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Un atto di civiltà per i giovani nati o cresciuti qui

ROME, ITALY - JULY 05: A woman wearing a shirt that says "without citizenship" participates in "Gli Stati Popolari" in Piazza San Giovanni on July 5, 2020 in Rome, Italy. Many people from different parts of Italy have responded to the call of Aboubakar Soumahoro, the Italian-Evorian trade unionist, to gather in a square the voices and lives of the workers excluded from the States General of the government. (Photo by Simona Granati - Corbis/Getty Images)

L’Italia non è un Paese razzista, dicono, eppure le cose per chi ha la pelle di un colore diverso non sono facili, i nostri figli ce lo raccontano quasi tutti i giorni. Una cultura antirazzista parte anche dal coraggio di fare leggi necessarie come quella sulla cittadinanza, come l’abolizione dei decreti sicurezza, come l’annullamento degli accordi con la Libia. Un Paese che promuove la pacifica convivenza tra diverse etnie e l’antirazzismo non può rifinanziare la guardia costiera Libica. Questo ci rende complici di atroci violenze.
È arrivato il momento del coraggio e della determinazione, non possiamo più aspettare.
Provate a immaginare come possa essere la vita per chi viene qui per migliorare la propria esistenza senza avere nulla, per chi viene qui talvolta proprio per poter continuare a vivere. Provate a pensare ai loro figli, ai bambini nati qui, che di fatto sono un ponte tra culture diverse perché portano con sé, in eredità, la cultura del Paese di origine e la fondono con la nostra. Sono anni che sentiamo parlare di ius soli e ius culturae quasi fossero un braccio di ferro tra avversari politici.
Dare la cittadinanza italiana a chi nasce in Italia da genitori stranieri, a chi in Italia impara a parlare, a camminare e a vivere, a chi in Italia studia e si forma, è un atto di civiltà dovuto e siamo già in estremo ritardo. È un atto di civiltà dovuto che aggiunge diritti a tutti e non ne toglie a nessuno. È un atto di civiltà dovuto che crea comunità e senso di appartenenza e di questo, il nostro Paese, ha estremo bisogno. Ed è ora di dire chiaramente che i diritti civili non sono in alcun caso alternativi ai diritti sociali. Quando ci dicono: «Con la disoccupazione che c’è pensate alla cittadinanza per i figli degli immigrati»; quando ci dicono: «L’Italia è in ginocchio per il Covid, tutto crolla e voi pensate a dare la cittadinanza ai figli degli immigrati», ecco, quando ci dicono questo ci…

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L’autrice: Gabriella Nobile ha fondato l’associazione Mamme per la pelle che è tra i promotori della manifestazione del 3 ottobre a Roma per una legge sulla cittadinanza. Ha scritto il libro I miei figli spiegati a un razzista, edito da Feltrinelli con la prefazione di Liliana Segre

L’articolo prosegue su Left del 2-8 ottobre 2020

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Eutanasia di uno Stato sovrano

Sono trascorsi pochi giorni dal 150esimo anniversario della Breccia di Porta Pia, una data fondamentale per i diritti e le libertà dei cittadini del nostro Paese. Il 20 settembre 1870 segnò la fine dello Stato della Chiesa, della dottrina cattolica reale: uno Stato in cui il potere era esercitato ricorrendo alla pena di morte, rinchiudendo nel ghetto gli ebrei, contrastando i diritti umani in nome della fede. Ancora oggi quella che un tempo si chiamava Santa Inquisizione, ora Congregazione per la dottrina della fede (Cdf), ce la mette tutta per negare diritti e contrastare l’autodeterminazione delle persone.

Mi riferisco alla lettera Samaritanus bonus, approvata dal “rivoluzionario” papa Bergoglio, nella quale la Congregazione sembra vivere in un mondo a parte. Un mondo in cui parole e concetti crudeli vengono fatti passare per insegnamenti morali. Eutanasia e suicidio assistito, nel mondo basato invece su valori esclusivamente umani, sono considerati in maniera sempre più diffusa e consapevole diritti da riconoscere, atti compassionevoli, traguardi di libertà per evitare che altri decidano al posto nostro in quali condizioni di sofferenza terminare l’esistenza che appartiene a ciascuno di noi. Al contrario nel mondo di Bergoglio e della Congregazione per la dottrina della fede sono crimini, perché «si decide al posto di Dio il momento della morte», perché «ledono grandemente l’onore del Creatore» e perché oscurano «la percezione della sacralità della vita umana».

Basterebbe rispondere che in uno Stato che non è più quello del papa-re queste considerazioni non interessano né devono interferire in alcun modo con chi a Dio non crede, o con chi non si cura dell’interpretazione arbitraria della presunta volontà divina autocertificata da papa Bergoglio e dalle sue controllate. Ma a ben vedere la lettera della Congregazione non parla a…

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L’autore: Roberto Grendene è segretario della Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti

L’articolo prosegue su Left del 2-8 ottobre 2020

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Il risveglio del papa re

Pope Francis during of a weekly general audience in the San Damaso's courtyard in Vatican, Wednesday.September 30, 2020 (Photo by Stefano Spaziani) | usage worldwide Photo by: Stefano Spaziani/picture-alliance/dpa/AP Images

Papa Bergoglio si occupa nuovamente di aborto. Lo fa scendendo in campo contro le donne polacche, di nuovo in piazza nel loro Paese, dove si discute una proposta di legge che vuole riportare l’aborto nell’inferno della illegalità e delle pratiche clandestine. Lo fa con un atto fortemente simbolico, la benedizione di una campana che è stata chiamata «la voce dei non nati», commissionata dalla fondazione polacca “Sì alla Vita”. Benedicendola, il papa alza la voce, per dire che la campana dovrà ricordare, con il suo suono, il valore della vita umana, «dal concepimento alla morte naturale», risvegliando «le coscienze dei legislatori e di tutti gli uomini di buona volontà, in Polonia e nel mondo». Più che al suono della campana polacca, però, è attraverso un corposo documento elaborato dalla Congregazione per la dottrina della fede e da lui stesso approvato, che il papa pretende obbedienza da «politici, legislatori e da tutti gli uomini di buona volontà».

