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Eric Gobetti: Cosa si dimentica nel Giorno del ricordo

Intitolare un parco alle vittime “delle Foibe e della Shoah”. È la proposta di un’assessora di Tarquinia, in quota Lega Nord. La più recente tra quelle messe in campo negli ultimi anni dalle destre in Italia con un preciso scopo: equiparare due vicende, l’Olocausto e una serie di violenze commesse dalla Resistenza jugoslava durante la Seconda guerra mondiale, entrambe drammatiche certo, ma assolutamente incommensurabili. Per farlo, nazionalisti, neofascisti e nostalgici non si sono fatti problemi ad “inquinare pozzi”. Con mistificazioni storiche, ricostruzioni inventate, numeri senza alcun legame con la realtà. A partire, ad esempio, dai «diecimila infoibati» di cui parla CasaPound. Così, i presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella sono arrivati a definire i morti delle foibe come vittime di una «pulizia etnica» che in realtà non ha avuto luogo.

L’obiettivo finale delle destre radicali è chiaro: disattivare il significato della Giornata della memoria celebrando ogni 10 febbraio un suo “omologo” anticomunista, il Giorno del ricordo; disseccare le radici antifasciste della nostra Repubblica; rilegittimarsi a livello nazionale e internazionale. Per opporci a questo gioco sporco, senza ovviamente sminuire in alcun modo crimini e tragedie che si verificarono sul cosiddetto confine orientale, compreso l’esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia, e anzi indagandoli, abbiamo da quest’anno uno strumento assai prezioso. Si intitola E allora le foibe?, è appena uscito per Laterza nella collana Fact checking (realizzata con la collaborazione di Carlo Greppi, v. Left del 22 gennaio 2021) ed è l’ultima fatica dello storico e divulgatore Eric Gobetti. Con lui abbiamo fatto il punto su questo capitolo del Novecento, a partire dai riscontri storici, per ricostruire la reale dinamica degli eventi.

Per prima cosa, quando si parla di foibe e di esodo si fa spesso riferimento a territori “da sempre” italiani. È davvero così?
Per parlare di “territori italiani” bisognerebbe intendersi su cosa sia l’italianità, dato che la stessa idea di nazione inizia a diffondersi tra fine Settecento e inizio Ottocento. Dire che queste zone dell’Alto Adriatico, dove si è consumata la vicenda delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata, erano italiane in quanto appartenevano alla Repubblica di Venezia è una castroneria. Venezia non era uno Stato nazione, la venezianità non era l’italianità. Lo stesso discorso vale ancora di più per l’Impero romano. La propaganda fascista gioca su queste ricostruzioni, che per uno storico sono prive di logica. Questi territori erano abitati da italiani, slavi, tedeschi, ungheresi e altri popoli. Vi era una grande commistione di popolazioni che hanno vissuto assieme per secoli, mescolandosi e creando identità comuni locali, entrate poi in crisi dalla fine della Grande guerra, quando queste zone entrano per la prima volta a far parte di uno Stato nazione, il Regno d’Italia.

La prima ondata di violenze al confine orientale contro la popolazione italiana si è manifestata nel 1943. Possiamo parlare di “pulizia etnica”?
Le violenze commesse dai partigiani jugoslavi non avevano una logica nazionale, né tanto meno “etnica”, bensì politica. Le vittime delle violenze avvenute dopo l’8 settembre erano principalmente rappresentanti dello Stato italiano, delle istituzioni del governo fascista. Vengono colpite non in quanto italiane bensì in quanto fasciste. Seppure non era facile distinguere le cose, poiché il regime insisteva nell’equivalenza tra fascismo ed italianità. Inoltre, un altro elemento che contraddice la narrazione della “pulizia etnica” è dato dal fatto che gli italiani erano presenti in entrambi i fronti. Spesso lo si dimentica, infatti, ma molti partigiani italiani combattevano al fianco delle forze di Resistenza slava. Nella primavera del 1944 si stima che fossero tra i 20 e i 30mila i partigiani italiani integrati nell’esercito jugoslavo. Una cifra incredibile, considerato che i partigiani in Italia nella stessa epoca erano numericamente equivalenti. Infine, va ricordato che in quella prima fase di violenze molti omicidi furono frutto di odio e vendette personali. Dopo l’invasione della Jugoslavia nel 1941 il livello di rabbia po- polare si era alzato enormemente.

Ciò che spesso si dimentica, poi, sono i crimini del regime fascista commessi in Jugoslavia.
Noi abbiamo un problema più generale con la memoria storica dei crimini fascisti, non solo quelli compiuti nei Balcani, si pensi alla vicenda del colonialismo in Africa. Gli italiani hanno avuto responsabilità dirette nella repressione della popolazione civile in Jugoslavia, i morti sono stati nell’ordine dei 10mila. Senza considerare le responsabilità indirette dell’aver appoggiato i movimenti collaborazionisti come gli ùstascia croati e i cetnici serbi, responsabili del maggior numero di uccisioni nel teatro jugoslavo, che ha contato un milione di morti. L’Italia ha anche costruito campi di concentramento in quella zona, che servivano a recludere civili, e non solo partigiani, i quali generalmente venivano fucilati. Sono stati circa 100mila gli internati in questi campi e 5mila le vittime, a causa del freddo e della fame. Nel campo dell’isola di Arbe, non molto distante da Fiu- me, abbiamo lasciato morire donne e bambini, circa 1.500 civili in tutto. Com’è possibile che ad oltre 80 anni di distanza questo episodio vergognoso sia stato quasi dimenticato? Proprio per costruire un sito dedicato alla storia del campo di Arbe e organizzare un viaggio della memoria abbiamo aperto un crowdfunding (lo si trova su Produzioni dal basso, ndr).

Arriva il 1945 e nell’Alto Adriatico si scatena una seconda serie di violenze.
In questo caso ci troviamo di fronte all’esercito di un Paese, la Jugoslavia, che fa parte dello schieramento antifascista internazionale, alleato con l’Urss e con gli Stati Uniti, che prende il controllo del territorio e compie due tipi di operazione. Da un lato una resa dei conti, in cui vengono prese di mira le persone che fino all’ultimo avevano combattuto coi nazisti oppure che erano rappresentanti del precedente governo fascista. È una pratica compiuta dai partigiani in varie parti d’Europa. Dall’altro l’eliminazione degli oppositori politici, quella che gli storici chiamano repressione politica preventiva. Fino al 1948 Tito era alleato di Stalin, in quel momento puntava a instaurare un regime comunista che guardava a Mosca come modello, e quello era uno dei modi per raggiungere il suo scopo.

