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Tracciare i contagi, piuttosto che i parenti

Foto Fabio Ferrari/LaPresse 08 Aprile 2020 Collegno, Torino, Italia Cronaca Emergenza COVID-19 (Coronavirus) - Servizio "Pit-Stop": tamponi senza scendere dall’auto. ll test veloce di controllo su persone positive e non più sintomatiche sul territorio dell’azienda sanitaria Asl To3 di Collegno (Torino). Il progetto è dedicato ai pazienti Covid positivi in sorveglianza sanitaria e in isolamento domiciliare che necessitano di test con tampone per la verifica della negatività virologica. Photo Fabio Ferrari/LaPresse April 08, 2020 Collegno, Turin, Italy News COVID-19 (Coronavirus) "Pit-Stop" service: swabs without getting out of the car. The quick check test on positive and no more symptomatic people on the territory of the Asl To3 healthcare company in Collegno (Turin). The project is dedicated to positive Covid patients in health surveillance and in home isolation who need swab tests to verify virological negativity.

Dice Domenico Arcuri, commissario straordinario per l’emergenza Covid-19: «Noi abbiamo fatto al meglio la nostra parte, da lunedì tocca davvero a voi» e oggi è lunedì, quel lunedì che tocca a noi. Questa idea che sia stato fatto tutto quello che c’era da fare, condita sempre dal solito paternalismo a cui ci siamo abituati in queste settimane e che ora tocchi ai cittadini risolvere la convivenza con il virus è qualcosa che sfugge a qualsiasi percezione della realtà.

Sia chiaro qui non si mette in discussione il fatto che il governo si sia ritrovato (con le regioni che vanno in ordine sparso) a provare a mettere ordine in un’emergenza che è arrivata improvvisa e funesta ma questa solita confusione nella comunicazione, oltre che nella scrittura delle regole, è qualcosa che aggiunge stress allo stress e che presta il fianco alle strumentalizzazioni.

Che ci si concentri sui congiunti (altro pasticciaccio brutto di una burocratizzazione dei sentimenti che cade nel grottesco definendo gli affetti per linea di sangue e ingarbugliandosi in una selva che ovviamente produce solo figuracce) senza occuparsi piuttosto di un sistema di tracciamento e di tamponi che garantisca l’individuazione repentina di ogni nuovo focolaio è qualcosa che grida vendetta.

Mentre si riapre sono ancora moltissime le testimonianze di persone che rimangono appese al dubbio di essere malate o di essere state malate, mentre si discute di seconde case in riva al mare e della differenza pelosa tra passeggiate e corsette e non ci è dato sapere come si intende portare a regime i test, il tracciamento, i tamponi e lo sfruttamento delle informazioni della prossima app. Non si capisce perché il paradigma usato con ottimi risultati in Veneto non venga replicato su scala nazionale e perché si insista nel dire che i tamponi vadano bene così.

Forse sarebbe il caso che Arcuri e tutti gli altri ci dicano per bene come hanno intenzione di portare a termine le cose che spettano a loro per tracciare i contagi piuttosto che parenti e affetti stabili. Riporterebbe tutto a una discussione più tecnica, più importante, più sana e più rassicurante. O no?

Buon lunedì.

Ancora con la politica dei muri

President Donald Trump arrives to speak about the coronavirus in the James Brady Press Briefing Room of the White House, Wednesday, April 22, 2020, in Washington. (AP Photo/Alex Brandon)

«Mettendo in pausa l’immigrazione, aiuteremo gli americani disoccupati ad essere i primi a riavere il lavoro quando l’America riaprirà» ha dichiarato il presidente Donald Trump per motivare la sua scelta di sospendere i permessi di soggiorno permanenti per almeno sessanta giorni. Dipenderà dallo stato dell’economia statunitense alla scadenza di questo primo termine se l’accesso alla cosiddetta green card verrà sbloccato o meno.
Le spiegazioni del presidente riguardo questa scelta così drastica sono tutte riconducibili ad un presunto benessere dei lavoratori attualmente disoccupati che sarebbero svantaggiati dalla «concorrenza straniera». In realtà non è la prima volta che Donald Trump coglie la palla al balzo per limitare l’accesso agli Stati Uniti. Già nel 2018, con il travel ban, aveva limitato l’accesso agli Stati Uniti a chi proveniva da cinque Paesi a maggioranza islamica e dal Venezuela e dalla Nord Corea perché questi Stati non avrebbero fornito sufficienti informazioni e questo avrebbe potuto rappresentare una minaccia per la sicurezza nazionale. A questo si aggiunge lo strenuo tentativo di allungare il muro al confine con il Messico (di cui è tornato a parlare in questi giorni) e la pratica disumana di deportare gli immigrati entrati in modo irregolare dal confine sud degli Usa.

