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Il sottosegretario dei migliori

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 27-08-2020 Albano Laziale (Roma) Politica Matteo Salvini presenta i candidati sindaci per i castelli romani Nella foto Claudio Durigon Photo Roberto Monaldo / LaPresse 27-08-2020 Albano Laziale (Italy) Public meeting of Matteo Salvini in Albano Laziale In the pic Claudio Durigon

Fanpage in una sua inchiesta che (c’è da scommetterci) difficilmente passerà nei telegiornali nazionali racconta la transizione politica dell’attuale sottosegretario all’Economia Claudio Durigon, uno dei fedelissimi di Salvini (e infatti per niente amato dalla Lega vecchia maniera). Ve lo ricordate Matteo Salvini quando tutto fiero presentava i suoi uomini nel governo Draghi? «Questo è il governo dei migliori?» gli chiese una giornalista e lui rispose «certo questi sono gli uomini migliori della Lega».

Bene, eccolo il migliore: come racconta benissimo Fanpage, Durigon è uno che avrebbe gonfiato i dati degli iscritti del sindacato Ugl di cui era dirigente, riuscendo a dichiarare 1 milione e 900mila iscritti mentre erano (forse) 70mila. Sapete che significa? Che stiamo continuando a parlare di una rappresentatività dopata che non esiste nella realtà (questo anche a proposito del nostro Buongiorno di ieri sulla sparizione del salario minimo dal Pnrr, su cui torneremo). Durigon da sindacalista ha avuto piena gestione sulla cassa da cui potrebbero essere passati i movimenti che la Lega non era libera di fare per quella storia dei suoi 49 milioni di euro. Durigon ha fatto prostituire un sindacato (pompato) alla Lega per ottenere qualche candidatura. Poi ci sono le amicizie che sfiorano certa criminalità organizzata nel Lazio (ma i lettori più attenti lo sapevano da tempo che certi clan hanno fatto campagna elettorale nel Lazio per Lega e Fratelli d’Italia) e infine c’è quella registrazione vergognosa in cui Durigon tutto sornione confida di non avere nessuna preoccupazione sulle indagini sui soldi della Lega perché il generale della Guardia di Finanza che se ne occupa è un uomo che hanno “nominato” loro: «Quello che fa le indagini sulla Lega lo abbiamo messo noi»

Tutto grave, tutto gravissimo. Tra l’altro fa estremamente schifo anche questo atteggiamento di politici con il pelo sullo stomaco che ancora si atteggiano come i peggiori politici socialisti, i peggiori unti democristiani che sventolavano il potere come se fosse un mantello, per piacere e per piacersi. Fa schifo questa esibizione dello scambio di favori. Fa schifo tutto.

Fa schifo anche Salvini che ieri alla Camera ha risposto ai rappresentanti del M5s che sottolineavano l’inopportunità di un tizio del genere come sottosegretario mettendosi a parlare di Grillo. Il solito gioco da cretini di buttare la palla in tribuna. Il solito Salvini. Se posso permettermi è parecchio spiacevole anche il composto silenzio del Pd che vorrebbe rivendere il poco coraggio come diplomazia. Siamo alle solite.

C’è però anche un altro punto sostanziale: della vicinanza tra Durigon e uomini della criminalità organizzata durante la sua campagna elettorale ne avevano scritto un mese fa Giovanni Tizian e Nello Trocchia su Domani, degli intrecci mafiosi su Latina ne scrivono da anni dei bravi giornalisti chiamati con superficialità “locali” e che invece trattano temi di importanza nazionale. Sembra che non se ne sia mai accorto nessuno e questo la dice lunga sulla percezione che in questo Paese si continua ad avere della criminalità organizzata. Anche questo fa piuttosto schifo.

Buon venerdì.

Ricominciare dalle esigenze dei ragazzi

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 07 Aprile 2021 Roma (Italia) Cronaca : Protesta degli studenti in occasione delle riapertura Nella foto : lo striscione aperto dagli studenti davanti al liceo Ennio Quirino Visconti April 07, 2021 Roma (Italy) News : Students protest in occasion of the school reopening after Easter vacation In The Pic : the banner exposed by the students in front of Ennio Quirino Visconti high school

La verità è che siamo stanchi. Questo anno scolastico è stato faticoso, a partire da settembre non abbiamo fatto altro che cercare di adeguarci alle normative e agli interventi che si sono susseguiti ad un ritmo inconsulto proponendo soluzioni improbabili: dalla distanza delle rime buccali, al balletto sugli acquisti dei banchi con le rotelle passando attraverso l’iniziale divieto di scambio del materiale didattico per arrivare alle chiusure degli edifici scolastici con conseguente Dad o Ddi, applicata in forme differenti e a macchia di leopardo a seconda degli ordini di scuola o del colore della Regione.