Dalle pagine della lettera Samaritanus bonus, sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita viene lanciato infatti un vero e proprio anatema contro le istituzioni e la politica che legittima «pratiche di morte» quali eutanasia, suicidio assistito, aborto. Riguardo quest’ultimo, il paragrafo 6 del documento si occupa in particolare del cosiddetto «aborto terapeutico». Da comunicatore esperto, il papa sa bene che nella vita reale le persone, anche moltissime di fede cattolica, sono favorevoli alla diagnosi prenatale e alla possibilità di interrompere la gravidanza in presenza di una patologia fetale non curabile. Per questo, il documento condanna violentemente «l’uso a volte ossessivo della diagnosi prenatale», che «può portare alla scelta dell’aborto, uccisione deliberata di una vita umana innocente». Non esclude, ovviamente, la diagnostica prenatale di per sé molto remunerativa ed ampiamente praticata da moltissimi istituti di ispirazione confessionale, ma ne condanna ipocritamente le finalità, qualora siano «selettive…espressione di una mentalità eugenetica». E ancora: «Nel caso di patologie fetali incompatibili con la vita – cioè che sicuramente porteranno a morte entro breve lasso di tempo – e in assenza di terapie fetali o neonatali in grado di migliorare le condizioni di salute di questi bambini, in nessun modo essi vanno abbandonati sul piano assistenziale, ma vanno accompagnati… fino al sopraggiungere della morte naturale». Dunque, i feti affetti da gravi patologie sono condannati alla nascita e alla sofferenza, «poiché nella sofferenza è contenuta la grandezza di uno specifico mistero che soltanto la Rivelazione di Dio può svelare».

Nasceranno, per essere affidati agli Hospice perinatali, dove potranno comunque avvalersi, con la famiglia, oltre che del supporto medico, di quello spirituale degli «operatori della pastorale». Purtroppo, ancora oggi, in Italia le donne con diagnosi di grave patologia fetale dopo la 22-24esima settimana, dopo cioè che il feto ha acquisito la possibilità di vivere autonomamente al di fuori dell’utero, non hanno alcuna possibilità di interrompere la gravidanza e per esse la sola prospettiva praticabile è quella di far nascere un figlio malato da affidare a un Hospice perinatale. In questa epoca gestazionale, infatti, l’aborto viene praticato con la somministrazione di farmaci che inducono un travaglio abortivo. Poiché l’articolo 7 della legge 194 afferma che «quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto… il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto», di fatto è esclusa la possibilità di soppressione del feto in utero, come succede in altri Paesi europei e come raccomandato dalle principali società scientifiche internazionali. Ciò comporta il rischio che, seppur gravemente malato, il feto possa nascere vivo, e che il medico debba rianimarlo, aggravando una situazione già drammatica di per sé. Le cittadine italiane che, in queste condizioni, dovessero decidere di interrompere la gravidanza, non hanno dunque alcuna possibilità di farlo in Italia e sono costrette a migrare all’estero, soprattutto in Francia, Grecia, Inghilterra, verso paesi più attenti alla salute delle donne. Così il mite Francesco, dopo aver parlato del principio di sussidiarietà e dell’aiuto alle fasce deboli della popolazione, si rivolge ai legislatori, facendo tuonare la voce della condanna. I toni durissimi del “Buon samaritano” non sono una novità, anche se è gravissimo l’imperativo col quale il documento si rivolge al legislatore e col quale si impone l’obiezione di coscienza o – laddove questa non sia prevista dalla legge – la disobbedienza civile. Non sappiamo quanti medici cattolici lo seguiranno su questa strada, giacché la disobbedienza civile è una scelta che comporta un rischio concreto, a differenza dell’obiezione di coscienza che viene premiata; ma non ci si può stupire: è ovvio che il papa dica queste cose. Non è normale, invece, che in uno stato laico queste parole abbiano un’eco e possano influenzare il comportamento di politici e legislatori.

Non è normale che la politica si preoccupi, quando prende decisioni, del gradimento dell’altra riva del Tevere, né che si preoccupi di bilanciare scelte non gradite al Vaticano con concessioni inimmaginabili, qual è ad esempio il conferimento a Monsignor Paglia, consigliere spirituale della comunità di Sant’Egidio, della presidenza della commissione sulla popolazione anziana istituita dal Ministero della Salute. La nomina del monsignore, infatti, segue a breve l’annuncio dell’aggiornamento delle linee di indirizzo sulla IVG farmacologica, che dovrebbero facilitarne l’accesso, permettendo il regime ambulatoriale ed estendendola a 9 settimane. Un annuncio che, peraltro, rimane ad oggi lettera morta, impossibile da mettere in pratica, giacchè le nuove linee di indirizzo non sono ancora state pubblicate. L’agnello misericordioso è dunque in realtà un lupo feroce, che non esita a mostrare gli artigli. Gli agnelli, invece, sono pavidamente seduti in parlamento, tremanti e pronti a genuflettersi ad ogni suo diktat. Perché in Italia la laicità è solo una parola, ed è a noi tutti, cittadine e cittadini, che spetta il compito di darle significato. Per quanto ci riguarda, ci impegneremo, da oggi, per cambiare l’articolo 7 della legge 194, perché anche in Italia si possa praticare l’aborto in utero. Perché vogliamo che anche alle donne finora costrette ad andare all’estero sia riconosciuto diritto di cittadinanza.

