June 19, 2021 - Tehran, Iran: The supporters of the new-elect president, Ebrahim Raisi, are celebrating his victory in Imam Hossein Sq. The 60-year-old Raisi, a conservative cleric will replace outgoing moderate President Hassan Rouhani, who could not run again after holding office for two terms. Raisi is known as a fierce critic of the West. He will become the first serving Iranian president to already be under US sanctions before entering office, due to his involvement in mass executions in 1988. (Arash Khamooshi/Polaris)
Polaris/LaPresse
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In politica estera l’elezione del presidente Ebrahim Raisi non dovrebbe cambiare molto, le linee di fondo sono sempre quelle dettate dalla Guida Ali Khamenei, al di là della retorica delle esternazioni, e una revoca delle sanzioni con un ritorno degli Usa all’accordo sul nucleare del 2015 conviene in primo luogo all’Iran. Ma sul piano interno è ancor più probabile un ulteriore giro di vite contro il dissenso e le libertà individuali. Gli interrogativi aperti riguardano piuttosto l’economia e le condizioni di vita dei ceti medi e popolari, scese a livelli drammaticamente bassi negli ultimi tre anni per ragioni da una parte riconducibili alle sanzioni, dall’altra addebitate a una cattiva amministrazione del governo iraniano: variabili che dipenderanno dai negoziati in corso a Vienna sul rientro di Washington nell’accordo multilaterale abbandonato da Trump nel 2018 e sul ritorno al rispetto di quell’intesa anche da parte della Repubblica islamica. La quale ha cominciato a distanziarsene solo nel 2019 in risposta alle decisioni della Casa Bianca, con due brusche accelerazioni dopo l’assassinio del generale Qassem Soleimani nel gennaio 2020 da parte Usa e di quello di Mohsen Fakhrizadeh pochi mesi dopo, attribuita ai servizi segreti israeliani.
Insomma, l’elezione di Raisi (che nonostante la più bassa affluenza alle presidenziali della storia della Repubblica islamica segna la definitiva sconfitta del fronte moderato-riformista dell’uscente Hassan Rouhani) da un lato sancisce la completa presa del potere del fronte conservatore, già in controllo degli apparati militari, della magistratura e del Parlamento eletto nel febbraio 2020, dall’altro lascia alcune possibilità aperte per la diplomazia internazionale. Vedremo come se le giocheranno gli interlocutori occidentali di Teheran e i loro alleati nella regione. Fra questi il più importante è Israele, molto ascoltato dall’amministrazione di Donald Trump. La reazione del suo nuovo premier, Naftali Bennet, è stata senza appello. «Hanno eletto il carnefice di Teheran», ha commentato, ricordando che l’elezione di Raisi – sceso in campo senza veri contendenti, visto che il Consiglio dei guardiani aveva escluso tutti i candidati di rilievo del fronte riformista e altre figure di peso di quello conservatore – era stata di fatto una nomina da parte di Khamenei. Ma dell’intervento di Bennet conta il…
Il 25 maggio scorso piazza Tahrir si è riempita in fretta. Autobus carichi di giovani dal sud dell’Iraq hanno raggiunto la capitale, ad annunciarne l’arrivo le foto che si rincorrevano sui social network. La manifestazione era stata organizzata sulla spinta della frustrazione per uno stillicidio senza soluzione di continuità: attivisti e manifestanti freddati uno dietro l’altro, da Nassiriya a Baghdad, e sparizioni forzate senza responsabili.
Nel pomeriggio un cordone di poliziotti presidiava la piazza, lo sguardo quasi assente. Gli agenti hanno lasciato che i manifestanti cantassero, sventolassero bandiere, si riunissero in capannelli per discutere e dibattere. Poi il sole è calato, insieme al caldo asfissiante di un inizio estate iracheno. E il copione si è ripetuto identico a se stesso: spari sulla folla, almeno tre manifestanti uccisi dalla polizia anti-sommossa che si è presa Tahrir mentre l’esercito si ritirava per lasciare agli agenti spazio di manovra. Nei giorni successivi è ricalato il silenzio. La promessa di inchieste indipendenti, ribadita dal premier Mustafa al-Kadhimi, è un rito stanco, vuoto. Come piazza Tahrir: il presidio autogestito lungo un intero anno non c’è più. Le tende sono state distrutte con i bulldozer, i manifesti stracciati e bruciati dalla polizia.
Il Turkish Restaurant – l’enorme palazzo che si affaccia su Tahrir e che affianca l’ingresso al ponte Jumhuriya e alla Green Zone governativa – è tornato a essere uno scheletro inquietante. Del suo ruolo strategico nel mantenimento del presidio rimangono solo i murales. E rimane un cartello che annuncia la creazione di un museo della rivoluzione, ultima trovata governativa dal doppio valore, simbolico e militare: da una parte fingere di dare un ruolo alla protesta nella costruzione di un nuovo Iraq, dall’altra togliere quello spazio alle proteste del futuro, riempiendolo fisicamente di retorica opportunistica.
Sono stati loro, i ragazzi iracheni, la spina dorsale della mobilitazione.
