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Corbyn: si inizino le negoziazioni per la Brexit

epa05677467 Labour Party leader Jeremy Corbyn delivers a speech at a Labour 'Care for National Health Service (NHS)' Rally in Central London, Britain, 15 December 2016. EPA/WILL OLIVER

Jeremy Corbyn ha “suggerito” ai deputati del Partito laburista di votare a favore dell’attivazione dell’articolo 50, la clausola del Trattato di Lisbona che disciplina l’inizio ufficiale delle negoziazioni tra Ue e Regno Unito per l’uscita del Paese dall’Unione.

L’indicazione di Corbyn è arrivata pochi giorni dopo il discorso del Primo ministro britannico, Theresa May, la quale ha reso noto il piano del Governo per la Brexit.

Secondo fonti anonime citate dal The Guardian, più di 20 parlamentari del Labour non sarebbero però disposti a seguire il proprio leader.

In ogni caso, la necessità di far passare l’attivazione dell’articolo 50 per Westminster non è ancora stata confermata. La Corte suprema britannica si pronuncerà i in merito soltanto martedì prossimo. Ma alcuni ministri del Governo avrebbero già ammesso che la decisione della Corte è praticamente data per certa. Il risultato? May non potrà fare a meno dell’approvazione della clausola del Trattato di Lisbona da parte del Parlamento.

Su Skynews, Beth Rigby spiega che la formulazione del testo che sarà proposto al Parlamento sarà di particolare importanza, in quanto potrebbe, a seconda della complessità, permettere una serie di ammendamenti da parte dei deputati. Per questo motivo, Theresa May cercherà di presentare un testo il più succinto possibile.

La decisione di Corbyn risulta quindi abbastanza importante e segnala che il leader del Labour non vuole cedere a una parte del Partito che ritiene ancora viva la battaglia per rimanere nell’Ue.

Secondo Owen Jones, «Corbyn non ha scelta se non quella di favorire l’approvazione dell’articolo 50». Allo stesso tempo, l’editorialista del The Guardian sostiene che parte del Labour è “obbligata” a remare in direzione contraria e «opporsi» alla direttiva del leader. Perché?

Jones ha sottolineato che la maggioranza dei sostenitori del Partito ha votato per rimanere nell’Ue, mentre la maggior parte dei territori a tradizione laburista nel Paese ha appoggiato la Brexit. Conseguentemente è normale che il Partito sia spaccato sul tema: «Corbyn dovrebbe appoggiare l’attivazione dell’art.50 perché [questa scelta] rispetta la volontà popolare […] nel frattempo, altri deputati laburisti prenderanno una posizione diversa e voteranno contro l’attivazione della clausola». Nella sua analisi, Jones si è soffermato poi sulla reazione del Labour rispetto al discorso di May e, più in generale, rispetto al voto del giugno scorso: «[Riguardo alla Brexit], la strategia e visione della leadership del Labour non è stata chiara, considerando che si è contrapposta sia al campo del “remain” che del “leave”».

In realtà, il giorno dopo il discorso di May, Corbyn ha lanciato un messaggio video facebook accusando il Primo ministro di voler creare un’economia che funzioni regolarmente a detrimento dei lavoratori. In merito alle parole di Corbyn, Jones ha commentato polemicamente che la leadership del Labour «ripete “all’infinito” che l’economia, l’occupazione e il benessere dei cittadini dovrebbero rimanere la priorità nel corso delle negoziazioni». Un po’ come a dire: dopo le parole, servono i fatti e, soprattutto, una strategia di azione da contrapporre ai Tories.

Nel frattempo, anche Tim Farron, guida del Partito liberale, ha attaccato Corbyn, affermando che il leader di Chippenham si è «arreso nel momento in cui il Regno Unito si sta dirigendo verso un baratro […] Il Labour ha deciso che questo tema (la Brexit, ndr) è troppo difficile da affrontare da un punto di vista politico». Conseguentemente, la leadership del Partito cercherebbe di far finta di nulla e di aspettare semplicemente che il tema non sia più attuale. Eppure, i liberali hanno tutto da guadagnare dall’indecisione del Labour, visto che potrebbero diventare il principale Partito di riferimento per chi ha votato di restare nell’Ue.