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L’appuntamento: venerdì 2 ottobre alle ore 19, la ginecologa Anna Pompili, cofondatrice di Amica-Associazione medici italiani contraccezione e aborto, coordina con la ginecologa Mirella Parachini la sessione sul tema dell’aborto al XVII Congresso dell’Associazione Luca Coscioni. L’incontro che si svolge online verrà trasmesso sul sito dell’Associazione Coscioni.

 

L’articolo è tratto da Left del 2-8 ottobre 2020

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Alla ricerca di uno Stato laico

L’Inps ha sottoscritto un protocollo con la Caritas diocesiana che prevede l’apertura di sportelli per la gestione delle domande di assistenza in tutti i circa 8mila comuni italiani. Dovendosi occupare dei bonus bebè, degli assegni per gli asili nido, degli assegni familiari, delle domande per il reddito di cittadinanza e altro la Caritas avrà accesso alla enorme banca dati dell’Inps. Laddove l’organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana per la promozione della carità non ha locali idonei per gestire le domande di assistenza da inoltrare telematicamente all’Inps, questi saranno messi a disposizione direttamente dai Comuni interessati i quali si accolleranno le spese delle utenze e della manutenzione. L’accordo è stato siglato da Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, e Antonio Decaro, presidente dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani), con don Marco Pagniello, responsabile delle politiche sociali della Caritas. Esso prevede, si legge sul sito della Caritas, «la realizzazione di attività di orientamento specificamente rivolte a coloro che si trovano in condizioni di disagio socio-economico che potrebbero non essere a conoscenza né essere adeguatamente informati sulle prestazioni socio-assistenziali e previdenziali erogate dall’Inps a cui avrebbero diritto». A informarli ci penserà, appunto, non lo Stato di cui queste persone indigenti sono cittadini, ma un’associazione privata religiosa che fa capo alla Chiesa attraverso i suoi Caf e patronati.
La notizia che avete appena letto sembra decisamente fare il paio con la recente nomina di un arcivescovo, mons. Paglia, a capo della Commissione ministeriale per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana, stabilita dal ministro della Salute, Roberto Speranza.

Di questa cosa sui media italiani qualcosa si è detto, e conoscerete la nostra chiave di lettura nelle pagine che seguono; dell’ingresso della Conferenza episcopale in 8mila sportelli Inps invece no. Eppure come è facile intuire è un progetto che ci riguarda tutti molto da vicino. Insomma dal punto di vista giornalistico la notizia ci sta tutta e sarebbe degna, a nostro avviso, di un’attenzione di gran lunga superiore a quella riservata, per dire, a quel cardinale che stando a quanto si legge si sarebbe messo a fare affari in proprio con i soldi dell’Obolo di San Pietro abusando della fiducia del papa. In realtà sarebbe più corretto usare il verbo al passato prossimo. Già perché l’accordo Inps-Caritas di cui abbiamo appena parlato è stato siglato l’11 dicembre 2019 ed è dunque già in vigore da quasi un anno. All’epoca nessuno ne parlò, se non in termini di notizia da 10 righe riportata acriticamente, tanto meno nessun giornale approfondì (tranne Left, e quindi desideriamo tranquillizzare qualche nostro lettore che avrà avuto un déjà vu). In ballo ci sono soldi pubblici italiani e non privati di uno Stato estero come nel caso dell’Obolo ma niente: la questione è stata deliberatamente lasciata sprofondare nel dimenticatoio. Come se fosse normale che parte del nostro welfare venga subappaltato, a spese nostre è bene ribadirlo, ad “ambasciatori” di un Paese straniero.

È questo uno dei numerosissimi casi in cui la stampa italiana in presenza di notizie che riguardano la Chiesa ha adottato e adotta una sistematica, imbarazzante autocensura. Per quale motivo, ci si chiede. Sudditanza psicologica? Scarsa cultura laica? Clericalismo? Non abbiamo qui una risposta, forse valgono tutte, ma portiamo un altro esempio: la lettera Samaritanus bonus emanata dalla Congregazione della dottrina per la fede (un tempo l’Inquisizione) e approvata da papa Francesco, nella quale senza tanti giri di parole il capo della Santa Sede ha cercato ancora una volta di condizionare con tesi ideologiche e antiscientifiche «le coscienze dei legislatori» e il dibattito pubblico e laico su eutanasia, suicidio assistito e interruzione volontaria di gravidanza. Anche qui, tranne poche voci critiche, la nostra stampa ha lasciato correre tutto in cavalleria. Di nuovo, come se fosse normale che uno Stato laico e democratico al momento di legiferare accetti le interferenze di una teocrazia religiosa. O meglio, come se non fossero passati 150 anni dal 20 settembre 1870 e dalla fine del potere temporale dei papi.
C’è il sospetto che al pontefice, in Italia, sia ancora riconosciuta, non si capisce bene per quale motivo e a quale titolo, il ruolo di guida etica oltre che spirituale nei cui confronti non è lecito esercitare il diritto di critica. E forse è per questo che c’è qualcosa di stonato, ai limiti del morboso nell’attenzione dedicata alle vicende del cardinale Becciu. Se le accuse nei suoi confronti saranno provate, non sarà il primo ecclesiastico e probabilmente non sarà l’ultimo a essere caduto… in tentazione (ci si passi la citazione) di fronte agli stramiliardi che la Chiesa incassa sotto forma di donazioni, oboli e “tasse” da tutto il mondo. In molti casi il risalto dato alla vicenda sembra strumentale all’esaltazione della figura di Bergoglio. È già accaduto più volte in presenza di casi di pedofilia quando a nove colonne si è rilanciato il grido di “tolleranza zero” nei confronti del pontefice argentino. Nel caso di Becciu la sostanza è la stessa: “Il papa ordina il pugno di ferro” abbiamo letto in giro. Ma quando mai? E soprattutto, cosa significa in ottica religiosa “tolleranza zero” o “pugno di ferro”? Data l’apertura di credito incondizionata di cui gode Francesco I in Italia anche da parte di ambienti politici e del mondo dell’informazione tendenti a sinistra o quanto meno non dichiaratamente conservatori, raramente domande del genere trovano risposta sui media. Ne consegue, quotidianamente, una esaltazione del personaggio Bergoglio che non tiene conto dell’inapplicabilità di una visione laica, che parta cioè dal rispetto dei diritti inalienabili della persona, a un’organizzazione come quella della Chiesa cattolica che per sua natura e cultura si oppone a questi stessi princìpi. Ci si chiede infatti come si può dimenticare che il pontefice sia eletto da una ristretta casta di soli uomini e che riassume in sé il potere legislativo, esecutivo e giudiziario come un qualsiasi dittatore o un monarca del ’700 (questo significa tra l’altro che pur non potendo controllare tutto ciò che accade nel mondo ecclesiastico è il papa e non altri a scegliere i suoi collaboratori più stretti, come monsignor Becciu ad esempio).

