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I baciapile sono il problema

Toh, si stupiscono. La Chiesa fa la Chiesa, fedele al suo marchio e sempre in linea con il proprio marketing, decidendo di ergersi a moralizzatrice su un disegno di legge, il ddl Zan, che si propone di legittimare persone che dovrebbero essere libere e che invece devono nascondersi da una “caccia all’omo” (tanto per citare il bel libro di Simone Alliva) che imperversa. La Chiesa fa la Chiesa, appunto: figurati se può osservare senza spavento la libertà degli altri chi governa il proprio consenso con i dogmi, figurarsi se può guardare al progresso chi ha nella sua ragione di esistere un conservatorismo con duemila anni di storia.

Ieri la Chiesa ci ha fatto sapere che secondo loro la legge Zan violerebbe il Concordato. Una persona normale, laica e consapevole dell’importanza di vivere in un Paese laico, avrebbe colto al balzo l’occasione per rispondere che sì, che è vero, che quindi forse è davvero il caso di abolire il Concordato e invece come sempre accade la crosta clericale che affligge la nostra cultura popolare è riuscita a dare il peggio di sé. Penosa, lasciatemelo dire, la politica: una parte ha ovviamente preso la palla al balzo per fomentare la propria battaglia contro i diritti degli altri (normale e prevedibile: quando la Chiesa fa la Chiesa concima certa destra con grande fervore) ma l’altra (quella che dovrebbe essere laica) addirittura si imbarazza, arrossisce, ci fa sapere (come dicono fonti del Pd) che “si cercherà un’interlocuzione”. Ma davvero? Si va a discutere di educazione sessuale da chi la sessualità ce l’ha castrata per dogma (con pessimi risultati, tra l’altro)? Si discute di “famiglia naturale” con quelli di una roba a tre con un angelo? Dai, siamo seri, su.

La Chiesa fa la Chiesa, quello è il suo ruolo ed è legittimo che lo faccia ma che le ingerenze politiche ancora oggi ottengano risultati è qualcosa che davvero non si riesce nemmeno a scrivere. Ma non eravamo nell’era “della scienza” come ripetevano tutti? Che è successo? Ma vi immaginate un dibattito su una proposta di legge qualsiasi se domani l’Islanda ci facesse sapere di non apprezzarla? A proposito: ore meravigliose passate a osservare questi sovranisti in difesa della Patria che stanno godendo per l’invasione legislativa di uno Stato straniero come il Vaticano. Se arrivasse un cronista straniero, uno non figlio della cultura che permea questo Paese fintamente perbenista e paracattolico non troverebbe nemmeno un senso. La fede è la fede, la politica è la politica: mischiare le due cose è una manipolazione.

Siate fedeli, alla Costituzione e a quell’articolo 7 che dice «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Anzi cogliamo la palla al balzo e parliamo anche dell’8×1000 inoptato, dell’Imu sugli immobili della Chiesa, dei finanziamenti alle scuole paritarie, dell’ora di religione a scuola, del motivo per cui non si può parlare di eutanasia, cannabis, matrimonio egualitario. Insomma, se ci pensate sarebbe un assist non indifferente perché la sinistra faccia la sinistra.

Ma il problema non è il Vaticano che è stato spesso dalla parte sbagliata della Storia (pedofilia, inquisizione, pensiero magico e antiscientifico, oppressione delle donne, omofobia, sessismo, patriarcato) ma chi continua a permetterlo. Ancora. Il 23 giugno del 2021.

I baciapile sono il problema.

(A proposito: questo è un buon momento per smettere di considerare il Papa un riferimento per la sinistra, che dite?)

Buon mercoledì.

Fedeli alla linea

© Roberto Monaldo / LaPresse 27-05-2010 Citta' del Vaticano Interni 61ma assemblea della Conferenza Episcopale Italiana Nella foto Vescovi durante l'assemblea © Roberto Monaldo / LaPresse 27-05-2010 Vatican City 61th Assembly of the Italian Episcopal Conference In the photo A moment of assembly