La realtà prettamente economica dei fatti è che in nessun modo limitare l’immigrazione aiuterebbe l’economia statunitense. Se è vero infatti che dalla nuova misura sono esclusi i lavoratori temporanei, gran parte di chi sta sostenendo i più grandi sforzi durante questa pandemia è di cittadinanza straniera. Secondo i dati di Envoy Global pubblicati da Politico, il 17% di chi è impiegato nel settore sanitario è straniero, come il 24% di chi si occupa in generale del lavoro di cura. Tra i lavoratori altamente qualificati come i medici, il 28% non è cittadino americano. Cacciandoli dai confini nazionali si …

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«Se è disumana non è giustizia»

Un libro che narra una sfida processuale dall’esito sorprendente e ci offre l’opportunità di riflettere su temi importanti: il rapporto con il tempo, la pluralità dei punti di vista, il dubbio, il pericolo della disumanizzazione della giustizia. È La misura del tempo, edito da Einaudi, l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio che dopo lunghi anni in magistratura e in politica, ora si dedica a tempo pieno alla scrittura.

Carofiglio il tema del “tempo” ricorre spesso nelle riflessioni del suo personaggio, l’avvocato Guido Guerrieri. Mi colpisce quando dice che la sensazione del passare del tempo sembra accelerare con l’avanzare dell’età, perché diminuisce la capacità di stupirsi, tipica dei più giovani. Possiamo opporci a questo fenomeno apparentemente ineluttabile?

Interrogandosi verso la fine del romanzo su questo fenomeno paradossale e purtroppo molto comune e per certi aspetti terrorizzante, Guerrieri si risponde che l’antidoto è il recupero della capacità di stupirsi. Lo stupore non è altro che la capacità di guardarsi intorno, cioè di uscire dai meccanismi automatici che spesso regolano la nostra vita e che la rendono uniforme e grigia. Nel mondo intorno a noi ci sono sorprese continue se si hanno gli occhi per vederle. La questione ha a che fare con lo sguardo: Proust diceva che il vero viaggio di scoperta non è vedere posti nuovi ma avere occhi nuovi, e questa credo che sia un’affermazione molto adatta per illustrare questo concetto.

Nel libro lei dà grande importanza al “dubbio” e alla pluralità dei punti di vista. Cita il film Rashomon di Kurosawa, dove più persone danno una versione diversa dello stesso fatto, e per ognuna di esse quella è la verità.  Non c’è il rischio di un impasse della conoscenza?

La complessità è qualcosa con cui dobbiamo confrontarci perché altrimenti ci travolge. Le vicende umane sono entità complesse per le quali non esiste un solo punto di vista, ma questo non significa che si debba rinunciare alla possibilità di arrivare a una verità condivisa. Il dubbio è uno strumento fondamentale per arricchirci ed imparare, perché se io sono sicuro di tutte le mie convinzioni e non accetto di metterle in dubbio, rimarrò completamente immobile. Il dubbio è lo strumento che fa funzionare la macchina dell’intelligenza ed è sicuramente un mezzo per migliorarci.

Come avvocato, ho amato molto la lezione che Guerrieri fa ai nuovi magistrati, quando parla di etica e li mette in guardia dal pericolo di “disumanizzare” gli imputati, di considerarli come dei fascicoli. Le conseguenze della disumanizzazione, soprattutto da parte di chi decide sulla vita degli altri, possono essere terribili. Mi è tornato in mente  Mitscherlich La medicina disumana che racconta come psichiatri e medici tedeschi durante il nazismo abbiano cancellato l’aspetto umano dei malati psichiatrici e dei disabili permettendone l’eliminazione. Secondo lei come si può evitare tutto questo?

In tutti i lavori, ma in alcuni in particolare, come quello del giudice e dell’avvocato, entriamo in rapporto con esseri umani, non con fascicoli e dossier. È ovvio che non puoi essere empatico nei confronti di ogni singolo caso. Se sei un magistrato e hai la stanza piena di fascicoli li devi smaltire altrimenti rischi il procedimento disciplinare ma devi sempre tenere presente che dietro le carte ci sono delle persone. Sembra un po’ retorico ma è la chiave di tutto. Ricordo una cosa che mi disse mio padre, avevo 27 anni, avevo da poco finito il mio tirocinio ed ero in procinto di partire per la mia prima sede, la Pretura di Prato, e lui mi disse molto semplicemente: «Non ti scordare mai che quelli con cui hai a che fare sono delle persone». Lui era un uomo di poche parole, faceva l’ingegnere, non era loquace ma questa frase mi è rimasta impressa in maniera irrevocabile.

Lei ha portato i suoi libri in carcere. Ci racconta qualcosa di questa esperienza?