Secondo la maggior parte dei analisti politici, anche la performance di Corbyn durante l’appuntamento settimanale del “Prime Minister Question time”, avrebbe mostrato una debolezza di fondo sul tema dell’Europa.

Martin Kettle ha commentato con estrema durezza che se c’è una formazione politica a non avere le idee chiare in materia di Brexit, questa non è più la destra, bensì il Labour. Qualche giorno prima, erano stati gli stessi deputati del Labour a richiedere una presa di posizione chiara sul Mercato unico europeo e sulla libera circolazione nell’Ue.

Voucher, come ti legalizzo la precarietà

ROME, ITALY - DECEMBER 22: Workmen climbers to work of the new congress center "La Nuvola" (The Cloud), at the EUR district, designed by architect Massimiliano Fuksas on December 22, 2015 in Rome, Italy. (Photo by Stefano Montesi/Corbis via Getty Images)

«La sentenza della Consulta non frena la corsa dei referendum contro il Jobs act e le sue conseguenze», scrive Maurizio Landini sul numero di Left in uscita il 21 gennaio. Anzi, aggiunge il segretario della Fiom, i due quesiti rimasti dopo la bocciatura di quello sull’art.18 rappresentano due capisaldi nella battaglia di quello che acutamente definisce «impoverimento culturale ed economico del lavoro». I due quesiti riguardano l’abrogazione dei voucher e il ripristino della responsabilità sugli appalti, due settori, dice Lorenzo Fassina, responsabile giuridico della Cgil, che hanno una continuità lampante tra di loro. Smontarli attraverso i referendum significa dare smantellare il Jobs act e le politiche del lavoro di questi ultimi anni.

Come analizza Davide Serafin i voucher sono in fin dei conti un bluff pericoloso. Avrebbero dovuto contrastare il lavoro nero, ma in realtà – cifre alla mano – non sono stati efficaci in questo senso, nonostante le dichiarazioni di Filippo Taddei, responsabile Economia e lavoro del Pd. Hanno avuto invece un effetto perverso, hanno cioè prodotto precarietà, sollevando le imprese da qualsiasi responsabilità nel garantire anche dei contratti a termine e contribuendo all’isolamento del lavoratore. Dipendenti a tagliando, con compensi che arrivano anche 12 mesi dopo l’attività svolta. E non è vero che all’estero accade la stessa cosa.

Lo spiega molto bene Marta Fana. « Il lavoro occasionale in Francia è gestito tramite gli chèque emploi service universel (Cesu), limitati esclusivamente alle prestazioni di lavoro a domicilio per un massimo di otto ore settimanali o quattro settimane consecutive. Il lavoratore occasionale è riconosciuto come lavoratore subordinato (salarié) a tutti gli effetti e non è un lavoratore senza vincolo di dipendenza come nel caso italiano. Soprattutto, al lavoratore sono riconosciuti tutti i diritti propri di un lavoratore subordinato», scrive l’economista. Ma anche il modello belga è diverso dal nostro.

 

Abbiamo chiesto poi ad alcuni esponenti della sinistra un parere sui referendum e su quanto possano incidere sui diritti dei lavoratori. Per Luigi de Magistris, «Il ricorso a questa forma di non contratto, dilagato grazie al ministro Poletti, è la prova della mancanza di una cultura dei diritti del ceto politico che ha assunto la guida del Paese. Il lavoro è il contratto sociale di una persona con la comunità di riferimento. Il lavoro va sì sostenuto, ma con provvedimenti che incentivino le aziende a non lasciare il Paese e incrementare le proprie piante organiche». Diseguaglianze e diritti negati ai lavoratori: per Giuseppe Civati «La campagna referendaria può servire a rovesciare uno schema che molti spacciano per “naturale” e invece è frutto di uno scivolamento progressivo (o, meglio, regressivo) che ci ha portato a indebolire prima pochi, poi molti e con loro l’intera società». Il problema dei voucher quindi non è affatto secondario o marginale, ma rappresenta anche la condizione sempre più fragile che sta assumendo il lavoro in Italia dove il governo Renzi ha pensato solo alla detassazione delle imprese senza favorire le politiche attive.
Anche Giorgio Airaudo pensa che il referendum sia un’occasione fondamentale. Quella sull’articolo 18 per il deputato di Sinistra italiana è una battaglia che ancora non è finita. Ma intanto sono importanti i quesiti sia  per l’abrogazione dei voucher che quello della responsabilità in solido di appaltatore e sub-appaltante: «farà da grimaldello per aprire una nuova stagione di lotta alla precarietà». Anche Claudio Riccio di Act sostiene che «Il referendum promosso dalla Cgil è una grande occasione di mobilitazione e lotta politica contro la precarietà e per i lavoratori più deboli e meno tutelati».