La pretesa che ogni ecclesiastico ha, dal pontefice in giù fino all’ultimo dei sacerdoti, di mostrarsi come guida morale della società si scontra con questo, oltre che con una storia non sempre edificante della religione che rappresentano. Una storia millenaria di intolleranze verso le altre religioni e di inaudite violenze psicofisiche soprattutto contro le donne e i bambini. Ma a politici e media italiani basta un annuncio per annullare tutto.
Il punto è che “tolleranza zero” o “pugno di ferro” si intendono contro il peccato e non contro il peccatore. Nessun giornalista considera mai che le fragilità di un ecclesiastico anche quando sfociano in un comportamento criminale, per la Chiesa sono pur sempre peccati, e dai peccati Dio salva. Quindi verso i peccatori vanno usati misericordia e perdono, perché «chi tra voi è senza peccato scagli la prima pietra». Questa doppia morale…

L’editoriale è tratto da Left del 2-8 ottobre 2020

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Gary Younge: L’antirazzismo negli Usa di Trump non si esprime solo con il voto

Non molti hanno saputo raccontare la violenza che dilaga nelle strade degli States a danno in particolare delle minoranze etniche come ha fatto Gary Younge. Giornalista e scrittore britannico, per lunghi anni è stato corrispondente per il Guardian dall’altra sponda dell’Oceano. Nel suo libro inchiesta Un altro giorno di morte in America (Add editore, 2018), molto citato in questi mesi, sceglie un giorno qualsiasi descrivendo le storie dei dieci ragazzi uccisi in quelle 24 ore negli Stati Uniti con un colpo di arma da fuoco. Partendo dalla consapevolezza che quotidianamente perdono la vita in questo modo sette giovani, perlopiù maschi, neri, di alcune città particolarmente pericolose. Vittime di una società dove discriminazioni razziali e sociali si intrecciano fino a confondere i loro contorni. Con lui facciamo il punto sulle spinte popolari per superare le disuguaglianze strutturali tra bianchi e neri che, a partire dagli Usa, si sono moltiplicate nel mondo.

Il movimento Black lives matter (Blm), nato durante la presidenza Obama, è esploso dopo l’uccisione di George Floyd. Quali sono le sue novità rispetto ai precedenti movimenti per i diritti civili? Quali le prospettive future? Pensi che riuscirà davvero a cambiare radicalmente le politiche razziste anche senza leader e senza “scendere in politica”?
Le rivolte attuali sono più simili alle ribellioni della fine degli anni Sessanta in città come Detroit, Newark, Chicago e Dc che al movimento per i diritti civili. Ma una differenza fondamentale tra allora e oggi è che il movimento Black lives matter si è diffuso nell’intero Paese. Abbiamo visto episodi di resistenza nelle piccole città, nelle aree rurali e nelle periferie. Riesce molto più facilmente a proliferare a causa dei social media, ma ha molta più difficoltà a strutturarsi. In realtà somiglia più ad una rete che ad un movimento. È impossibile prevedere le sue prospettive future in questo momento. In se stesse e considerate singolarmente le proteste non porteranno a nulla di concreto – raramente accade e certo non accadde durante il movimento per i diritti civili. Ma hanno aumentato la consapevolezza e la sensibilità culturale e galvanizzato grandi gruppi di persone, ponendo così le basi per un cambiamento concreto. Gli attivisti Blm non partecipano alle elezioni ma fanno comunque politica. La politica è molto più delle sole elezioni. Essi sono riusciti comunque a spostare, senza dubbio, l’agenda dei politici tradizionali. Inoltre, proprio le stesse domande furono poste a Martin Luther King. Kennedy gli disse che la marcia su Washington era «uno spettacolo sulla collina» mentre ciò che era veramente necessario era modificare la legislazione. Ma la realtà è che le leggi non sarebbero state cambiate nel modo in cui lo furono, senza le manifestazioni. Nelle parole dell’abolizionista del XIX secolo, Frederick Douglass: «Il potere non concede nulla senza una richiesta. Non lo ha mai fatto e mai lo farà»