È stata un’esperienza molto intensa, ho fatto quasi sempre incontri con persone sottoposte a lunghe pene detentive che erano in carcere da tanti anni, il tipo di detenuti di cui mi occupavo come Pubblico ministero quando erano imputati. Ti trovi a parlare con persone che magari hanno fatto cose inaudite, con le quali oggi discuti di libri come se stessi parlando con un professore di letteratura, in certi casi con una profondità, una ricchezza, un’originalità fuori del comune. Naturalmente c’è di tutto, però si scopre che riserve di umanità ci sono anche in chi ha fatto cose deprecabili.

Lei ha la capacità di comunicare attraverso la scrittura in maniera forte ed efficace, con uno stile semplice e un sapiente uso delle parole. È anche un grande lettore e tiene seminari sull’uso della parola. Quanto è importante saper usare le parole giuste?

L’uso corretto delle parole è fondamentale da un punto di vista etico. Parlare chiaro significa rispettare chi ci sta davanti, bisogna utilizzare la lingua per comunicare e non per frapporre ostacoli ed esercitare un potere antidemocratico. Dove c’è un’oscurità non necessaria la democrazia è in difficoltà e questo vale nel mondo dei giuristi, della burocrazia e anche della politica.

In questo periodo di quarantena alcuni hanno avuto più tempo per dedicarsi alle attività amate, come ad esempio la lettura. C’è un libro che si sente di consigliare?

Io penso che la lettura sia un fatto anarchico: si prende un libro, si comincia e questo ti suggerisce altro.

Io consiglierei libri umoristici, non per alleggerire ma per dare prospettive. L’umorismo per me è una cosa che assomiglia molto alla capacità di praticare il dubbio. Il senso dell’umorismo e la capacità di esercitarlo, soprattutto su noi stessi, è una questione di igiene morale. C’è un proverbio, credo ebraico, che dice che la capacità di ridere è per l’anima quello che il sapone è per il corpo. Suggerisco un romanzo autobiografico di uno scrittore americano che a me piace molto: Bill Bryson, Vestivamo da Superman, che racconta la sua infanzia negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, un’epoca di grande ottimismo, di speranza nel futuro. È un romanzo che sa far ridere, ma è anche un racconto nostalgico e a tratti commovente.

L’intervista prosegue su Left in edicola dall’1 maggio

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L’anarchica Louise amica dei “selvaggi”

Quando guardiamo alle pratiche politiche degli “altri”, dobbiamo porre molta attenzione a non comportarci in modo etnocentrico e pensare che la “nostra” visione di società libertaria, sia unica ed esportabile in tutto il mondo. È giunto il momento di fare una reale riflessione post coloniale sul come, anche nelle idee della sinistra, nell’anarchismo e nel marxismo, per più di un secolo e spesso ancora oggi, si è pensato che queste dottrine fossero giuste ed esportabili tout court in tutto il mondo, ma soprattutto per troppo tempo si è ragionato in maniera eurocentrica sulla produzione di pensiero politico, senza capire che altre culture avevano già sviluppato anche se in modi diversi concetti come libertà, uguaglianza, muto appoggio e democrazia. Per fare questa riflessione ci aiuta un libro appena uscito per l’editore Zero in condotta di Carlos Taibo, Anarchici d’oltremare. Anarchismo, indigenismo, decolonizzazione. Un testo completo dove l’autore analizza tre grandi temi: la condizione degli anarchici che dall’Europa viaggiarono oltremare, la spontaneità delle pratiche libertarie di molte comunità indigene d’America, Africa, Asia e Oceania e la necessità di decolonizzare una volta per tutte il pensiero anarchico, ancora troppo debitore alla presunta modernità europea e occidentale.

Nel testo l’autore afferma che anche l’anarchismo è stato portatore, sebbene in modo molto singolare, di approcci coloniali; per molti anni sia marxisti che anarchici erano convintamente evoluzionisti e credevano che l’apice dell’evoluzione risiedesse proprio nella modernità e nella civilizzazione europea – non quella capitalista sia chiaro – ma comunque, si rifacevano a quelle idee che erano state prodotte da maschi, bianchi ed europei. Per quanto critici della modernità capitalista, anarchici e comunisti per parecchie decadi non hanno riconosciuto altre forme di conoscenza al di fuori della loro, riproducendo spesso le stesse logiche inerenti al capitalismo.

Anarchismo e marxismo sono stati complici nell’aver colto le virtù del progresso e dello sviluppo economico, stregati dalla bontà della scienza, della tecnologia e del lavoro e sono stati sostenitori della superiorità della civiltà occidentale, oltre che promotori della marginalità delle donne e di uno sguardo antropocentrico.
Per Marx la colonizzazione rappresentava un passo decisivo per il progresso del pianeta nella misura in cui doveva permettere di farla finita con le strutture arcaiche proprie delle società colonizzate, prevedeva uno sviluppo capitalista inteso come l’anticamera del socialismo, non esisteva nell’800 una reinterpretazione del marxismo o meglio, una lettura del comunismo autoctona-indigeno con denominazioni non europee. Sia Engels che Marx credevano nel progresso della civiltà nei confronti delle società considerate “selvagge”.