In effetti il lavoro che non c’è oppure è precario è il problema cruciale del Paese, come dimostra anche una ricerca sull’andamento del mercato del lavoro per la prima volta analizzato provincia per provincia curato dall’Osservatorio di Statistica dei consulenti del lavoro di cui Left pubblica i dati. È una mappa dell’Italia spezzata in due tronconi: il Nord dell’innovazione e dell’occupazione e il Sud dell’inattività e della mancanza di formazione.

Ecco i titoli degli articoli sui voucher e mercato del lavoro
Perché i voucher proprio non funzionano

di Davide Serafin

Due Sì contro la fabbrica della precarietà

di Tiziana Barillà

Smantelliamo il Jobs act per ridare dignità al lavoro

le opinioni di Maurizio Landini, Luigi de Magistris, Giuseppe Civati, Giorgio Airaudo e Claudio Riccio

I buoni lavoro in Belgio e in Francia

di Marta Fana

Geografia del lavoro spezzato

di Donatella Coccoli

Lo speciale di copertina su voucher e jobs act è in edicola su Left dal 21 gennaio

 

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“L’obbligo di dare lavoro e diritti”. Ottima idea

«Comunque in Italia non c’è ancora l’obbligo di dare lavoro». Mi ha detto così, stavamo discutendo di referendum e articolo 18. Di diritti e lavoro. E lui, bravo come me, onesto come me, in ospedale come me a trovare un amico grande, mi ha risposto così. E io l’ho tranquillizzato: «Sì certo, non c’è l’obbligo di dare lavoro». Poi non ho smesso di pensare a quella frase e a quello che gli deve sembrare il mio parlare.
Obbligarlo a dare lavoro. Imprenditore certo, bravo imprenditore, onesto sicuramente, buono persino. Ma che è di là. Rispetto a me, idealmente, quasi spazialmente. Garantire diritti vuol dire obbligarlo a dare lavoro. Mi dispiace e mi ammutolisco, deve sembrargli retorica di sinistra la mia. Il mondo gira in un altro modo, lui lo sa. Io no. Deve averlo pensato. Eppure questo schema “naturale” è uno scivolamento regressivo e non soltanto, come scriviamo su questo numero di Left. Ha a che fare con un’impostazione che ha “cancellato” l’umanità della vita e che parla sempre più di spesso di quella obbligatorietà indigesta: obbligo delle quote di migranti, obbligo delle tasse… un obbligo che cancella l’umano essere di molte cose giuste. E se diventeranno obbligatori persino i diritti, perché confusi con “l’obbligatorietà di dare lavoro”, lo scivolamento sarà sempre più pericoloso. Perché mai dovremmo obbligare qualcuno a riconoscere i diritti di altri? Riconoscere il diritto a un lavoro che abbia quel minimo di tutele che garantiscano una vita degna di essere vissuta a giovani e meno giovani, vuol dire obbligare? Siamo sicuri che lo “schema” che ci viene imposto sia poi così naturale? O è quanto di più sbagliato sia stato fatto in questi ultimi anni? Uno scontrino dal tabaccaio, un buono invece di uno stipendio, niente tutele, niente malattia, niente. Produci consuma crepa, abbiamo titolato qualche tempo fa. Prima di sapere di questi referendum in cui chiederanno a noi, proprio a noi, se i voucher ci piacciono, se li riteniamo uno strumento giusto e anche se non sia importante che un imprenditore stia attento a chi dà in appalto un lavoro. Ci chiederanno se questo “non” obbligo dei datori di lavoro a garantire lavoro e diritti sia giusto. Quelli a cui lo abbiamo chiesto ci hanno quasi supplicato di non fare l’errore di sottovalutare l’importanza di questi due quesiti, di quanto possano smontare comunque e ancora di più lo schema “naturale” del Jobs act di Renzi, quello che mette precarietà e ricattabilità al centro dello schema Futuro. Poi ci hanno chiesto di fare la battaglia insieme. E noi siamo qui.

