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Speculo ergo sum

Speculatori che contravvengono le posizioni degli avversari politici solo per poter dissentire. Così accade che il governo prenda una decisione, una regione (come la Calabria dell’improvvida Santelli) decide di fare il contrario e poi i suoi sindaci fanno il contrario del contrario ritornando alla decisione del governo. Così si assiste a una serie infinita di avvitamenti che aggiungono sconforto e rabbia alla preoccupazione, allo sconforto e alla rabbia di un Paese ferito.

Speculatori che occupano di notte il Parlamento che non hanno mai frequentato di giorno e poi si mettono tutti in branco a registrare l’intervento del loro capo tribù Matteo Salvini che specula sul valore della libertà, lui, proprio lui, che solo limitando la libertà di qualcuno riesce a dare la sensazione di governare.

Speculatori come un ex presidente del consiglio che ha il coraggio di dire «se i morti di Bergamo potessero parlare direbbero di ripartire anche per noi». Fare parlare i morti è il modo migliore per mettersi al riparo dalle opinioni dei vivi. E Renzi lancia il suo ennesimo penultimatum a un governo che gli serviva solo per superare la soglia elettorale di sbarramento. Ora si arrabatta e assomiglia così tanto all’altro Matteo.

Speculatori che si appoggiano solo alla scienza per avere la scusa di non dovere fare politica. Speculatori che rincorrono solo il fatturato, la produttività. Speculatori invidiosi del virus che gli ha rubato la scena. Speculatori che in emergenza si occupano solo della propria autopreservazione. Speculatori che confezionano false notizie per cavalcare la paura.

Qualcuno diceva che ne saremmo usciti migliori e invece il quadro generale è quello di sempre, solo più spaventati e quindi più incattiviti. C’è una novità sostanziale: gli italiani, gli indisciplinatissimi italiani come vengono raccontati, sono stati più responsabili della propria classe dirigente. Loro, i loro figli e i loro poveri nonni. Questa è la lezione.

Buon venerdì.

People before profit

An Indian worker wears a worn out protection mask as he works in a small aluminum factory in Hyderabad, India, Tuesday, April 30, 2019. International Labor Day also known as May Day is marked across the world on May 1. (AP Photo/Mahesh Kumar A.)

Undici operai in pausa pranzo seduti su una trave sospesa a 250 metri d’altezza. Era il 1932 quando quella celebre foto apparve sul supplemento domenicale del New York Herald Tribune, diventando un’immagine simbolo della Grande depressione, ma non solo.

Fabio Magnasciutti l’ha reinventata per la copertina di Left creando un’immagine pittorica originale e ricca di significati, incarnati anche dalla presenza di donne e immigrati, insieme ad operai, sospesi nel vuoto di certezze di questa ripartenza. Una Fase due necessaria per battere il virus della crisi economica e sociale, ma in cui i lavoratori devono unire le forze per poter affermare il diritto al lavoro in condizioni di sicurezza. Per costruire insieme un diverso modello di società e di sviluppo a dimensione umana.

Quello che ci si para davanti è un bivio di enorme portata. Approfittando della crisi potrebbero imporsi altri suprematisti come Trump che ora (scrive Gasparini) alza nuovi muri contro i migranti, e nuovi Bolsonaro che – come raccontano i reportage di Ferracuti e Menchini – sta agevolando la distruzione della foresta amazzonica e lo sterminio gli indios anche lasciando dilagare il Covid-19.

Oppure, andando nella direzione opposta, dalla crisi sanitaria potrebbero nascere nuovi sistemi sociali più solidali e inclusivi.

Non c’è tempo da perdere, dobbiamo impegnarci per realizzare questa svolta. È questo il momento per costruire una società più democratica e giusta. E le lotte per i diritti dei lavoratori ne sono un asse portante. Entrando nella fase due, mentre il coronavirus non è ancora sconfitto, occorre programmare una ripartenza in sicurezza per tutti.

Lo scenario in cui si festeggia il primo maggio 2020, purtroppo però, è desolante. E non solo per l’assenza di momenti di concreta partecipazione di piazza. Quest’anno lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni e come mette in luce l’inchiesta di Filippi ne è stata fatta strage, in anni e anni di politiche neoliberiste, con riforme come la legge Fornero e il Jobs act.

La pandemia ora ha brutalmente evidenziato tutto ciò che non va nel modello di sviluppo che è stato adottato anche dai governi di centrosinistra. Politiche di austerity e di attacco al welfare hanno prodotto ingiustizia sociale e disuguaglianze. L’emergenza sanitaria ha acuito i problemi preesistenti, aggiungendo crisi a crisi.

Da anni su Left documentiamo la precarizzazione del lavoro, il lavoro povero, quello intermittente, i finti lavori autonomi, iper sfruttati, il caporalato che attanaglia in primis gli immigrati e non solamente nel settore agricolo, come ci ricorda qui l’attivista sindacale Selly Kane.

Durante il lockdown chi svolge lavori essenziali ha fronteggiato l’emergenza restando sempre in prima linea a rischio della propria salute: operatori sanitari, operai, riders ecc. Essenziali, elogiati come eroi, ma non protetti. E, temiamo, continueranno ad esserlo nella fase due.

Solo una percentuale ridotta di persone ha potuto lavorare da casa durante il lockdown. E anche in questo ambito sono emerse enormi differenze. Pensiamo per esempio agli addetti ai call center, ai freelance o ad altre categorie in smart work in assenza di un contratto nazionale e senza diritti. Ma per altri versi pensiamo anche ai docenti scolastici che si sono visti raddoppiare il carico di lavoro con la didattica a distanza.

Il 4 maggio tornano al lavoro 2,7 milioni di italiani. Ma tanti altri non hanno mai smesso di lavorare soprattutto nelle fabbriche del Nord dove, su pressione di Confindustria, sono state previste deroghe tramite autocertificazione delle aziende presso le prefetture. Le ragioni dell’economia hanno prevalso su quelle della sicurezza e della tutela della salute. Certo, non possiamo ignorare il problema: il rischio di una crisi economica di portata ben superiore a quella del 2008 è reale.

Ma al contempo non possiamo ignorare che la ripartenza avviene senza aver prima divulgato approfondite analisi scientifiche. Molti dati, secretati dal Cura Italia fino a metà aprile, non stati ancora diffusi e questo ostacola il lavoro dei ricercatori accusa Luca Ricolfi dalle colonne de Il Messaggero. «Entrare in fase 2 è doveroso. Farlo senza stime su quanti siano i contagiati è da irresponsabili», scrive Marco Cappato su Twitter. «Per questo serve fare il tampone a un campione rappresentativo. Incredibilmente – dice il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni– questa misura semplice non è attuata». Del resto, altrettanto incredibilmente, non una parola ha dedicato il premier Conte a questa fondamentale misura di prevenzione nella conferenza stampa del 26 aprile in cui ha illustrato quel che avverrà dal 4 maggio in poi.