Ma che cosa significa modernità occidentale? Il primo segno della modernità è la produzione di un ordine mondiale segnato da divisioni e gerarchie entro le quali si evidenziano di sicuro, e in posizione principale, quelle che riguardano le donne. Il consolidamento di un ordine fu implementato sicuramente dall’istituzione statale e dal sistema capitalistico, che assegnarono ogni priorità all’interesse individuale, difendendolo attraverso vari apparati repressivi. In secondo luogo la modernità postulò la subalternità della natura rispetto alla figura dell’uomo – quella scelta antropocentrica che oggi ci fa vivere nell’epoca dell’antropocene – nell’intendimento che tale uomo non fosse altro che l’europeo o l’occidentale, il quale, grazie al concorso della scienza e della tecnica, ha avuto la presunzione di ergersi a paladino di un progresso costate e lineare, un uomo dunque, cui viene riconosciuta una chiara superiorità rispetto al resto degli esseri umani e ovviamente degli animali.

Questa idea di superiorità si traduce così nella necessità impellente della negazione dell’altro, inteso come colui che è privo di conoscenza e capacità inventiva al cospetto del carattere innovatore dell’europeo; questa visione rivela l’incapacità di saper cogliere e apprezzare altre forme sociali e culturali per accettarne l’influenza. Il mondo era visto come organizzato attorno a un centro denso di capacità e una periferia che ne risulterebbe priva. Molti autori post coloniali, uno su tutti, Fausto Reinaga nel suo celebre testo La revolución india, ci parla di come lui, comunista, abbia vissuto il marxismo d’importazione europea come una seconda colonizzazione e da lì …

*

L’autore Andrea Staid è docente di antropologia culturale e visuale presso la Naba di Milano, direttore della biblioteca/antropologia Meltemi editore e co-direttore di Field work-travel writing Milieu edizioni

Illustrazione di Vittorio Giacopini

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La carica dei riapriristi, in nome dei padroni

In vista della fase 2 si è scatenato l’impressionante volume di fuoco mediatico di cui i poteri capitalistici sono capaci, per non parlare del web, ormai terreno di scorrerie della “bestia” salvin-meloniana (con i consigli, e i soldi, di Bannon). Tutta intera la stampa confindustriale si è scatenata, dal “giornalone unico” degli Agnelli, Repu-Stam-Corsera, ai feroci giornali dei Feltri, dei Sallusti e dei Belpietro, e, naturalmente, tutta compatta la Tv, da quelle berlusconiane a quella di Cairo, passando per la Rai opportunamente lottizzata fra Pd e Lega. Né poteva mancare all’appello la Conferenza episcopale. In nome dei sacri princìpi della libertà (guarda tu dove si vanno a cacciare i sacri princìpi!) ha voluto adornare il corteo padronale dei riapriristi anche un filosofo, amplificato con opportune interviste da giornali come La Verità e da trasmissioni come Zapping che – francamente – coi sacri princìpi della libertà non hanno mai avuto nulla da spartire.

Cosa ci dicono in coro le voci del padrone? Riaprire, riaprire subito, riaprire tutto; la produzione, anzi il profitto, non si tocca, e al dio profitto si può sacrificare la vita umana; dunque chissenefrega se questo riaprire costerà la vita a qualche decina di migliaia di persone, anzi se sono anziani e poveri (come purtroppo accade) se ne gioverà la spesa pensionistica.

Il coro assordante dei riapriristi serve anche a far dimenticare tre gravi “responsabilità” (tre, non uno sola) dei loro padroni: la prima è stata distruggere con privatizzazioni e ruberie la sanità pubblica, in questo la Lombardia formigoniana è stata all’avanguardia. E i risultati si sono visti. Solo qualche mese fa (il 23 agosto 2019) il legaiolo Giorgetti si vantava apertamente di aver ridotto di 45mila unità i medici di base in Lombardia, dato che – diceva – gli under50 si curano da soli via internet. La seconda è stata fare finta di niente quando già il contagio era esploso, minimizzando sempre in nome della necessità sacra di non danneggiare il business; così, in piena epidemia, il sindaco di Bergamo Gori invitava i suoi concittadini ad andare tranquilli tutti a cena fuori (e quella città ha quintuplicato il numero dei morti) e il sindaco di Milano a farsi uno spritz indossando una bella maglietta “Milano non si ferma”, mentre l’ex sindaco di Firenze ancora il 28 marzo proponeva così: «Le fabbriche riprendano prima di Pasqua, le scuole il 4 maggio».