Se ne sta in disparte la Conferenza episcopale italiana riguardo il dibattito sulla legge Zan. O almeno così pare. In realtà, come sempre quando di mezzo ci sono diritti civili “sgraditi” al Vaticano perché non coerenti con i capisaldi della cultura cattolica, anche in questo caso sono i vescovi a dettare la linea ai leader delle destre, e più in generale a tutti politici baciapile. Lo si nota mettendo a confronto i comunicati della Cei con le affermazioni fotocopia negli ultimi mesi dei vari Salvini, Meloni, Tajani e personaggi di contorno come Pillon. Quello che recitano costoro non è altro che lo spartito redatto dai vescovi quando nel giugno scorso il ddl Zan arrivò finalmente alla Camera (dove è stato approvato 5 mesi dopo). Non serve una nuova legge, «non solo non si riscontra alcun vuoto normativo, ma nemmeno lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni» ammoniva il 10 giugno 2020 la Cei paventando anche «derive liberticide» in realtà inesistenti. Secondo i vescovi infatti sottoporre «a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma – e non la duplicazione della stessa figura – significherebbe introdurre un reato di opinione». E ancora: «Ciò limita di fatto la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso». Sappiamo che questa affermazione è falsa (anche solo per via dell’articolo 4 del ddl Zan, vedi box). Tuttavia essendo di facile comprensione e quindi di facile diffusione non a caso è la più gettonata dai leader politici oltre che da organizzazioni integraliste come Pro Vita et similia che stanno facendo propaganda in ogni dove per far fallire il voto in Senato.

O meglio, quella affermazione è solo parzialmente vera. È vero infatti che la legge già oggi prevede che l’istigazione alla discriminazione e alla violenza per ragioni etniche, nazionali e religiose sia considerato un reato con un’aggravante per delitti commessi per finalità di odio etnico, razziale o religioso (legge Mancino).

Quel che non vogliono la Cei e i suoi sodali è che i crimini d’odio o le aggravanti fondate su ragioni di odio debbano valere anche quando il bersaglio sono persone Lgbt e disabili. Dire dunque che questa equiparazione rischi di punire penalmente la propaganda a favore della famiglia cosiddetta tradizionale è dire il falso e farlo consapevolmente. Perché significherebbe che la legge Mancino punisce anche il proselitismo religioso, cosa che palesemente non fa e questo la Cei lo sa benissimo. Però tutto fa brodo.

Perché tanta agitazione dei vescovi? Forse perché è fondamentale impedire che si disvelino definitivamente anche da noi venti secoli di reiterata negazione di diritti umani e civili basata su fandonie violentissime sulla realtà umana e intromissione nella vita privata dei cittadini. Un piccolo esempio. «Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati – cita il Catechismo al canone 2357 – Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita… In nessun caso possono essere approvati». E poi più avanti al canone 2360, il primo del capitolo intitolato “L’amore degli sposi”: «La sessualità è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna». La matrice di queste “idee” è il VI Comandamento (“Non commettere atti impuri”) ma non vi ricorda l’ultimo Tajani quando dice che la donna si realizza solo con la maternità e che la famiglia senza figli non esiste? La cultura della discriminazione delle persone omosessuali va dunque preservata perché porta con sé la visione dell’identità di donna che si realizzerebbe solo quando è moglie e madre. Una visione è bene ribadirlo tanto cara anche ai fascisti di ieri e di oggi.

È dunque lecito pensare che la strenua opposizione della Chiesa al ddl Zan vada ben oltre il rifiuto (a parole) dell’omosessualità. Addirittura potrebbe essere in gioco uno dei pilastri della cultura e del potere ecclesiastico il cui baricentro è in Italia. Forse è esagerato come pensiero. O forse no. Del resto sono ormai 25 anni che si tenta di varare una legge contro l’omofobia, visto che le prime proposte furono presentate nel 1996 quando era presidente del Consiglio Romano Prodi.

Nelle ultime tre legislature, prima del ddl Zan, il tentativo è stato poi affidato a parlamentari espressione dell’associazionismo Lgbt, come Franco Grillini o Anna Paola Concia, ma senza esito. Per capire in che modo la Chiesa gestisce queste situazioni e quale pericolo intraveda nel via libera al riconoscimento di determinati diritti, vale qui la pena ricordare cosa accadde alle due proposte di legge del 1996.

Nell’ottobre 1998, dopo la caduta di Prodi, il governo D’Alema volle “coprirsi” a sinistra mandando avanti temi sui diritti civili. Il deputato del Ppi Paolo Palma che ne fu relatore ha raccontato all’Ansa come andò. A fine maggio 1999, «una volta messo a punto il testo unificato volli confrontarmi con il mio vescovo (di Cosenza, ndr) e lui mi fece solo una piccola osservazione, peraltro di buon senso, che raccolsi». L’1 luglio 1999 il deputato cattolico presentò il testo unificato in Commissione. Come l’attuale testo Zan, si estendevano le sanzioni penali della legge Mancino ai comportamenti violenti o discriminatori motivati da ragioni di “orientamento sessuale”. In più vi erano norme sulla privacy e misure antidiscriminatorie sul lavoro e nella scuola. Il testo ebbe l’appoggio del governo e il sostegno della maggioranza (Ppi, Ds, Verdi, Socialisti) e del Prc.