Veniamo alle foibe, di cosa si è trattato e quali furono le dimensioni della tragedia?
Le foibe sono cavità naturali, simili a grotte verticali, tipiche della regione carsica e dell’Istria. Nei contesti di guerra sono state utilizzate come strumento di sepoltura rapida. Durante la Seconda guerra mondiale ci finirono sia i civili e partigiani uccisi da fascisti e nazisti, sia i soldati o i collaborazionisti uccisi dai partigiani. La pratica di gettare individui vivi nelle foibe non era certo comune, seppure lo sostenga un vario corredo di racconti mai verificati che appartengono ad un immaginario razzista che dipinge lo slavo come un barbaro primitivo. Inoltre, buona parte delle violenze che si consumano sul confine orientale non hanno nulla a che fare con le foibe. Arrivando alle cifre, io nel libro non propongo alcuna nuova ricerca, mi rimetto ai numeri che sono universalmente accettati tra gli storici, che vanno dalle 3.500 alle 5mila vittime, e prendo per buone le stime arrotondate all’eccesso, considerata la difficoltà nell’accertare le morti avvenute in quella circostanza. Su queste stime, ad ogni modo, tutti gli storici sono concordi, così come lo sono nell’escludere l’ipotesi della pulizia etnica.

Il luogo prescelto per celebrare la memoria delle Foibe è Basovizza, nel comune di Trieste, dove si trova un monumento nazionale. Nell’inghiottitoio che si trova in loco, in realtà un pozzo minerario, non è mai stato accertato alcun infoibamento. Cosa significa?
Già, non c’è certezza che siano realmente avvenute uccisioni in quella zona, però in fondo si tratta di un luogo della memoria, che è lecito individuare anche in una località arbitraria per facilitarne la fruizione. Tutto sommato è in Italia, vicino a Trieste, facilmente raggiungibile. Certo, il monumento dovrebbe essere gestito con più serietà. All’interno è rappresentata un’illustrazione della profondità del sito minerario, in cui viene calcolata la sua capienza, e si conclude che in virtù di quelle dimensioni la “foiba” conterrebbe alcune migliaia di persone. È assurdo. Poi ci sono le lapidi di gruppi armati della Repubblica sociale che hanno combattuto fino all’ultimo coi nazisti in quel territori. Se vogliamo che quello sia il monumento di un Paese fondato su una Costituzione antifascista, andrebbero eliminate all’istante.

Il Giorno del ricordo, però, gioca proprio su ambiguità come questa. E la sua genesi, come spieghi, lo dimostrerebbe…
Della vicenda delle foibe c’è stato un uso strumentale subito dopo la Seconda guerra mondiale, in chiave anticomunista. Eravamo in piena Guerra fredda. A questa fase è seguito un lungo oblio bipartisan, terminato in epoca più recente con un nuovo uso strumentale dai primi anni 2000. Un uso sbagliato per diverse ragioni. Primo: lasciando perdere gli aspetti più apertamente fascisti della vicenda, c’è una volontà nazionalista e vittimista esercitata dallo Stato italiano dietro alla nascita del Giorno del ricordo (coniato dal centrodestra nel 2004, ndr). È ciò è chiaro sin dal testo della legge che lo istituisce, che ci mette in imbarazzo con i nostri Paesi vicini, perché si parla solo delle “nostre” vittime e non di quelle del regime fascista. Nell’ottica di un reciproco rispetto tra Paesi europei si sarebbe dovuto procedere nella direzione di una memoria transnazionale, che tenesse conto anche delle diverse “memorie”. Secondo: questa celebrazione rischia di vittimizzare i fascisti. Questo è il problema. Poiché le vittime sono fasciste, dunque i fascisti sono le vittime. Che hanno così la possibilità di diventarlo senza neanche affrontare le loro responsabilità. È una costruzione simbolica che fa male all’Italia e pure agli esuli stessi, rappresentati, ingiustamente, come fascisti. Ultimo aspetto: la data della celebrazione. Il 10 febbraio è stato scelto perché in quel giorno del 1947 venivano firmati i Trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, parte della Venezia Giulia e altri territori in precedenza italiani. Quella data è molto calzante, naturalmente, se si parla dell’esodo a cui molti italiani furono costretti dopo la sigla di quell’accordo. Però, d’altra parte, è una scelta un po’ inquietante perché è come se stessimo affermando di essere stati “vittime della pace” e in qualche modo la mettiamo in dubbio. Vorrei ricordare, anche se potrà essere fastidioso alle orecchie di alcuni, che è un bene se abbiamo perso la Seconda guerra mondiale, perché l’Italia combatteva dalla parte sbagliata. Se avessimo vinto noi adesso saremmo tutti nazisti. Usare in senso vittimista una data che segna la nostra sconfitta, mi sembra, in questo caso, piuttosto grave.


L’articolo è tratto da Left del 5-11 febbraio 2021

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Finalmente un po’ di programma

Former European Central Bank President Mario Draghi arrives at the Quirinale presidential palace for talks with Italian President Sergio Mattarella to discuss a mandate to form a new government, in Rome, Wednesday, Feb. 3, 2021. (AP Photo/Andrew Medichini)

Forse finalmente ci prepariamo ad uscire da questo nauseante fardello di agiografia giornalistica che negli ultimi giorni si è spremuto sul pasticciere di Draghi, sulla corsetta mattutina di Draghi, sulle opinioni dei compagni di classe di Draghi, sui gusti culinari di Draghi, sul “quanto è bello il silenzio compito della moglie di Draghi”, sulle analisi dei completi indossati da Draghi e si torna a parlare di politica. Finalmente, vedrete, ci farà bene, farà bene a tutti.

Nel secondo giro di consultazioni il Presidente del Consiglio incaricato sta presentando ai gruppi parlamentari un’idea di programma per il governo che potrebbe essere e si potrà testare quali siano le idee e soprattutto quale potrebbe essere l’apporto dei partiti. Per ora, com’è naturale che sia, siamo solo ai titoli declamati ma da questo possiamo partire per aprire un dibattito e delle riflessioni. È un passo in avanti, certo.