La politica si è occupata di scuola dichiarando di pensare alla tutela della sicurezza, ma è piuttosto evidente che il criterio base di ogni provvedimento è stato quello di permettere ad un numero più ampio possibile di genitori di poter lavorare, in casa o fuori, senza doversi occupare dei figli. Solo in seconda istanza l’obiettivo è stato limitare i contagi. Dalla scuola dell’infanzia fino alle scuole medie, quando non si era in zona rossa, si è tornati in presenza perché in quella fascia di età i bambini e le bambine non potevano restare da soli a casa, mentre gli adolescenti che frequentano le scuole superiori, e sono più autonomi, a casa ci sono rimasti per la maggior parte del tempo sperimentando le forme più disparate di didattica a distanza. E di solitudine. («Il mio inferno è il vuoto della mia solitudine», ha scritto una mia alunna).

Nel frattempo il dibattito pubblico intorno alla scuola ha spesso assunto una forma polarizzata riducendo la discussione a due posizioni contrapposte: scuole aperte a tutti i costi oppure didattica a distanza come unica possibilità per tutelare la salute e la sicurezza di tutti proponendo in questo modo soluzioni sempre parziali e, quindi, inefficaci e insoddisfacenti.

Come se si potesse semplificare una realtà sociale complessa come è quella della scuola. Come se fosse impossibile pensare soluzioni diverse, integrate, inedite, che in molti avevano in realtà ipotizzato già dall’estate.
Intanto insegnanti, bambini e bambine, ragazzi e ragazze hanno continuato a fare scuola cercando comunque di muoversi dentro quei vestiti che altri gli hanno cucito addosso e che erano sempre troppo stretti o troppo larghi, troppo pesanti o troppo leggeri, difficilmente adatti alla realtà per la quale avrebbero dovuto essere disegnati.
Forse perché quella realtà non era stata né vista né guardata.

La sensazione, dopo tutti questi mesi, è proprio questa: che la scuola sia stata poco guardata e poco pensata e, soprattutto, siano stati poco pensati loro: i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che sono il corpo, il volto e il senso della scuola. La pandemia ci ha colti tutti di sorpresa, eravamo impreparati, ma potevamo fare di meglio, potevano fare di meglio. Potevano partire da loro, dai bambini e dai ragazzi.
Siamo stanchi, ma non da adesso e…


L’articolo prosegue su Left del 30 aprile – 6 maggio 2021

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Priorità agli studenti

Pupils wait to start their first day of school at the high school Giovanni Battista Morgagni in Rome, Monday, Sept. 14, 2020. The reopening of Italian schools marks an important step in a return to pre-lockdown routine after 8 million school students endured Italy's strict 2½-month lockdown, including the swift closure of schools followed by distance learning starting last March. (AP Photo/Domenico Stinellis)

Almeno tre studenti su quattro sono di nuovo a scuola. Ancora non tutti. E dopo aver subito il danno di quasi due anni di «non scuola», per dirla con un espressione usata dal maestro Franco Lorenzoni in un suo articolo per Left.

Insieme ad attivisti di associazioni di base, Lorenzoni si è speso molto per far aprire gli occhi ai politici sulla realtà patita dai più piccoli privati di un’esperienza formativa e di relazione fondamentale al loro sviluppo. Per troppo tempo si è discusso di banchi a rotelle senza pensare invece a come riaprire la scuola in sicurezza, potenziando il trasporto pubblico, ancora oggi deficitario.

Troppe volte abbiamo visto fughe in avanti di singole Regioni che arbitrariamente hanno chiuso le scuole, senza basarsi su dati scientifici, attuando una malintesa e dannosa autonomia differenziata a cui nel 2001 ha aperto la strada la scellerata modifica del Titolo V. Ancora oggi mentre il governo Draghi si è dato l’obiettivo di portare almeno 7,5 milioni di studenti in classe, il presidente della Puglia Emiliano si vanta del successo della sua deroga alla presenza in classe.

A suo dire il 90% delle famiglie pugliesi preferisce la Dad. Emiliano prospetta un’ idea di scuola on demand, «in spregio ai più elementari principi di tenuta sociale della scuola», denunciano gli attivisti e docenti di Priorità alla scuola che su questo numero di Left analizzano i molti punti deboli del Piano di ripresa e resilienza.