In piazza Tahrir a Baghdad e nelle città del sud, Nassiriya, Bassora, Najaf, ad accendere la ribellione sono state varie classi sociali, disoccupati, poveri, autisti di tuk-tuk divenuti eroi della protesta quando si sono trasformati in mini-ambulanze coraggiose, donne, professionisti, intellettuali. Ma a gestirla e a portarla avanti sono state le nuove generazioni, ricchi e poveri. Giovani che non hanno conosciuto o non ricordano il regime di Saddam Hussein e che non hanno alcuna nostalgia del partito Baath; che erano piccolissimi o nemmeno nati quando gli Stati Uniti sfasciarono il Paese riducendolo a un groviglio di autorità in competizione, divise da muri settari e religiosi. Giovani che si sono fatti ispirare dalle rivoluzioni arabe del 2011 e a cui il web ha mostrato che battaglie identiche alle loro – per…
(Nella foto di Chiara Cruciati, la manifestazione a piazza Tahrir del 25 maggio 2021)
BERLIN, GERMANY - NOVEMBER 02: Heleen (L), 17, and Nisreen, 17, both refugees from Syria, create a poster with photos from a recent field trip at the extra-curricular German-language program the two attend along with approximately 20 others at a Berlin school on November 2, 2017 in Berlin, Germany. The teenaged students, mostly refugees from countries including Syria and Iraq, were participating in an initiative by the city of Berlin to offer German-language help to young refugees during school vacations. Berlin schools are currently closed for fall break and the participating refugees, who themselves are enrolled in the "welcome classes" at schools across the city, spend the two weeks on field trips designed to help them feel more confident in the city and to improve their German language skills. Berlin alone is home to at least 80,000 refugees. The German Federal Statistics Bureau announced today that 1.6 million people currently live in Germany with asylum status or who are seeking asylum. (Photo by Sean Gallup/Getty Images)
La pandemia ha messo a dura prova la salute mentale globale costringendo tutti quanti ad affrontare per più di un anno condizioni di rischio riconosciute: isolamento forzato, convivenze a stretto contatto per molte ore al giorno, possibilità di socialità marcatamente ridotte, malattia o morte di persone care, perdita del lavoro e altro. Molte di queste criticità sono state affrontate anche da una parte di popolazione sulla quale raramente durante l’emergenza si sono accesi i riflettori dei media: i rifugiati e i richiedenti asilo ospitati nei centri di accoglienza italiani.
Ne parliamo con Rossella Carnevali, psichiatra e psicoterapeuta del Centro Samifo della Asl Roma 1 – una delle aziende sanitarie più grandi del nostro Paese – che da tempo si occupa di assistenza sanitaria ai migranti forzati, anche attraverso diversi progetti pluriennali basati su fondi Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione). «Dalla mia esperienza, dai racconti di colleghi e dalle notizie in questo lungo anno – racconta Carnevali – mi è sembrato di capire che mentre le persone (compresi i pazienti) hanno resistito, anche più di quanto ci aspettassimo, senza grandi crisi, ora che, grazie ai vaccini, ci sono le riaperture, una maggiore libertà e nuove possibilità di socialità, vengono fuori situazioni che vanno da esordi tra i più giovani, fino a casi di grave scompenso psichico nei pazienti psichiatrici».
Da un lato, sottolinea la psichiatra, l’emergenza si è prolungata troppo e in un anno le vite delle persone sono state a volte completamente sconvolte, questo può aver contribuito al manifestarsi di malattie che forse non sarebbero mai emerse in condizioni normali. «D’altro canto – aggiunge – diversi pazienti già affetti da malattie psichiatriche gravi (psicosi) nell’isolamento coatto dovuto alla pandemia sono stati addirittura meglio, sapendo che tutti erano costretti a tale condizione che per loro era la norma. Finalmente c’era un nemico comune a tutti che giustificava la loro tendenza all’isolamento. Paradossalmente forse si sono sentiti meno soli. Ora questa riapertura alla socialità fa sentire loro di nuovo il peso delle difficoltà legate alla malattia, scatenandone le crisi».
E i cittadini stranieri accolti nel nostro Paese? «Per i migranti forzati vale ovviamente quanto detto sinora, con delle specificità», precisa Carnevali. «La maggior parte di loro, salvo rari casi, non ha avuto affatto paura della pandemia, molti erano perfino più tranquilli di alcuni di noi sanitari. I migranti forzati nel loro passato si sono trovati ad affrontare violenze di ogni tipo, persecuzioni, privazioni della libertà, torture, morte di familiari e…
WELLINGTON, CO - OCTOBER 11: Mexican migrant workers carry crates of organic spinach during the fall harvest at Grant Family Farms on October 11, 2011 in Wellington, Colorado. Although demand for the farm's organic produce is high, Andy Grant said that his migrant labor force, mostly from Mexico, is sharply down this year and that he'll be unable to harvest up to a third of his fall crops, leaving vegetables in the fields to rot. He said that stricter U.S. immigration policies nationwide have created a "climate of fear" in the immigrant community and many workers have either gone back to Mexico or have been deported. Although Grant requires proof of legal immigration status from his employees, undocumented migrant workers frequently obtain falsified permits in order to work throughout the U.S. Many farmers nationwide say they have found it nearly impossible to hire American citizens for labor-intensive seasonal farm work. (Photo by John Moore/Getty Images)
Sottoposti a turni estenuanti, senza possibilità di nutrirsi. Lasciati privi di acqua potabile, solo con quella del pozzo. Retribuiti intorno ai cinque euro l’ora, per otto ore di lavoro al giorno. Sotto al solleone. E per giunta filmati, per registrare eventuali “inadempienze”, che implicavano una decurtazione della paga.
Le forze dell’ordine hanno descritto così i soprusi che erano costretti a subire 150 braccianti migranti nei terreni del Foggiano e in quelli del vicino comune molisano di Campomarino, in provincia di Campobasso. Con un blitz, alcuni giorni fa, sono state arrestate sette persone considerate responsabili di questi abusi – tra gli imprenditori agricoli delle cinque aziende interessate e un caporale – accusate di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. I braccianti venivano reclutati dal caporale nei ghetti di Borgo Mezzanone e nel Gran ghetto di Rignano, dove tuttora sopravvivono migliaia di persone che lavorano nei campi del Foggiano.
Le indagini sono partite in seguito alla denuncia sporta nel marzo dello scorso anno da due lavoratori africani. Ma quella dei carabinieri di San Severo è solo una delle operazioni di questo tipo compiute negli ultimi mesi, dal Nord al Sud del Paese. Da Treviso a Gioia Tauro, da Latina a Caserta. Segnali importanti, che testimoniano una parziale efficacia della legge n.199 del 2016 contro il caporalato, che ha reso senza dubbio più semplice per forze di polizia e magistratura reprimere lo sfruttamento del lavoro in agricoltura. Ma l’altra parte della norma, la pars construens, quella che avrebbe dovuto prevenire gli illeciti e promuovere filiere produttive pulite, dagli spazio e restituirgli valore, resta quasi del tutto inattuata. Esiste, certo, ma solamente sulla carta.