Il movimento Blm pone l’accento sulle discriminazioni basate sulla razza. Ma il razzismo si lega al neoliberismo. Si dovrebbero dunque sottolineare di più le discriminazioni legate alla classe, oppure in questa fase è importante che il movimento riceva l’approvazione di una fascia di borghesia ricca che però non accetta le politiche di Trump?
Il razzismo si lega al neoliberismo, perché questo neoliberismo è il sistema in cui ci muoviamo. Ma ovviamente precede il neoliberismo. È sopravvissuto a forme di società agraria (schiavitù), fordismo e forme di capitalismo più “addomesticate”, nonché a stalinismo e maoismo. Quindi il neoliberismo non è una precondizione per il razzismo, ne descrive solo l’attuale contesto. Cercare di cogliere le questioni della “razza” o della “classe” in modo separato significa fraintenderle completamente. Certamente sono soprattutto gli afroamericani della classe operaia ad a subire le conseguenze più tragiche delle violenze poliziesche. Ma tale violenza non viene inflitta ai bianchi poveri nella stessa proporzione o nello stesso modo. Quindi chiamare il fenomeno con il suo nome, “razzismo”, non ha nulla a che fare con la ricerca dell’approvazione di una middle class benestante che però non accetta le politiche di Trump. Si tratta di chiamarlo per quello che è in un Paese che fu uno Stato schiavista per più di duecento anni, uno Stato dove si è praticato l’apartheid per cento anni ed è una democrazia non razzista da soli sessant’anni circa. E chiaramente, se l’obiettivo fosse cercare l’approvazione dei ricchi bianchi, nessuno si ribellerebbe.

Hai scritto e documentato che il Covid ha accentuato le disuguaglianze razziali. In che modo è successo?
Dunque, il razzismo è una condizione preesistente. Così come l’oppressione di classe. C’erano prima del Covid-19. Così, quando è arrivata la pandemia, ha colpito in particolare chi vive in spazi sovraffollati, chi non si può permettere di non andare al lavoro, chi è tagliato fuori dall’assistenza sanitaria, chi aveva comunque una salute peggiore, chi si è trovato ad operare in settori come la guida dei taxi, i trasporti pubblici, la sicurezza, la sanità e così via. Si tratta di persone in maggior parte povere e poiché i neri e le minoranze etniche sono rappresentati in modo…

L’intervista prosegue su Left 

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Politicamente colpevole

Foto Gian Mattia D'Alberto - LaPresse 21-09-2020 Milano Cronaca Conferenza stampa di Matteo Salvini dopo i risultati elettorali nella foto: Matteo Salvini Ph Gian Mattia D'Alberto - LaPresse 2020-09-21 Milan News Matteo Salvini press conference in the photo: Matteo Salvini

Sarà il fine settimana del processo a Salvini, ci sarà il leader a sbraitare (lo sta già facendo da tempo) e tutti i suoi fan a inondare televisioni e social, tutti continuamente decisi a trasformare un processo giudiziario in un’arma politica, come sempre, da sempre, in questa politica italiana che si aggrappa ai giudici per avere lezioni etiche e morali, confondendo i due piani a proprio piacimento e sventolando i processi a favore o contro in base alle proprie convenienze. Matteo Salvini ha consegnato la sua difesa, anticipandola, qualche giorno fa a Barbara D’Urso (fate un po’ voi): il leader leghista sa bene che quel processo può essere un capitale da sfruttare fuori dall’aula giudiziaria. Allora lasciando da parte la sfida in punta di diritto conviene comunque tenere a mente qualche ragionamento che sarebbe il caso di ripetere, per l’ennesima volta.

Matteo Salvini è colpevole di avere usato delle persone per spingere una trattativa politica. Anzi: Salvini è colpevole di usare gli stranieri per fare politica. Non serve una sentenza di un tribunale per ripetere le centinaia di volte in cui ha usato un singolo fatto di cronaca nera per riproporlo come paradigma di un mondo. Salvini usa le persone: usa i suoi detrattori per dare sfogo alla sua folla, usa addirittura i presunti assassini perché è incapace di ragionamenti complessi sulla sicurezza, ha usato un citofono privato per fare campagna elettorale e ha usato i naufraghi della Gregoretti (perché erano naufraghi, va ricordato) per trattare con l’Europa, lo scrive lui stesso nella sua difesa in cui dice di averli tenuti alla deriva in attesa della conferma dei ricollocamenti. Un politico che ha bisogno del corpo dei disperati per trattare sui tavoli politici è colpevole di inettitudine e ferocia.

Matteo Salvini è colpevole di avere inventato una guerra contro gli ultimi. E proprio di guerra si tratta: se nella sua difesa dice di avere “difeso” la Patria significa che l’arrivo di quelle persone metteva a rischio la sicurezza nazionale. È un linguaggio sottile che poi esplode nella violenza verbale dei suoi sostenitori.

Matteo Salvini è uno dei mandanti morali del razzismo dilagante in Italia. Come Trump qualche giorno fa Salvini, da anni, non condanna il razzismo per accarezzarlo. Matteo Salvini ha sdoganato nelle sue liste i peggiori xenofobi (e fascisti) che si siano visti negli ultimi anni. Matteo Salvini ha inventato un “razzismo al contrario” contro gli italiani usando lo stesso furbo trucco che venne già usato nel corso della storia.

Matteo Salvini è colpevole di usare la paura come arma politica, ed è una vigliaccheria. Come scrive Jean-Paul Sartre nel suo libro L’antisemitismo – Riflessioni sulla questione ebraica, il razzista «è un uomo che ha paura. Non degli ebrei, certamente: ma di sé stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento della società e del mondo; di tutto meno degli ebrei… Sceglie la permanenza e l’impenetrabilità della pietra, l’irresponsabilità totale del guerriero che obbedisce ai suoi capi, ed egli non ha un capo. Sceglie di non acquistare niente, di non meritare niente, ma che tutto gli sia dovuto per nascita – e non è nobile. Sceglie infine che il Bene sia bell’è fatto, fuori discussione, intoccabile… L’ebreo qui è solo un pretesto: altrove ci si servirà del negro o del giallo».

Matteo Salvini è colpevole di avere sdogano il fascismo di ritorno. L’ha fatto furbescamente iniettando un po’ di antiantifascismo e ogni volta finge di non avere consapevolmente eccitato gli animi di certa destra eppure ai suoi comizi sono rispuntati coloro che fino a ieri si vergognavano di essere fascisti e invece oggi lo gridano fieri.