Ieri si è parlato un po’ dappertutto dell’ipotesi del prolungamento della scuola: secondo Draghi gli studenti hanno perso troppi giorni e occorre intervenire con una revisione del calendario scolastico fino a fine giugno. Draghi ha insistito anche sulla necessità di farsi trovare pronti per la ripresa dell’anno scolastico 2021-2022 per risolvere l’annoso problema delle 10mila cattedre vacanti di questo inizio di anno scolastico. Declinato così, ovviamente, questa idea sembra un colpo facile su cui presumibilmente saranno tutti d’accordo. Chissà che sia la volta buona che questo impegno non rimanga nel cassetto dei sogni. Anche perché proprio ieri una ricerca ha confermato quello che sappiamo da tempo: nell’Italia delle disuguaglianze una famiglia su tre ha difficoltà a sostenere e seguire il proprio figlio in Dad.

Poi c’è l’ambientalismo. Anche questo è un punto che si è sventolato spesso e che invece ha bisogno di azioni concrete e rapide. Ora sappiamo che il 37% delle risorse del Recovery finirà lì. Draghi ha ripetuto più volte che bisogna puntare sull’ambiente in modo trasversale, puntando il dito sull’inquinamento di zone d’Italia come la Lombardia (a proposito del “modello lombardo”) dichiarando di pensare all’ambiente anche come occasione di sviluppo e di crescita. Anche qui, certo, siamo ai titoli iniziali, ma la sfida è già una priorità di molti Paesi europei. Chissà che non diventi un tema prioritario anche qui, anche nelle agende dei partiti.

Poi c’è la campagna dei vaccini. Mentre Salvini riesce a sfiorare il ridicolo proponendo il “modello Lombardo” e il “modello Bertolaso” (con la Lombardia che svetta per numero di morti e con Bertolaso che per ora si è limitato a comporre un po’ di slide), l’idea di Draghi sarebbe quella di proporre il “modello inglese”. Per ora si parla di poco o niente, come abbiamo avuto occasione di vedere ciò che conta in una campagna vaccinale sono i numeri. Chissà almeno che non ci si liberi delle primule di Arcuri. C’è un aspetto che lascia un po’ perplessi: Draghi avrebbe anche chiesto di cambiare il “clima” generale della narrazione. Se così fosse sarebbe un peccato: l’ottimismo dopato dalla narrazione è una truffa, l’ottimismo si costruisce offrendo opportunità. Ma avete notato anche voi come sia già cambiata la percezione del virus in questi giorni nonostante le preoccupazioni delle varianti? Curioso, vero? Non è un bel segnale.

Poi c’è ovviamente l’atlantismo, ovvero il riposizionarsi con convinzioni sulle posizioni degli Usa di Biden in un quadrante geopolitico ben definito. Qui il terreno è molle: il confine tra alleanza e servitù è sottile.

Poi c’è il quadro degli aiuti per il lavoro (ci torniamo più largamente nei prossimi giorni) e su questo circolano già alcune parole chiave: niente «contributi a fondo perduto», si dice, e attenzione perché nella definizione del «fondo che si è perduto» si gioca la sostanziale differenza tra chi vuole sostenere le imprese o i lavoratori. Sul punto di equilibrio si definisce la posizione politica del governo che sarà (nonostante si finga che non ci sia connotazione politica). Se gli aiuti alle imprese che vengono sventolati finiranno ancora una volta a salvare il culo dei padroni mentre macellano i lavoratori non sarà un buon momento, no. E viste le facce che sostengono il governo viene da pensar male. Si dice che non ci sarà spazio per la proroga del blocco dei licenziamenti. Quindi che si farà? Questo è un bivio fondamentale. Ah, ci saranno consistenti aiuti per gli istituti di credito (che continuano a non dare credito). Chissà perché non ci stupisce.

Parole da prendere bene con le pinze sul fisco: si parla di una riforma strutturale per «alleggerire il ceto medio» in un Paese in cui il ceto medio esiste sempre meno e in cui il problema è la povertà, mica la piccola borghesia. E anche su questo la tiritera del governo senza colore politico cadrà inesorabilmente. Aspettiamo, con parecchia ansia.

Poi, come governo tecnico che si rispetti, si parla di “infrastrutture”. Anche qui la partita è semplice: siamo ancora il Paese che considera infrastruttura il ponte sullo Stretto o siamo il Paese capace finalmente di considerare le infrastrutture sociali che modernizzerebbero davvero il sistema Stato?

Insomma, si comincia a fare politica e finalmente l’aria si dipana, anche tutto questo sistema gassoso e fideistico che ormai ci ha annoiato. E adesso, finalmente, calano le maschere.

Buon martedì.

Il vaccino sia bene pubblico. È una svolta necessaria

Police stand by as people wearing face masks queue to get access to the vaccination center at the 'Arena' in Berlin's Treptow district on January 6, 2021, where currently elderly persons as well as medical and nursing staff are prioritised to receive vaccination against the novel coronavirus (Covid-19). - Germany on January 5 prolonged and toughened its partial lockdown with stricter limits on social contacts, as Europe's top economy struggles to curb stubbornly high coronavirus infections. Since the country began a vaccination drive on December 26, around 317,000 people have received the first of two jabs. But German media and even the Social Democrats (SPD), junior partners in Merkel's right-left government, have slammed what they call a slow rollout, accusing the government of relying too much on joint action with the European Union. (Photo by Tobias Schwarz / AFP) (Photo by TOBIAS SCHWARZ/AFP via Getty Images)

Una distinzione, al cuore della scienza delle finanze, la disciplina che studia l’economia e la finanza pubblica, è tornata al centro del dibattito economico e politico nel mondo segnato dalla globalizzazione, dalla rivoluzione digitale e, ora, dalla crisi pandemica. È quella tra beni pubblici e beni privati. Tale distinzione ha natura tecnica e conviene dedicarvi un briciolo di attenzione, perché è molto utile. Il bene pubblico è caratterizzato da “non rivalità” e “non escludibilità”, il bene privato, di converso, da “rivalità” ed “escludibilità”. Non rivalità significa che il consumo da parte di qualcuno, nulla toglie alla possibilità di goderne da parte di qualcun altro. Se ascolto un brano musicale questo non impedisce ad altri, nelle vicinanze, di ascoltarlo. Se invece mangio un panino, altri non possono mangiarlo. Escludibilità, invece, è la possibilità di subordinare l’accesso ad un bene al pagamento di un corrispettivo, diciamo un prezzo. Vale a dire escludere dal consumo chi non paga: se si rende il bene accessibile ad una persona, diventa necessariamente accessibile a tutti. L’illuminazione pubblica non è escludibile, salvo impedire l’accesso al luogo pubblico. Le trasmissioni radiotelevisive via etere non erano escludibili, con le nuove tecnologie via cavo e digitali lo sono diventate (l’escludibilità varia al variare delle tecniche).