I dati sulla curva dell’infezione dai territori affluiranno da maggio all’Istituto superiore di sanità ha detto il presidente del Consiglio. Insomma prima riapriamo, poi vediamo come va.

Il nuovo Dpcm pone dei paletti alle riaperture indiscriminate, certo. Ma non tutti quelli che ci saremmo aspettati: perché per esempio le lezioni in classe sono sospese e le messe in chiesa potrebbero ripartire? Sono inaccettabili in tal senso le pressioni della Conferenza episcopale. Oltretutto proprio gli assembramenti per riti e celebrazioni religiose sono stati un potente veicolo di trasmissione del contagio in molte parti del mondo, come abbiamo raccontato due numeri fa.

E poi, riuscirà il governo a frenare i presidenti di Regioni che scalpitano per più ampie riaperture avendo già messo in atto fughe in avanti?

People before profit. E non è solo uno slogan. Già due anni fa titolavamo in copertina “Prima le persone”. Forse allora a qualcuno sembravamo astratti o utopisti. Ora la pandemia ha reso chiara a molti l’importanza di un solido sistema sanitario nazionale e pubblico, ha mostrato l’importanza della ricerca e di politiche solidali che mettano al centro l’interesse collettivo, che prevedano una ridistribuzione non solo della ricchezza ma anche di opportunità culturali (quanti ragazzi sono stati esclusi in Italia dalla didattica a distanza perché privi degli strumenti necessari, in particolare nelle aree più disagiate?). Abbiamo imparato la dura lezione imposta dal coronavirus che ha messo drammaticamente in evidenza le debolezze del nostro sistema produttivo e sociale o vogliamo suicidarci riproponendo la ricetta neoliberista basata su un’idea disumana di Homo oeconemicus tutto teso al profitto e al consumo e privo di legami sociali che non siano strumentali a una maggiore produttività? (Della necessità di una nuova antropologia scrive un gruppo di valenti economisti ne L’essere umano e l’economia, che proponiamo di leggere). Durante lunghe settimane di lockdown chi ha potuto permettersi di stare a casa e di avere un po’ di tempo per sé ha riscoperto il valore dell’arte, della musica (dai balconi e non), della lettura. I lavoratori dell’arte e della cultura sono fra quelli che soffrono di più la crisi, per il duro stop che ha subito il mondo dell’editoria e per la cancellazione degli spettacoli dal vivo, come ci ricorda Gegè Telesforo qui intervistato.

è tempo di riconoscere l’identità degli artisti e l’importanza del loro lavoro che deve avere anche un adeguato riconoscimento economico, come diciamo da sempre. Essenziali ma precari, sono in Italia gran parte dei musicisti, degli artisti, degli scrittori. Ma anche i giornalisti che non sono i soliti volti televisivi e che durante questa pandemia hanno lavorato duramente, insieme agli edicolanti, per garantire un’informazione rigorosa e partecipe. Anche questo è servizio pubblico.

L’editoriale è tratto da Left in edicola da venerdì 1 maggio

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SOMMARIO

Il punto in cui siamo

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 23-04-2020 Roma, Italia Cronaca Coronavirus, emergenza sanitaria, test virali Nella foto: ASL Roma 1, test con tamponi su personale socio sanitario in modalità drive-in Photo Mauro Scrobogna /LaPresse April 23, 2020  Roma, Italy News Coronavirus outbreak: health emergency In the picture: ASL Roma 1, viral tests on social and health personnel in drive-thru mode

Lorenza a fine marzo comincia ad avere qualche sintomo. Pensa che forse è stanca per il troppo lavoro, non ci fa caso. Il primo giorno di aprile si rende conto che c’è qualcosa che non va: i sintomi sono quelli del Covid-19 e chiama il suo medico per un consulto, chiede un tampone. Il suo medico gli risponde testualmente: «Non sei un politico, non sei un calciatore e vivi in Lombardia». Niente tampone. Il giorno dopo riesce a mettersi in contatto con il 118, i sanitari fanno una diagnosi telefonica e le dicono che ha tutti i requisiti per essere ricoverata. Lorenza era terrorizzata, erano i tempi in cui gli ospedali lombardi esplodevano e con lei vive la figlia. Si è curata con cortisone e Lexotan per riuscire a dormire. Ora non prende più niente ma ha ancora febbre. Decide di aspettare.

Ieri ha scritto la sua testimonianza: «Oggi telefono per l’ennesima volta all’Ats per chiedere quanto tempo ancora dovrò aspettare per poter avere un tampone, visto che ormai è 1 mese che sono a casa con i sintomi da covid – ma senza una cura specifica – e che il mio medico ha inoltrato la richiesta per farmi fare il tampone esattamente 1 settimana fa….
Ebbene, trovo un’operatrice gentile e disponibile e ottengo queste 3 interessanti, strabilianti, sconcertanti risposte:
1) i tempi per l’esecuzione del tampone, dal momento in cui il medico di base ne fa richiesta, sono mediamente di ALMENO 2 settimane (2 settimane! dopo aver aspettato già 1 mese per poter fare la richiesta!);
2) in caso di esito positivo del tampone, NON è attualmente previsto che il tampone venga somministrato ai familiari conviventi (quando si sta dicendo da tempo che i nuovi focolai sono gli ambienti domestici, com’è d’altra parte facilmente intuibile…)
3) sono stati, pare, finalmente autorizzati i test sierologici, sempre su richiesta del medico di base, ma questi possono essere richiesti solo per due specifiche categorie: a) per persone entrate in contatto con pazienti positivi accertati (ma i sintomatici non vengono testati! Ritorna al punto 1 e sarai più fortunato…); b) per pazienti con sintomi sospetti (quindi, teoricamente, io ne avrei diritto. Ma chi vive con me o è entrato in contatto con me, fin quando io non sarò accertata come positiva, non potrà fare nemmeno il test sierologico).
Ora, io non ho veramente parole (e nemmeno fiato a dire il vero, date le mie condizioni) per aggiungere altro… lascio a giornalisti, politici e scienziati la richiesta di verificare, approfondire e denunciare».

Tutto questo nella regione che spinge per uscire e per tornare alla normalità. E intanto non si fanno i tamponi. Ecco il punto in cui siamo.

Buon giovedì.

La Spagna prova a ripartire, guardando avanti

Sánchez e il suo governo hanno avviato un piano per una cauta riapertura della Spagna dopo il lockdown: quattro fasi che dovrebbero portare tutte le 50 province del Paese, entro la fine di giugno, verso una “nueva normalidad”. C’è chi ha scomodato la filosofia dicendo che nuova normalità è un sofisma. Se la normalità è una novità, non è normale. E se non è normale, è qualcos’altro. Forse è solo un inutile vezzo avere attaccato l’aggettivo “nuova” all’idea di normalità di vita con il Covid-19. Eppure la scelta del governo Sánchez non appare casuale e rileva insieme sensibilità e impegno.