Questo editoriale lo trovate su Left in edicola dal 21 gennaio

 

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Sei cose da sapere su Trump e la amministrazione che entra in carica

epa05732767 US President-elect Donald J. Trump (R) and his campaign manager Kellyanne Conway (L) attend the Candlelight Dinner at Union Station, one day before Trump is sworn in as the 45th President of the United States in Washington, DC, USA, 19 January 2017. Trump won the 08 November 2016 election to become the next US President. EPA/CHRIS KLEPONIS / POOL

Ci siamo, oggi il circo di casa Barnum si trasferisce da midtown Manhattan, dove svetta la Trump Tower e dove dall’8 novembre in poi il presidente eletto ha riunito il suo staff, a Washington. Giuramento, parata, discorso, ballo inaugurale, un po’ di folla, ma niente a che vedere con quella di otto anni fa.

L’era composta di Obama volge al termine e comincia la, speriamo breve, scoppiettante era Trump. Il 71enne del Bronx, rampollo di una famiglia di costruttori, plurimaritato, immobiliarista senza scrupoli, padrone di Miss Universo e Miss Mondo per anni, l’amico delle celebrities più trash che sembra uscito da un film dei fratelli Vanzina degli anni ’80 e conduttore televisivo di reality ce l’ha fatta. Ci aveva pensato già più di una volta a diventare presidente, e ogni volta aveva fatto un passo indietro prima di cominciare. Era sempre stato una voce critica nei confronti della politica – con la quale ha però sempre intrattenuto ottimi rapporti – e negli anni di Obama ha accentuato i toni. Ad esempio alimentando le voci secondo le quali il presidente non sia americano. E grazie a una campagna aggressiva, populista, a toni esagerati e promesse roboanti è riuscito nell’impresa. Ora gli americani, che hanno votato più Hillary Clinton, ma che in alcuni Stati chiave e in crisi, grazie al voto bianco e disilluso di molti lavoratori gli hanno regalato la vittoria, se lo terranno per quattro anni. E noi con loro. Oggi intanto a Washington saranno più quelli che protestano che non i sostenitori. E ieri ci sono state manifestazione a New York e persino a Manila (di tutto quanto c’è in preparazione parliamo qui)
Con Trump e famiglia – che avrà un ruolo cruciale nella sua presidenza – sbarca a Washington un’amministrazione di destra, a tratti imbarazzante e piena di conflitti di interesse. Cosa ci sia da aspettarsi, quasi non lo sappiamo. Proviamo però a mettere in fila un po’ di cose capitate in questi mesi per farci un’idea.

Un’amministrazione di bianchi
Poche donne, pochi giovani, poche minoranze. E nessun ispanico. L’amministrazione Trump sembra uscita dagli anni ’70, quando a guidare il Paese c’erano ancora loro, i bianchi da soli. La figura qui sotto è una rappresentazione della composizione del Paese, degli incarichi assegnati da Trump e del suo elettorato: più dell’80% dei voti del presidente eletto sono bianchi e così i membri del suo gabinetto. Trentuno nomine, 5 donne, 3 membri di minoranze. Due delle donne sono anche membri di minoranze: l’indiana Nikki Halley, ex governatrice della South Carolina e Ellen Chao, che è moglie del capo della maggioranza in Senato, McConnell. L’unico afroamericano è Ben Carson, a cui Trump ha restituito il favore del sostegno. E c’è Sheena Verma, che non sarà un Segretario, ma gestira le assicurazioni mediche pubbliche.