Nel mezzo, tra beni pubblici e privati “puri”, c’è tutta una gamma di situazioni intermedie, segnate da diverse gradazioni di rivalità ed escludibilità. Importante è la categoria dei beni che, pur essendo essenzialmente privati, producono degli effetti che hanno la stessa natura del bene pubblico. Questi effetti sono chiamati “esternalità”. Si ha un’esternalità positiva qualora un atto di consumo o di produzione da parte di qualcuno porta un beneficio (esternalità positiva) o un danno (esternalità negativa) ad altri, e tali effetti non passano per il mercato. Se uso l’automobile inquinando, genero una esternalità negativa, vale a dire un costo sociale che non sono tenuto a ripagare. Se mi vaccino genero un beneficio sociale, per il quale non ottengo un corrispettivo di natura economica.

Nel caso di beni pubblici e di esternalità si parla di “fallimento” del mercato. Un bene pubblico non può essere prodotto da un privato, perché non potendo essere venduto dietro pagamento di un prezzo non consente di coprire i costi di produzione e tanto meno di realizzare utili. Nel caso dei beni pubblici il mercato non funziona, nel caso di esternalità funziona male. La sfera dei beni pubblici e delle esternalità è…


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Moltiplicano i pani, i pesci e i Salvini

Foto Cecilia Fabiano/LaPresse 06 febbraio 2021 Roma (Italia) Cronaca Punto stampa di Matteo Salvini in piazza Montecitorio dopo le consultazioni per la formazione del governo Draghi Nella foto: Matteo Salvini Photo Cecilia Fabiano/LaPresse February 06, 2021 - Rome (Italy) News Matteo Salvini’s press point in front of Montecitorio government palace after the reunion to organize the coalition to sustain Draghi government In The Pic: Matteo Salvini

Non serve nemmeno frugare troppo in giro per ritrovare ciò che pensava di Draghi Matteo Salvini fino a dieci minuti prima di diventare draghiano e europeista e addirittura così “responsabile” da chiedere per sé il Ministero dell’istruzione. Il 6 febbraio del 2017 diceva «L’euro non è irreversibile come sostiene Mario Draghi. Mi spiace ci sia un italiano complice della Ue che sta massacrando gli italiani e l’economia italiana». E quando qualcuno gli parlava dello spread e dell’Europa (che sarebbero tra i motivi che oggi hanno convinto il leader della Lega all’ennesima giravolta) disse letteralmente: «Noi vogliamo che l’Italia torni a scegliere, a decidere, a sperare nel futuro. Il ricattino dello spread lo abbiamo già visto 5-6 anni fa, non ci casca più nessuno. Non sono tre banchieri, tre massoni o tre finanzieri a tenere in ostaggio il popolo italiano». E, sempre nel 2017, quando fu Berlusconi a fare il nome di Draghi al governo (questo a dimostrare da quanto il nome di Draghi veleggi e da quei lidi fosse invocato) Salvini rispose: «Non se ne parla nemmeno. Mario Monti bis. E la fotocopia di Mario Monti non mi interessa».

Salvini dunque ha cambiato idea ed è vero che sono gli stupidi che non cambiano mai idea ma ci sono anche quelli che scambiano l’opportunismo per responsabilità e si impegnano in queste ore a esercitare una narrazione che vorrebbe convincerci che sia addirittura un privilegio avere un governo con “tutti dentro” come se la politica fosse davvero una livella che tiene tutti a cuccia, basta trovare l’uomo giusto per zittire. E questi strani frequentatori della democrazia che ritengono il ruolo dell’opposizione semplicemente come quelli “che sono stati fuori dal giro delle poltrone” incensano lo splendore di un governo in cui tutti diventano potabili, in cui tutte le idee accettano di essere piallate e in cui le differenze vengono dimenticate: sognano uno studio associato di segretari del commercialista da poter rivendere come Parlamento. È il loro obiettivo. Che la Lega in Europa si sia astenuta sul Recovery Fund nel dicembre del 2020, che abbia votato no ai Coronabond, no alla condanna di Putin per il caso Navalny (a settembre 2020) e tanto altro rientra semplicemente nelle “gag” leghiste che ora siamo disposti a tollerare.

Lo scriveva bene ieri il blog satirico Spinoza: «Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa farmi entrare nel tuo governo». E ora anche Salvini diventa uno statista poiché è stato bacchettato sulle dita da Confindustria e ha deciso di rimettersi a cuccia, ovviamente solo per il tempo di trovare uno spiraglio per scassare tutto appena i sondaggi gli diranno di andare a elezioni.

Qualcuno nel delirio di questa desertificazione che chiamano “responsabilità” in questi giorni tenta anche irresistibili confronti con il passato. Ieri proprio Salvini per giustificare il suo ingresso al governo ha tirato fuori il governo guidato da Alcide De Gasperi dal 10 dicembre 1945 al 14 luglio 1946 che teneva insieme Dc, Pci, Partito d’azione, Psiup, Pli e Partito del lavoro. Peccato che abbia dimenticato di dire che tutti quelli avessero lottato contro il fascismo e ne avessero subito la persecuzione. Ma anche l’antifascismo, se notate bene in giro, è un argomento “disturbante” per l’unità nazionale. Avanti così.

Ma il vero capolavoro politico sono quelli che esultano per l’operazione in corso che poi sono gli stessi che esultavano per la scorsa operazione politica “capolavoro” che ci avrebbe dovuto liberare da Salvini: il capolavoro, lo scrivevamo qualche giorno fa ora è Matteo che ha riabilitato Matteo. Segnatevelo: sono gli stessi che fra poco si stupiranno delle differenze che usciranno in Parlamento e le chiameranno intralci. Del resto qualcuno sogna da tempo una politica senza Parlamento, senza partiti, che semplicemente vada tutte le mattine sullo zerbino di Draghi per lasciare giù i voti e ritirare le comande.

Avanti così.

Buon lunedì.