Sensibilità di cogliere nella comunicazione istituzionale la percezione, diffusa nella maggioranza della popolazione, che per proteggersi da questa o da possibili future pandemie non si deve tornare alla normalità conosciuta, a quel mondo del lavoro e a quel modello economico che sfida continuamente gli equilibri ecologici che garantiscono la vita per tutte e tutti sul pianeta terra.

Evidenzia anche l’impegno del governo di coalizione spagnolo di riempire questa nuova normalità di contenuti di giustizia sociale e ambientale, riconfermando e accentuando quello che Psoe e Unidas Podemos hanno scritto nel programma concordato all’avvio della legislatura. «Questa crisi non servirà come scusa per abbandonare l’agenda di transizione ecologica o per ridurre lo stato sociale; non servirà ad abbandonare coloro che ne subiscono le conseguenze. Non lasceremo nessuno indietro», ha detto Sánchez annunciando che la prossima settimana sarà costituita una Commissione per la ricostruzione sociale ed economica, anche se lo scenario di un accordo reale tra il governo e il principale partito di opposizione sembra oggi piuttosto lontano.

Sono le destre, in particolare Partito Popolare e Vox, a non essersi accorte di questa diffusa voglia di cambiamento e rimangono ancorate a vecchi schemi, pensando di poterne trarre utili elettorali per un domani. Criticando il governo su tutto e il contrario di tutto, prima perché chiudeva poco e con poca decisione, ora perché riapre con eccessive cautele. Partiti di destra che vivono in un passato spazzato via anche dal virus e chiedono di rimettere in moto la Spagna di sempre, quella disegnata dai loro governi, dominata da un modello produttivo e di ricchezza basato su finanze speculative e tagli allo stato sociale, promotori del turismo del tutto incluso, quel turismo massificato, abusivo e speculativo, che in un decennio o poco più ha inesorabilmente divorato le bellezze delle città di Spagna, delle sue coste e delle isole, trasformando milioni di giovani donne e uomini in intrattenitori, camerieri, gestori di bar di tapas e case vacanze al nero, o rider per le consegne di cibi a domicilio.

Dall’altra parte alcune sinistre perentorie non sembrano accorgersi della richiesta di cambio o, come la schiera di portatori di sventure in attesa della catastrofe, declinano l’uscita dal capitalismo solo con sacrifici e rinunce, senza gioia di vivere. Per loro l’aggettivo nuova con cui il governo spagnolo definisce la normalità che verrà è solo l’ennesima furberia dei socialisti per fagocitare Podemos nel sistema.

Eppure è davvero difficile non percepire la necessità e la voglia di cambiamento che attraversa la società spagnola. È ottuso non capire che quegli applausi rivolti ogni giorno al personale sanitario reclamano una sanità pubblica, un’idea di medicina diffusa sui territori come prevenzione, perché la miglior cura delle persone è evitare che si ammalino, anziché trovare il modo rapido di speculare sulle malattie per riempire portafogli.

Così come è assurdo poter pensare di tornare a quella normalità in cui fasce anziane e infantili di una popolazione sono un problema da accollare alle donne come sostitutive dello stato sociale o, quando economicamente possibile, alle persone migranti senza riconoscerne diritti o competenze. Oggi, dopo anni di sbornia liberista e di totale apologia del libero mercato, anche pezzi significativi dell’imprenditoria cominciano a barcollare e ragionano sulla necessità di riscoprire il ruolo del pubblico, fino a chiedere l’ingresso dello stato nelle grandi imprese strategiche spagnole. Certo è ancora tutto abbozzato nel piano del governo spagnolo verso la nuova normalità, con le quattro fasi per recuperare la vita quotidiana e l’attività economica, proteggendo la salute e la vita delle persone, con la gradualità necessaria per valutare se i progressi nel contenimento del virus si mantengono o se invece bisogna tornare al lockdown da qualche parte.

E si fatica a individuare le scelte della transizione ecologica annunciata, di fronte ai propositi del ministro dei trasporti, José Luis Ábalos, che immagina di incentivare il mezzo privato per riportare le persone al lavoro, idea subito piaciuta ai fabbricanti e rivenditori di auto che hanno chiesto di azzerare le limitazioni alla circolazione privata, introdotte in questi anni per ottemperare le rare direttive ambientali comunitarie. La strada è quindi lunga e difficoltosa, ma avere avuto l’accortezza e la sensibilità di aggiungere l’aggettivo nuova alla normalità da realizzare è almeno di buon auspicio.

Ricetta di un infermiere per una “buona sanità”

A health worker wearing a protective suit is disinfected inside a portable tent outisee the Gat Andres Bonifacio Memorial Medical Center during an enhanced community quarantine to prevent the spread of the new coronavirus in Manila, Philippines, Monday April 27, 2020. (AP Photo/Aaron Favila)

Una bella ricetta, per realizzarsi in un buon piatto, ha bisogno di buoni ingredienti, di sapori della terra, di mani sapienti, di attenzione, di storia, di conoscenza, di tradizioni, di amore per ciò che si fa. A chi non piace sedersi a tavola dinnanzi a un buon piatto sapendo che le mani eleganti, che lo hanno preparato, hanno lavorato nella speranza di accontentare chi è seduto al desco. Esiste poi il piacere delle buone maniere, del tempo per il sorriso e la gentilezza. Armonia, ecco il termine giusto per raccontare un buon piatto. Armonia.

E dove la si va a cercare? Trattandosi di un buon pranzo o una buona cena, io direi in una piccola trattoria dal tavolo di legno e la tovaglia a quadri rossi, dove ci garba il sorriso composto e amico dell’oste e l’evidente amore per la sua professione. Ecco, immaginiamo il nostro piacere nell’assaporare un buon piatto e proviamo a compararlo con il nostro bisogno di salute. Accostamento ardito? Probabilmente no.

Esistevano, ormai tanti anni or sono, i piccoli ospedali. Le periferie delle nostre città ne contavano, orgogliosamente uno per ogni quartiere o delegazione. Chi aveva l’onore di lavorarci avvertiva un forte senso di appartenenza, condizione medesima provata dalle persone/pazienti che usufruivano dei servizi erogati. La popolazione ne conosceva molto bene i limiti, comunque molto elevati, strutturali e quelli delle competenze espresse.

Ci si rivolgeva a queste strutture per la cura di patologie a bassa e media complessità, o per la diagnostica. Ma la persona sapeva che lì, in quel piccolo ospedale avrebbe trovato la realizzazione del concetto di cura. Esistevano sapienti mani e cervelli fini in grado di sconfiggere o gestire patologie note e ben radicate nel territorio. Ma esistevano pure garbati e gentili modi. Dato il non sempre scontato esito delle vicende umane, legate alla nostra salute, sapere noi, o i nostri cari, in mani dedite al buon lavorare e alla cortesia pareva un buon viatico comunque. Il tempo per la gentilezza, ecco un concetto che si è andato perdendo negli affanni delle cure. Il tempo per la gentilezza.