È un mantra che su Left ripetiamo da anni, e che di recente è stato ribadito nel documento finale dell’indagine sul caporalato avviata nel 2019 dalle commissioni Lavoro e Agricoltura della Camera: la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, nata nel 2015 e contemplata nella legge anti caporalato, sventolata da anni come lo strumento principe per premiare le aziende che lavorano nella legalità, è un fallimento pressoché totale. Una disfatta, così come lo sono le sue “Sezioni territoriali”.
La Rete permette alle aziende agricole di registrarsi ad un network di realtà virtuose che si autocertificano “caporalato free”. Il network si chiama appunto “Rete del lavoro agricolo di qualità” e per iscriversi occorre dimostrare di essere a posto col fisco, di non avere precedenti per sfruttamento del lavoro, di rispettare i contratti. L’obiettivo, in teoria, è quello di intervenire sugli squilibri della filiera produttiva, valorizzando l’agricoltura sana. A coordinare i lavori della Rete c’è una cabina di regia presieduta dall’Inps, a cui partecipano diverse realtà: ministeri, sindacati, organizzazioni di categoria. Quella che…
Il presidente facente funzioni della Calabria Nino Spirlì si è contraddistinto in questi mesi, dopo la morte di Jole Santelli, per un’interpretazione macchiettistica del suo ruolo tutta basata sulla frenesia di sparare cretinate buone per meritarsi qualche articolo di giornale. È normale: nella Lega di Salvini ci si distingue a suon di provocazioni, come in una gara tra bulli in cortile durante l’intervallo.
Qualche giorno fa però Spirlì ha voluto dare una leccatina anche ai voti dei fascisti (anche questa è la norma dalle parti della Lega) e quindi ha riproposto i soliti temi su “Mussolini ha fatto anche cose buone”, un classico che torna ciclicamente in voga e che è molto popolare nei discorsi da bar. Bene, con calma, vediamo.
Dice Spirlì: «Condanna assoluta e totale delle leggi razziali e delle guerre coloniali, della Seconda guerra mondiale e di Salò ma bisogna riconoscere che il Duce è stato soprattutto all’inizio fautore di una rivoluzione sociale. Per la sua parte socialista mi piace dire che andrebbe riletto e nella rilettura dare una valutazione positiva a quello che la merita, poi c’è altro che non la merita. Una rilettura oggi si può fare».
E quali sarebbero le cose buone? Ecco qua. Dice Spirlì: «Ha creato le case popolari, le pensioni, l’assistenza all’infanzia, l’assistenza alle donne, le bonifiche, l’industrializzazione, la grande industria della cinematografia con la costruzione di Cinecittà. Insomma tante e tante cose sono state fatte in quegli anni e io non posso dimenticarlo. Perché sarebbe come dire che dalla Prima Repubblica dobbiamo cancellare tutto perché ci sono state anche le stragi».
Case popolari? Falso. La prima Legge sulle case popolari è la cosiddetta Legge Luzzatti del 1903, nel 1906 ai primi Istituti case popolari veniva attribuita la dicitura di Enti morali, veniva sancito lo status di pubblica utilità. Lo Iacp di Torino è del 1907, Napoli e Milano l’anno dopo. Mussolini non ha inventato nulla.
Ha inventato le pensioni? Falso. Il primo sistema di garanzie pensionistiche in Italia è del 1895, governo Crispi, regio decreto n°70 del 21/02/1895. Seconda legge con allargamento delle categorie lavorative coinvolte L. 350 del 1898 e creazione della Cassa nazionale previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Il sistema diventa universale e obbligatorio per la contribuzione delle aziende nel 1919 con la creazione della Cassa nazionale per le assicurazioni nazionali, governo di Emanuele Orlando. Mussolini non ha inventato niente.
Assistenza alle donne? Ma dove? Forse Spirlì si riferisce alla legge che nel 1925 istituisce l’Onmi. Quell’istituto difendeva solo le donne che mettevano al mondo figli, infatti lo Statuto recita “protezione delle gestanti e delle madri bisognose” quindi non le donne in assoluto ma solo le madri. Addirittura dalle norme per la protezione della maternità sono escluse le casalinghe e le donne che lavorano a casa, cioè la maggioranza della forza lavoro femminile dell’epoca. Vennero poi sempre nel 1925 i decreti per impedire alle donne di concorrere per posti direttivi nelle scuole religiose o paritarie, nel 1933 si esclusero le donne dai concorsi per Pa e nel 1934 per limitare la presenza femminile negli enti locali. Segnalo anche nel 1930 l’introduzione dell’art. 587 del Codice penale che introduce le attenuanti per il “Delitto d’onore”. Mi fermo qui, la politica femminile di Mussolini che è qui da giudicare.
Le bonifiche? E certo, come no. Come scrive Francesco Filippi nel bel libro Mussolini ha fatto anche cose buone il fascismo aveva promesso di restituire all’agricoltura 8 milioni di ettari di terreni riqualificati: un’enormità. Dopo dieci anni di fiumi di denaro pubblico finiti come accade sempre con il fascismo a amici degli amici e collettori di consenso del regime (come l’Opera nazionale combattenti), il governo annuncia il successo del recupero di 4 milioni di ettari. Ma Filippi indaga sui particolari e scopre che i lavori «completi o a buon punto» arrivano a poco più di 2 milioni di ettari e «di questi due milioni, un milione e mezzo erano bonifiche concluse dai governi precedenti al 1922». Insomma, non dal fascismo. «In pratica – conclude Filippi – era stato portato a termine poco più del 6 per cento del lavoro». A riuscirci saranno poi i governi del Dopoguerra, grazie ai fondi del Piano Marshall e della Cassa del Mezzogiorno.