Il mondo di Frank Lloyd Wright libero come i nativi americani

L’architettura di Wright è pervasa più o meno esplicitamente da un forte legame con le culture dei popoli che erano fiorite sul suolo delle Americhe e dall’importanza di integrare l’architettura al paesaggio con lo spazio costruito. Questo aspetto è fondamentale oggi in un periodo in cui è forte il dibattito sulle trasformazioni con cui l’architettura dovrà misurarsi rispetto all’ambiente e alla giustizia sociale.
A ottobre 2020 è uscito il docufilm Unity Temple: Frank Lloyd Wright’s Modern Masterpiece di Lauren Levine con la voce narrante di Brad Pitt e dedicato al restauro conservativo della prima opera pubblica di Frank Lloyd Wright, lo Unity Temple (1905-1909, Oak Park, Illinois).

Il processo di restauro dell’edificio, definito da Wright come il suo contributo all’architettura moderna, mette in evidenza l’attitudine dell’architetto ad ispirarsi all’arte e alle tecniche delle civiltà antiche, ad esempio quella giapponese, evidente nelle rifiniture degli interni, e quella mesoamericana per il complesso monumentale dell’insieme. Nel documentario si cita un riferimento all’antica tecnica costruttiva neolitica – e sostenibile – della terra battuta. Tecnica dell’architettura vernacolare diffusa in Himalaya e in Cina che in breve consisteva nella stratificazione di terra (sabbia, ghiaia e argilla) distribuita e compressa a strati successivi in una cassaforma lignea.

In questa opera, come quelle che seguiranno nella lunga carriera di Wright, sia pubbliche che private, emerge l’importanza del disegno della luce nella idea generale dello spazio che attribuisce all’architettura un livello di definizione poetica. Lo Unity Temple è un’ opera di passaggio nel percorso progettuale di Wright; infatti sembra essere molto diversa da quelle che seguiranno per il rigore compositivo razionale dell’insieme, prefigurando il Revival Maya degli anni 20.

La ricerca degli anni 1911-1939
Dopo l’incontro con Mamah Borthwich Cheney, traduttrice della scrittrice femminista svedese Ellen Key, Wright iniziò una nuova vita con lei nella casa studio di Taliesin Spring Green (1911-Wisconsin) manifesto del suo nuovo modo di pensare l’architettura nel paesaggio naturale. Seguiranno anni di grande trasformazione nel contesto contemporaneo dell’architettura. Per quanto riguarda Wright la sua vita venne segnata da una tragedia, l’omicidio della stessa Mamah Borthwich, dei due figli di lei e di altre persone ad opera di un lavorante a Taliesin. (come viene raccontato nel romanzo di T.C. Boyle Le donne, Feltrinelli, 2009). In seguito, per alcuni anni Wright visse in Giappone dove progettò anche l’Imperial Tokyo Hotel (1919-1923, poi demolito nel 1968). Successivamente in California negli anni 20 realizzò le …


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Alessandro Portelli: L’America profonda si cambia con un grande lavoro culturale