La terza, la più odiosa, è stata mandare i malati di Covid nelle Residenze per anziani, anziani soli, spesso malati, sempre indifesi, provocandone la strage. Si dice che si stia muovendo la Magistratura, ma in un Paese civile non si può affidare tutto alla Magistatura e dovrebbe essere un moto di indignazione popolare a cacciare i responsabili di questo obbrobrio e a far commissariare la regione Lombardia come richiesto da un appello di decine di migliaia di cittadini (e come è previsto dalla Costituzione in casi così gravi).

Naturalmente anche i nostri riapriristi hanno i loro problemi. Il primo problema è che per poter avanzare la loro proposta essi debbono semplicemente rimuovere un trascurabile dato, cioè l’esistenza della pandemia e il numero dei morti; per poter parlare essi (filosofo compreso) debbono parlare come se tutto questo non esistesse. È la stessa linea di occultamento del problema usata da Trump, da Johnson, da Bolsonaro etc., che è costata e costerà molte decine di migliaia di morti. Certo, disporre praticamente del monopolio dei mass media aiuta gli apriristi alla bisogna, e tuttavia far finta che il virus non esista non è cosa facile neanche per loro. I morti, mentre scrivo hanno superato quota 27mila, con un numero spaventoso di medici e infermieri, ma non sono computati quelli che muoiono da soli, in casa, senza cura né diagnosi e – in base ai confronti coi morti negli anni scorsi – si calcola che tale cifra terribile sia sottostimata almeno del 36% (cfr. Gabanelli-Ravizza in CdS, 28 aprile 2020). Comunque in Italia, secondo i dati dell’Istat, il numero di morti dal primo marzo al 30 aprile 2020 è aumentato del 41% rispetto allo stesso periodo del 2019.

I contagiati superano già le 202mila unità e continuano a crescere costantemente (nonostante la chiusura) di circa 2.000 al giorno (cioè l’1%), ma il (cosiddetto) “numero dei contagiati” che ci forniscono è quasi una burla, perché si limita a riportare i positivi ai tamponi, e di tamponi ne sono stati fatti in totale in Italia 1.790.000 (e molti diverse volte a una stessa persona). Cioè noi non sappiamo praticamente nulla di 58 milioni di italiani, e dei malati asintomatici, che sono l’80%-85% dei casi e che trasmettono il virus esattamente come i sintomatici. Poiché il (cosiddetto) “numero dei contagiati” dipende solo dal numero dei tamponi positivi, quando hanno fatto meno tamponi come nei giorni di Pasqua è diminuito, tornando a crescere quando se ne sono di fatti più. Non bisognerebbe quindi dire “numero dei contagiati”, ma dire invece numero dei positivi sul numero dei tamponi effettuati, e farci sapere la loro percentuale; ma questo nessuno ce lo dice.

Lo stesso dicasi per il dato (definito “confortante”) dei posti in terapia intensiva che (molto lentamente: poche decine di unità al giorno) si liberano: il fatto è che anche chi muore libera un posto-letto, e i morti continuano a crescere, circa 400 al giorno, e – si badi bene! – non si tratta di contagi pre-chiusura (sono passati oltre 40 giorni) bensì di contagi nuovi legati alle parziali riaperture dei luoghi di lavoro, che infatti crescono di più in Lombardia e in Piemonte dove molte fabbriche hanno già riaperto. Con la linea degli apriristi – tutti al lavoro, in metro e in autobus, o a Messa etc. – tale numero tornerà ad aumentare spaventosamente, come è già successo in Germania dopo la parziale riapertura.

Il secondo problema degli apriristi è riuscire a nascondere che una soluzione alternativa alla crisi economica (l’argomento “forte” degli apriristi) esiste eccome, è realistica e praticabile. È la proposta avanzata in Europa dalla Sinistra europea (in Italia dal suo vice-presidente Paolo Ferrero) di poter disporre di un flusso consistente di denaro dalla Bce, dato senza interessi direttamente agli Stati e ai Cittadini. Dunque non la vecchia devastante filiera Bce (interessi)-banche italiane (interessi)-imprenditori (come invocato apertamente da Salvini) ma una filiera di finanziamento del tutto nuova: Bce-Stati (senza interessi)-Cittadini/Lavoratori. La differenza è chiara: loro vogliono denaro pubblico per restaurare il sistema economico pre-virus, e riaprire tutto e subito serve a questo, benché costi morti; ma quel sistema “di prima” ha già fatto fallimento (disoccupazione e miseria c’erano già prima del virus). Al contrario, noi vogliamo uscire dalla crisi in avanti, cogliendo l’occasione per rifondare una società diversa e un’economia solidale, fedeli alla Costituzione. Questo denaro pubblico dovrà infatti servire per finanziare sanità pubblica, scuola/università pubblica e ricerca, ma soprattutto per attività economiche nuove, capaci di sviluppare nuova occupazione, di difendere il territorio e l’ambiente, e – soprattutto – quel denaro pubblico non dovrà andare né agli evasori né a chi paga le tasse in Olanda (come gli Agnelli) né a chi delocalizza né alla criminalità.