Ma proprio quando tutto pareva prendere la giusta strada e la riforma sanitaria espressa nel 1978 (che ha istituito il Servizio sanitario nazionale, ndr) aver trovato la propria quadra, qualcuno ha deciso che il curare gente malata non poteva più risultare solo una spesa. Nasce così l’aziendalizzazione degli ospedali e delle strutture sanitarie in genere. E allora venne il tempo del ridimensionamento e della chiusura dei piccoli ospedali di periferia. Da quel momento in poi, tutto viene accentrato nei grandi ospedali, che fino a poco tempo prima avevano l’onore e la responsabilità di dedicare le proprie competenze umane e professionali, alle grandi patologie, o a quelle meno frequenti. Queste importanti e grandi strutture ospedaliere che necessitavano di organizzazione e competenze di livello elevato come le Terapie intensive, la ricerca, i centri trapianti e le grandi competenze avanzate, altro non erano che l’espressione chiara e lampante della necessità di luoghi di Cura dedicati.

La misura delle necessità dell’uomo, ecco un’altra cosa che è andata perduta nel nostro tempo. Sostituito il concetto di cura della persona con quello parcellare di diagnosi e cura della malattia. Ma questa immagine proveremo a esplicarla più avanti.

Nasce così la massificazione della salute pubblica. Se poi a questa triste condizione si lega la supposta, ma mai soddisfatta, necessità economica dello Stato prima e delle Regioni poi, altrimenti detta voragine, si ha il ritratto compiuto di una tempesta che una volta iniziata pare non potersi più fermare. Come in un quadro di Turner, dove il veliero ondeggia fino a sbattere sugli scogli.

La concentrazione delle poche risorse economiche, sin d’allora elemento precipuo, ha trovato impieghi poco accorti e altrettanto poco congrui alle esigenze legate al concetto di salute. Si rifletta, per esempio, sul fatto dei Drg, diagnosis-related group, acronimo a matrice statunitense. Ennesima condizione, questa, che ha contribuito a occultare il senso di cura personalizzata. Ma cosa sono e a cosa servono questi fantomatici Drg? Sono un sistema che permette di classificare tutti i pazienti dimessi, escluse tutte le prestazioni a carattere ambulatoriale, in gruppi omogenei per quantità di risorse economiche erogate e diagnosi di patologia riscontrata e/o curata. In nuce servono a dare un “prezzo” al ricovero. Quindi, in teoria, un congruo rapporto tra la durata del ricovero e l’efficacia del risultato ottenuto, rappresenta l’optimum in campo ospedaliero.

Ma non si tiene molto conto delle variabili che possono venire espresse anche in caso di ricoveri a bassa complessità. Ciò sta a significare che l’approccio al sistema salute è voluto a matrice cartesiana vedi effetto-causa, come se il tutto fosse esplicabile con un semplice algoritmo, dimenticando che il mondo della sanità è un sistema complesso dove il tutto è più della somma delle sue parti.

Le variabili che intervengono nel determinare la durata di un ricovero non risiedono solamente nelle abilità e competenze espresse dalle equipe sanitarie, ma stanno pure nelle specifiche condizioni psichiche, culturali, sociali, economiche e altro ancora di ogni singolo paziente. Sostanzialmente non dobbiamo dimenticare che ogni paziente ha un proprio vissuto che rappresenta il proprio unicum, condizione questa a cui l’aziendalizzazione della sanità pubblica ha ormai, da tempo, disatteso. Ogni singolo soggetto risponde agli stimoli nocicettivi, il dolore, a modo proprio. Le condizioni culturali spesso sono in grado di fare la differenza. Si ripropone, quindi, l’esigenza della personalizzazione in ambito di cura.

Non dobbiamo poi sottovalutare la questione legata al tempo dedicato alla persona/paziente. Le ristrettezze economiche hanno condotto a una estrema razionalizzazione del numero di professionisti della salute. Vale il principio che meno infermieri presenti nei reparti di assistenza e maggiore risulta l’incidenza della mortalità. Probabilmente non tutti sanno che in Italia ci sono 5,6 infermieri ogni mille abitanti, contro i 10,5 della Francia e i 12,2 della Germania.

Tutte le mancanze descritte, per altro in maniera assolutamente sintetica, e non le uniche purtroppo, del nostro Servizio sanitario hanno creato la tendenza alla dimissione precoce. Condizione che si pone senza una valutazione delle condizioni anagrafiche e socio economiche del paziente e dei suoi famigliari. Si scarica, in questo modo, tutto l’onore assistenziale sulle spalle delle famiglie, pur sapendo che i servizi assistenziali sul territorio, salvo poche Regioni del nord Italia, sono assolutamente inesistenti.

In ultimo, riprendiamo il filo del discorso all’argomento parcellizzazione delle cure. Altro non vuol dire che stiamo vivendo un periodo di grande frammentazione delle competenze, nel nostro caso, mediche. Ormai non esiste più l’ortopedico, ma esiste l’ortopedico della spalla, quello delle mani, quello dei piedi, quello che si occupa solamente di artroscopie, quello che fa solo protesi al ginocchio e quello che, invece, le fa solo all’anca. Concetto questo valido per tutto l’ambito medico. Il risultato prodotto da questa frammentazione del sapere è la considerazione parcellare e non olistica del paziente. Quindi curiamo il piede e solo quello, senza curarci di altro. E come dice Edgar Morin, il più grande conoscitore della filosofia del Pensiero sistemico la «frammentazione del sapere depaupera la conoscenza».

Ecco dunque alcuni temi critici del nostro Servizio sanitario, ben altri ne avremmo potuto prendere in considerazione, la privatizzazione della sanità, i robot in ambito chirurgico, ecc. ben oltre avremmo potuto spingerci nella ricerca di plausibili tesi circa la necessità di ripensare il concetto di salute e di cura. Ma ci fermiamo qui. Anzi no, torniamo alla nostra ricetta.

In sanità abbiamo ottimi ingredienti, mani sapienti e delicate per amalgamare, abbiamo buone competenze. Insomma avremmo quasi tutto, ci mancano “solo” due piccole grandi cose, luoghi di cura più piccoli e quindi maggiormente personalizzabili e l’armonia. Armonia intesa come sapiente e dolce amalgama nel tentativo di non curarsi solo dei bilanci dell’ospedale ma di prendersi cura delle persone.

Non incagliarsi sul “come prima”

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 27-04-2020 Roma, Italia Cronaca Coronavirus, trasporto pubblico Nella foto: Stazione metro San Giovanni, personale ATAC sperimenta il controllo dei flussi passeggeri tra le linee A e C della metropolitana di Roma Photo Mauro Scrobogna /LaPresse April 27, 2020  Rome, Italy News Coronavirus outbreak, public transport In the picture: San Giovanni metro station, ATAC staff experiment with the control of passenger flow between lines A and C of Rome metro

Sarà che le cose cambiano, cambia il mondo, capitano imprevisti e la vita non è nient’altro che una catena di accadimenti che non si erano preventivati eppure in queste settimane di pandemia, chiusi ma con i pori spalancati per abbeverarsi in un altro modo di quello che ci manca, ci stanno raccontando un Paese sostanzialmente diviso in due tra coloro che hanno preso consapevolezza di un cambiamento (che come tutti i cambiamenti nasconde nelle pieghe anche delle opportunità pur essendo di matrice negativa) e coloro che invece rimangono incagliati in attesa che tutto passi e che si torni come prima.