Scaricare la responsabilità della decisione sulle famiglie è inaccettabile da parte di un amministratore pubblico, aggiungiamo noi. E ancora una volta constatiamo che non sono stati ascoltati i ragazzi. Intervistati per una ricerca di Skuola.net e associazione Di.Te., in gran parte, hanno bocciato la Dad.

Su un campione di 10mila studenti il 62% ha espresso un giudizio negativo, lamentando un calo di motivazione nello studio e un conseguente minor rendimento, anche perché spesso in casa vengono distratti (58%) e interrotti (51,4 %).

Il 15% ha detto di non poter mai o quasi mai contare su uno spazio privato per seguire la Dad. Il dato interessante è che la gran parte ha detto che la scuola in presenza è più stimolante per il rapporto e l’interazione con gli altri. Otre a percepire le lezioni in Dad poco coinvolgenti (lo dice più del 76%), nel 53,3% dei casi dicono di non aver avuto modo di condividere il loro vissuto emotivo. E poi ci sono i casi di cyberbullismo che preoccupano.

Secondo Skuola.net il 77% di chi ne è stato vittima ha poi iniziato a isolarsi volontariamente. E sappiamo quanto il fenomeno della dispersione scolastica fosse grave anche prima della pandemia. Ma per quanto questi numeri ci siano parsi importanti e rivelatori, tuttavia, ci dicono poco o nulla sul vissuto emotivo più profondo, su quali siano i veri bisogni, le esigenze, le aspirazioni degli studenti.

Su Left torniamo a dare loro voce, non limitandoci a intervistarli, ma chiedendogli di scrivere per raccontare la scuola che sognano e che vorrebbero. Ed è stato come aprire le dighe di un vitale e limpido fiume pieno di idee, di visioni, di progetti pratici e creativi. Molti di loro mostrano una grande sensibilità politica, il che fa davvero ben sperare.

A far da controcanto sono però le carenze della classe politica, compreso il cosiddetto governo dei migliori che non coglie l’opportunità del Recovery plan per investire su donne e giovani come invece aveva promesso. Addirittura rispetto al Piano del governo Conte il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) presentato da Draghi riduce i soldi per i nidi e quelli per le scuole di infanzia.

Il Pnrr fa anche passi indietro sul diritto allo studio rispetto alla bozza del precedente governo, che già non era sufficiente. «Sono stati quasi dimezzati i fondi per le borse di studio ed è stato eliminato l’ampliamento della no tax area, la fascia di esenzione dalle tasse universitarie», denuncia Lorenzo Morandi di Link coordinamento universitario. E restano gli stessi problemi strutturali di sempre.

Le scelte governative si muovono con modalità estemporanee e disorganiche (basti pensare all’informativa del ministro Bianchi che promette 500 milioni per i corsi estivi descritta alle parti sociali senza un testo scritto). Rimangono le classi pollaio imposte per legge dalla Gelmini nel 2009. Restano problemi di spazi scolastici inadatti, di cattedre vacanti, di precariato.

Se lo scorso ottobre, alle prese con la seconda ondata di Covid, abbiamo toccato con mano il danno delle mancate assunzioni, con più di 200mila “cattedre ballerine” e nomine dei supplenti protratte fino a gennaio, quello che si annuncia per settembre 2021 è ancora una grave impasse. «I numeri delle cattedre vacanti al primo settembre 2021 sono impietosi.

Così la scuola dell’era Draghi rischia un nuovo record di precarietà», si legge in una nota della Flc Cgil. Invece di mettere al centro la piena riapertura della scuola in sicurezza, invece di pensare a come potenziarla e renderla più accessibile, laica e moderna, il governo Draghi presta orecchie alle destre che spingono per riaprire qualunque altra attività in maniera indiscriminata, mettendo a rischio la vita dei tanti anziani e fragili che ancora non sono stati vaccinati.

Il presidente del Consiglio ha parlato di «rischio ragionato» rispetto alle riaperture. Speriamo vivamente che non sia invece un rischio calcolato di perdita di vite umane, in nome della produzione, del consumo e del profitto. I dati epidemiologici non sono ancora confortanti, la campagna vaccinale procede ancora a rilento e intanto avanzano nuove varianti del virus come quella indiana che sta mettendo in ginocchio l’India, nonostante la giovane età media degli indiani, nonostante l’India sia uno dei maggiori produttori di vaccini.

Anche lì hanno pesato le logiche delle multinazionali, anche lì hanno pesato le politiche negazioniste e religiose che hanno portato il premier Modi a compiacersi dei suoi comizi gremiti.