Insomma Spirlì rilancia bugie per concimare un po’ di voti di nostalgici ma riesce nella mirabile impresa di collezionare l’ennesima figura da ignorante. Come fece Salvini nel 2016 quando disse: «Mussolini fece tante cose buone in vent’anni, prima delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler. Fu Mussolini a introdurre la pensione di reversibilità per garantire la natalità nel caso morissero lui o lei. La previdenza sociale l’ha portata Mussolini, non l’hanno portata i marziani. In 20 anni, prima della folle alleanza con Hitler e delle leggi razziali, delle cose giuste le fece sicuramente: stiamo parlando di pensioni, poi le bonifiche. C’erano intere città, come Latina, che erano paludi». Oppure Tajani nel 2019 che disse: «Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico però se bisogna essere onesti, ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale».
Riprovateci, sarete più fortunati. Neanche come nostalgici siete credibili.
A meno di dieci giorni dalla retata effettuata dalle forze dell’ordine hongkonghesi nella sede del quotidiano pro-democrazia Apple daily, quando sono stati arrestati cinque tra dipendenti e dirigenti e sequestrati computer a appunti di tutti i redattori, con l’accusa di aver “colluso con forze estere”, la redazione – o quel che ne resta – annuncia la chiusura definitiva della testata con il numero di giovedì 24 giugno.
Gli sforzi di scarcerare il capo redattore dell’Apple daily, Ryan Law, e il Ceo, Cheung Kim-hung, su cauzione sono falliti, così come è stata negata la richiesta che Next Digital – compagnia di media affiliata al quotidiano – ha indirizzato al governo di sbloccare i propri fondi congelati dopo il blitz, corrispondenti ad una cifra di 18 milioni di dollari hongkonghesi. Ultimi vani tentativi di tenere in vita il giornale che più di tutti ha parlato a favore della democrazia di Hong Kong e, quindi, contro la legge di sicurezza nazionale voluta da Pechino. I 18 milioni avrebbero potuto poco contro l’accanimento politico, ma quanto meno avrebbero permesso all’azienda di pagare il salario ai propri dipendenti, i quali hanno varcato per l’ultima volta la soglia della loro redazione la notte di mercoledì, dopo aver cancellato siti web e account social legati alla testata.
Prima ancora che tutto fosse finito, che l’ultimo giornalista uscisse e la porta d’ingresso del giornale venisse chiusa una volta per tutte, di fronte alle edicole già si accalcavano lunghe file di sostenitori – tanto dell’Apple daily, quanto della democrazia stessa – in attesa di acquistare copie dell’ultimo numero del quotidiano, che ha avuto una tiratura straordinaria di un milione (normalmente le copie stampate sono circa 80mila). In un momento in cui ogni gesto può essere considerato un atto di dissidenza, gli hongkonghesi hanno trovato il loro modo civile di dimostrare sostegno alla loro identità nazionale e alla loro tradizione democratica violate da Pechino. Tanto più che alcuni programmatori di Hong Kong hanno promosso, nel giro di pochissimo tempo, un’azione di massa coordinata online per l’archiviazione di 26 anni di contenuti mediatici pubblicati dall’Apple daily. Le modalità di archiviazione sono state numerose e diversificate. L’intenzione era quella di disseminare online archivi, criptati e non, dell’intero database del quotidiano e mantenere così vivo il nome del giornale.
Ora però resta il timore che anche un’azione di questo tipo possa comportare ritorsioni legali contro gli utenti che si sono mossi nell’operazione di salvataggio. Ronny Tong, membro del Consiglio esecutivo di Hong Kong ha dichiarato che la legalità dell’archiviazione degli articoli dipenderà principalmente dall’intenzione posta nel gesto stesso. Di fronte alla sorte dell’Apple daily e alle dichiarazioni di Ronny Tong è intervenuto il segretario di Stato britannico Dominic Raab, il quale ha ricordato alla Cina gli accordi stipulati in seguito alla fine dell’indipendenza di Hong Kong e l’importanza che la libertà di stampa ha per la nazione.
Con la chiusura dell’Apple daily viene meno un caposaldo del giornalismo pro-democrazia di Hong Kong. Nonostante la stampa ufficiale sia ormai allineata alla posizione cinese, è possibile immaginare che gli hongkonghesi troveranno modi sempre più creativi e civili per manifestare il proprio dissenso e prendere le distanze dalla Cina continentale.
Avremmo dovuto partecipare con Domenico Lucano ad un incontro per parlare di vaccini e diritti di migranti, rom, sinti, camminanti, senza tetto e di altri soggetti invisibili per le amministrazioni. Quando abbiamo telefonato a Lucano per ricordargli l’appuntamento era piuttosto scosso e ci ha detto: «Non posso, hanno staccato la corrente alla Fondazione». La nostra domanda un po’ incredula è stata: «Ma cos’è successo?». «Non abbiamo i soldi per pagare e ci hanno tolto la luce». È stato un momento difficile, non tanto per l’episodio in sé, ma per la sensazione di solitudine, di sconforto che abbiamo percepito nel suo pronunciare le poche frasi che ci siamo scambiati.
La Fondazione Città futura è nata nel 1999 per realizzare il sogno di rendere Riace il paese dell’accoglienza. Nei suoi 22 anni di attività ha dato ospitalità, lavoro e una nuova prospettiva a migliaia di individui con i suoi laboratori e ha ridato vita ad un borgo che stava morendo per lo spopolamento e le difficoltà economiche. La Riace di Città futura è stata per molti un esempio, una fonte di ispirazione.
Ad un certo punto, però, nel 2018 il sindaco conosciuto in tutto il mondo per avere creato un modello di accoglienza, convivenza civile e che si opposto con tenacia ai decreti Sicurezza di Salvini viene arrestato e successivamente gli viene imposto il divieto di dimora a Riace. Le accuse che gli vengono rivolte sono associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per presunti illeciti nella gestione del sistema di accoglienza.