Alessandro Portelli, uno dei più importanti intellettuali italiani, è stato insegnante di Letteratura angloamericana all’Università La Sapienza, ha collaborato con Giovanna Marini e Ascanio Celestini, ma ha anche scritto testi per Edoardo Bennato. Narratore di ibridi tra saggio, ricerca documentaria e storia sociale, come Acciai speciali, L’ordine è già stato eseguito, editi da Donzelli così come un volume straordinario e di grande potenza espressiva, tra i bei libri italiani degli ultimi vent’anni, come America profonda, una controstoria degli States vista da Harlan County, Kentucky, in una regione mineraria dei monti Appalachi dove per scriverlo è tornato per trent’anni intrecciando ricerca sul campo, fonti archivistiche, letterarie e giornalistiche.
Con Il ginocchio sul collo (Donzelli), tu che sei anche uno studioso della storia americana hai ravvisato nell’assassinio di George Floyd elementi simbolici, come “il diritto al respiro”, e commentato gli ultimi tragici fatti di cronaca. Cosa ci dice, oltre i fatti, quello che è successo e sta succedendo negli Stati Uniti?
L’intreccio di crisi – economica, sanitaria, politica – sta scavando fratture sempre più profonde in una società che si è cullata nel mito di non avere conflitti e del consenso attorno a una sterminata classe media. Fasce crescenti di quelli che si credevano middle class scivolano – o sentono che rischiano di scivolare – verso il basso e cercano capri espiatori: gli immigrati, le “élite liberali”, le minoranze che sono sempre meno minoritarie, sempre meno vogliono stare al loro posto, tutto l’apparato del governo e delle élite. Con l’aiuto della disinformazione non solo dei social ma anche di media che vanno dalla Fox a tante radio, tv e stampa locali e non, ricorrono ad armamentari ideologici da sempre presenti nel Paese, sia come patrimonio di uno zoccolo duro razzista e sciovinista (annidato anche dentro la polizia) sia anche potenzialmente come risorsa ideologica a cui fasce più ampie ricorrono nei momenti di crisi. Fra il finto vichingo con le corna e gli oltre cento rispettabili deputati e senatori che anche dopo l’assalto al Campidoglio hanno votato mozioni che non riconoscevano l’elezione di Biden, c’è un tessuto connettivo che Biden dovrà spezzare se vuole poi ricominciare a unire.
Tu sei uno dei padri della storia orale, sei autore di saggi, ma anche di un libro straordinario, America profonda, dove racconti mezzo secolo di storia di un distretto minerario americano, storia viva. Come si può ancora in un mondo sempre più liquido e digitale, velocissimo, che consuma e cancella tutto, conservare e tramandare la memoria?
Io credo che la memoria non sia tanto da tramandare e conservare quanto da costruire attivamente. La memoria non è un deposito inerte di informazioni ma il rapporto attivo e mutevole fra il presente e il passato, fra il tempo del ricordare e il tempo ricordato. Per questo non abbiamo memoria attiva del passato se non abbiamo un rapporto intenso e critico col presente. Quando incontro gli studenti, dico sempre: noi sappiamo qualcosa della resistenza, della Shoah, magari del ’68, anche perché quelli che c’erano e sono tornati ce l’hanno raccontato. Se nel 2050 qualcuno vorrà sapere come erano questi tempi in cui viviamo, come farete a raccontarlo se non tenete gli occhi aperti adesso? Pensavo che la generazione di adesso non avrebbe avuto memorie traumatiche – guerre, rivolte, catastrofi – attorno a cui costruire la memoria; col Covid, anche questo è cambiato.
Stai continuando il lavoro di Gianni Bosio, che come hai scritto «individuava nella musica popolare (distinta dalla popular music) un luogo della memoria delle classi non egemoni, e in quanto tale una fonte essenziale per ricostruire dall’interno una storia del mondo popolare». Che iniziative avete in cantiere?
Lavoriamo da una dozzina d’anni al Circolo Gianni Bosio sulle musiche migranti a Roma e in Italia. Abbiamo raccolto musica di persone che vivono in Italia e vengono da 35 Paesi diversi. Musica che hanno portato con sé e che spesso cambia di significato cambiando di contesto – ho avuto un’esperienza significativa in questo senso quando sono venuto per un evento in cui c’eri anche tu a Porto San Giorgio: un lavoratore filippino che trasformava canzoni sul conflitto generazionale in canzoni di dolore per la lontananza dal figlio rimasto in patria. Ma abbiamo raccolto anche musica che hanno composto qui e che parla dell’esperienza di migrazione («sono sempre ospite in Italia», canta un ragazzo somalo: cioè, l’Italia non sarà mai casa sua). Attorno a questa ricerca abbiamo costruito una serie di eventi (concerti, seminari) e abbiamo finora cinque cd, ed è in produzione il sesto, dedicato ai canti dei\per\sui bambini. L’abbiamo chiamato Ius Soli. L’idea è che queste musiche migranti sono la nuova musica popolare in Italia, espressione di un mondo “non egemone” e di una classe lavoratrice sfrangiata, variegata e multicolore. Una cosa che sta prendendo piede in diverse parti d’Italia è quella dei cori multietnici: una forma di “integrazione” multilaterale, in cui italiani nativi e immigrati scambiano canzoni e imparano gli uni dagli altri.
C’è uno scrittore norvegese che amo molto, Dag Solstad, che ha scritto romanzi dove indaga sulla scomparsa dell’intellettuale nelle società occidentali dopo il crollo del muro di Berlino. Lui pensa che «L’individuo intellettuale, riflettente e letterato, è fuori dai giochi». È così?
Io ho l’impressione che l’individuo intellettuale in quanto tale fuori dai giochi ci sia stato sempre. Da una parte, perché sceglieva di collocarsi fuori, per chiudersi in una zona esclusiva e protetta oppure perché da fuori poteva avere una visione critica, autonoma. Dall’altra, perché in realtà anche chi crede di mettersi fuori dai giochi sta solo giocando in un altro modo: anche quello dell’intellettuale nella torre d’avorio è un ruolo sociale previsto e regolato. A me sembrano ancora utili due formulazioni di Gianni Bosio: l’«organizzatore di cultura» e «l’intellettuale rovesciato». Tutte e due vanno contro questa idea dell’intellettuale e della persona di cultura come microcosmo autosufficiente. L’intellettuale rovesciato prima di parlare ascolta, prima di insegnare impara; quindi ha bisogno degli altri per svolgere la sua funzione, è lui stesso l’esito di un processo sociale. E la sua funzione consisterà poi nell’usare gli strumenti di cui dispone per trasformare quello che ha imparato in azione sociale: non a caso, Bosio non ha fatto in tempo a finire di scrivere il suo libro più importante anche perché ha dedicato il suo lavoro a costruire organizzazioni, dal Nuovo Canzoniere italiano all’Istituto Ernesto De Martino alle leghe di cultura (Piadena, Acquanegra). E anche io so che senza realtà organizzate, dal Circolo Gianni Bosio al manifesto, tutto quello che faccio non avrebbe senso. Una postilla sul termine “letterato” – anzi, come dicono in inglese, the literati, inteso un po’ ironicamente come gruppo esclusivo di conoscitori e sapienti. Ha a che fare con il tempo in cui le “lettere” – intese proprio come conoscenza dell’alfabeto – erano privilegio di gruppi ristretti. A mano a mano che sempre più persone hanno avuto accesso alla scrittura, i “letterati” hanno cercato altre forme di comunicazione che salvassero l’esclusività; più si allarga l’accesso democratico alle forme della parola, più vengono inventate forme nuove di esclusione. Per esempio, l’esperienza della cosiddetta didattica a distanza dimostra che non è affatto vero l’idea che internet è a disposizione di tutti e nelle stesse forme. Una parte del lavoro dell’organizzatore di cultura – da Gianni Rodari a Mario Lodi ad Albino Bernardini – è quella di spezzare questa spirale antidemocratica della tecnologie della comunicazione.
Invece tu parlando di recente di Dominio di Marco D’Eramo, che descrive le dinamiche sociali e culturali del neoliberismo che riduce tutto a merce, una ideologia che si forma come Natura, interrogandoti sul che fare citi Sara Ogan Gunning, la grande voce musicale delle lotte dei minatori di Harlan County, che chiudeva un suo memorabile brano (“Odio il sistema capitalistico”) dicendo: «Che possiamo fare contro questa gente così forte e potente? Ebbene, ve lo dico io: possiamo lottare, lottare e lottare».
Diciamo che non sono mai stato bravo a indicare soluzioni e strategie – mi considero un eccellente seguace e un mediocrissimo leader… Chiaro che si tratta di restituire forza ai sindacati, di intrecciare i movimenti, e su questo non sono certo io quello che sa come si può fare. Nell’ambito delle cose che so fare, si tratta di cambiare l’aria intorno alle parole. Da una parte, ascoltare le parole – ascoltare criticamente, anche per confutare e contraddire, ma ascoltare; non faremo sparire i vichinghi con le corna se non sappiamo come ragionano quelli che gli stanno intorno; e indurremo po’ meno gente a stargli appresso se non continueremo a dare l’impressione che noi élite (perché questo siamo) non li stiamo a sentire. Dall’altra, dare forza alle parole: parte del nostro mestiere e del nostro privilegio è l’accesso alle forme della comunicazione, quindi spetta a noi fare in modo che le parole non ascoltate escano dal silenzio ed entrino nel discorso sociale (la storia orale è soprattutto questo). E poi, condividere i nostri strumenti: la subalternità alle false notizie e ai pregiudizi deriva anche dalla crisi del pensiero critico sociale – che a sua volta non è tanto un effetto della malvagità dei media e dei social quanto di decenni di aggressione all’istruzione. La scuola pubblica negli Stati Uniti è un disastro; da noi, sono un paio di generazioni che cerchiamo di trasformare il sistema scolastico da un luogo di formazione di cittadinanza a una megascuola professionale di avviamento ai lavori. Ecco, per quelli che come me non hanno in mano lo strumento dello sciopero, in un tempo che non è di barricate, una forma di lotta può essere la difesa della libertà di parola e di pensiero a partire dai luoghi in cui si formano.