L’editoriale è tratto da Left del 30 aprile – 6 maggio 2021

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La sparizione del salario minimo

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 21-04-2021 Roma Politica Camera dei Deputati - Question time Nella foto Andrea Orlando Photo Roberto Monaldo / LaPresse 21-04-2021 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Question time In the pic Andrea Orlando

Solo lo scorso 16 marzo la Commissione Lavoro del Senato approvava la direttiva Ue volta a garantire l’adozione del salario minimo legale ai lavoratori degli Stati membri. Il testo impone l’individuazione di soglie minime di salario che possono essere introdotte per legge (salario minimo legale) o attraverso la contrattazione collettiva prevalente, come sottolineato anche dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando.

Il salario minimo (su cui Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno depositato diversi disegni di legge negli ultimi anni) è proprio scomparso nella versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza inviata alla Commissione europea nonostante fosse presente nel testo entrato in Consiglio dei ministri.

Nella bozza che circolava pochi giorni fa si parlava di una «rete universale di protezione dei lavoratori» e del «salario minimo legale», oltre alla garanzia di una retribuzione «proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» per tutti i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Perfetto: è sparito tutto il paragrafo. Non si tratta di correzioni, di aggiustamenti, no, è sparito tutto.

La cancellazione difficilmente può arrivare dall’Europa vista la direttiva che è stata approvata solo un mese fa in Commissione Lavoro e viste le parole durante il proprio discorso allo Stato dell’Unione 2020, che von der Leyen aveva a riguardo, dicendo che «il dumping salariale danneggia i lavoratori e gli imprenditori onesti, mette a repentaglio la concorrenza sul mercato del lavoro – aveva aggiunto – per questo faremo una proposta per un salario minimo in tutti gli Stati dell’Unione. Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso la contrattazione collettiva o con salari mini statutari, è arrivato il momento che il lavoro venga pagato nel modo equo».

Qualcuno prova a teorizzare che la cancellazione in extremis potrebbe essere il risultato degli incontri con le parti sociali nella fase finali della stesura, ipotizzando che un eventuale salario minimo possa indebolire le trattative sindacali poiché alcune aziende potrebbero così semplicemente accontentarsi di essere a norma di legge. Peccato che sia da tempo sotto gli occhi di tutti la moltiplicazione di accordi sottoscritti da soggetti non del tutto rappresentativi che hanno contribuito alla corsa al ribasso per certe categorie. Del resto il problema dei contratti pirata (soprattutto nelle zone più depresse del Paese) è sempre poco dibattuto nonostante abbiano affiancato spesso il lavoro nero.

L’ex ministra del lavoro Catalfo disse: «Il salario minimo è da sempre un obiettivo mio e di tutto il Movimento 5 Stelle. Una risposta essenziale per contrastare il cosiddetto dumping salariale, riequilibrare il sistema di concorrenza interna fra le imprese e ridare dignità e futuro ai “working poor” (i lavoratori poveri) e alle loro famiglie. Una risposta che la crisi innescata dalla pandemia ha reso ancora più urgente e necessaria e sulla quale, come Italia, dobbiamo investire con determinazione nel nostro progetto di rilancio».

E quindi? E ora? Il Pd e il M5s che dicono?

Buon giovedì.

(nella foto il ministro del Lavoro Andrea Orlando)

Dr. Sasa: «La violenza dei militari va fermata, subito»

Protesters watch as a video showing Dr Sasa is projected on a screen during a night-time demonstration against the military coup in Yangon on March 13, 2021. (Photo by STR / AFP) (Photo by STR/AFP via Getty Images)

«Una cosa è certa. Noi siamo il governo legittimo di Myanmar. L’unico. Il nostro governo è formato da deputati democraticamente eletti lo scorso 20 novembre e che oggi dovrebbero essere seduti in Parlamento e lavorare per il Paese. E invece, per colpa di una banda di militari assassini che ha dichiarato guerra al popolo che dovrebbe proteggere, sono finiti in prigione o sono stati costretti a fuggire. Come me».
“Dr. Sasa” – per ora vuole che lo si chiami così – un giovane medico al suo primo mandato parlamentare. La sera prima del golpe era a Naypyidaw, la capitale del Myanmar, con Aung San Suu Kyi. Erano stati a cena assieme ad altri deputati e collaboratori, avevano messo a punto la lista dei ministri del nuovo governo che la Signora avrebbe dovuto finalmente presiedere, anche formalmente, a seguito del trionfo elettorale (83% dei voti) dello scorso novembre. Si erano salutati dandosi l’appuntamento per il giorno dopo, per l’inaugurazione ufficiale del Pidaungsu hluttaw, il Parlamento dell’Unione. Ma all’alba Sasa viene svegliato da una telefonata: «Hanno arrestato Aun Sang Suu Kyi e altri leader della Lega», gli dicono, «devi scappare immediatamente». «Ho guardato fuori dalla finestra, era ancora buio, si sentivano spari e c’erano molti mezzi militari in giro».