L’opposizione ovviamente fu durissima, con An e Ccd in testa. Ci fu chi equiparò l’omosessualità alla pedofilia e chi, come Carlo Giovanardi (allora vice presidente della Camera), riuscì a dire che la legge avrebbe finito «per tutelare anche comportamenti sessuali quali il feticismo e l’ingresso nelle forze armate degli omosessuali dichiarati» (!?).

Dopo queste perle arrivò il primo siluro della Chiesa attraverso il cardinale Ersilio Tonini, influente “comunicatore” e molto presente in tv sui canali Rai durante gli anni Novanta: «Tonini non aveva letto il mio testo – racconta Palma – e fu subornato da Giovanardi, il più feroce avversario alla Camera». Il 2 ottobre 1999 Pieluigi Castagnetti venne eletto segretario del Ppi e chiese a Palma di andare a parlare con la Cei per tranquillizzarla: «Non ero entusiasta perché non mi piaceva l’idea che il legislatore dovesse passare gli scrutini della Chiesa, ma andai. Incontrai mons. Betori (che nel 2001 sarebbe diventato segretario generale della Cei, ndr) a cui spiegai che la legge non avrebbe scassato le famiglie ma solo protetto da discriminazioni e violenze delle persone deboli, ed era quindi una legge cristiana». «Lei ha ragione – disse Betori a Palma – ma noi guardiamo lontano; se ad un muro togli un mattone, poi l’edificio crolla». Una frase che da sola spiega tutto, no? Palma incontrò successivamente anche mons.


Antonelli, allora segretario generale della Cei, ma evidentemente non lo convinse. «Fecero delle pressioni fortissime per fermare tutto». In effetti poco dopo il governo D’Alema preannunciò un proprio disegno di legge che bloccò l’iter della legge, e dopo la sconfitta del centrosinistra alle regionali del 2000, l’esecutivo cadde. Il muro vaticano aveva tenuto.


L’articolo è tratto da Left del 14-20 maggio 2021

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La dittatura Montesanitaria

L’altro ieri Enrico Montesano, triste come possono essere tristi i comici quando non fanno più ridere, ha pensato di condividere un video in cui sputare i suoi soliti ridicoli complotti sulla pandemia. Sosteneva che secondo una fonte «di rango» dell’Avis il sangue dei vaccinati anti Covid19 si sarebbe coagulato, tanto che i centri avrebbero gettato via le sacche. Per chi non sapesse il comico che non fa ridere già da tempo si è ritagliato il suo piccolo palcoscenico tra la platea di no vax, negazionisti e complottisti vari.

L’Avis ha risposto direttamente sul suo sito facendo rimediare a Montesano una figura barbina: «Donare il sangue dopo aver ricevuto il vaccino contro il Covid non comporta alcun rischio né per il donatore stesso né per i pazienti a cui trasfonderlo. Affermare il contrario, come ha fatto il signor Enrico Montesano nel suo video, è un gesto altamente pericoloso per gli equilibri del nostro sistema sanitario, ma in particolare lesivo nei confronti di Avis e di tutti i donatori che, quotidianamente, compiono questo gesto di solidarietà, a garanzia del diritto di cura di ogni malato», ha scritto il presidente Gianpietro Briola, aggiungendo di comprendere «la voglia di notorietà e pure la convinzione delle proprie idee» (cattivi, eh) chiarendo che «temi come questo non devono basarsi su percezioni, paure o, peggio, diffamanti affermazioni».

Montesano, che come tutti i ribelli diventa pecora appena ha paura di essere toccato sul portafoglio, ha fatto un nuovo video in cui ritratta poi ci dice che comunque ha il diritto di avere le sue idee e che è un uomo libero e che la colpa è del governo e tutto il resto. Mi sono permesso di rispondergli con un commento (mi capita raramente di farlo) che diceva così:

«Vedi caro Montesano, l’aspetto più triste non è l’enorme boiata che hai sparato
su sangue che si coagula e sacche “buttate via”, recitata con la stanca boria che
contraddistingue un attore a corto di repertorio. L’aspetto più inquietante è che in un momento come questo l’Avis abbia dovuto spendere tempo e energie per
rispondere al letame che irresponsabilmente hai sparso per ottenere un qualche
timido applauso ammaestrato. E poi c’è un punto, ancora più sostanziale:
nonostante l’enorme figura barbina che sei riuscito a collezionare ancora spendi
un po’ di presunzione a parlare di “mezzi di informazione”, tu che scambi per
“informazione” il “sentito che” per moltiplicarlo ai tuoi fans. Vai controcorrente
come vanno controcorrente quelli che per distinguersi semplicemente dicono il
contrario, sapendo che è più facile spiccare tra i cretini che lì dove contano le
opinioni e le prove alle proprie tesi. Giochi a fare il protagonista di una scemotta
commediola che andrebbe in seconda serata scambiando la ridicolaggine per
comicità. E ancora scrivi “ho le mie idee” come se il fatto siano tue basti a
leggittimarle. Tu hai le tue idee. Noi abbiamo il diritto di additarle come cretine».

E sapete cosa ha fatto Enrico Montesano il difensore della libertà di avere idee cretine? Mi ha bannato. Anzi, come direbbero loro, mi ha “censurato”, probabilmente perché sono contro i poteri forti. O probabilmente perché anche lui, come capita spesso, reclama solo il diritto di avere idee che siano confacenti alle sue. Il sovranismo delle opinioni, insomma.

E allora ho capito: ha ragione Montesano, siamo nel bel mezzo di una dittatura Montesanitaria.

(Se passate di lì salutatemelo, fategli leggere questo pezzo, raccontategli di un povero giornalista oscurato dal sistema, vittima del Montesanamente corretto)

Buon venerdì.

A proposito: vi siete abbonati qui, vero?

Figliuolo, ci siamo persi il tracciamento

Foto Marco Alpozzi/LaPresse 14 Aprile 2021 Torino, Italia Cronaca Apertura del nuovo centro vaccinale del Lingotto a Torino. Nella foto: Francesco Figliuolo, commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 Photo Marco Alpozzi/LaPresse April 14, 2021 Torino, Italy News Opening of the new Lingotto vaccination center in Turin. In the pic: Francesco Figliuolo,

Cinquanta casi di Covid su 100mila abitanti ogni sette giorni. Nell’ultima settimana di maggio, quasi tutte le regioni sono rientrate al di sotto di questa soglia. Tutte, nella prima di giugno. Ora, potrebbe sembrare un traguardo simbolico. Ma non lo è. Per almeno due motivi, che ci riguardano da vicino.

Primo. Restare per tre settimane consecutive al di sotto di questo livello di incidenza del contagio è il criterio principe fissato per far transitare le regioni nella bramata “zona bianca”. Secondo. Non oltrepassare i cinquanta contagi alla settimana ogni 100mila cittadini è il presupposto base perché possa riprendere un tracciamento sistematico del contagio. Da mesi l’Istituto superiore di sanità continua a ribadire il concetto: solo se non si supera questa asticella si potrebbe tornare a tracciare seriamente, e dunque a “contenere” la diffusione del virus, non più solo a “mitigarla”.

Tracciare bene, in questa fase, è una partita decisiva per evitare nuove sofferenze e restrizioni. Ma, al momento, la stiamo perdendo. E troppo poco è stato sinora l’impegno del governo e del commissario all’emergenza sanitaria Figliuolo su questo frangente. Peraltro, per iniziare a cambiare rotta, basterebbero alcuni accorgimenti non troppo impegnativi. Ma raccontiamo questa vicenda dall’inizio.

Come funziona, ad oggi, il tracciamento? Si svolge in due modi. C’è quello “analogico”, tradizionale per così dire, effettuato di persona dagli operatori dei Dipartimenti di prevenzione delle Asl, e quello “digitale”, 2.0, realizzato con l’app Immuni. Entrambi i metodi sono fondamentali, ora più che mai. Per diversi motivi. Innanzitutto perché il…


L’articolo prosegue su Left dell’18-24 giugno 2021

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Per il logorio del giornalismo moderno

È accaduto qualcosa di significativo negli ultimi giorni intorno alla sentenza con cui il Tar del Lazio ha dato ragione all’avvocato Andrea Mascetti, uomo molto vicino alla Lega e a Attilio Fontana protagonista a ottobre 2020 di una puntata di Report intitolata “Vassalli, valvassori e valvassini” che indagava sugli appalti pubblici in Lombardia.

Nella sentenza del Tar si legge che Mascetti aveva chiesto di accedere a tutto il materiale informativo, in particolare «tutte le richieste rivolte dai giornalisti e dalla redazione di Report, tramite e-mail o con qualsiasi mezzo scritto o orale, a persone fisiche ed enti pubblici (Comuni, Province, ecc.) o privati (fondazioni, società, ecc.), per ottenere informazioni e/o documenti riguardanti la persona dell’avv. Andrea Mascetti e la sua attività professionale e culturale».