È ora del tutto chiaro perché di questa proposta della Sinistra europea nessuno dei media apriristi abbia mai fatto il minimo cenno: un silenzio perfetto e unanime, e colpevole. Questo ci aiuta a capire che il vero problema che gli apriristi e chi li comanda hanno di fronte è il seguente: impedire che il popolo sappia e possa capire. Dunque sta a tutti e a tutte noi combattere gli apriristi rompendo questo colpevole silenzio anche per poter salvare tante vite umane.

I custodi della Grande foresta

ARARIBOIA INDIGENOUS RESERVE, BRAZIL - JUNE 10: Guajajara indigenous tribe vice chief Frederico Guajajara (L) stands with his daughter in his tribal village on protected Amazonian indigenous land on June 10, 2012 in the Arariboia Indigenous Reserve, Maranhao state, Brazil. Tribe members say their forests are being plundered by illegal loggers who killed tribe member who attempted to resist. According to the National Institute for Space Research (INPE), which tracks rainforest destruction by satellite, 242 square kilometers in the reserve have already been destroyed. From 1987-2011, 1.1 million hectares of wood disappeared in protected indigenous reserves in Maranhao state. The Brazilian Amazon, home to 60 percent of the world’s largest forest and 20 percent of the Earth’s oxygen, remains threatened by the rapid development of the country. The area is currently populated by over 20 million people and is challenged by deforestation, agriculture, mining, a governmental dam building spree, illegal land speculation including the occupation of forest reserves and indigenous land and other issues. Over 100 heads of state and tens of thousands of participants and protesters will descend on Rio de Janeiro, Brazil, later this month for the Rio+20 United Nations Conference on Sustainable Development or "Earth Summit". Host Brazil is caught up in its own dilemma between accelerated growth and environmental preservation. The summit aims to overcome years of deadlock over environmental concerns and marks the 20th anniversary of the landmark Earth Summit in Rio in 1992, which delivered the Climate Convention and a host of other promises. Brazil is now the world’s sixth largest economy and is set to host the 2014 World Cup and 2016 Summer Olympics. (Photo by Mario Tama/Getty Images)

Ci sono popoli custodi che difendono le proprie terre ancestrali, quella che chiamano la loro “casa”, mettendo a repentaglio la vita per salvare l’Amazzonia dalla distruzione. Come ha scritto Marta Guarani, storica leader indigena femminista: «Noi Indiani siamo come le piante, come possiamo vivere senza la nostra terra?». Abitano in simbiosi da millenni con i fiumi, gli alberi, la terra, nella più complessa e autonoma forma di vita vegetale e animale, vivono di caccia e di pesca conservando la ricca biodiversità dei grandi ecosistemi forestali, proteggendo con i propri corpi le terre da boscaioli abusivi a caccia di legno pregiato. Sono vessati anche da cercatori d’oro, i temibili garimpeiros che scavano come talpe furiose la terra in cerca di metalli preziosi, compagnie petrolifere che inquinano le falde acquifere, da imprese turistiche invasive, multinazionali dell’agrobusinnes e violenti fazenderos con la volontà di liberare territori incendiando la selva nella “stagione del fuoco”, per sostituirla con allevamenti intensivi e piantagioni di cereali.

Tra questi popoli decisi a difendere con coraggio le proprie terre, ci sono i Munduruku, che bloccarono la costruzione di una diga a São Luiz do Tapajós, un monumentale progetto idroelettrico voluto dal governo del Brasile e che avrebbe interrotto il fiume Tapajòs, dove pescano e si spostano con le loro canoe, o i Ka’apor,che vivono nel territorio indigeno dell’Alto Turiaçu nello Stato del Maranhão che per monitorare la foresta usano il Gps e hanno istallato telecamere. Ma i più ostinati, diventati ormai un simbolo, sono i Guardiani, che incontrai ad Arariboia nell’autunno di due anni fa, i quali vivono in un cuore verde – cancellato dalla deforestazione selvaggia intorno, dalle strade e dalle ferrovie – e proteggono, facendo loro da scudo umano, un popolo fratello e incontattato, gli Awà.

Il mese prima del mio arrivo era stato barbaramente ucciso Giorginho Guajajara, l’ottantesimo indigeno morto in vent’anni nel territorio di Arariboia, trucidato dai feroci taglialegna abusivi, fu la cosa che più di altre mi convinse a partire. Era stato ritrovato dai suoi compagni vicino a un fiume con il collo spezzato, separato dal corpo, e per calunniarlo gli assassini avevano mandato in giro la voce che fosse ubriaco. Sul loro coordinatore Olimpio, che conobbi, la mafia del legno a Imperatriz aveva messo una taglia, offrendo a un killer 20mila reis per ucciderlo. Girando per il villaggio, ricordo l’ostetrica, una donna anziana dai capelli folti e bianchi, piuttosto determinata, che mi disse che lui era già di carattere forte sin da bambino, aveva tutte le caratteristiche per diventare un capo.