Sasa non ci pensa troppo, salta su un taxi e dice all’autista di dirigersi verso nord, verso il confine con l’India ma anche verso lo stato Chin, la minoranza etnica da sempre, assieme a molte altre etnie più o meno armate, in lotta con il regime militare. Sasa è nato lì, nello stato del Chin, “circa” 40 anni fa («all’epoca non c’era nessuno che registrava le nascite» spiega). Era un ragazzino sveglio cui piaceva studiare. «Sono stato il primo del mio villaggio ad andare all’università – racconta – i miei genitori organizzarono una colletta tra gli abitanti e riuscirono a mandarmi prima in India e poi in Armenia». Nel suo lungo soggiorno all’estero Sasa conosce molte persone, entra in contatto per caso con la famiglia reale inglese. Riceve molte offerte di lavoro, come medico avrebbe un futuro assicurato. Ma decide di…


L’articolo prosegue su Left del 30 aprile – 6 maggio 2021

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«La mia risposta a Grillo: ho dato voce alle vittime di stupro»

La scorsa settimana Beppe Grillo ha diffuso un video nel quale ha preso le difese di suo figlio Ciro e di tre suoi amici indagati per violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza. Nel video in questione Grillo mette in dubbio la buona fede della ragazza che ha presentato la denuncia nell’estate del 2019, sottolineando in particolare il periodo di tempo intercorso tra i fatti e la denuncia, e cioè otto giorni. Secondo Grillo infatti «se una persona viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf e dopo otto giorni decide di fare la denuncia, è strano». Ma la verità è che lo stupro non è una forma di violenza come le altre e spesso chi lo subisce non ha il coraggio di parlarne.

A questo proposito, sui social, è diventata virale la campagna lanciata da Eva Dal Canto. Una 29enne toscana, attualmente residente a Manchester, che con l’hashtag #ilgiornodopo  ha dato voce alle persone che come lei hanno subito una violenza spiegando quanto sia difficile trovare la forza per denunciare. Le sono bastate un cartello con su scritto #ilgiornodopo sono andata a scuola e una foto pubblicata su Instagram per raccontare quello che scelse di fare il giorno successivo allo stupro. Nel giro di poco tempo, l’hashtag ha raggiunto una grande popolarità e migliaia di altre vittime hanno pensato di seguire l’esempio di Eva.

Come ti è venuta l’idea di lanciare l’hashtag #ilgiornodopo?
È stata una decisione impulsiva. Diverse mie conoscenti, anche loro vittime di violenza sessuale, mi avevano segnalato il video di Grillo. Dopodiché io ho avuto l’idea di scrivere l’hashtag, scattare la foto e postarla su Instagram.

Avevi mai fatto partire delle iniziative simili prima?
Assolutamente no. La mia professione è quella di storica dell’Età Moderna e fino a due settimane fa lavoravo come ricercatrice all’Università di Zurigo. Non mi sono mai occupata di comunicazione.

Quindi non immaginavi una reazione del genere.
No, non pensavo che avrei ottenuto una tale risposta. Oltre alla copertura mediatica ho ricevuto anche le testimonianze di molte persone che hanno subito degli abusi, delle molestie o che si sono ritrovate in relazioni tossiche. Tante vittime che hanno deciso di affidarmi le loro storie.

Me ne puoi raccontare qualcuna?
La maggior parte delle storie parlano di persone che sono state raggirate e quindi costrette ad avere rapporti contrariamente alla propria volontà, ma senza la coercizione fisica. Si tratta principalmente di ricatti del tipo «Tu mi devi dire di sì perché altrimenti faccio del male a tua madre» o cose simili. È un percorso di sopraffazione psicologica per cui il consenso, anche se poi alla fine viene dato, è comunque estorto.