Una amministrazione di miliardari in conflitto di interesse

Mai un governo mondiale ha contato tanti miliardari e milionari: almeno 5 i primi, molti di più i secondi. Non male per uno che prometteva di combattere i poteri forti e di “ripulire la palude”. I primi ad avere conflitti sono TheDonald e suo genero: non hanno intenzione di cedere i business di famiglia e quando lasceranno l’incarico, se quelle compagnie saranno cresciute, loro saranno più ricchi. Inutile dire che, specie in Paesi piccoli e corrotti, far costruire grattacieli può essere un buon modo per avere buoni rapporti con gli Stati Uniti. Esempio: il socio di affari di Trump nelle Filippine potrebbe essere nominato ambasciatore negli Usa dal presidente Duterte. Poi c’è, per fare un solo esempio, il Segretario di alla Salute, Tom Price, membro della camera dei rappresentanti che è stato beccato a comprare azioni di compagnie farmaceutiche favorite da leggi che si apprestava a far votare. Price comprava, proponeva la legge, le azioni salivano. Unico buon esempio, il Segretario di Stato Rex Tillerson, che ha ceduto ogni quota in Exxon.

Un’amministrazione di incompetenti

L’esempio clamoroso è Betsy DeVos, miliardari, moglie del fondatore della Amway, una multinazionale dei servizi e sorella del fondatore di Blackwater ( i famigerati contractors dell’Iraq di George W. Bush), la nominata al posto di Segretario all’educazione, non crede alla separazione tra chiesa è stato ed è un clamoroso esempio di inettitudine e ha mentito durante le audizioni di conferma in Senato. La fondazione della madre, di cui lei è stata vicepresidente per anni, ha donato milioni a campagna anti-gay, ma lei ha negato di essere mai stata nel consiglio di amministrazione. Incalzata dal senatore Al Franken sui metodi di valutazione degli studenti – non entriamo in particolari – non sapeva di cosa si stesse parlando. Richiesta se le armi dovessero essere bandite dalle scuole, risponde: «Magari in Montana ne hanno bisogno per difendersi dagli orsi». Che vuol dire no. Poi ci sono il Segretario all’energia Rick Perry, che quando si è candidato alle primarie aveva promesso di chiudere l’agenzia che guiderà e il direttore dell’agenzia dell’ambiente che da Procuratore dell’Oklahoma ha fatto causa all’amministrazione Obama per aver imposto limiti alle emissioni di gas serra.

Un’amministrazione in conflitto con le promesse del presidente
Tre esempi rapidi: il futuro capo della Cia, Mike Pompeo, ha detto che non si deve tornare alla tortura e al waterboarding (al contrario del presidente) e che si, i russi hanno cercato di influenzare le elezioni. Il capo del Pentagono, James “mad dog” Mattis, ha detto che la Russia è un nemico. Il Segretario al Tesoro ha detto che le sanzioni alla Russia vanno confermate. Il Segretario alla Sicurezza nazionale (il ministro degli Interni), Kelly, ha detto che il muro con il Messico non servirà a fermare gli ingressi di irregolari e confermato che la tortura non serve e non si deve usare. Sugli accordi internazionali: il Segretario di Stato Tillerson ha detto che quelli sul clima di Parigi non vanno gettati via e Mattis, parlando dell’accordo con l’Iran ha spiegato: «Gli Usa mantengono la parola data».
Un presidente poco presidenziale
Donald Trump ci ha abituati ad usare twitter per sparare ad alzo zero contro chi lo critica. Cnn e Washington Post sono produttori di fake news, le celebrities che non saranno all’inaugurazione non sono mai state invitate, Meryl Streep è un’attrice mediocre, Hillary Clinton una corrotta. Era così in campagna elettorale ed ha continuato dopo. Che succede da domani? Vedremo, ma i modi istitntivi di Trump rischiano di creare danni enormi. In un’intervista a FoxNews ha speigato che non smetterà di usare il suo account.
Un presidente che non conosce l’arte della diplomazia
A proposito di account twitter e reazioni non riflettute: nelle scorse settimane Trump ha chiamato il presidente di Taiwan, minacciato di superare la politica di “Una Cina” (quella popolare, con Taiwan che è amica, ma non riconosciuta ufficialmente come Paese), parlato a sproposito delle isole del Mar della Cina che Pechino rivendica. Un diplomatico di carriera ha spiegato: «La politica della “Una Cina” non è una delle politiche, è la politica». Come dire: se salta quella i rapporti con Pechino vanno gambe all’aria. Anche le promesse di rivedere gli accordi commerciali hanno lo stesso sapore. Ci sono cose che non si fanno. Se Washington deciderà di aprire un conflitto con Pechino potenzialmente epocale, deve farlo per delle ragioni, non perché al presidente correva l’uggio di parlare al telefono con la sua omologa a Taiwan.  Stessa cosa si dica per la promessa di spostare l’ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme. Una provocazione inutile che getterebbe benzian sul fuoco in una regione già in fiamme.
A questo elenco potremmo aggiungere: la nomina di Steve Bannon, campione dell’estrema destra e dialogatore con la destra populista europea, a stratega in capo e i rapporti pessimi con molte figure importanti del suo partito – determinante per far avanzare le idee di Trump in Congresso. Tanto per scegliere altri due argomenti di cui preoccuparsi. Ma forse, per il primo giorno basta così.