Lo si vede soprattutto nella politica (sono quelli che al solito hanno i megafoni più potenti per sputare idee, anche pessime idee) ma lo si nota tra gli amici, tra i famigliari, tra tutti quelli con cui riusciamo ad avere contatti nei diversi modi che ci sono concessi.

La pandemia, questa pandemia, ci costringe a fare i conti con un mondo che avevamo immaginato sempre liscio, che sarebbe potuto andare solo così come l’abbiamo sempre visto, come se la storia non ci avesse insegnato abbastanza che le condizioni in cui ci troviamo possono precipitare da un momento all’altro. La lezione è importante: quanto ci siamo dedicati durante la nostra vita a immaginarci immersi in un altro contesto che non fosse il nostro? Quante volte abbiamo potuto (e voluto) empatizzare con individui molto più spaventati di noi, molto più a rischio, molto più vacillanti? Ecco, ora lo siamo noi.

Se da una parte ci sono quelli che spingono a comportarsi come prima sperando che questo determini il ritorno alla normalità di prima (che loro chiamano semplicemente normalità senza avere il piglio di pensare che è naturale che le cose cambino) dall’altra parte ci sono quelli che stanno cambiando e si stanno reinventando per interpretare il momento senza farsene inghiottire e tra i due c’è da scommettersi che convenga mettersi dalla parte di questi ultimi.

Per questo anche la politica, come tutti coloro che hanno in mano le leve del cambiamento, dovrebbe concentrarsi un po’ meno su cosa potremo fare ma soprattutto sul come dovremo fare. Ci sarebbe da capire che il tema dei prossimi mesi, se non dei prossimi anni, sarà quello di un paradigma economico che sta già dimostrando di affondare (il petrolio crollato è un dio economico che si è sbriciolato nel giro di poche settimane) e che si riflette sulle vite di tutti. Questo è il punto: la guerra di chi dice “riapriamo tutto” e “torniamo alla normalità” è una fanfara vuota che non ha nulla da dire e non ha soluzioni da dare.

Evitare di incagliarsi sul “come prima” è il primo gesto responsabile per affrontare questo tempo. La nostalgia non è una buona cura, mai, per nessun tipo di crisi.

Buon mercoledì.

Viene prima la tutela del sacro o la salute?

«In un momento in cui tutti subiamo pesantissime limitazioni alla libertà personale, i vescovi non accettano di vedere ridimensionato l’esercizio della libertà di culto e fanno pressioni sul governo. Ma la libertà di culto deve fermarsi davanti all’interesse generale. E che i vescovi pretendano privilegi che potrebbero mettere in pericolo la popolazione è scandaloso».

Il segretario dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar), Roberto Grendene, commenta così lo scontro (per certi versi inedito nella storia repubblicana) tra governo e Conferenza episcopale italiana, in merito alla ripresa delle attività di culto, che il Dpcm del 26 aprile ha escluso da quelle che potranno ripartire dal 4 maggio. La libertà di culto è tutelata dall’articolo 19 della Costituzione, sostengono i vescovi nel pretendere da Conte che essa sia garantita mediante la possibilità di celebrare le messe già dal 4 maggio. Libertà che è stata rivendicata anche dai rappresentanti di altre religioni monoteiste, ma, va detto, nessuno lo ha fatto con la “veemenza” al limite della protervia dei vescovi cattolici.

«Le funzioni religiose – osserva Grendene – ricadono sotto la voce “assembramenti” e presentano, come ha riconosciuto il comitato tecnico-scientifico, “criticità ineliminabili”, tra cui il fatto che i fedeli sono quasi tutti anziani e che le pratiche della eucarestia sono di per sé talmente poco igieniche che non a caso hanno già scatenato cluster… In altre parole la Cei “esige” e non si fa scrupolo di mettere a rischio la vita delle persone più a rischio. Impossibile non rilevare poi come delle 12 confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato nessuna abbia fatto analoghe richieste di strappi alle regole. Il governo – conclude Grendene – ha il dovere di non cedere alle richieste di corsia preferenziale della Chiesa. Nessun presunto diritto divino prevale sulle leggi (e sulla pelle) dei comuni mortali, credenti e non credenti».

La libertà è come l’aria

Two women wave red scarves from their windows on the occasion of the 75th anniversary of Italy's Liberation Day, in Rome's Garbatella neighborhood, Saturday, April 25, 2020. Italy's annual commemoration of its liberation from Nazi occupation is celebrated on April 25 but lockdown measures in the coronavirus-afflicted country mean no marches can be held this year and the National Association of Italian Partisans has invited all to sing “Bella Ciao", the anthem of Italy’s communist resistance, from their windows. (AP Photo/Andrew Medichini)

Nell’illustre Discorso sulla Costituzione pronunciato il 16 gennaio 1955, Piero Calamandrei asseriva «la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Un’affermazione ritornata di estrema attualità in questo disastroso periodo, per via degli effetti di privazione che ciascuno di noi in questo momento vive e sperimenta in prima persona, molti per la prima volta nella vita.

Ad oggi, gran parte della popolazione italiana non è mai stata oggetto di quella serie di restrizioni della libertà personale connesse al periodo fascista, alla Seconda guerra mondiale ed al nazifascismo; non era presente a Milano il 25 aprile 1945, nella data celebre di insurrezione contro il regime e nella lotta di liberazione dei territori del Nord, quel giorno in cui si scrisse la parola “fine” all’esperienza fascista, con la resa dei tedeschi e dei nazifascisti, e con cui ancora oggi si ricorda con orgoglio l’inizio di una rinascita Italiana, i cui valori sono custoditi e risplendono in ogni singola pagina della nostra Costituzione.

In questo strano 25 aprile 2020, rimarrà impressa la figura del Presidente Mattarella, la sua sagoma che si muove solitaria verso l’Altare della Patria; le piazze vuote e “Bella Ciao” interpretata dai balconi d’Italia, cui segue l’eco della stessa melodia dalla voce delle donne combattenti di Kobane.

In questo strano 75° anniversario del 25 aprile, in cui si festeggia ancora una volta la vittoria nella lotta per la libertà, nell’attesa di ritornare all’esistenza che ci era cosa così cara e sperando che lo scenario attorno a noi muti come se ogni giorno fosse Milano nel ’45, una domanda appare chiara: quando festeggeremo la liberazione dal Coronavirus per tornare ad essere pienamente titolari delle libertà garantite costituzionalmente?

Lo stato di emergenza connesso al Covid-19 ha implicato, a partire da febbraio, l’adozione da parte del governo – su indicazione del Comitato tecnico scientifico – di una serie misure restrittive delle libertà personali dei cittadini su tutto il territorio nazionale. Misure necessarie che hanno plasmato i nostri comportamenti e ci hanno fatto accettare importanti limitazioni alle nostre libertà.