Lucano ammette di avere firmato dei documenti che non avrebbe dovuto firmare, come quando ha rilasciato la carta d’identità ad un bambino di quattro mesi per consentirgli di fare una visita dal pediatra. È un reato questo? Sì, non avrebbe potuto farlo se avesse seguito le regole amministrative. Per questo da molti viene indicato come un disobbediente civile. Il progetto Riace, la storia di Città futura non sarebbero state possibili se lui non fosse stato un anarchico. Già quando creò le prime comunità di accoglienza per i curdi sbarcati sulle spiagge calabresi nel 1998 era andato oltre le regole, ma all’epoca il clima politico era differente e Riace non la conosceva nessuno, era un anonimo paesino della Locride.
C’è anche chi ha provato ad accusare Lucano di aver favorito l’immigrazione clandestina per interessi personali: nelle prime indagine l’ipotesi era che avesse dirottato milioni di euro su conti personali. «Non abbiamo i soldi per pagare le bollette della Fondazione», ci dice Lucano al telefono.
Le inchieste che hanno colpito Lucano e Riace hanno travolto anche Città futura: i finanziamenti dei progetti di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo Sprar attivi nel paese calabrese sono venuti meno e si sta distruggendo lentamente quell’utopica città realizzata sui principi di uguaglianza e rispetto reciproco.
Oggi entrando nel Paese non si incontra più il cartello «Riace, il paese dell’accoglienza»: è stato sostituito dall’insegna «Riace, il paese di Santi Cosma e Damiano». I laboratori che avevamo visitato sono chiusi e dei migranti che avevano ripopolato il borgo non ne restano molti. Abbiamo rivolto a Lucano alcune domande.
Mimmo, ma cos’è stato e cos’è veramente Riace?
È come se avessimo scritto una fiaba, la gente era stupita e stentava a credere che la comunità, il Paese dell’accoglienza, fosse reale. C’è chi ci ha creduto, chi è rimasto deluso e chi grazie a Riace ha cambiato la sua vita. Abbiamo fatto capire alle persone che era importante impegnarsi per gli altri, che si poteva restare nel proprio paese e costruire. Riace è diventata conosciuta in tutto il mondo.
E poi…
Dal 2016 è cambiata l’Italia ed il mondo, Riace è divenuto una delle realtà da contrastare e limitare. Un piccolo comune che aveva mandato un messaggio forte ai grandi del mondo con la sua rivoluzione della normalità. Anziché divisioni, muri ed egoismi in questo luogo si faceva prevalere il senso dell’accoglienza. Nei vicoli si incrociavano persone con il burqa, persone provenienti da diversi Paesi del mondo. Anche il cimitero a Riace è parte di un racconto di integrazione con migranti e riacesi, gli uni accanto agli altri. Siamo stati l’utopia della Calabria. Un’utopia che nasce dalle nostre caratteristiche più pure. Siamo una terra d’amore e d’orgoglio. Tu mi hai chiesto cos’è stato Riace e io mi domando: Cos’è stato il mondo rispetto a Riace? Cosa sono i porti chiusi? I lager in Libia? Le barriere che sono state alzate? E lo scaricabarile dei Paesi europei di fronte alle responsabilità sull’immigrazione?
Quindi sostieni che Riace abbia fatto paura?
È evidente che dal 2016 è iniziata una scientifica strategia per tentare di depotenziare il messaggio umano e politico di Città Futura, il suo mostrare come il Sud fosse capace di fratellanza e di sviluppo, di una crescita positiva. La politica non voleva questo, erano gli anni della paura dell’invasione dei migranti e poi è arrivato Salvini. Forse arriverà un momento in cui il messaggio di un mondo diverso non sarà più ostacolato, ma quel giorno non è oggi. Adesso si vuole ancora far credere alle persone che non si può cambiare. E il fallimento del progetto di Riace serve a questo.
Dal 2016, quando sei stato trascinato in tribunale, la tua non è stata più solo una lotta mediatica con i ministri dell’Interno (Minniti prima, Salvini poi). Cosa significherebbe la tua condanna per Riace?
Rispetto al processo voglio dire che sono combattuto. In caso di condanna il mio primo pensiero sarebbe si tratta di un ingiustizia, credo che abbiano già deciso la mia storia intorno ad un tavolo. Dall’altra parte sarei disposto a fare il carcere, ma con me dovrebbero farlo anche i poteri grigi nascosti di queste vicende. Non si può usare la vita delle persone. E comunque i miei ideali di una società giusta ed egualitaria me li porterei anche dietro le sbarre.
Nonostante tutto quello che è successo sei sceso di nuovo in politica, scegliendo di sostenere De Magistris e il suo movimento politico alle prossime regionali in Calabria. Non sei stanco?
Sono amareggiato. Ho preso l’impegno per queste elezioni sotto un impulso emozionale, anche perché De Magistris mi è stato molto vicino in questi anni. Quando sono stato raggiunto dall’ordinanza di divieto di dimora mi ha offerto ospitalità a Napoli. Anche se non ho accettato non dimentico il suo appoggio. Il fronte progressista è più sconvolto e diviso di quanto immaginassi, e purtroppo questo stato di cose lascia spazio alle politiche della destra reazionaria che hanno avuto un ruolo importante nella storia di Riace. Dal 2016 in poi credo che il cosiddetto fronte progressista, con Minniti come braccio militare, abbia cercato di fare la destra sul tema immigrazione convinto di poterne trarre un beneficio elettorale. In questo contesto Riace non portava bene, come dissero all’ex presidente della Calabria Oliverio in una telefonata. Riace era l’opposto della società disumana, senza pari dignità, senza pari diritti e pari doveri che ha tentato di costruire il “sistema Salvini”. Ma ridurre questa lotta alla sola Riace non è corretto. Il sistema politico tra il 2016 ed oggi ha criminalizzato i valori umani e chi li ha difesi, è successo anche alle Ong impegnate a salvare i migranti nel Mediterraneo.