Nella sentenza sostanzialmente si equipara l’attività dei giornalisti della Rai a una mera attività amministrativa (e per questo stiamo parlando di Tar) con un obbrobrio giuridico che appare subito evidente che di fatto discriminerebbe i giornalisti Rai rispetto a qualsiasi giornalista di qualsiasi testata privata impedendo nel servizio pubblico il giornalismo d’inchiesta. Il Tar infatti chiede di pubblicare “dati” e “informazioni” detenuti dalla Rai, perché giudica la Rai sul piano dell’accesso documentale, assoggettabile ai “gestori di pubblici servizi” pur nella sua veste formalmente privatistica di S.p.a. e pur agendo mediante atti di diritto privato. Per il Tar il segreto della fonte non è applicabile sullo scambio di mail tra i giornalisti di Report e i dipendenti della pubblica amministrazione, perché equipara il lavoro giornalistico svolto in Rai a un atto amministrativo.

E qui sta il punto: un nutrito gruppetto di indignati dalle parti di Italia Viva (con il solito deputato renziano Luciano Nobili usato come ariete) ha cominciato a fare burocraticissime lezioni di giornalismo spiegandoci che il tribunale non ha richiesto di svelare le fonti (come se il mostrare la corrispondenza non sia di fatto un disvelamento delle fonti) e insistendo con la tiritera che la “Rai la pagano i cittadini” e che quindi, secondo l’idea di alcuni renziani e di una certa cricca, dovrebbe essere “servile” più che servire il proprio mandato editoriale. Ovviamente tutta gente che ha usato il giornalismo come megafono e che non ha idea di cosa significhi proteggere una fonte.

L’odio dei renziani nei confronti di Report (colpevole di avere toccato il loro illustre capetto) ha raggiunto livelli infimi nel fingere di essere esperti di giornalismo per vendicarsi con il loro nemico, il conduttore Sigfrido Ranucci in testa, con lo stesso populismo che fingono di combattere e che invece praticano tutti i giorni tutto il giorno. Dal canto suo Ranucci ha già dichiarato che non svelerà le fonti e che proteggerà il suo essere giornalista, incassando ovviamente la solidarietà di molti.

Chiariamo un punto: se qualcuno si sente diffamato da un servizio giornalistico ha la facoltà di agire per vie legali, presentando una querela e lasciando valutare un giudice. Che il Tar possa diventare l’ufficio “sputtanamento delle fonti” con una semplice richiesta di accesso agli atti sancisce la fine di qualsiasi giornalismo d’inchiesta in Rai, con buona pace dei potentati di turno.

Ma l’aspetto grave è anche altro: l’irresponsabilità di un partito politico (con più parlamentari che elettori) che per vendetta personale non si accorge di logorare il giornalismo tutto inserendosi in un’antica delegittimazione del giornalismo sfruttando qualsiasi occasione (da parte di molte forze politiche) sognando un Paese inzerbinato. Sono quelli che pensano di potersi togliere qualche sassolino di vicende personali senza rendersi conto di concorrere a un progetto di logoramento molto più ampio.

I soliti piccoli cortili che convergono nel rendere ogni giorno questo Paese peggiore. La convergenza dei cretini più o meno inconsapevoli morde ogni giorno le fondamenta della democrazia. Avanti così. Buon lunedì.

 

Srebrenica, l’ultimo oltraggio

Former Bosnian Serb military chief Ratko Mladic imitates taking pictures as he sits the court room in The Hague, Netherlands, Tuesday, June 8, 2021, where the United Nations court delivers its verdict in the appeal of Mladic against his convictions for genocide and other crimes and his life sentence for masterminding atrocities throughout the Bosnian war. (AP Photo/Peter Dejong, Pool)

Nell’ora della sentenza di condanna definitiva di Ratko Mladić, ex comandante dell’esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, all’ergastolo per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel conflitto armato, Srebrenica è silenziosa come nei giorni in cui le ferite si approfondiscono. Le strade sono vuote, un silenzio che pare un urlo strozzato.
La barbarie compiuta tra il 10 e il 19 luglio del 1995, di cui Mladić è stato ritenuto colpevole, è una ferita non trattata, ancora priva del riconoscimento tra vittime e carnefici. Dopo tre anni di assedio di Srebrenica, le milizie guidate dal generale serbo bosniaco perpetrarono il genocidio più grande in Europa dalla Seconda guerra mondiale ai danni della popolazione maschile locale e dei profughi bosgnacchi (i bosniaci musulmani). In pochi giorni scomparvero oltre ottomila persone.