Non abbiamo discusso del modo e del metodo, talvolta errati, con cui sono state introdotte queste misure per gratitudine verso medici, infermieri, e tutti gli altri operatori sanitari, fino ad oggi troppe volte dimenticati, che si sono messi al servizio della comunità. Per rispetto dei nostri nonni e genitori che dopo aver messo la loro vita in gioco per garantire la nostra libertà, per uno strano destino (e forse per una sciagurata politica sanitaria) hanno perso la vita delle Rsa, lontano da ogni affetto familiare. Per le immagini di tutte quelle colonne di mezzi militari che portavano le bare verso i forni crematori.

Queste misure, nate inizialmente con una efficacia temporale limitata, si protrarranno, purtroppo, per ora, sembra fino al 4 maggio 2020, con una restrizione delle libertà personali senza precedenti nella storia repubblicana. L’emergenza sanitaria ha di fatto impedito la piena applicazione di gran parte dei principi e delle libertà personali che dopo il 25 aprile erano stati così faticosamente conquistati. Le norme di contenimento, imponendo a tutti di rimanere nelle proprie abitazioni, hanno creato una palese diseguaglianza nella popolazione, infatti: non tutti vivono in ampi appartamenti con terrazze o giardini; esistono molte famiglie numerose che vivono in piccoli appartamenti ed anziani che vivono da soli; certamente alcuni rispetto ad altri hanno maggiormente sofferto le norme emergenziali.

In questi due mesi, non sono poche le libertà limitate e/o sospese: dalla libertà di circolazione (art. 16 della Costituzione) al divieto di riunione (art. 17), dalla chiusura delle chiese (art. 19), dei tribunali (art. 24), delle scuole (art. 33), dei cinema, teatri, ristoranti, attività economiche, studi professionali etc. (art. 41), fino alla limitazione alla proprietà privata, con il divieto di recarsi presso le seconde case (Art. 42).

Limitazioni che potremmo ritenere anche legittime, in quanto è la stessa Costituzione a porre espliciti limiti all’esercizio delle stesse per via, nel caso di specie, del grave stato di emergenza sanitaria connesso al coronavirus. Tuttavia, bisogna sottolineare che nel nostro ordinamento costituzionale non è previsto alcuno “stato di emergenza”, questo è riconosciuto solo nel Codice della Protezione civile, per cui si attribuiscono poteri straordinari al Presidente del Consiglio che, però, non legittima il mancato rispetto delle competenze e dell’iter richiesto per emanare dette norme.

Ad ogni modo, la limitazione che più abbiamo sofferto e che risulta essere la più discutibile, è innegabilmente la limitazione della libertà personale garantita dall’art.13 della Costituzione. La libertà personale di fatto, gode di una doppia garanzia: la riserva di legge (nei soli casi e modi previsti dalla legge) e la riserva di giurisdizione (se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria).

Con l’emergenza dovuta al Covid-19 si è stravolta l’applicazione dell’art.13 intervenendo inizialmente con i “famosi” Dpcm (decreti del Presidente del Consiglio), snaturando così del tutto la funzione del Parlamento, e solo successivamente – una volta accolte le legittime perplessità di molti giuristi – con il decreto legge, garantendo almeno un controllo successivo da parte del Parlamento, al quale, in questo periodo emergenziale, è stato lasciato, di fatto, ben poco spazio per un intervento legislativo.

Nel merito dei decreti legge emanati dal governo, sono stati commessi palesi errori: prevedendo dapprima, in relazione alle violazioni delle misure di contenimento, una sanzione penale (D.l. 6/2020), ravvedendosi, poi, prevedendo la depenalizzazione di dette violazioni e l’introduzione di una sanzione pecuniaria, eliminando così un vero e proprio obbrobrio giuridico (D.l. 25/2020). Tuttavia, detto intervento legislativo non ha eliminato palesi problemi interpretativi, e ha lasciato ampi spazi alla discrezionalità, con conseguenti diverse modalità di applicazione a fattispecie simili.

Si pensi all’avvocato di Torino a cui è stato contestato di uscire dallo studio alle 22, ai genitori che dovevano, singolarmente e non insieme, accompagnare la piccola figlia in ospedale, ai due diciottenni che si baciavano, di notte, in una strada deserta, all’acquisto del vino non ritenuto una necessità legittima per lo spostamento dalla propria abitazione. Senza pensare al più eclatante dilemma interpretativo dato dal concetto di “prossimità all’abitazione”, introdotto con la circolare del ministro della Salute del 20 marzo, che ha mandato in completa confusione gli amanti del jogging. La previsione normativa avrebbe dovuto essere il più possibile certa e precisa, poiché risulta ben difficile definire giuridicamente il concetto di “prossimità”.

Non migliore fortuna si è avuta con le ordinanze regionali che hanno cercato di interpretare detto termine riportandolo ad una distanza pari a 200 metri dalla propria abitazione: ma i 200 metri come si calcolano? Quando l’interpretazione letterale non aiuta – come in questo caso – occorre procedere andando a ricercare la “ratio” della norma, quindi, le sue finalità, avendo sempre presente il bene giuridico tutelato, il quale, nel caso di specie, è la tutela della salute. Nell’applicare la norma dunque, bisognerebbe fare appello al “buon senso”, il quale pare sia completamente sfuggito al legislatore, e, conseguentemente, all’accertatore, spesso coinvolto in contesti di inseguimento per poter sanzionare chi, in solitudine, correva su la spiaggia. Una tale genericità della norma, porterà solo ad ingolfare prima le Prefetture e poi gli Uffici Giudiziari.

Lo scenario in questi tempi di pandemia riporta alla mente la strofa di una canzone, brano dei Modena City Ramblers, «Avevamo vent’anni e oltre il ponte. Oltre il ponte ch’è in mano nemica. Vedevam l’altra riva, la vita. Tutto il bene del mondo oltre il ponte. Tutto il male avevamo di fronte. Tutto il bene avevamo nel cuore. A vent’anni la vita è oltre il ponte. Oltre il fuoco comincia l’amore». In questi mesi gran parte dei cittadini non hanno potuto superare quel ponte, perché troppo distante dalla propria abitazione, provando effettivamente cosa possa significare «la libertà è come l’aria». Ciò che ci auguriamo con la Fase 2, il governo riesca ad armonizzare la libertà personale e l’emergenza sanitaria.

La speranza è che si comprenda che esiste emergenza: quella economica che rende ancora più netto il divario tra fasce della popolazione, comportando inevitabilmente la polarizzazione delle fasce più ricche e impoverendo sempre più quelle intermedie, oltre a quelle già più povere. Che si comprenda l’importanza dell’art.3 della Costituzione secondo cui tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di «condizioni personali e sociali», e si dispongano provvedimenti volti a limitare le ingiustizie sociali e le disuguaglianze, sostenendo l’esercito dei nuovi poveri causati dal coronavirus.