Questo al di là della sentenza sulla Gregoretti. Perché sarebbe ora di prendersi la responsabilità di dare giudizi politici, senza aspettare processi.

Buon venerdì.

Dalla Sorbona all’Erasmus passando per Roma, essere universitari ai tempi del Covid

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 30 Settembre 2020 Roma (Italia) Cronaca : Ripresa delle lezioni alla facoltà di Economia della Sapienza in tempo di Covid Nella Foto : una lezione in aula Photo Cecilia Fabiano/LaPresse September 30 , 2020 Roma (Italy) News : Lessons at Economy faculty at Sapienza University during Covid In The Pic : a lesson in the classroom

Disuguaglianze, rischio di isolamento, carenze nelle formazione. Sono i problemi che si trovano a fronteggiare in Italia gli studenti universitari, dopo l’inizio dell’anno accademico. I corsi stanno progressivamente ricominciando e le biblioteche hanno riaperto le porte. Le misure previste per rispondere all’emergenza sanitaria da Covid-19 sono molte. La mascherina nei locali chiusi è obbligatoria, il distanziamento sociale dev’essere sempre rispettato ed è previsto che le aule restino occupate solo al 50% dei posti. Il governo Conte ha puntato su un modello di didattica misto: una parte dei corsi sarà in presenza e un’altra a distanza, per poter garantire la continuità didattica arginando la diffusione del virus.

Soluzioni che però presentano numerose problematiche. Il blocco della didattica in presenza degli scorsi mesi hanno senza dubbio lasciato il segno. Molti studenti universitari non sono riusciti a seguire con continuità i corsi durante il lockdown e la didattica a distanza resta uno strumento che non tutti riescono ad utilizzare allo stesso modo. Presuppone che gli studenti posseggano un pc, abbiano una buona connessione ad internet, e un luogo adeguato per studiare. Non sempre è così. Le diverse condizioni economiche e sociali, sommate al digital divide tra le varie zone d’Italia, fanno esplodere le disuguaglianze rispetto al diritto all’istruzione.

Agata, una studentessa della Sapienza ammette che i corsi a distanza sono «la sola soluzione» ma anche che «è difficile concentrarsi a casa». Inoltre, ricorda, «le biblioteche riapriranno, ma con una capienza d’accesso limitata, e così anche accedere ai prestiti librari sarà più difficile». Anche per questo gli studenti assieme ai docenti sono scesi in piazza lo scorso 26 settembre a Roma, sotto lo slogan “Priorità alla scuola”, per chiedere un’istruzione che garantisca sicurezza, presenza e continuità.

La pandemia ha inoltre accentuato la precarietà delle condizioni dell’occupazione dei tanti studenti che devono lavorare per poter pagare i propri studi universitari. Lavorano come babysitter, camerieri, offrono lezioni private ai ragazzi che hanno bisogno di ripetizioni. Attività notevolmente frenate durante il lockdown. E così, la situazione finanziaria di tanti universitari si è fatta critica.

La didattica mista, inoltre, espone gli studenti al rischio di isolamento. La necessità di frequentare fisicamente l’università in modo saltuario e la difficoltà a trovare una postazione libera nelle biblioteche li costringono a stare molti giorni a casa. Inoltre, anche la vita sociale degli studenti è fortemente limitata. Tutte le attività associative hanno subito rallentamenti e ostacoli.

Vivono le stesse difficoltà gli studenti che decidono di affrontare un percorso formativo all’estero. Basta guardare a ciò che accade al di là delle Alpi: in Francia le università hanno riaperto ad inizio settembre ma tutti gli eventi che permettevano di integrare i “nuovi arrivati” dall’estero son stati annullati. Come è possibile conoscere altri studenti, imparare la lingua, se diventa così difficile incontrarsi? Anne-Flore, una studentessa dell’università francese Sciences Po Rennes e co-presidente della principale associazione studentesca dice a Left che le restrizioni dovute al Covid «saranno dannose perché l’attuale contesto rischia di mettere diversi studenti in una situazione di solitudine». La studentessa ribadisce l’importanza della vita associativa come mezzo di realizzarsi come persona e di costruire la propria identità: «È attraverso le attività associative, sportive, culturali, politiche che scopri le tue passioni e che puoi condividerle con altre persone, si tratta di ciò che anima la tua vita».

Nel frattempo, la Commissione europea si è impegnata a rendere l’Erasmus più flessibile per quanto possibile, per limitare l’impatto negativo della crisi sugli studenti. Molti dei quali non hanno avuto la possibilità di partire.

Clara, una studentessa della Università Sorbona di Parigi ha dovuto annullare il suo Erasmus a Lubiana quest’anno. «È essenziale di andare all’estero», dice Clara. Non partire sarà una carenza nel suo percorso formativo. «L’Erasmus – aggiunge – permette di acquisire la conoscenza di un’altra lingua e di sviluppare il proprio pensiero critico, studiando spesso in un modo diverso rispetto a come si fa nell’ateneo del tuo Paese». Ma soprattutto, chiosa Clara, studiare all’estero consente di acquisire «un’apertura mentale innegabile».

Fuori i papi dal Parlamento

Sui media italiani campeggia da giorni il caso di Angelo Becciu, cardinale dimissionato da papa Francesco perché accusato di speculazione finanziaria e immobiliare e di aver (per fini privati) distratto soldi dall’Obolo di San Pietro collettore di offerte e donazioni per le azioni sociali della Chiesa nei confronti dei poveri.

Fuori i mercanti dal tempio, tuona l’Espresso in difesa di Bergoglio, riportando le sue parole di qualche anno fa: «È una cosa sporca e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è un cristiano, puzza».