Ma che cosa ha rappresentato di preciso per te “il giorno dopo”?
Per me “il giorno dopo” ha rappresentato l’inizio di un cammino di consapevolezza di ciò che mi era successo e quindi anche l’inizio di un processo di ricostruzione di me stessa a partire da quello che era rimasto. Ma non è così per tutte le vittime. Ognuna affronta le conseguenze di un abuso a modo suo e nessuna reazione dovrebbe essere mal giudicata.
Forse in questo senso i social potrebbero diventare una valvola di sfogo per le vittime di violenze sessuali. Io credo che parlarne sia fondamentale, specialmente perché tante persone si vergognano degli abusi subiti. I social potrebbero sicuramente aiutarle a esorcizzare collettivamente questo dolore, per eliminare la vergogna e farle parlare di quello che hanno passato. Perché poi in fondo è una funzione che i social hanno sempre avuto, sono sempre stati una sorta di “piazza virtuale” dove è possibile incontrarsi e dialogare.

Redistribuire ricchezza non è un’utopia

S’intravede la possibilità – finalmente – di uscire dallo “stato di emergenza” creato dalla pandemia. Inoltre, la settimana prossima vedrà la luce il Piano nazionale di ripresa e resilienza da cui ci si aspetta miracoli. Ma servono miracoli di matrice Ue? No: servono “normali” politiche redistributive e politiche a tutela all’ambiente, come se ne trovano in vari Paesi europei. L’obiettivo delle politiche pubbliche future deve essere quello di promuovere la giustizia e l’inclusione sociale. Secondo l’Istat, la povertà assoluta è cresciuta tra il 2019 e il 2020 di un milione di unità, e riguarda ormai 2 milioni di famiglie e 5,6 milioni di persone. Dalla pandemia si può uscire “migliori”: dipende da noi e dalla nostra capacità di ripensare l’intervento pubblico nel contesto multilivello europeo. Che si faccia pure affidamento sul Recovery fund, ma non dimentichiamoci che – data la distribuzione delle competenze potestative – gli interventi più importanti possono e devono essere adottati a livello nazionale.

La disuguaglianza, nelle sue varie forme, e il cambiamento climatico sono i temi più rilevanti degli ultimi anni. Intorno a questi, è indispensabile costruire un’agenda per il cambiamento incentrata su tre obiettivi: redistribuire la ricchezza, (re)distribuire il lavoro, proteggere (davvero) l’ambiente. Da molte parti, si lamenta la grande concentrazione della ricchezza, accentuatasi a livello globale durante l’anno della pandemia: secondo Oxfam, tra il 18 marzo e il 31 dicembre 2020, la ricchezza dei miliardari ha registrato un’impennata di ben 3.900 miliardi di dollari, arrivando a toccare quota 11.950 miliardi.

I dati sono impressionanti. Purtroppo, però, se sulla diagnosi (“disuguaglianza eccessiva”) c’è un consenso crescente, sulla prognosi (“dobbiamo fare qualcosa”) vince la retorica. Perché mai non aggredire il problema alla radice e ipotizzare una redistribuzione della ricchezza – soprattutto alla luce dell’allargamento della forbice tra ricchi e poveri causata dalla pandemia? Diverse istituzioni internazionali, un tempo particolarmente silenti sul punto, denunciano i pericoli della “crescita diseguale” e l’incremento della diseguaglianza. Anche le riviste non specializzate invocano interventi radicali: in un recente editoriale della rivista Lancet si propone a livello mondiale una patrimoniale del 2 per cento sulla ricchezza – sulla scorta di una proposta di Thomas Piketty.
Pensare di poter raccogliere risorse, in tempi rapidi a livello mondiale, pare molto ingenuo perché di difficile realizzazione. Si potrebbe, piuttosto, fare proposte mirate a livello europeo – sebbene anche a questo livello una tale decisione rischierebbe di non venire mai presa. La strada più veloce (e relativamente efficace) sarebbe di…


Il reportage di Zolin da Istanbul prosegue su Left del 23-29 aprile 2021

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Minestre riscaldate

Foto LaPresse - Claudio Furlan 02/02/2021 - Milano (Italia) Conferenza stampa di presentazione di Guido Bertolaso come coordinatore del piano regionale per vaccini contro il covid 19 in Regione Lombardia Nella foto: Guido Bertolaso Photo LaPresse - Claudio Furlan Febrary 2, 2021 - Milan(Italy) Press conference to present Guido Bertolaso ​​as coordinator of the regional plan for vaccines against covid 19 in the Lombardy Region In the photo: Guido Bertolaso

Il centrodestra sta apparecchiando le sue esplosive candidature per le prossime elezioni a Roma e a Milano, le città che di solito sono considerate laboratori politici di ciò che poi accade a livello nazionale. Parlando di Roma e di Milano quindi inevitabilmente verrebbe da dire che le candidature dovrebbero essere il termometro per testare la salute della coalizione. Tenetevi forte: Gabriele Albertini e Guido Bertolaso. Il futuro del centrodestra italiano sta tirando la giacchetta a due giovani (entrambi classe 1950) a cui viene affidato il compito di disegnare il futuro della destra in Italia. Alla grande direi.