Tu sei andato oltre le regole di un sistema ingiusto, hai varcato un confine per rispondere ai tuoi ideali. Qual è il limite da non superare?
Io ho difeso le persone e l’uguaglianza tra individui. Ho conosciuto queste persone e le umiliazioni che subivano, non potevo guardare da un’altra parte. Quando sono diventato sindaco ho giurato sulla Costituzione di difendere l’uguaglianza tra persone. Se c’è un’incompatibilità evidente tra rispetto dei diritti umani e legalità allora ritengo di dover seguire altre strade. E non dimentichiamoci che la legalità dipende anche dal periodo politico. I decreti sicurezza erano legge adesso non lo sono più. Mi domando: la legalità va bene, ma che fine fanno il diritto alla vita e alla tutela della salute? A volte le norme della politica vanno in un’altra direzione rispetto alla giustizia. Ed è giusto lottare per cambiare delle leggi ingiuste.
Uno dei temi centrali per lo sviluppo di politiche di potenziamento del Servizio sanitario nazionale oggi è sicuramente quello della tutela della salute mentale, soprattutto in una fase in cui emergono gli effetti collaterali della pandemia in termini di patologie non trattate per il prolungato periodo emergenziale, ma anche per gli effetti psicologici che ha prodotto sulla cittadinanza al venir meno di fattori e determinanti protettivi: lavoro, scuola, relazioni sociali, stabilità economica.
In effetti stiamo vivendo una fase molto delicata in cui la politica è chiamata a decidere sul destino e sull’organizzazione complessiva del Servizio sanitario nazionale pubblico ed universale come strumento fondamentale e principale per la tutela della salute psicofisica della popolazione; ma da un punto di vista strettamente economico i segnali a dir la verità non sono particolarmente incoraggianti, nella misura in cui a fronte delle enormi sfide che ci attendono e alle profonde criticità che la pandemia ha messo in luce, non è ancora per nulla chiaro il programma di investimento sanitario strutturale che il governo ha intenzione di mettere in campo complessivamente.
Per la salute mentale accogliamo con favore la mozione con la quale la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità il 16 giugno scorso un programma in 32 punti di potenziamento dei servizi, cosi come ci avviciniamo con entusiasmo a partecipare con l’Osservatorio salute mentale Fp Cgil medici e dirigenti Ssn alla II Conferenza nazionale per la salute mentale promossa dal ministero della Salute, tuttavia in rappresentanza dei cittadini e degli operatori abbiamo il dovere di segnalare che a tutt’oggi i piani di investimento proposti dal governo non vanno nella direzione di un potenziamento strutturale dei servizi, e i programmi proposti rischiano seriamente di rimanere disattesi.
In termini generali, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) contiene prospettive organizzative che, anche se molto articolate nel perimetro dell’assistenza territoriale, non sono in realtà sostenute da un definito piano di investimenti per il personale; anche nel Documento di programmazione economico e finanziaria (Dpfe) previsto per i prossimi anni, addirittura assistiamo ad un progressivo definanziamento del Fondo sanitario nazionale (Fsn) in rapporto al Prodotto interno lordo.
In questo panorama la situazione dei servizi di salute mentale è ancora più preoccupante, infatti al di là di qualche investimento a carattere esclusivamente transitorio, previsto nel Decreto sostegni bis per il sostegno psicologico nell’emergenza pandemia, non rintracciamo nessuna forma di finanziamento né organizzativo, né strutturale, né di personale stabile, nonostante in questi ultimi venti anni abbiamo assistito ad un drammatico arretramento dei finanziamenti nazionali e regionali destinati alla salute mentale, con un’inarrestabile contrazione degli organici e la progressiva precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Quasi tutte le Regioni sono ormai fortemente al di sotto del finanziamento minimo previsto per la salute mentale del 5% del Fsn, in Veneto siamo al 2,3% e non sono molte le Regioni che superano il 3%, con un’inevitabile e ormai insostenibile sovraccarico assistenziale per gli operatori a scapito dei servizi offerti ai cittadini. Un collega e amico in questi giorni parlando della difficile situazione mi ha detto: «È un momento molto critico, nel quale dobbiamo cercare di mantenere con equilibrio, e senza estremizzazioni ideologiche, i principi per la tutela della salute mentale pubblica e universale, sostenendo e valorizzando chi opera quotidianamente nei servizi».
In effetti è questa la responsabilità che viviamo forte nel sindacato, rilanciare il ruolo dei professionisti in una prospettiva di una nuova coesione tra cittadini ed operatori.
In salute mentale al contrario è accaduto troppo spesso che si è voluto inasprire il conflitto per certi versi inevitabile tra cittadini e operatori, attribuendo a questi ultimi le responsabilità di un’offerta di salute spesso scadente per il depauperamento di personale e strutturale dei servizi.
Oggi invece è più che mai necessario “ripartire dai professionisti per tutelare i cittadini” come recita il titolo della nostra ultima Assemblea. Valorizzare l’identità professionale e scientifica di chi assume la responsabilità della cura delle persone.
Anche la pandemia ci ha dimostrato che senza il contributo essenziale della scienza, della ricerca e della clinica, i programmi politici di contenimento del contagio si sarebbero comunque rivelati vani. Anche in salute mentale abbiamo bisogno di capire dalla scienza e dai professionisti quali interventi perseguire per la cura delle persone, superando i muri ideologici che al contrario impediscono la ricerca di una cura possibile per una vera alienazione dalla malattia mentale.
Il sindacato nello svolgere il ruolo fondamentale di rappresentanza dei lavoratori per il bene dei cittadini, può e deve diventare punto di riferimento nel dialogo con le istituzioni nella necessità di maggiori investimenti per il personale, per la formazione, per la ricerca, per un’offerta finalmente pubblica della psicoterapia, e per la prevenzione. È evidente quindi che è prima di tutto necessario recuperare il valore politico e culturale delle relazioni sindacali per rimettere al centro il dialogo con le parti sociali che hanno rappresentato nella storia il punto di forza di qualsiasi proposta innovatrice e riformatrice. Solo il dialogo tra la politica, le parti sociali e la scienza può ridare vigore al Servizio socio sanitario nazionale pubblico e universale per realizzare programmi di salute mentale di comunità realmente inclusivi e partecipati.