Non è una guerra, se non per il numero dei decessi, non si può paragonare lo “stare a casa” con essere richiusi in un campo di concentramento, ma tra tante speranze c’è una certezza, il popolo italiano riuscirà come sempre a risorgere, come è risorto il 25 Aprile 1945, sconfiggendo questa volta un nemico invisibile e non ci mancherà più l’aria.

La libertà di culto sentimentale

A close-up view of a recently coronavirus mural of lovers embracing whilst wearing face masks by Unify Artist is displayed on hoardings in east London, Tuesday, April 7, 2020. The new coronavirus causes mild or moderate symptoms for most people, but for some, especially older adults and people with existing health problems, it can cause more severe illness or death. (AP Photo/Matt Dunham)

Ci sono amori bloccati dalla pandemia. Gli affetti hanno abbassato la serranda con l’inizio della quarantena, come le fabbriche e i negozi, ma il prodotto interno lordo sentimentale non rientra nelle statistiche e non produce fatturato quindi solitamente finisce nell’angolo dei buoni sentimenti di cui non ci si può mica occupare, figurarsi in piena pandemia.

Eppure nel nuovo decreto del Consiglio dei ministri che entrerà in vigore dal prossimo 4 maggio, tra le poche novità, c’è subito quell’articolo 1 che merita una certa attenzione: chi sono i congiunti che si potrà andare a visitare con tutti i dispositivi di sicurezza?

Ma chi sono i congiunti? Madre, padre, mogli e figli, sicuramente. Ma fino a che grado di parentela? Gli zii? E soprattutto: siamo davvero sicuri, nel 2020, che siano affetti solo i legami di sangue certificati da uno stato di famiglia?

Il governo per pomeriggio ha provato a chiarire: «Per congiunti si intendono “parenti e affini, coniuge, conviventi, fidanzati stabili, affetti stabili”», dice in una nota. E che diamine sono i fidanzati stabili? Come si verifica che un fidanzato sia stabile?

Chi ha una compagna o un compagno, non certificato da un matrimonio, è un’ombra di cui non occuparsi? Chi è stato cresciuto da una famiglia con cui non condivide il sangue è solo una sventurata eccezione di legge? Chi non ha famiglia perché l’ha persa ed è stato salvato da qualcuno che oggi per legge è solo un estraneo da non meritare comprovate necessità è poca roba?

Ma non è tutto. Ieri mi ha scritto una bellissima lettera un padre separato: «Non vedo i miei figli da fine febbraio, e dispero che li possa vedere in un prossimo futuro. Io sono residente nel Lazio, loro in Lombardia, i miei rapporti con la madre sono più che civili, cordiali, tanto che più di una volta ho dormito “sotto lo stesso tetto”, senza problemi, e in questa emergenza, mi ospiterebbe senza troppi patemi. Bene, ci si può muovere da una regione ad un’altra solo per comprovate esigenze lavorative o di salute, io non posso millantare nessuna di queste fondamentali esigenze dell’essere umano, posso semmai solo accennare a comprovate esigenze affettive, ma non bastano, e del resto, nessuno ci sta pensando. Non è per dire, non mi sento abbandonato, fuggo dal vittimismo sempre, ma sono comunque tanto sorpreso, ovvio amaramente sorpreso. Certo, sono conscio che il mio caso sia assolutamente minoritario, e quindi, non degno di nota, però questa distanza mi fa male, mi fa male vedere la delusione sulla faccia dei miei figli in video chiamata, mi fa male non poterli abbracciare e mangiarmeli di baci. Ve bene, il benaltrismo, di cui talvolta siamo tutti propugnatori consapevoli, e a seconda dei cas di convenienza, mi imporrebbe di bollare la cheesecake che mia figlia mi ha promesso per celebrare il nostro incontro, come una inutile facezia sentimentale, ma per quell’oggetto dalla futilità apparente passa il filo rosso della mia esistenza. Lo guardo quel filo è reciso, e mi dico con tutta la consapevolezza di cui sono capace “questo non è campare!».

È solo una storia tra migliaia ma contiene tutto. Serve una certificazione per dire che si ama? Per rivendicare la libertà di culto affettivo serve una conferenza episcopale dei sentimenti che faccia pressioni sul governo?

Qualcuno dice che “si fa così per evitare che tutti vadano in giro” ma la politica ha il dovere di governare (meglio, garantire) anche gli affetti? Sì, credo di sì. E credo che il paternalismo ottocentesco non sia una buona soluzione, no. Dietro alle parole dei decreti ci sono le persone, scrivere congiunti e aggiungere poi affetti stabili è perlomeno una superficiale distrazione.

Buon martedì.

Turismo. La vacanza (è) in Italia

Tourists visit the Colosseum, in Rome, Saturday, March 7, 2020. With the coronavirus emergency deepening in Europe, Italy, a focal point in the contagion, risks falling back into recession as foreign tourists are spooked from visiting its cultural treasures and the global market shrinks for prized artisanal products, from fashion to design. (AP Photo/Andrew Medichini)

«L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima … era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati, la macchia dei noccioli sparita …». Anguilla, il protagonista de La luna e i falò, all’indomani della Liberazione, torna al suo paese delle Langhe, dopo molti anni trascorsi in America. L’Italia alla fine degli anni Quaranta è anche questa. Una serie infinita di città e paesi, che dopo la devastazione della guerra, torna a rianimarsi. Non esiste il turismo nell’accezione attuale. Perché nella gran parte dei casi non esistono risorse sufficienti per le vacanze. Ma è forte il desiderio di ri-appropriarsi dei luoghi. Tanto più se noti.

Il post-pandemia, che ancora rimane incerto nei tempi e nelle forme, offre almeno due punti fermi. «Ci vorrà del tempo prima che il turismo internazionale torni in Italia, ma difficilmente questa estate i turisti italiani andranno in giro per il mondo, dobbiamo quindi lavorare sul turismo interno, italiano, di prossimità». Il ministro Franceschini, dopo un lunghissimo silenzio, ha annunciato quel che in molti temevano. Almeno nei prossimi mesi l’Italia non sarà metà del turismo internazionale e le vacanze degli italiani, i più fortunati, non saranno all’estero. Delle due circostanze, quella più nefasta per la nostra esangue economia è certamente la prima. Perché le frontiere chiuse significano meno introiti. Spalmati un po’ ovunque. Dai luoghi della cultura a quelli turistici, passando per la ristorazione, ovviamente. È indubitabile. Ma per fortuna, rimaniamo noi. Gli italiani. Restiamo noi “con” l’Italia. Non solo con i suoi Musei ed aree archeologiche, i suoi Palazzi e ville storiche. Con le sue biblioteche ed archivi. Con i suoi mari e i monti. Ma con moltissimo altro. A partire dagli alberi, spessissimo unici, come dai boschi di un’infinità di essenze e dagli altopiani ricoperti di erbe aromatiche. Passando alle spianate che si colorano del verde dell’erba medica e del giallo dei girasoli. E ancora alle piazze nelle quali ci si ritrova, e ai bar nei quali non si prende lo spritz, ma un liquore e si gioca a carte.