 

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L’intervista corsara è stata pubblicata su Left del 5-11 febbraio 2021

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Stefano Petrucciani: Marx, un faro nella notte pandemica

A partire dalla crisi economica del 2008, e ancora oggi con la crisi sanitaria ed economica che attraversiamo, molti studiosi sono tornati al pensiero di Karl Marx. A distanza di oltre un secolo, la sua opera permette ancora un confronto franco con i paradossi della modernità, con le logiche che la attraversano e le criticità tutt’ora insuperate.
Stefano Petrucciani, filosofo e professore ordinario alla Sapienza università di Roma, conoscitore acuto dell’opera di Marx, ha pubblicato sul pensatore di Treviri numerosi libri e articoli. Dal 21 gennaio è in libreria Marx in dieci parole (Carocci), un testo che orienta all’interno del complesso itinerario marxiano e marxista, ricostruendo in tutta la sua vitalità un dibattito più attuale che mai.

«Oggi – ci dice Petrucciani -, almeno in Occidente, non ci sono più forze politiche organizzate di rilievo che assumano Marx come loro riferimento dottrinario». Questo offre ai lettori un vantaggio: «Finalmente possiamo affrontare questo grande pensatore al di fuori di un contesto che, pur valorizzandolo notevolmente, lo incapsulava entro delle strutture interpretative assai rigide, limitando la critica e la libertà scientifica». Evidenziare gli aspetti più promettenti e riflettere su quelli più contraddittori del pensiero marxiano offre al dibattito politico a sinistra nuovi compiti, inedite vie di emancipazione, nuove occasioni di confronto.

Professore, quali sono i temi più caldi a cui ancora oggi Marx ci impone di pensare?
Marx è stato un grande scienziato sociale, ha introdotto concetti fondamentali come quelli di classe e di ideologia. Ed è stato un grande studioso del capitalismo. La sua analisi del capitalismo si inscrive innegabilmente entro un orizzonte teorico i cui presupposti sono oggi rifiutati dal pensiero economico, come la teoria classica secondo cui il lavoro vivente dell’uomo è l’unica fonte di valore. E tuttavia è impossibile non riconoscere la rilevanza delle intuizioni di Marx intorno al modo di produzione capitalistico. Penso per esempio alla nozione di crisi come elemento fisiologico del capitalismo. L’economia capitalistica vive e si riproduce attraverso processi ciclici e attraverso passaggi di crisi. Non si tratta di una patologia evitabile: il capitalismo è un sistema dinamico, poiché mira a un’accumulazione indefinita di ricchezza; ma proprio questo lo rende strutturalmente instabile. In più, la crescita e lo sviluppo dell’innovazione innescati dall’economia capitalistica non comportano un aumento di opportunità di lavoro. Anzi, la diagnosi di Marx è che…


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Una democrazia avvelenata

TOPSHOT - Police detain a protester during a rally in support of jailed opposition leader Alexei Navalny in downtown Moscow on January 23, 2021. - Navalny, 44, was detained last Sunday upon returning to Moscow after five months in Germany recovering from a near-fatal poisoning with a nerve agent and later jailed for 30 days while awaiting trial for violating a suspended sentence he was handed in 2014. (Photo by NATALIA KOLESNIKOVA / AFP) (Photo by NATALIA KOLESNIKOVA/AFP via Getty Images)

«Vado in piazza a protestare perché credo che sotto Putin il Paese non solo sia diventato una dittatura ma ha anche visto peggiorare drasticamente la qualità della vita. Il dissenso e le opinioni alternative sono oppresse e il livello di corruzione è semplicemente spaventoso, sia nei piccoli problemi quotidiani che nelle grandi decisioni del governo». Sono le parole di Anastasia (nome di fantasia), giovane cittadina russa, rilasciate al nostro settimanale.

In Russia, domenica 23 gennaio, si sono svolte le più grandi manifestazioni di protesta contro il governo che l’era Putin ricordi. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Mosca, San Pietroburgo e in tante altre città periferiche dove è molto più raro che le manifestazioni di dissenso si propaghino. Le immagini dei cortei che hanno sfidato le temperature proibitive del “generale inverno” e la brutalità delle forze dell’ordine, hanno fatto velocemente il giro del mondo. Un moto di rivolta nato non per caso, ma, secondo gli analisti, figlio di un piano preciso. Il 17 gennaio, il principale oppositore del presidente Vladimir Putin, Aleksej Navalny (recentemente vittima di un misterioso avvelenamento), leader del partito populista di opposizione Russia Futura, si è consegnato alle autorità del Cremlino ed è stato immediatamente arrestato.

Il suo entourage, per tutta risposta, approfittando del clamore mediatico procurato dalla sua detenzione, ha diffuso una dettagliata inchiesta su una reggia attribuita a Putin sulle rive del mar Nero. Una villa di 17mila metri quadrati con un parco annesso di 7.800 ettari, un campo da hockey sotterraneo, un porto privato e oggetti di arredamento di lusso (il costo di un singolo divano di una sala da the di 1200 metri quadri, può superare i 20mila euro). In base a dei documenti pubblicati dall’agenzia internazionale Reuters, Vladimir Putin non avrebbe nulla di intestato ma il tutto sarebbe proprietà di vari prestanome. Tra questi compare Alexander Pomnomarenko, amico di vecchia data dell’ex agente del Kgb, ora capo del Cremlino.
La strategia di Navalny ha funzionato. Un video del così ribattezzato “nuovo palazzo di inverno”, effettuato con un drone, ha superato quota cento milioni di visualizzazioni su Youtube. Una propaganda che fa forza sulla discrepanza fra la ricchezza ostentata dall’oligarchia al potere e il basso stipendio medio di un cittadino russo. In un tweet di un account vicino all’oppositore del presidente si legge: «La residenza di Putin è la più grande casa privata in Russia. Il costo totale del palazzo, secondo Navalny, è di almeno 100 miliardi di rubli. E la tua pensione è di 140 dollari!». Mentre le proteste nel Paese aumentano, la…