L’8 giugno, data del pronunciamento del Meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali (Irmct), l’organo che ha preso il posto del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia delle Nazioni Unite (Icty), sul processo d’appello Mladić, a Srebrenica, a parte una nutrita presenza dei media, non c’è stata nessuna particolare manifestazione.
«Credo che ognuno tra le mura domestiche conduca le proprie battaglie interiori e si stia misurando con alcune verità. I leader religiosi e politici continuano a manipolare le paure, i numeri e la verità. Le persone restano schiavizzate dai rispettivi traumi e dalle sofferenze che li consumano. A volte credo che noi, cittadini di Srebrenica, saremo inghiottiti da questi inammissibili silenzi».

A parlare è Valentina Gagić Lazić, tra le anime della comunità interetnica Adopt Srebrenica, nata nel 2005 con il sostegno della Fondazione Alex Langer, che è un laboratorio di socialità e convivenza. Lei è arrivata in città nel settembre del 1995 con il marito, anch’egli un profugo serbo bosniaco. Ha riconosciuto e preso piena coscienza del genocidio, quando i profughi musulmani hanno cominciato a tornare. Dal 1999 lavora insieme alle donne di Srebrenica, che nel luglio del 1995 hanno visto svanire padri, mariti e figli.
La sede dell’associazione dista pochi chilometri dai ruderi dell’ex base Onu di Potočari, dove sembra di respirare ancora la solitudine e il terrore vissuti dalle migliaia di persone che vi cercarono inutilmente la salvezza davanti all’inerzia e alla resa dei Caschi blu olandesi. Sull’antistante collina di Potočari, nel Memoriale aperto quindici anni fa, giacciono le spoglie mortali di 6.539 dei 6.973 bosgnacchi finora riconosciuti grazie all’esame del Dna.
«A cinque chilometri da qui, nella cittadina di Bratunac, alla vigilia della sentenza si è tenuta una celebrazione in onore di Mladić – dice Emir Suljagić, direttore del Memoriale del genocidio di Srebrenica -. Esiste un…


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Ana, Ado, Monica e i due generali

In una fiaba dei Balcani si racconta di un pastore che mentre faceva pascolare le sue pecore vide un serpente in mezzo alle fiamme. Dopo essere stata salvata dal fuoco, la serpe, per ricompensare il pastore, lo conduce al cospetto di suo padre, lo zar dei serpenti.
«Tu non pretendere nulla», disse la serpe al pastore «chiedigli soltanto la lingua indicibile».«Come posso ricompensarti per aver salvato mio figlio?» chiese lo zar al pastore. «Non voglio nient’altro che la lingua indicibile», rispose il pastore. Allora lo zar si avvicinò alla bocca del pastore e ci sputò dentro: «Ora hai la lingua indicibile. Bada però di non dire niente a nessuno, altrimenti morirai all’istante».
Ado ha otto anni nel luglio del 1995. Suo padre è rimasto a Srebrenica mentre lui, insieme alla madre e i due fratellini, si è rifugiato a Tuzla.
Monica, all’inizio del 1993, ha solo diciannove anni ma è già una delle più grandi campionesse di tennis di tutti i tempi battendo ogni record dentro e fuori la Jugoslavia.
Ana vive in una bella casa di Belgrado. È prossima alla laurea in medicina e sul finire del 1993 riesce perfino a vedere un bel futuro davanti a sé.
Un anno prima, allo scoppio della guerra in Bosnia, due generali, entrambi serbi di nascita, si ritrovano dalle parti opposte della barricata. Ratko, che ha posto l’assedio alla città di Sarajevo, il più lungo dai tempi di Varsavia, domina la città dai monti circostanti; Jovan, invece, è risoluto a restare nella città assediata a difesa delle donne e dei bambini. Senza distinzioni. Non ha paura.
Ratko è stato membro della Lega dei comunisti Jugoslava: è jugoslavo e serbo, si professa ateo ed è un fervente cristiano ortodosso, un nazionalista; è affascinato dalle api e dopo aver occupato un villaggio, uccidendo gli uomini e violentando le donne, si reca personalmente a dare da mangiare alle bestie: «Anche le bestie devono sapere che sono arrivati i generali».
Jovan è semplicemente un uomo.
Monica non ha paura quando scende in campo. Ha sfidato e sconfitto tutte le avversarie: Evert, Navratilova, Sabatini, ma soprattutto ha spodestato dal trono la regina incontrastata del momento, la tedesca Steffi Graff.
Ado a Tuzla vede dalle finestre senza vetri il cielo illuminarsi di scie luminose e pensa che siano fuochi d’artificio quelli che passano sulla sua testa. La mattina, per mano alla madre, bussa alle porte delle case in cerca di un tozzo di pane.
Ana, ad un passo dalla laurea, si è guadagnata un viaggio premio a Mosca. È la prima volta che esce dalla Jugoslavia, fuori dalla Serbia.
Un mese di guerra è un evento terribile, un anno è atroce. Tre diventano la nuova condizione umana.
Fin dal 1991 Ratko è…


