridimensionale rimetteva al centro l’umano, la poesia, la ricerca di un senso profondo della vita, in contrapposizione con la stolida celebrazione del mercato e della società consumistica inaugurata da Warhol e dalla sua Factory.

E oggi cosa pensa Kounellis del concettualismo autoreferenziale e delle opere gadget di artisti come Damien Hirst e Jeff Koons, che grazie a collezionisti miliardari, vanno per la maggiore nei più importanti musei del mondo? Questo tipo di globalizzazione dell’arte finisce per determinare un appiattimento delle proposte? «Un’arte globalizzata di questo tipo evidenzia la perdita del pittore, la fine della sua creatività – risponde Kounellis -. Se la gente potente impone la propria visione, il pittore è ben lontano dall’epoca dlle Demoiselles d’Avignon. Ma io non credo che questo possa succedere davvero. Certo, c’è un’iniziativa che nasce nella globalizzazione, ma quest’ultima deve essere vissuta in senso dialettico. Ognuno ha la propria identità e la deve mettere in gioco, in dialettica con gli altri. Questo è l’obiettivo. Il resto è una riduzione dell’arte a decorazione».

Non a caso Kounellis si è sempre definito internazionalista per sfuggire all’omologazione della globalizzazione? «La mia generazione è stata internazionalista e io continuo ad esserlo – approfondisce – Perché mi piacciono le persone. E’ più forte di me. E l’altro che mi attrae, che vado a trovare, ha il suo metro di cui devo sempre tenere conto». Un confronto con l’altro che di recente ha portato Kounellis anche a confrontarsi con una cultura lontana dalla nostra come quella cinese.«A Pechino sono stato quattro mesi. Sono partito con le mani vuote. Volevo andare a vedere la Cina, le sue enormi possibilità. In un mercato della Capitale – racconta – ho comprato delle ceramiche rotte: frammenti colorati risalenti a varie epoche e in particolare all’epoca del Maoismo, quando i militari entravano nelle case e rompevano tutti i serviti”borghesi” Io ho pensato di usarle per farne una scrittura ermetica fatta di frammenti».

 

 

Kounellis trieste

Popolari europei: «Taglio del debito greco? Piuttosto salta il Fmi»

epa05794402 European Commissioner for Economic and Financial Affairs Pierre Moscovici (R) talks with Greek Prime Minister Alexis Tsipras (L), during their meeting in Athens, Greece, 15 February 2017. Tsipras had talks with Moscovici on economic strategy and to find a solution to the stalled round of negotiations on the Greece's third economic bailout. EPA/YANNIS KOLESIDIS

«Se il Fondo monetario internazionale insiste sul taglio del debito greco, allora è il caso che lasci la partita di Atene». Sono le parole nette di Manfred Weber, capogruppo dei Popolari al Parlamento europeo, pronunciate nel corso di una intervista con la Süddeutsche Zeitung.

Il messaggio che lancia Weber è importante nel contesto delle negoziazioni sul terzo piano di salvataggio greco. Finora infatti, il Ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, aveva del tutto escluso l’estromissione di Washington. Ma cosa significano concretamente le parole di Weber?

In estrema sintesi, vuol dire che la Germania non è disposta ad andare nelle direzione di un taglio del debito per Atene. A costo di far saltare il Fmi. «[Il taglio del debito] sarebbe un’ingiustizia nei confronti di altri Paesi Ue, come Spagna, Irlanda, Cipro e Portogallo», ha specificato Weber.

Il Fmi e l’Eurogruppo – leggi, Germania – sono in disaccordo netto su quali debbano essere i prossimi passi. Il primo giudica irrealistiche le pretese nei confronti dell’economia ellenica, previste dal piano di salvataggio firmato nel 2015. Conseguentemente, Washington propone il taglio del debito. Cosa politicamente impossibile per la classe politica conservatrice tedesca nell’anno delle elezioni federali.

Secondo la Süddeutsche Zeitung Weber sarebbe molto vicino a Merkel. In effetti si tratta del vice di Horst Seehofer, leader dell’Unione cristiano-sociale (Csu), l’alleato chiave di sempre dell’Unione cristiano-democratica (Cdu). La posizione chiara della destra tedesca solleva l’interrogativo di come Martin Schulz, e con lui il Partito socialdemocratico (Spd), si posizioneranno sul tema.