Con Olimpio parlai per un paio d’ore nella capanna dove viveva, mangiammo insieme un pasto caldo, mi mostrò la sua piantagione di banani, e mi raccontò quello che facevano, «pattugliamo la foresta, scoviamo i taglialegna, distruggiamo il loro macchinari e li mandiamo via», disse, mi ricordò gli empate del movimento dei seringueros organizzati dal sindacalista diventato uno dei…

Il reportage prosegue su Left in edicola dall’1 maggio

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Perché nessuno parla di Villa Torano?

A worker at the Manuel Belgrano public hospital stretches outside the public hospital on the outskirts of Buenos Aires, Argentina, Friday, April 17, 2020. Argentina confirmed a coronavirus outbreak at this hospital where people, including hospital staff, have tested positive, according to its director Nicolás Rodríguez. (AP Photo/Natacha Pisarenko)

La storia va raccontata con calma, dall’inizio e per bene perché è significativa di ciò che accade nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) mica solo in Lombardia e perché definisce perfettamente la commistione che la salute e la politica riesce a esercitare nei suoi modi peggiori. Siamo a Torano Castello, un piccolo comune di 4mila abitanti in provincia di Cosenza, qui c’è la Rsa Villa Torano, il più grande focolaio di Covid-19 in tutta la Calabria che è “sfuggito” alle cronache nazionali: più di 100 casi positivi tra pazienti, operatori sanitari, parenti degli ospiti e gli altri contatti stretti.

Tutto esplode nel giorno di Pasquetta: rimane infettata una paziente, viene ricoverata e in poche ore si diffonde la notizia di altri 21 casi positivi. Il sindaco di Torano Castello, Lucio Franco Raimondo, comincia a preoccuparsi sul serio e non si trattiene intervistato dalla Rai: «In questo momento i numeri che si alzano sono preoccupanti – dice – e l’obiettivo adesso è quello di avere in pochi giorni un quadro più completo possibile del numero dei contagiati perché purtroppo i dati fanno pensare che il tutto non si è sviluppato in uno o due giorni ma c’era qualcosa che covava da più giorni, da più settimane… Quindi si è deciso per l’estensione dei tamponi anche su familiari, amici e su quelli che impropriamente i giorni di Pasqua e Pasquetta hanno avuto contatti – che non dovevano avere ma che ormai hanno avuto -… Dobbiamo accettare il dato che c’è e lavorare per circoscrivere tutti questi contatti e avere il numero preciso dei possibili contagi».

Qui facciamo un passo indietro: chi gestisce la casa di riposo di Villa Torano? L’amministratore è Massimo Poggi ma in Calabria tutti sanno che Poggi è l’amico e il collaboratore di sempre di Claudio Parente e Parente da queste parti non è uno sconosciuto: 63 anni, originario di Rogliano, Claudio Parente è stato consigliere regionale con la lista “Scopelliti Presidente” per poi schierarsi con Occhiuto e infine appoggiare alle ultime elezioni Jole Santelli. La politica anche da queste parti funziona semplice per chi ha le mani in pasta con la sanità privata: si sta dalla parte del più forte, sempre, semplicemente. Amministratore unico della Medical Sport Center srl di Catanzaro (gruppo che si occupa di centri di riabilitazione e di medicina dello sport, tra cui anche Villa Torano) Parente è anche presidente dell’associazione Vivere Insieme onlus che tra i vari settori si occupa anche di sanità attraverso la gestione di oltre 400 posti letto Rsa oltre che della realizzazione e della gestione di impianti polisportivi e di ricerca. Nelle ultime elezioni a Parente Jole Santelli ha affidato il coordinamento e la gestione della lista della “Casa delle Libertà”, il serbatoio di voti che ha permesso al centrodestra di vincere le recenti regionali.