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Clara Gallini, l’esploratrice della terra sconfinata

Esistono studiosi che rifuggono da ogni facile inquadramento e incasellamento, giocano e plasmano i confini con l’originalità del loro pensiero. Clara Gallini è stata certamente tra questi. Come antropologa si è avventurata per i percorsi più svariati: dal folklore sardo all’Ottocento italiano, dal razzismo alla rete, fino al ritorno del simbolismo della croce. A novant’anni dalla nascita, l’uscita per le Edizioni Kurumuny di una sua nuova raccolta, Chiaroscuri. Storie di fantasmi, miracoli e gran dottori, ci offre l’occasione di ripensarne l’itinerario.

Cremasca di origine, si laureò in lettere classiche a Milano con una tesi di storia delle religioni e si perfezionò alla scuola romana di Raffaele Pettazzoni. Nel 1959 l’incontro che avrebbe cambiato la sua vita: Ernesto de Martino le propose, senza conoscerla ma sapendola molto brava, di seguirlo come assistente all’Università di Cagliari. La Sardegna, «la sua immagine poteva bastare per far paura a molti», ricorderà in seguito l’antropologa. Ma Gallini rispose e non ne venne nessuna sventura.
Delle pagine demartiniane del Mondo magico non aveva allora capito molto, confesserà, solo una cosa: «Che lì dentro c’era qualcosa di forte, dirompente, un pensiero vivo e attivo, che coniugava la nostra vita con quella degli altri». Da questa intuizione hanno preso le mosse i suoi primi studi, sull’argismo sardo, e tutta la sua ulteriore vita di ricerca. Ha tracciato un percorso autonomo rispetto a quello del maestro, tenendone però sempre ferma l’impostazione di metodo radicale e rivoluzionaria. Di fronte all’inaspettato che si incontrava sul campo, la domanda da farsi non era sulla “verità” o la “falsità” dei fenomeni magici, ma sul loro significato storico-culturale, restituendo alle donne e agli uomini il senso delle loro storie.

Nel 1983 esce La sonnambula meravigliosa (ripubblicato nel 2013). Un salto vertiginoso dal mondo insulare mediterraneo indietro fino all’Ottocento. Inizia per Gallini una ricerca sul manifestarsi, agli albori della contemporaneità, di fenomeni strani, imprevisti, apparentemente fuori tempo massimo. Sonnambule e magnetisti, spiritisti e fantasmi, miracolati e medici. È una storia nuova. Qui risiede l’estrema originalità del pensiero galliniano, la fondazione storico-antropologica di uno sguardo sull’Ottocento che, fino a quel momento, non era stato ancora tentato, un’etnografia del meraviglioso. È questo filone di ricerca che il volume appena edito ci permette di esplorare: una raccolta dei suoi articoli sparsi cui l’autrice stessa stava lavorando nel 2017, alla sua morte, e per la quale aveva già scritto un saggio inedito. I testi qui riproposti costituiscono, con il volume dell’83, una…


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Sulcis, l’ultima fabbrica

Le pale eoliche volteggiano ai lati della lunga striscia d’asfalto che porta a Portovesme, l’acciaio arrugginito dei silos, i fumaioli colorati che svettano nel cielo e i lunghi condotti nella zona industriale convivono con la natura selvaggia e arcaica del Sulcis, zona di nuraghi e miniere. Ancora oltre la strada finisce a Portoscuso, c’è la banchina e il mare da dove partono i traghetti per Carloforte. La prima volta che venni da queste parti accompagnato da un sindacalista, mi disse che questo complesso è un puntino insignificante nella cartina geografica, la cultura industrialista di questa zona mineraria tende da sempre a minimizzare le questioni ambientali, invece è uno dei 43 siti nazionali ad alto rischio ambientale, come Balangero, Porto Marghera, Livorno, Taranto, la macchia nera di questa zona della Sardegna meridionale sulle mappe è la più scura ed estesa, se la batte con il litorale Domizio Flegreo della Terra dei fuochi. In questi siti, chiamati Sin (Siti di interesse nazionale per le bonifiche ambientali) i decessi per tumori vengono definiti da studi scientifici “in eccesso”, cioè più alti della media italiana, ma è stata rilevata anche la presenza del cloroformio, e si pensa che siano stati scaricati qui illegalmente anche residui altamente tossici di altre lavorazioni industriali.