Leggi anche:

SpagnaEl Pais Grazie alla spinta di Podemos, si viaggia verso l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sul salvataggio bancario occorso nel 2012. Tutti i partiti a favore, tranne i popolari di Rajoy

Regno UnitoThe GuardianLa crescita del tasso di occupazione britannico nel 2016 si deve all’impiego degli immigrati

UcrainaDie Welt Il Minsitro dell’Interno ucraino, Arsen Awakow: «Se l’Europa ci lascia da soli, rischia una seconda crisi di rifugiati lungo il confine orientale

Rimpatrio forzato in Sudan, adesso scatta il ricorso alla Corte dei diritti dell’uomo

I migranti si preparano per trascorrere la notte in nave, Cagliari, 06 ottobre 2016. Le nuove regole sugli sbarchi legate all'identificazione dei migranti obbligherà a rimanere sulla nave una buona parte dei 1.258 profughi arrivati oggi a Cagliari. ANSA/MANUEL SCORDO

Com’è possibile che l’Italia stipuli un accordo con uno Stato che viola i diritti umani? E che rispedisca in questo Stato, ovvero il Sudan, una cinquantina di migranti scappati dalla guerra del Darfur? Ebbene, è possibile. Ed è quanto è accaduto il 24 agosto a Ventimiglia. Circa 50 giovani arrivati in Italia dopo aver attraversato il deserto e il mar Mediterraneo sono stati caricati in un pullman verso Torino e da qui un aereo li ha portati direttamente a Karthoum. Left lo ha raccontato questa estate (v.qui). Il rimpatrio forzato, ricordiamo, è stato possibile per via dell’accordo tra la Polizia italiana e quella sudanese siglato pochi giorni prima, il 3 agosto.

Nel corso di quella operazione sono state violate, secondo gli esperti di diritto internazionale talmente tante norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che bisognava davvero fare qualcosa. E infatti è arrivato il ricorso da presentare alla Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo. «Siamo andati in Sudan e con molta difficoltà siamo riusciti a incontrare alcuni di questi migranti che erano stati rimpatriati. Non è stato facile, siamo anche stati fermati dai servizi di sicurezza sudanesi, ma fortunatamente non è successo nulla», racconta Dario Belluccio. È uno degli avvocati dell’Asgi che ha seguito la vicenda. Tra il 19 e il 22 dicembre è andato in Sudan insieme con il collega Salvatore Fachile, supportati da Arci, Asgi, del Tavolo Asilo e dai parlamentari europei Cornelia Ernst, Marie-Christine Vergiat, Josu Juaristi e Joao Pimenta Lopes del gruppo parlamentare europeo Gue/Ngl. «Da soli come avvocati sarebbe stato impossibile per noi riuscire a incontrarli».

I legali non senza difficoltà sono riusciti a rintracciare alcuni dei migranti rimpatriati, «un lavoro durato parecchi mesi, grazie soprattutto alle indicazioni che ci avevano dato i loro compagni che per fortuna erano riusciti a rimanere in Italia». «La cosa interessante è che queste persone rimaste in Italia hanno ottenuto lo status di rifugiato politico», precisa Belluccio. Facile immaginare che sarebbe accaduto anche agli altri. Invece no, questi sono passati nel giro di poche ore dalla salvezza all’incubo di dover tornare nel Paese da cui si era fuggiti. Un Paese governato da un dittatore poi può essere considerato tra gli Stati cosiddetti sicuri dove far rientrare i migranti? Evidentemente, dice l’avvocato, no. Addirittura l’articolo 14 del Memorandum tra l’Italia e il Sudan prevede l’identificazione dei migranti direttamente nel Paese africano, nei casi di necessità e urgenza, senza specificare quali siano questi casi. L’identificazione, inoltre, è prevista sia a livello sovranazionale che interno, negli Stati membri dell’Ue. Sul Memorandum l’Asgi ha fatto un’analisi evidenziandonei i punti critici.

«Noi abbiamo denunciato diverse violazioni della Convenzione dei diritti dell’uomo, compresa l’espulsione collettiva», continua l’avvocato. Il ricorso viene presentato oggi alla sede della Fnsi dall’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi, da Filippo Miraglia dell’Arci e da altri esponenti del Tavolo Asilo. Le violazioni contestate sono quelle degli articoli 3, 4, 14, 13, della Convenzione dei diritti dell’uomo. «Queste persone non hanno avuto la possibilità concreta di avere accesso alla procedura d’asilo», conclude l’avvocato Belluccio.