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L’autore: Andrea Filippi è psichiatra e segretario nazionale Fp Cgil Medici e Dirigenti Ssn
Psichiatra e psicoterapeuta che da anni lavora nel servizio pubblico Francesca Fagioli si occupa in particolare dello sviluppo psicologico del bambino e dell’adolescente e delle patologie che possono insorgere in quella fase delicata della vita. Docente della scuola di psicoterapia Bios Psychè e componente del comitato editoriale della rivista scientifica Il Sogno della Farfalla, a lei ci siamo rivolti per capire come potrebbe essere potenziato il servizio sanitario per la salute mentale dedicato agli adolescenti, e cosa si potrebbe fare di più e meglio per la prevenzione. Professoressa Fagioli, alla luce della sua esperienza anche in progetti di avanguardia per le acuzie, reputa sufficienti le cosiddette strutture di “primo intervento”?
In Italia il Servizio sanitario per la salute mentale dedicato agli adolescenti è sicuramente poco rappresentato e distribuito a macchia di leopardo sul territorio nazionale, non inserito in un programma condiviso ma lasciato a iniziative territoriali anche se molte di queste sono all’avanguardia. In che modo andrebbe implementato e migliorato il Servizio sanitario per la salute mentale dedicato agli adolescenti?
Sarebbe importante usare le buone esperienze dei progetti esistenti considerandoli pilota per replicarli in tutti i servizi come modelli da applicare su basi scientifiche che rispondano ai criteri di efficienza ed efficacia. La ricerca, la clinica, la distribuzione delle risorse e l’organizzazione dei servizi dovrebbero lavorare in modo condiviso per lo stesso obiettivo. Fondamentale è avere un’idea teorica su base scientifica che imposti culturalmente la prassi operativa. Quanto è importante la presenza degli sportelli d’ascolto nelle scuole?
Lo sportello di ascolto nelle scuole è una risorsa fondamentale per il lavoro di prevenzione. È fruibile da parte degli studenti ma anche dai docenti e dai genitori. Nel corso del tempo si è modificata l’idea, legata allo stigma, che chi accedeva al “Cic” così era chiamato, era un soggetto malato, un po’ “fuori di testa”. Ormai da vari anni i ragazzi che vengono allo sportello di ascolto sono adolescenti curiosi che pongono domande, alcune volte portatori di un malessere psicologico, altre volte preoccupati per un amico sofferente, ma comunque senza alcun senso di vergogna o d’imbarazzo nel venire a parlare con un operatore della salute mentale sia esso psicologo, infermiere o psichiatra. Con la didattica a distanza si è potuto sopperire a questo strumento?
Durante la Dad, dopo un’iniziale difficoltà, con l’aiuto fondamentale della scuola che ha saputo organizzarsi, le richieste sono diventate numerose, sia su segnalazioni del personale scolastico sia direttamente, per lo più legate a situazioni di ritiro scolastico, ma anche di cyberbullismo e disturbi del comportamento alimentare, con un incremento di richiesta da parte dei genitori, preoccupati, quasi “svegliati”, essendosi resi conto di essere parte attiva dello sviluppo psicologico dei figli. Lo sportello d’ascolto è una possibilità, un’opportunità, se l’operatore non risponde, non suscita simpatia, lo studente si alza e va via ma se trova una risposta e non solo un ascolto si crea un sottile filo che permette di intercettare le situazioni a rischio e individuare precocemente il malessere nascosto. Altre volte, più semplicemente, una spinta all’autostima dà una marcia in più per affrontare la crisi del momento. È vero che in Italia la salute mentale a livello pubblico è pensata quasi esclusivamente per gli adulti? Perché? Con quali conseguenze?
Le risorse della salute mentale per il 90 per cento sono destinate all’assistenza della cronicità, troppo poche quelle per l’acuzie e per la prevenzione. I servizi per adolescenti, per troppo tempo divisi dall’età in servizi di neuropsichiatria infantile e Centri di salute mentale adulti, nella veste nuova di servizi specifici per adolescenti, faticano a trovare applicazione. È necessario operare un cambio di paradigma che investa sulla prevenzione e sull’intervento precoce attraverso programmi di promozione della salute mentale, principalmente nelle scuole di ogni ordine e grado perché il malessere psicologico che esordisce in adolescenza ha le sue radici nella prima infanzia. Fondamentale intervenire quando la malattia mentale è ancora curabile e sui fattori e le relazioni che ne condizionano l’evoluzione. I dati degli ultimi giorni dicono che usciamo da un anno e mezzo di pandemia con un milione in più di poveri rispetto a prima dell’emergenza sanitaria. Tantissime famiglie sono alle prese con la crisi economica e la perdita del lavoro. E la politica non sembra in grado di dare adeguate risposte ai bisogni e alle esigenze dei giovani. Quali ripercussioni può avere sui ragazzi la preoccupazione per un futuro così incerto?
Sicuramente delle ripercussioni importanti. Però se da una parte sappiamo che l’aggravarsi delle condizioni sociali determina un aumento statistico di tutte le malattie e anche di quelle psichiatriche, non possiamo fare un semplice sillogismo che dice che più si è poveri e più si è a rischio di malattia mentale perché questo non è vero. La malattia mentale non è dovuta a fattori sociali anche se può essere aggravata da questi. Un altro dato preoccupante è la dispersione scolastica. Anche questa è aumentata durante la pandemia. Che effetti può produrre?
Viceversa il livello d’istruzione è un fattore protettivo nei confronti della malattia mentale e quindi sia l’incertezza sul futuro, sia la dispersione scolastica agiranno negli anni come determinanti negativi. Cosa si può “rispondere” a chi in questo lungo anno e mezzo sui media ha descritto i giovani come oziosi, indisciplinati, addirittura untori acuendo i pregiudizi contro l’età adolescenziale?