Questa è stata storicamente zona di miniere, Carbonia è a un tiro di schioppo, la città del carbone simbolo dell’autarchia mussoliniana costruita in soli due anni sotto il monte Sirai, nelle vicine Fluminimaggiore, Buggerru, Arbus e Ingurtosu c’erano invece i siti metalliferi, terre di epica delle lotte operaie raccontate da Sergio Atzeni ne Il figlio di Bakunin (Sellerio) narrazione corale che cerca di ricostruire la figura eccentrica di Tullio Saba, figlio di calzolaio, agitatore anarchico e minatore, eroe romantico, sciupafemmine e ribelle. L’ultima miniera, quella di Monte Sinni a Nuraxi Figus è stata chiusa definitivamente nel 2019. Proprio dalla crisi del mondo minerario nacque questa zona industriale che sto attraversando in auto, ormai quasi completamente dismessa e desertificata, l’unica fabbrica ancora attiva è la Portovesme srl della multinazionale Glencore, di cui vedo le ciminiere fumanti in lontananza, produzione di zinco da fumi d’acciaio, di cui riesce a recuperare solo il 10%, il resto va in scorie, poi ci sono i 40 milioni di tonnellate di fanghi rossi dell’…


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Vaccini, perché nessuno ha pensato all’esproprio dei brevetti?

FALMOUTH, ENGLAND - JUNE 11: People's Vaccine Alliance campaigners pose as G7 leaders fighting over a COVID- 19 Vaccine US President Joe Biden is the only G7 leader to back a waiver on intellectual property of vaccines that would allow mass production to vaccinate the world on June 11, 2021 in Falmouth, England. Environmental Protest Groups gather in Cornwall as the UK Prime Minister, Boris Johnson, hosts leaders from the USA, Japan, Germany, France, Italy and Canada at the G7 Summit in Carbis Bay. This year the UK has invited Australia, India, South Africa and South Korea to attend the Leaders' Summit as guest countries as well as the EU. Protest groups hope to highlight their various causes to the G7 leaders and a global audience as the eyes of the world focus on Cornwall during the summit. (Photo by William Dax/Getty Images)

In Italia sono più di 127mila le vittime da Covid-19. E dal 21 dicembre 2020 (più di sei mesi) esiste almeno un vaccino per impedirne la trasmissione. Ad oggi i quattro principali vaccini somministrati in Italia (Pfizer, Moderna, AstraZeneca e Johnson & Johnson) vengono prodotti e distribuiti dalle omonime aziende farmaceutiche. Gli Stati, dopo aver investito nella ricerca pubblica per studiare e contrastare il Covid-19, concludono accordi privati – nel caso di quelli europei delegando i contratti di fornitura all’Unione – con le aziende che hanno sfruttato queste ricerche per produrre e vendere i vaccini in tutto il mondo. Di fatto, l’Italia, come l’Europa, dipende dalle scelte di multinazionali farmaceutiche, potendo recriminare su ritardi o carenze informative (assistiamo all’ennesimo dietrofront del ministero della Salute, questa volta per i vaccini AstraZeneca e Johnson&Johnson per le persone sotto i 60 anni) solo mediante gli strumenti del diritto privato, impugnando i contratti di fornitura, minacciando cause milionarie contro aziende plurimiliardarie.

Dicevamo, 127mila morti in Italia. Il vaccino è stato autorizzato dalla Commissione europea il 21 dicembre 2020 e il giorno dopo dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Con lo sfruttamento dello stesso a fini speculativi di poche, grandi, aziende. Eppure, il nostro Paese, avrebbe potuto agire diversamente. Gli articoli 141 e 142 del Codice della proprietà industriale prevedono la possibilità che il presidente della Repubblica espropri per decreto il brevetto di una azienda privata in caso di emergenza o di rischio per la pubblica sicurezza. E a ben vedere, una pandemia, rientra tra quelle ipotesi. Tale scelta avrebbe consentito allo Stato di…


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