Ma i responsabili non si possono fare scudo con i volontari

epa05731241 A handout picture provided by the Italian National Alpine Cliff and Cave Rescue Corps (CNAS) shows rescue operations at hotel Rigopiano after it was hit by an avalanche in Farindola (Pescara), Abruzzo region, early 19 January 2017. According to an Italian mountain rescue team, several people have been killed in an avalanche that has hit a hotel near the Gran Sasso mountain in Abruzzo region. Authorities believe that the avalanche was apparently triggered by a series of earthquakes in central Italy on 18 January. EPA/ITALIAN MOUNTAIN RESCUE/CNAS HANDOUT BEST QUALITY AVAILABLE HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Le solite due foto. Contrapposte. E il solito trucchetto di mostrarle insieme per lenire la rabbia e nascondere le responsabilità. Ci sono i volontari, gli uomini dei Vigli del Fuoco, le Forze dell’Ordine, la Protezione Civile, i cittadini e tutti gli altri che che come sempre mostrano il lato migliore del cuore di questo Paese, strenui contro la difficoltà e solidali fino al limite delle loro forze. Dall’altra parte c’è la politica che consegna oggi (oggi!) i moduli abitativi ad Amatrice, che lascia a terra gli elicotteri della Forestale per un pasticcio burocratico e che non ha mantenuto le promesse.

Basta leggere i quotidiani di oggi (anche i più moderati e allineati) per scoprire una sequela di errori e sottovalutazioni, le solite promesse mancate, gli annunci non rispettati e la storica leggerezza sulla prevenzione. L’elenco è lunghissimo e indecente.

Qual è il gioco? Che, al solito, la politica manda in avanscoperta gli eroi pretendendo una normalizzazione in nome della solidarietà. Così ieri è stato tutto un invito alla moderazione come se gli uomini con le mani sporche di neve abbiano davvero qualcosa a che vedere con gli imbonitori lì sopra. Ci dicono che per difendersi dagli sciacalli bisogna tenere gli occhi puntati su quelli che scavano e intanto stanno sciacallando anche loro facendosene scudo. Fingendo di non sapere che tra la gente, anche quella appena appena informata, l’indignazione non c’entra niente con chi si sta sporcando le mani ma sia rivolta a una classe dirigente che, ancora, non è all’altezza.

Un Paese che funziona non si affida agli eroi. Dai su, basta prenderci in giro.

Buon venerdì.

Su

TUTTE LE VIGNETTE

Vaccini gratis in Italia. Via libera al piano nazionale 2017-2019

6 years old girl receiving a vaccination.

Via libera alla somministrazione gratuita ai bambini dei vaccini contro il meningococco B (per i bambini) e C (per gli adolescenti), per la varicella, il rotavirus e l’epatite A. Inoltre , dopo la campagna di vacci anti Hpv alle femmine dodicenni , il vaccino contro il papilloma virus  viene esteso agli adolescenti maschi e ai  sessantacinquenni i vaccini contro pneumococco ed Herpes Zoster.

Dopo gli 800 milioni stanziati per i Livelli essenziali di assistenza (Lea) nella legge di Stabilità 2016 ,  e il sì unanime delle Regioni, arriva la ratifica della Conferenza Stato Regioni.

Previsti anche i finanziamenti al Piano nazionale  della prevenzione vaccinale (qui il pdf scaribile del Paino): si parla di 100 milioni di euro per il 2017, 127 milioni per l’anno successivo e 186 milioni per il 2019.