Come abbiamo più volte raccontato, i giovani fin dai tempi dei clerici vagantes sono sempre stati la parte più vitale della società con la ricerca di sapere e conoscenza. In quest’anno e mezzo di pandemia la maggior parte degli adolescenti è stata in grado di reagire con energia e intelligenza, anche se le condizioni d’isolamento sono state per loro più pesanti che per chiunque altro. Pensiamo solo al fatto di dover seguire le lezioni a distanza con la Dad e non poter frequentare i luoghi abituali di ritrovo che per loro costituiscono un’esigenza primaria. Ci sono state delle minoranze che in nome di un’apparente ribellione, che cela una fatuità, non hanno osservato le regole del distanziamento e le precauzioni necessarie. Come un altro fattore potenzialmente distruttivo che può aver portato a comportamenti oziosi, indisciplinati, addirittura antisociali, può essere ricercato nel fenomeno per cui ai giovani chiusi all’interno delle mura domestiche sono venute a mancare le solidità delle relazioni affettive esterne, dalla scuola allo sport, semplicemente agli amici e hanno visto aggravarsi conflitti preesistenti, sotto soglia, nascosti dalla routine della vita quotidiana in famiglia. Quindi, non untori o sprovveduti ma, alcuni giovani superficiali, alcuni giovani che si sono ammalati, ma sicuramente una gran parte sono stati ragazzi orgogliosi e coraggiosi che hanno lottato e che hanno cercato un sentire insieme per ricominciare.
Alle 19 di sabato scorso a Roma in via Marsala, di fianco alla stazione Termini Ahmed Brahim ha dato in escandescenze con un coltello in mano. Un agente della Polizia Ferroviaria dà l’allarme e sul posto arrivano alcuni poliziotti e uomini dell’esercito. Un video documenta gli attimi in cui l’uomo brandisce il coltello e i militari provano a tenersi a distanza di sicurezza colpendolo con un manganello. Ad un certo punto un agente della Polfer spara ferendo Brahim alla gamba. L’uomo è stato già denunciato per violenza e minacce a pubblico ufficiale in diverse occasioni, è irregolare in Italia ma al momento non è stato possibile espellerlo a causa delle difficoltà riscontrate nell’eseguire le procedure di riconoscimento presso i consolati competenti di Gambia, Costa d’Avorio e Ghana (sempre a proposito di chi sparla con molta superficialità di “rimpatri di massa” senza conoscere le enormi difficoltà nel sistema). Ora dovrà rispondere delle accuse di minacce e resistenza a pubblico ufficiale, porto abusivo d’arma e un’iniziale accusa di tentato omicidio che è poi subito decaduta: si trova ricoverato in ospedale piantonato e non è in pericolo di vita.
Come è ovvio che sia la Procura ha aperto un’indagine anche sul poliziotto. Chiunque sappia un minimo di legge sa perfettamente che l’apertura dell’indagine è un atto dovuto e chiunque sappia poco poco di democrazia dovrebbe immaginare che se qualcuno spara a qualcun altro ci siano delle indagini che accertino la dinamica degli eventi. È proprio una questione di “sicurezza”. L’istruttore dei militari, tanto per citare un parere, ha dichiarato che lui non avrebbe esploso nessun colpo non essendoci nelle immagini a disposizione i segnali di minacce imminenti verso gli agenti. Ma siamo sempre nel campo delle illazioni: nessuno meglio di una Procura può accertare con serenità i fatti. Le indagini sono a garanzia anche del poliziotto, ovviamente.
Cosa è accaduto? Ieri sobillati da Salvini e Meloni in molti ci hanno tenuto a vomitare odio e razzismo dichiarando di essere “dalla parte del poliziotto”, ovviamente basandosi sui processi direttamente sui social come piacciono ai due capipopolo sovranisti e una marea di odio verso la Procura (sono perfino tornate di moda le “toghe rosse” in alcuni commenti) ha invaso la rete. Giorgia Meloni aizza i suoi scrivendo «Incondizionata solidarietà all’agente: l’unico atto dovuto era intervenire per fermare un soggetto estremamente pericoloso, che con un coltello minacciava le Forze dell’ordine e avrebbe potuto fare del male a cittadini e passanti», emettendo direttamente una sentenza, dicendoci che stiamo a posto così. Evviva. Salvini riporta le parole della sedicente giornalista Annalisa Chirico che ci spiega come «solo in Italia se reagisci a un teppista che si agita con un coltello in mano finisci indagato», un’affermazione completamente falsa. Poi Salvini twitta una scena di poliziotti che salvano una bambina, che non c’entra niente con l’episodio di Termini, con una sua solita frase da bar: «Invece di essere indagati, donne e uomini in divisa andrebbero solo ringraziati!». Marco Gervasoni, il professore universitario indagato idolo dei sovranisti, ci mette tutto il suo spessore culturale e giuridico e scrive: «Ecco pazzesco la giustizia sta con i clandestini delinquenti come sempre».
Insomma, la loro idea di sicurezza è che se qualcuno in divisa spara un colpo non ci debba essere un organo che valuti le responsabilità. Non è proprio sicurissimo il Paese che hanno in mente ma sono troppo presi dalla propaganda per rendersene conto.
Gli stercorari sono scarabei che si nutrono di sterco e che raccolgono il loro nutrimento (per conservarlo o per deporvi le uova) facendone caratteristiche pallottole e facendole rotolare sul suolo. Se non fossero scarabei ma fossero segretari di partito o esponenti politici o “intellettuali” di riferimento quella pallottola la farebbero raccogliendo in giro le notizie di cronaca nera (meglio se con un clandestino di mezzo) per farle rotolare sul suolo dei loro seguaci e nutrire la rabbia e una visione utilmente ignorante (delle regole di una democrazia) per farne propaganda.