Con Albertini a Milano si punta forte sull’effetto nostalgia, quando il centrodestra aveva anche una certa credibilità in termini di governo e non solo come urlatori. Albertini l’umile, quello che di sé dice «io, come industriale, mi considero uno dei più grandi rivoluzionari della storia, perché chi ha cambiato l’uomo, chi ha rivoluzionato l’individuo, non è stata la rivoluzione marxista, è stata l’industrializzazione». Poiché quelli erano tempi di una Milano che ha lasciato sensazione di ricchezza e di serenità si punta al ricordo. Ci si dimentica (come è avvenuto per Letizia Moratti) che Albertini ha anche incassato sonore sconfitte (ma quelle si sa, si dimenticano in fretta): nel 2014 (era passato con Angelino Alfano, ma Salvini sembra esserselo dimenticato) non viene eletto alle europee. Candidato come capolista a Milano (nella sua Milano, eh) a sostegno di Parisi nel 2016 prende 1.376 preferenze (alla grande, eh) e non viene eletto. Ah, una curiosità: Giorgio Gori quando perse le elezioni regionali contro Fontana gli chiese di candidarsi nella sua lista. Per dire.

Bertolaso invece va bene in ogni occasione. L’uomo che nell’immaginario del centrodestra “risolve i problemi” è arrivato in Lombardia e ha avuto il gran ruolo di accorgersi che Fontana e i suoi non riuscivano a concludere un bel niente ma ovviamente Bertolaso questo non ce lo dice. Ora comunica che la sua missione è terminata (ma il problema l’ha risolto Poste italiane con la sua piattaforma che ha sostituito quella costosissima e inefficiente di Regione Lombardia) e in molti lo spingono su Roma. Ora fa il prezioso (eppure nel 2016 non voleva ritirarsi nemmeno di fronte alla candidatura di Giorgia Meloni). Anche per lui vale il condono del tempo: bastano una buona narrazione e un po’ di anni e tutto passa in cavalleria.

Veramente fresca e interessante questa nuova classe dirigente del centrodestra in Italia. Manca solo Berlusconi ma vedrete che prima o poi arriverà anche lui, sicuro.

Buon mercoledì.

«Ora ho paura di dire qualsiasi cosa»

Dai primi di gennaio ad oggi, ogni giorno, il copione si ripete. Dalle prime ore del mattino gruppi di uomini, donne e bambini di popolazione uigura si allineano con le loro bandiere dirimpetto al consolato cinese di Istanbul. Portano un cartello al collo con le foto dei loro familiari e amici scomparsi. «Fascist China! Terrorist China! Genocide China!» gridano a squarciagola in direzione del consolato. «Liberate i nostri familiari e amici innocenti» è scritto sul cartello di una ragazza. Su di un altro, la foto di un campo di concentramento nazista è accostata a un’immagine di un campo di detenzione cinese: uno di quelli dove sono scomparse centinaia di migliaia di persone di etnia uigura. Un signore sulla quarantina, Murat, si avvicina e mi mostra una foto di sua madre sul cellulare. «È uno screenshot. Per quattro anni non ho avuto sue notizie, poi mi ha chiamato, qualche mese fa. Era un poliziotto che la obbligava a farlo, per dirmi di smettere di fare ciò che sto facendo qui» mi spiega. «Per dirmi cioè di starmene zitto» prosegue.

Le persone presenti alla protesta sono solo una piccola parte dei circa 50mila Uiguri che si sono trasferiti in Turchia lasciandosi alle spalle la loro terra natale, quel Turkestan orientale che è stato per due volte brevemente indipendente prima di confluire all’interno della Repubblica popolare cinese e diventare la regione autonoma dello Xinjiang (nuova frontiera). Negli ultimi decenni Pechino ha incentivato la migrazione di giovani cinesi di etnia Han verso l’emergente città di Urumqi, oggi snodo fondamentale delle nuove vie della seta. Di conseguenza gli Uiguri sono diventati minoranza, costretti ad adeguarsi ad accettare regole sempre più rigide imposte dalla capitale, volte a cancellare la loro cultura, la loro religione e la loro identità.