Che c’è di nuovo? Viene da chiedersi. La storia della Chiesa santa e apostolica è costellata di vicende di questo tipo, dal caso Calvi agli scandali che hanno riguardato lo Ior. Per non dire di peggio, pensando all’odioso crimine della pedofilia come ci ricorda qui Federico Tulli, autore di ben tre libri sulla pedofilia nella Chiesa cattolica.

Ma tant’è, di questo non parlano i media mainstream impegnati in una assurda ridda fra pro e contro Bergoglio, pro e contro Becciu.

Ai nostri occhi appare chiaro che in Vaticano sia in corso una feroce guerra fra bande, per il potere in vista del prossimo papato. Ma ci appare assai più importante parlare di quel che di estremamente grave sta accadendo in Italia, oggi più che mai teatro dell’ingerenza che la Chiesa continua ad esercitare sulla vita civile del Bel Paese, con la complicità di una classe politica genuflessa. Beninteso non che non  si colga la discrasia fra la pretesa carità cristiana professata dalla Chiesa e il bieco affarismo che la corrode, ma c’è qualcosa che ci tocca da vicino e che questo polverone vuole coprire. Ovvero l’ennesimo intervento a gamba tesa delle gerarchie vaticane contro i diritti dei cittadini italiani in materia di dignità della vita, diritto alla salute, autodeterminazione, realizzazione umana e delle donne in modo particolare.

Il papa è tornato a lanciare un monito contro l’aborto, facendo lugubremente risuonare la campana della « voce dei non nati», non limitandosi a parlare ai credenti, ma rivolgendosi direttamente ai legislatori, mirando a interferire con il loro lavoro, come denuncia la ginecologa Anna Pompili in questo sfoglio. Intanto la Congregazione per la dottrina della fede torna a fare una invasione di campo sul tema della eutanasia legale che – come ci ricorda il segretario Uaar Roberto Grendene – è considerata un doloroso ed estremo gesto di umanità da larga parte della popolazione italiana in caso di patologie incurabili (il 93% degli italiani chiede una legge sull’eutanasia, secondo un sondaggio della Swg).

Un anno fa la Consulta esaminando il drammatico caso di Dj Fabo, il quarantenne cieco e tetraplegico andato in Svizzera a morire, stabilì che aiutare qualcuno ad uccidersi può non essere reato, rinnovando al Parlamento la richiesta di legiferare sul tema. Cosa che non è ancora avvenuta. Ora le gerarchie ecclesiastiche tornano ad affermare che la vita umana è indisponibile al singolo, e che è affidata alle mani di un Dio che crudelmente ci obbligherebbe a vivere anche quando le terapie non possono far più nulla; condannati al dolore o comunque a una condizione di sopravvivenza meramente biologica. La lettera Samaritanus bonus emanata dalla Congregazione lancia un anatema rivolto alle istituzioni e alla politica che, secondo i religiosi, legittimano «pratiche di morte».

I preti fanno il proprio mestiere, non c’è di che stupirsi, direte. Ma quel che ci colpisce è che sia la nostra classe politica e di governo a genuflettersi a questi diktat, abdicando al proprio ruolo di garante dei diritti dei cittadini e della laicità dello Stato democratico. In questo quadro genera sgomento la decisione di affidare a monsignor Vincenzo Paglia, ministro vaticano, un ruolo preminente in una commissione pubblica, voluta dal ministero della Salute, per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana (una vicenda scottante approfondita da Quinto Tozzi).

Abbiamo molto apprezzato il ministro della Salute Roberto Speranza quando, impegnandosi per la piena applicazione della legge 194 si è mosso nella direzione di nuove linee guida per la somministrazione della Ru486, senza obbligo di ospedalizzazione come prevedono da tempo i protocolli scientifici internazionali, ricusando le iniziative di presidenti di Regione leghisti che in Piemonte e in Umbria hanno posto antiscientifici ostacoli all’aborto farmacologico. Ora il ministro sia coerente con questa importante decisione in nome del progresso scientifico e dei diritti.

Dalle pagine di Left gli rivolge un appello l’avvocato Carla Corsetti con una lettera aperta in cui gli chiede di tornare sui propri passi revocando l’incarico pubblico all’arcivescovo portavoce del papa. Si rivolge al ministro, al governo, ma anche e soprattutto al Parlamento Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni esortando l’Aula a fare proprie le conquiste per i diritti di tutti che, grazie a coraggiose battaglie di singoli cittadini come Dj Fabo, possono ora essere agilmente trasformate in leggi. Non c’è più tempo da perdere. I diritti delle persone non possono attendere.

L’editoriale è tratto da Left del 2-8 ottobre 2020

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Fuochi di Paglia

Archbishop Vincenzo Paglia, left, and Archbishop of Philadelphia Charles Chaput cheer during a ceremony marking the opening of the World Meeting of Families, Tuesday, Sept. 22, 2015, in Philadelphia. Organizers describe the conference that blends prayer, religious instruction and faith-themed lectures as the world's largest gathering of Catholic families. (AP Photo/Matt Rourke)

La nomina da parte del ministro della Salute Roberto Speranza di un altissimo prelato vaticano a presidente della “Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana” non è solo l’ennesimo omaggio istituzionale alla Chiesa cattolica. Conoscendo il mondo “dell’assistenza sanitaria” dall’interno, per averci a lungo lavorato come tecnico, ritengo siano possibili altre, e più preoccupanti, chiavi di lettura. Vediamo quali e perché.

Monsignor Vincenzo Paglia non è un prete qualsiasi ma è il gran cancelliere del Pontificio istituto teologico per le scienze del matrimonio e della famiglia, è il presidente della Pontificia accademia per la vita, è il consigliere spirituale della Comunità di sant’Egidio e altro ancora. Inevitabilmente il pensiero corre a temi roventi come il fine vita, l’aborto, la contraccezione, il ruolo delle donne e molte altre questioni di questo genere.
È oltremodo strano che una commissione tecnica del massimo livello istituzionale non sia presieduta dal ministro o, per lui, da uno dei suoi direttori generali.