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«Polizia ovunque, giustizia in nessun luogo»

TUNIS, TUNISIA - JANUARY 30: Tunisian protesters confront police officers forming a human shield to block the access to demonstrators to the interior ministry, during a rally to protest against "police repression" and demand the release of demonstrators detained in recent days in capital Tunis on January 30, 2021. (Photo by Yassine Gaidi/Anadolu Agency via Getty Images)

Il fraintendimento che negli ultimi dieci anni ha monopolizzato la narrazione delle primavere arabe ha trovato il suo miglior palcoscenico lì dove tutto è iniziato. In Tunisia. Il Paese che per primo si è sollevato, già nel dicembre 2010, contro i 23 anni di regime di Ben Ali ha scelto la data più significativa per rompere le righe: il 14 gennaio scorso, decimo anniversario della fuga del presidente da Tunisi dopo un mese di proteste di massa, i giovani sono tornati in piazza, di notte, sfidando un coprifuoco che più che anti-covid aveva palesemente mire anti-proteste.
E il fraintendimento coltivato dagli analisti occidentali si è frantumato. In Tunisia, dipinta come sola rivolta riuscita, capace di incamminarsi a grandi falcate verso la democratizzazione, è cambiato poco dal 17 dicembre 2010 quando il venditore ambulante Mohammed Bouazizi si diede fuoco a Sidi Bouzid, definitiva forma di protesta contro le angherie della polizia.

Se molto è cambiato sul piano dei diritti civili e politici – multipartitismo, elezioni, maggiore libertà di stampa, leggi contro le violenze domestiche e sessuali e modifiche alla patriarcale legislazione che limitava gli spazi politici e sociali delle donne – sul piano socio-economico i tunisini sono fermi al palo: le ragioni più profonde che a cavallo tra il 2010 e il 2011 portarono milioni di persone in strada (e ispirarono egiziani, siriani, yemeniti, bahrainiti) sono ancora lì, a strangolare ogni speranza di un futuro migliore, più eguale.

Da metà gennaio le proteste sono tornate, più limitate nei numeri ma non meno potenti. A manifestare sono giovani e adolescenti, minorenni, studenti e disoccupati. Molti erano bambini durante la rivoluzione dei gelsomini ma, come per altre società della regione, hanno assorbito un clima nuovo, una coscienza di sé e del cambiamento possibile che è per molti versi la migliore e più solida conquista delle rivoluzioni arabe.
Mentre scriviamo si è da poco conclusa un’altra grande manifestazione a Tunisi, che ha raccolto le istanze sollevate per prime dalle periferie della classe operaia e dei lavoratori a giornata, marginalizzate come dieci anni fa. Molti quartieri sono costruzioni informali, assorbite dalla grande città ma senza che a quell’annessione seguisse l’arrivo di servizi decenti e lavoro. Sabato 30 gennaio centinaia di persone hanno marciato sull’iconica Avenue Bourguiba verso la sede del ministero degli Interni. «Polizia ovunque, giustizia in nessun luogo», gridano e scrivono nei cartelli sollevati sopra le teste e le mascherine. Torna lo…


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Ma che bel «Rinascimento» sulla pelle degli schiavi

FILE - In this Monday, July 27, 2020, file photo, workers disinfect the ground outside the Grand Mosque, over fears of the new coronavirus, at the Muslim holy city of Mecca, Saudi Arabia. In place of the 2.5 million pilgrims who performed the hajj last year, only a very limited number of faithful — anywhere from 1,000 to 10,000 — are being allowed to take part in what is largely a symbolic pilgrimage amid the coronavirus outbreak. (AP Photo)

La partecipazione, ben remunerata, del senatore Matteo Renzi alla Conferenza sull’innovazione nei giorni scorsi in Arabia Saudita e le sue imbarazzanti dichiarazioni su un «Rinascimento» saudita hanno involontariamente prodotto un effetto positivo. Renzi ha ammesso di invidiare le modalità di Riyad di contenimento del costo del lavoro. Neanche una parola sull’assolutismo della famiglia reale, sui legami con il terrorismo, sull’applicazione della pena di morte e di pene corporali, sulla condizione femminile. I bassi salari e l’assenza di diritti sono resi possibili grazie ad un sistema che si sintetizza in una sola parola «kafala».
Si tratta di un sistema di regolamentazione del lavoro migrante in voga nei diversi Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo Arabo (Gcc) che comprende: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Bahrain e Qatar.

Kafala significa sponsorizzazione o patrocinio, ma si traduce anche col concetto tradizionale di “ergersi a garante” e in “prendersi cura” di chi non è in grado di badare a se stesso, come un minore, o forse una donna, uno straniero? Chi vuole lavorare nei Paesi Gcc necessita di un “kafeel” (sponsor).
La kafala fa perdere ai governi ogni responsabilità; le competenze su ogni aspetto della vita del dipendente ricadono sullo sponsor – che spesso coincide col datore di lavoro -, dal permesso di ingresso, al rinnovo, al visto di lavoro, alla cessazione del rapporto al trasferimento a altro datore di lavoro fino alla disponibilità a garantire un permesso di uscita.

Lo sponsor ha in mano la vita della persona entrata, dalle condizioni salariali ai documenti che consentono di restare legale. Sovente viene requisito il passaporto di chi lavora, il salario – già basso e tagliato anche del 50% in pandemia – spesso non viene corrisposto e, non da ultimo, ogni denuncia di abuso e di sfruttamento porta chi lavora a non poter esigere i propri diritti. Sono centinaia i casi rilevati da Human rights watch (Hrw ) di abusi, violenze, stupri per le lavoratrici e pene corporali per chi prova ad opporsi, fino a 300 frustate. Parliamo di Paesi in cui i diritti sindacali non sono garantiti e il rispetto dei diritti individuali è affidato ai datori di lavoro, senza alcun controllo.

Chi lavora può essere in qualsiasi momento licenziato e deportato nei Paesi di origine, condizione che gli Stati di provenienza non sono disponibili ad accettare.
Il Bangladesh, ad esempio, ha sottoscritto nel 2015 un accordo bilaterale per l’offerta di manodopera che ha portato decine di migliaia di donne ad una migrazione pressoché forzata, almeno 50mila nel solo 2019. Sia le famiglie che il Paese di partenza, malgrado i salari bassi, dipendono ancora dalle rimesse dei migranti. Il ministro degli Esteri del Bangladesh ha definito gli…


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