Lo sviluppo infrastrutturale dello Xinjiang e l’accelerazione dello sfruttamento delle sue ricche risorse è andato di pari passo alla repressione del popolo uiguro, sotto forma di genocidio demografico. A sporadici attacchi terroristici ed episodi di rivolta di militanti uiguri sono seguite misure sempre più restrittive: controllo delle nascite, sterilizzazioni e aborti forzati, checkpoint stradali, tracciamento informatico e onnipresenza delle videocamere di sorveglianza, anche e soprattutto all’interno delle moschee. A Urumqi, come a Kashgar, si dice che “tutti i muri abbiano orecchie”. Dal 2017 il governo cinese è passato all’indottrinamento, con la creazione di campi di detenzione definiti da Pechino “di rieducazione”, un sistema che riecheggia i metodi della “rivoluzione culturale” e che i cinesi giustificano come luoghi necessari per…


Il reportage di Zolin da Istanbul prosegue su Left del 23-29 aprile 2021

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Il passaggio parlamentare

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 26-04-2021 Roma Politica Camera dei Deputati - Comunicazioni del Presidente del Consiglio Mario Draghi sul Recovery plan Nella foto Mario Draghi Photo Roberto Monaldo / LaPresse 26-04-2021 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Communications by Prime Minister Mario Draghi on the Recovery plan In the pic Mario Draghi

Si potrebbe partire da quella relazione che già a ottobre alla Camera definiva «indispensabile» che «le camere siano coinvolte nell’intero iter della predisposizione del Pnrr». Il governo, che era un altro governo, aveva riconosciuto essenziale il «coinvolgimento di tutto l’arco parlamentare». Anche in Senato si era deciso di impegnare il governo perché «le camere siano parte attiva, coinvolte in modo vincolante, nella fase di individuazione e scelta dei progetti». Sui giornali era stato lo stesso: tutte le forze politiche, fin dall’inizio del percorso, hanno rilasciato decine di interviste in cui chiedevano un dibattito ampio e trasparente. Qualche forza politica, non vi sarà difficile ricordarlo, aveva indicato nell’opacità della discussione del Pnrr un buon motivo per fare cadere il governo.

L’ultimo monito è di poco fa, del 31 marzo: il Senato aveva «ribadito l’esigenza di un successivo passaggio parlamentare che riguardi la versione definitiva del piano, evidenziando quali indicazioni del parlamento siano state recepite dal governo».

Il passaggio parlamentare è avvenuto ieri 72 ore prima che il piano venga consegnato in Europa. Mario Draghi l’ha illustrato disinfettando la politica e provando a restare sui numeri, così come gli viene benissimo, raccontando cosa vorrebbe fare: «Sono certo che riusciremo ad attuare questo piano, sono certo che l’onestà, l’intelligenza e il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità e gli interessi costituiti», ha detto in chiusura del suo intervento. I parlamentari hanno ricevuto le 270 pagine alle 13.57 in Senato e a alle 14.00 alla Camera. Oggi voteranno un sì che ha la stessa matrice di tutto questo governo: una delega quasi totale alla figura di Draghi che è ispirazione, certificazione, garanzia, controllo.

I partiti che si credono più furbi, quelli che sono sempre sul limite della campagna elettorale, sanno benissimo che questa è un’occasione: potranno dire di non avere avuto modo e tempo di approfondire, potranno lamentarsi poi dei vincoli che l’Europa mette sulla spesa fingendo di dimenticarsi di averli votati. C’è già la propaganda scritta, è un copione ben noto.

«Devo ringraziare questo Parlamento per l’impulso politico che anima tutto il piano», ha detto ieri Draghi e alla Camera si è alzato un brusio, tutti a chiedersi esattamente cosa sia “l’impulso politico” e quali responsabilità possa comportare in futuro. Qualcuno dice che è stato deciso “cosa fare” ma ora rimane da decidere “il come”: sembra la giustificazione di un Parlamento che è diventato socio di minoranza, con diritto di ratifica in consiglio di amministrazione. Qualcuno fa notare che manca una seria riforma del fisco (che sta nel cassetto delle “varie e eventuali”), del mercato del lavoro, della sanità pubblica (con quei Livelli essenziali di assistenza di cui si parla da 20 anni e che non si realizzano mai) e che alle imprese vanno quasi 50 miliardi di euro mentre alle politiche per il lavoro vanno solo 6,6 miliardi.

Ma non è il tempo di discutere, ora, dicono, ora c’è da votare sì. Ora il passaggio parlamentare. Poi si vedrà.

Buon martedì.