È inconcepibile che la guida sia stata data a un non tecnico, a un arcivescovo che ricopre incarichi importanti in istituzioni di uno Stato straniero, insomma a un ambasciatore del papa. Il presidente di una commissione ha sempre, e particolarmente in questo caso, una nevralgica funzione di salvaguardia dei valori istituzionali nazionali di unità, coerenza e integrità del Sistema sanitario nazionale sia rispetto alle forze centrifughe delle Regioni, sia di bilanciamento degli interessi del privato, sia di rispetto di principi etici e laicità. E questo porta con sé inconfutabili, invalicabili e volutamente ignorati incompatibilità e conflitti di interesse. Conflitti materiali (gli accreditamenti supermilionari delle strutture sanitarie del Vaticano con le Regioni) e conflitti etici (l’ottica palesemente di parte su temi delicatissimi).

Troppo accorto il ministero per ipotizzare una leggerezza o un errore. La cosa ha quindi anche un preciso valore simbolico; un messaggio? Si dirà che Paglia porta l’esperienza solidaristica della comunità di sant’Egidio; ma tecnicamente è sconcertante anche solo ipotizzare un modello di solidarismo volontario, privato, non sanitario e sovra istituzionale come nuovo modello di sanità territoriale pubblica. E poi, sulla base di quali evidenze scientifiche?

L’epidemia di Covid 19 ha messo in evidenza la debolezza strutturale della sanità territoriale, cui da molto tempo urge una necessaria e radicale ri-progettazione. Un processo lungo, complesso ma, soprattutto, trasparente e con due unici attori: ministero della Salute e Regioni; tutti gli altri sono utili ma solo per supporto tecnico e condivisione. È questa da sempre la prima regola del gioco. Viene il sospetto che per aggirare questi ostacoli fosse stato meglio parlare genericamente “solo” di ri-progettazione dell’assistenza agli anziani. Sembrano cose diverse ma in realtà sono la stessa cosa perché l’assistenza agli anziani ed alle malattie croniche è quasi tutta sul territorio.

Il ministero della Salute inoltre non ha inserito nella commissione i rappresentanti regionali, dando loro tutte le motivazioni per una profonda irritazione. L’assistenza territoriale avviene infatti a casa loro, con i loro soldi e alcune regioni hanno – senza tema di smentita – le maggiori competenze concrete sul tema. Chiaramente è un atto voluto.

Ma non basta: la commissione dovrà…

L’articolo prosegue su Left del 2-8 ottobre 2020

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Decretano insicurezza

Mentre Salvini si prepara a montare il suo circo per l’udienza preliminare del suo processo in cui viene accusato di sequestro di persona aggravato a Catania, chiamando a raccolta tutti i suoi scherani che le proveranno tutte per trasformarlo in vittima come hanno imparato dal loro antico padrone Berlusconi, il governo Conte dovrebbe finalmente abolire i decreti Sicurezza che proprio il leader leghista ha lasciato come eredità e che da più di un anno rimangono lì impuniti.

Da fuori un cittadino potrebbe pensare che non ci sia occasione migliore per rivendicare una “discontinuità” rispetto alla politica leghista (ve lo ricordate, vero, Conte che prometteva discontinuità?) e per affermare senza remore la propria diversità in tema di diritti e invece accade (piuttosto sottovoce, almeno questo) tutto il contrario. L’abolizione dei decreti sicurezza infligge talmente tanta insicurezza in alcune compagini di governo che si è pensato di fare passare le regionali per non dare “un assist a Salvini”, dicevano così le voci in Parlamento. Come si possa fare un favore a un avversario abolendo un suo errore è un mistero ma evidentemente a qualcuno quei decreti piacciono parecchio, anche se si vergogna di dirlo.

Il 27 settembre il premier Conte ha annunciato l’abolizione dei decreti sicurezza «nel primo consiglio dei ministri utile» (è la formula che si ripete da mesi) e l’accordo (vale la pena ricordarselo) era stato firmato davanti alla ministra dell’Interno Lamorgese alla fine di luglio da tutti i rappresentanti della maggioranza. Alla fine di luglio, eh. Siamo a ottobre è proprio ieri, udite udite, esce l’ultimo intoppo: il Pd accusa il Movimento 5 stelle di non volere la reintroduzione della protezione umanitaria che una parte dei grillini riterrebbe inaccettabile (la protezione umanitaria, eh) e ieri sera il deputato grillino Francesco Berto (confermando di fatto il retroscena) su Twitter ha scritto: «Contrariamente a quanto affermato dal Pd, la reintroduzione della protezione umanitaria non era prevista nelle bozze dei dl Sicurezza e immigrazione. Siamo sempre aperti al confronto, ma non si facciano forzature sulla verità e su temi così delicati per il Paese».

E quindi? Quindi siamo daccapo. Un punto però è certo: l’abolizione dei decreti Sicurezza di Salvini ha decretato la più evidente insicurezza di un governo che sul tema sta facendo tutto nel modo peggiore possibile ottenendo addirittura il risultato di riuscire a scontentare tutti, sia i buonisti che i cattivisti.

Perché bisognerebbe avere il coraggio di appoggiare le decisioni che si prendono e togliersi una volta per tutte quell’espressione di fastidio come quelle coppie che stanno insieme e non si sopportano più. Anche perché fare un favore a Salvini proprio mentre quello crolla nei sondaggi sembra proprio un regalo eccessivo. Non dico di fare qualcosa di sinistra ma almeno un po’ di coraggio, dai, per favore, su. Un po’ di sicurezza.

Buon giovedì.