Fra gli obiettivi del Piano vaccini 2017-2019, oltre al mantenimento dello stato polio-free,  c’è quello che in tempi rapidi l’Italia diventi un Paese morbillo-free e rosolia-free.  Fatto per nulla secondario. Come spiega il medico Roberto Burioni nel libro Il Vaccino non è un’opinione (Mondadori) tracciando un efficace quadro di storia della medicina riguardo ai vaccini e smontando ad uno ad uno i pregiudizi. Prendiamo per esempio il caso della rosolia, che crea problemi gravissimi alle donne in stato interessante: se il virus infetta il feto nell’utero, può determinare  gravi danni al nascituro.

«In Olanda nel 2005 ci sono stati 387 casi di persone che sono state vittime di un’epidemia di rosolia arrivata dall’estero», ricostruisce il professor Burioni.  Si trattava di persone non vaccinate.  Fra questi tredici donne in gravidanza. Purtroppo gli effetti sono stati devastanti. «Due feti sono morti in utero, gli altri undici bambini sono nati sordi in maniera irreversibile, con gravissime lesioni congenite e alcuni di loro con un notevole ritardo mentale», dichiara il professore ordinario di microbiologia e virologia dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Il problema è che anche in un Paese avanzato come l’Olanda che ha una copertura vaccinale del 95 per cento, c’è una comunità religiosa protestante che rifiuta le vaccinazioni  «ed è facile da tracciare, visto che tutti i membri votano da sempre per il Partito politico riformato», una formazione politica d’impronta calvinista. «Possiamo affemare con sicurezza – conclude Burioni – che il vaccino le avrebbe difese con efficacia, in quanto nella popolazione immunizzata il virus non è riuscito a penetrare, rimanendo confinato all’interno della comunità fondamentalista».  Le vaccinazioni  non servono solo a proteggere le persone che l’hanno fatte ma  come sostiene l’immunologo Alberto Mantovani hanno anche una funzione di protezione sociale dei soggetti più fragili e più esposti, che non si possono vaccinare perché affetti da gravi patologie.

Anche per questo il Piano nazionale vaccini che, dice il ministro della Salute Lorenzin, sarà attivo entro poche settimane, prevede un monitoraggio riguardo alla sua piena applicazione e  possibili sanzioni disciplinari o contrattuali per i medici che non ottemperino alle indicazioni, sanzioni che saranno decise nello specifico dopo audizioni con ordini professionali e sindacati.

 

 

 

Eutanasia ma non solo. Le leggi “civili” che ancora non abbiamo

Bisogna ringraziarlo Fabiano Antoniani, trentanovenne che dal 2014, in seguito a un incidente automobilistico, è tetraplegico e cieco. Bisogna dirgli grazie per aver preso in prestito la voce della sua compagna e aver registrato un messaggio diretto a Sergio Mattarella, chiedendo al presidente della Repubblica di sollecitare il parlamento su una legge sull’eutanasia.

Va ringraziato perché è una battaglia giusta, per noi di Left, quella di Antoniani – o meglio di Dj Fabo, come si racconta nel video – ma anche perché ci dà l’occasione di fare il punto e notare che insieme alla legge sul fine vita (che, peraltro, non è affatto detto sarebbe la legge auspicata dall’associazione Coscioni) in Italia di leggi “civili” ne mancano moltissime e di ragioni per sperare che qualcosa cambi rapidamente non ce ne sono poi molte. Anzi. È ottimista, si può dire, Marco Cappato.

Il prossimo 30 gennaio, infatti, la Camera discuterà il testo di legge sul testamento biologico, a tre anni dal deposito della proposta di legge di iniziativa popolare Eutanasia Legale da parte dell’Associazione Luca Coscioni. Ma non bisogna illudersi. Questo Parlamento – e soprattutto questa maggioranza – sembra volersi accontentare delle Unioni civili: di più o altro non si farà. Bastano le unioni civili, monche come sono arrivate al traguardo; bastano le unioni (benedette, per carità) perfette per la campagna elettorale che verrà, già trascinate persino in quella referendaria («se non ci fosse stato il Senato avremmo avuto la stepchild», hanno detto dal Pd, dimenticando che le resistenze erano nello stesso Pd), e citate non per nulla da Matteo Renzi anche nell’ultima intervista a Repubblica, rivendicate in continuazione dai dem.