L’Italia, ricordiamo, proprio di recente, a dicembre 2016, è stata condannata per un altro caso, questa volta per trattenimento illegittimo. E in passato altre sentenze sui respingimenti illegittimi. Anche il caso dei cinque cittadini sudanesi potrebbe allungare la lista delle operazioni illegittime che vengono compiute nei confronti dei migranti. Magari con accordi di cui il Parlamento non chiamato a decidere, ma scritti soltanto nelle stanze del governo

M5s contro M5s. Sullo stadio della Roma, la base contro il sindaco Raggi

VIRGINIA RAGGI

Un traguardo sempre più travagliato, quello del 3 marzo, data in cui con la conferenza dei servizi, dovrebbe arrivare il via libera definitivo del Comune di Roma alla costruzione dello Stadio di James Pallotta e Luca Parnasi. Un sì che nelle scorse settimane è sembrato sempre più vicino, visti i tavoli sempre più ravvicinati fra le parti, al fine di trovare una soluzione a quelle cubature di troppo. Di troppo rispetto al piano regolatore, ma soprattutto di troppo per il Movimento 5 stelle, che all’ambientalismo e al no al consumo di suolo ha dedicato una delle sue 5 stelle.

Tant’è che e a ricordarlo alla sempre più esile giunta Raggi – dopo l’addio anche dell’assessore Paolo Berdini – ci pensa proprio la base romana, ormai in totale rivolta: martedì 21 febbraio alle ore 12 i grillini marceranno – di nuovo – sotto al Campidoglio, ma stavolta per protestare contro i loro di “portavoce” eletti. I quali, lamentano gli attivisti, la loro voce non la ascoltano più. “Non ci ascoltano più, non rispondono nemmeno al telefono”, lamentano. E quindi si organizzano, con tanto di pagina facebook e immancabile hashtag #VirginiaApriQuestaBusta.

“Cara Virginia,
sulla vicenda stadio state prendendo una cantonata!
Oltre a non seguire quanto è stabilito nel programma e quanto dichiarato in campagna elettorale e soprattutto il supporto tecnico del Tavolo Urbanistica, che ha evidenziato varie illegittimità nella procedura sin qui espletata dalla vecchia Giunta, state continuando nell’errore!”

Questa la premessa del post, il cui autore è Francesco Sanvitto, storico e noto attivista grillino e soprattutto architetto a capo del tavolo di urbanistica del M5S Roma che più volte aveva consegnato obiezioni e proposte alternative alla costruzione dell’impianto dell’As Roma. E contro il quale, i militanti sono disposti a guerreggiare. Fino in tribunale se serve. L’obiettivo di martedì è consegnare alla prima cittadina una proposta di contro-delibera che Left ha potuto visionare e che potrebbe annullare quella siglata dal predecessore Ignazio Marino (qui il documento).

Ieri il sindaco pentastellato ha provato ad arginare la marea che si sta alzando dalla base spiegando in un post sul blog che “essendo entrati in corsa, ci siamo trovati un iter già avanzato e quasi a conclusione che, in altre parole, significa: causa multimilionaria all’orizzonte che la società potrebbe intentare contro il Comune di Roma, per via degli atti amministrativi compiuti dalla giunta Marino”. Sicuramente vero, come abbiamo scritto nel numero di Left in edicola da sabato.

Ma è anche vero che, a quanto scrive il Messaggero, Virginia ha nel cassetto un parere legale chiesto dal M5s della Regione allo studio Imposimato secondo il quale il Business park (le torri) e le altre opere private non sarebbero incluse nella delibera, e dunque – quelle si – annullabili. Cosa che però, aggiungiamo noi, farebbe venir meno la sostenibilità economica dell’opera, ovvero, il vantaggio che il manager italo-americano e il costruttore romano avrebbero in cambio nel costruire le opere pubbliche.

Cosa risponderanno ora i veritici, tutti schierati per il si? Grillo, Di Maio e Di Battista chi preferiranno ascoltare, manager e costruttori o i loro militanti?