Le nuove regole costringeranno a fare quel che le politiche nazionali avrebbero dovuto suggerire. Con forza. Per questo motivo ritenere che viaggiare in Italia sia una sorta di ripiego, è sbagliato. Concettualmente e praticamente. Prima di tutto perché si mortificano le nostre particolarità. Invece di reclamizzarle, come si dovrebbe. In maniera concreta. Senza contare che puntare davvero sul turismo di prossimità consentirebbe anche a gran parte degli italiani di conoscere meglio storia e soprattutto geografia del loro Paese. Insomma, visitare un centro storico oppure inerpicarsi su una delle cime di una qualche catena montuosa può non essere solo uno svago. Può regalare anche conoscenza. Insomma perché mai “il dilettevole” non può accompagnarsi con “l’utile”? In fondo, il bello del visitare un luogo dovrebbe contemplare soprattutto questo. L’immersione completa attraverso colori e sapori, odori e tradizioni, cultura materiale e immateriale. Altrimenti che gusto c’è?

Ma l’errore è anche pratico. Perché alla fine dell’estate il rischio è che le cifre “dei movimenti” siano inferiori alle potenzialità. Non solo a causa della recessione.

Ognuna delle regioni italiane offre un’infinità di occasioni. Quindi anche rimanendo all’interno della propria si potrebbe fare molto. Visitando luoghi straordinari, ma ignoti. Forse perché vicini. perché ormai nell’immaginario di molti fortunati non è vacanza se non è lontano. Non c’è divertimento se non si possono fare cose eccezionali. Tutta colpa delle Persone? Certo che no! D’altra parte per andare da qualche parte bisogna conoscere e per farlogli strumenti non sono moltissimi. Ci sono i portali delle regioni e poi da questi si può passare, come in una matrioska, a quelli dei comuni. Inutile dire che si tratta di un lavoro impegnativo. perché costringe a diversi passagi. Poi, ci sono i siti delle diverse Soprintendenze archeologiche, belle arti e paesaggio che restituiscono informazioni sui differenti luoghi della cultura. Poi ci sono siti di ambito più locale, ma a quelli si arriva solo se si ha una minima conoscenza della zona che si intende visitare. Una summa di tutte le conoscenze la dovrebbe offrire Italia.it, “il sito ufficiale del turismo in Italia”. Il portale dell’Agenzia Nazionale del Turismo. Una summa a dire il vero abbastanza “povera”. Tra le ricerche possibili, se si sceglie di indirizzarsi su “Scopri l’italia” si accede alla divisione regionale. E qui prescelta la destinazione si entra nella “Descrizione”. Nella quale ci sono alcuni campi attivi che rimandano generalmente ai capoluoghi di provincia. Ma si può decidere anche di entrare nel “Cosa vedere”, oppure nel “Cosa fare” ed infine nel “Cosa assaggiare”. Le maggiori delusioni in ogni caso si hanno quasi sempre se si scorre la lista dei luoghi che sarebbero meritevoli di essere visti. Si tratta di una sorta di bignami che piuttosto che invogliare, risulta respingente. E poi vengono troppo spesso ignorate quelle piccole realtà che meriterebbero ben altra considerazione. Un esempio? Nelle Marche nessun accenno alla Galleria di Vespasiano nelle Gole del Furlo e al Muro di terrazzamento a Pontericcioli di Cantiano. E neppure alla Chiesa dei SS. Ruffino e Vitale ad Amandola e al Castello della Rancia a Tolentino. Così come all’Abbazia di S. Salvatore a Valdicastro, alla Collegiata di S. Marco a Servigliano e al Giardino Buonaccorsi a Potenza Picena.

Una lista incompleta, ma sufficiente a documentare la vacuità del Portale. Che in sostanza si dimostra uno strumento sostanzialmente inadeguato a guidare il turista di turno. Incapace di valorizzare realtà importanti ma che continuano a rimanere meta di un ristretto numero di visitatori. Ed è un peccato. perché il turismo è ovunque. Ben inteso, ovunque si dia la possibilità di andare, facendone conoscere l’esistenza. Luoghi mai visti, ma anche nei quali tornare. «Una volta all’anno salgo a salutare l’albero, mi porto da scrivere e mi siedo al suo piede. A due metri da lui, ovest preciso, spuntano quattro stelle alpine, un principio di costellazione. Ancora un paio di metri a ovest un mugo accovacciato al suolo sparge i suoi rami in cerchio». Erri De Luca descrive la sua Visita a un albero su una delle cime delle Dolomiti bellunesi, a 2200 metri. Una visita, che diventa consuetudine. Un modo come un altro per riappropriarsi di una parte di sé. Un appuntamento con una sorta di amico. Come si trattasse di uno degli alberi magici de il Boschio vecchio di Buzzati. perché i Luoghi possano far parte di Noi. Ed é questo che li rende speciali. Anzi, unici.

«Il paesaggio non gli dava alcuna sorpresa: se ne era rammentato nei minimi particolari. Di là dal villaggio vedeva biancheggiare la punta del colle di sassi, una cupola regolare senza case e senza vegetazione, alla sua destra un piccolo bosco di pini giovani piantato per lottare con una plaga di sassi. Ma dacché egli era partito il boschetto aveva fatto pochi progressi». Alfonso, il protagonista de Una Vita” di Svevo, torna a casa e ritrova anche il suo paese. Con le sue linee geometriche che si trasformano in ricordi. Restituendogli un senso di appartenenza che quasi aveva dimenticato. Insomma Alfonso non è un turista. Ma, come se lo fosse, torna in un Luogo del cuore. perché anche questo può essere un motivo per spostarsi. Per fare del turismo. Tornare da dove siamo partiti, oppure siamo stati.

Quest’anno, iniziando una consuetudine che farebbe un gran bene a tanti “turisti”, contribuendo a far lievitare anche le cifre degli spostamenti e quindi il Pil nazionale, l’Italia deve essere l’inesauribile depliant nel quale scegliere. Dove andare. Per conoscere, ma anche per ri-vedere. Un modo, tutt’altro che ingiustificato, per rafforzare il senso di appartenenza delle singole Persone per il Paese, nella sua interezza. Uno strumento per riaffermare quell’identità nazionale, della quale la totalità delle forze politiche sostengono la rilevanza. Salvo non perseguirla in maniera concreta. Il turismo é indubitabilmente uno dei settori che produce risorse. Ma se si continuerà a privarlo dei necessari contenuti, é destinato a languire nella recessione. Se le politiche nazionali ne esalteranno ancora le potenzialità senza però valorizzarne realmente le infinite particolarità, il rischio è che il futuro sia davvero incerto.

«Capii lì per li che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue … tanto che un cambiamento di colture non importi». L’Anguilla de La Luna e i falò, ha piena consapevolezza che noi apparteniamo ai Luoghi. Fino al punto di esserne parte. Riscopriremo anche noi tutti questa appartenenza?