Che sorvolano, però, ad esempio, sulla promessa fatta proprio nei giorni dell’approvazione della legge sulle unioni, quando si diceva che si sarebbe messo mano alla legge sulle adozioni, in tempi brevi, introducendo quella per single, se non proprio (sia mai) direttamente lì quella per le coppie omogenitoriali.

È un esempio, una legge che non c’è e che, probabilmente, ancora per questa legislatura, almeno, non ci sarà. Ma l’elenco è lungo, con proposte di legge depositate, incardinate ma ferme in una commissione o imboscate da qualche parte a Montecitorio o al Senato.

Sono leggi piccole e grandi. Spesso senza particolari costi, altre volte avrebbero addirittura un ritorno immediato. Su Left avremo modo di fare un punto approfondito ma, per dire, dal Senato ci dicono che difficilmente si approverà la legge sul cognome materno – tra quelle a costo zero – che era stata approvata dalla Camera e data (dai giornali e dai dem, sull’entusiasmo) per fatta. Restando in tema di genitori, molto ancora ci sarebbe da fare sui congedi di paternità, come noto (ve lo abbiamo raccontato nel numero del 17 dicembre). La deputata del Pd Titti Di Salvo (che con un suo emendamento ha rifinanziato i due giorni per ora previsti, aumentandoli a quattro nel 2018) ci dice però che è stato già fin troppo complicato trovare quei soldi, e che sarà semmai il prossimo parlamento a riprendere la proposta di legge (10 giorni di congedo di paternità) depositata da lei alla Camera e da Valeria Fedeli al Senato.

Di conquiste civili ce ne sarebbero da fare sui più disparati temi – solo che non tutti, ovviamente, le ritengono conquiste. È il caso dell’eutanasia ma anche del codice identificativo per le forze dell’ordine. Ci sarebbe da mandare definitivamente in pensione la legge 40, riformata dalla Corte costituzionale e dai tribunali ma ancora lì, con tutte le sue limitazioni sulla fecondazione assistita e sul destino degli embrioni (che non possono andare, se inutilizzati, ad esempio, alla ricerca). Nei nuovi Lea c’è la fecondazione eterologa, ma non si è poi trovato (né cercato) il modo di incentivare la donazione degli ovuli.

Di gestazione per altri (la maternità surrogata), poi, non ne parliamo nemmeno. Questa legislatura non sarà quella buona per la cannabis legale (nonostante una proposta presentata da un foltissimo intergruppo), d’altronde, quindi figurarsi.

Le foto del maltempo che sta paralizzando l’Italia e il mondo

Gondole a Orseolo, Venezia. © (Awakening/Getty Images)

Srinagar, Kashmir, è stata tagliata fuori dal resto del paese, dalla pesante nevicata che in seguito alla quale è stata chiusa al traffico la strada statale 294 Jammu-Srinagar, l’unico collegamento stradale tra il Kashmir e il resto del country

Una strada del centro di Corte in Corsica

La strada principale per Montereale in provincia de L’Aquila, Abruzzo

Gondole a Orseolo, Venezia

Mouthe, anche soprannominato la ‘Piccola Siberia’, è nota come la città più fredda in Francia

Abitanti del Kashmir trasportano contenitori di acqua potabile lungo un percorso coperto di neve, alla periferia di Srinagar

Alta marea a Walton-on-the-Naze, nel sud-est dell’Inghilterra

La riva del lago a Redbrook vicino al villaggio di Marsden nel nord dell’Inghilterra

Belgrado, un pasto caldo ricevuto dai volontari e mangiato fuori dei magazzini abbandonati utilizzati come rifugio di fortuna dai rifugiati

Un canale innevato, vicino alla città di Corinto, Grecia

Un rifugiato siriano all’ingresso della sua casa a Küçükpazar quartiere vicino Sultanahmet, Istanbul

Sammichele di Bari, Puglia

Central Park, New York

Lago a Srinagar, Kashmir

Barche a remi bloccate nel ghiaccio delle acque costiere di Jiaozhou Bay a Qingdao nella provincia orientale cinese di Shandong

Un ponte del lago Eibsee vicino al villaggio bavarese di Garmisch-Partenkirchen, Germania meridionale

Stazioni ferroviariA Yaroslavsky, Mosca, Russia