Insomma, la vicinanza tra i due è piuttosto acclarata se è vero che anche i deputati M5s Dalila Nesci, Francesco Sapia e Giuseppe d’Ippolito hanno presentato un’interrogazione ai ministri della Salute e dell’Interno in cui scrivono così: «La gestione di Villa Torano sarebbe riconducibile al politico Claudio Parente, che appartiene allo stesso schieramento della presidentessa della Regione Calabria, Jole Santelli, e dunque con un possibile, forte conflitto di interessi in questa vicenda ancora non chiara, che in ogni caso dovrebbe indurre l’esecutivo regionale a rivedere a fondo i rapporti con la sanità privata, spesso riferibile a soggetti con incarichi elettivi». Sul punto l’amministratore di Villa Torano Gianmario Poggi è intervenuto in una trasmissione locale garantendo che «Parente è solo un amico e un professionista molto competente. Ma è lontano dalla proprietà. Ha venduto le sue quote un attimo prima di entrare in politica…», peccato che si stia dimenticando che nell’aprile 2010, quando Parente sbarcava nella politica regionale con Peppe Scopelliti, quel 40% del pacchetto delle strutture sanitarie è stato venduto alla moglie di Parente (come si evince dalle visure camerali tenendo conto delle quote dirette in Medical e indirette e cioè nell’altra società che fa parte della stessa capogruppo). Torniamo a Villa Torano: nel periodo di Pasqua sono 78 le persone positive all’intento della struttura. Il 16 aprile…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dall’1 maggio

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È l’uomo bianco che porta le malattie

In this photo taken Sept. 7, 2012, Yanomami Indians stand at their village called Irotatheri in Venezuela's Amazon region. A Venezuelan army spokesman, who traveled with other military officers and journalists, said that officials found no sign of any killings and that all was peaceful in the area, which is located 19 kilometers (12 miles) from the border with Brazil, despite a report of a mass killing there. (AP Photo/Ariana Cubillos)

«Se il nuovo coronavirus disturba il sonno dell’uomo bianco, immaginatevi il nostro». A dirlo è Mario Nicacio, dirigente della Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira. Perché in Amazzonia l’impatto del Covid-19 sulle sue comunità, già discriminate nell’accesso ai beni e ai servizi, si somma a quello del fuoco e della deforestazione, che nessun lockdown è in grado di fermare, come testimonia l’aumento degli incendi nella parte boliviana della foresta: ben 3.368 nelle ultime settimane, oltre mille in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Un impatto che in Brasile è moltiplicato dalle politiche di Bolsonaro, indiscusso campione del negazionismo, dai cambiamenti climatici al coronavirus, che non ha mai smesso di incoraggiare l’assalto alla foresta di cercatori d’oro, trivellatori, coloni.

Predatori di ogni tipo che continuano a spostarsi diffondendo il virus anche nei territori più isolati. Ed è soprattutto in questo modo che l’epidemia si è estesa rapidamente a tutta la regione amazzonica, dai centri urbani dove si sono sviluppati i primi focolai alle comunità disseminate lungo i fiumi della grande foresta. I numeri che pubblica ogni giorno la Red eclesial panamazonica delineano un quadro sempre più allarmante: nelle prime tre settimane di aprile i contagi sono passati da 622 a 8.470, le persone decedute da 14 a 429, con un’accelerazione impressionante negli ultimi dieci giorni. Sono tassi di crescita esponenziale. Di fronte ad essi sale la preoccupazione per la sorte dei popoli che vivono ancora in isolamento, senza contatti con l’“uomo bianco” per propria scelta: circa un centinaio in Brasile, distribuiti in 78 territori.

Popoli che «hanno vissuto in questo modo per lungo tempo, e vogliono continuare a farlo. Sono loro quelli che si prendono davvero cura dell’ultima foresta», ha ricordato al mondo Dave Kopenawa, leader politico e spirituale degli Yanomami, nel suo intervento di denuncia alle Nazioni Unite il 3 marzo scorso. «Ma l’uomo bianco – è la sua amara conclusione – riesce solo a pensare: che cosa ci stanno a fare lì? E quando arriva porta con sé le sue malattie». E se il contagio espone a un rischio altissimo tutte le comunità dell’Amazzonia, per i popoli “incontattati” porta con sé la minaccia dell’estinzione, perché le risposte del loro sistema immunitario sono molto più basse.
Per questo le organizzazioni indigene del bacino amazzonico chiedono a una sola voce che sia rispettata la chiusura dei territori e siano attivati sistemi rigorosi per controllarne l’accesso, con il coinvolgimento delle comunità e delle autorità indigene. Per tutti è questa la prima priorità, e la sua mancata applicazione è la denuncia più ricorrente.

«Non siamo solamente esposti al virus ma all’aumento delle invasioni e dei crimini commessi contro i nostri territori e contro le nostre vite», scrive l’Articulação dos povos indìgenas do Brasil. Le fanno eco le tre confederazioni indigene dell’Ecuador, lamentando l’assenza dello Stato nel porre un argine all’invasione, e sottolineando come «sono state le stesse organizzazioni che hanno adottato misure preventive, e cercato appoggio per impedire l’entrata di attori esterni ai propri territori».
Sul terreno della prevenzione, si punta il dito anche sull’assenza di una strategia di informazione culturalmente…

L’articolo prosegue su Left in edicola dall’1 maggio

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Il governo della paura

In queste settimane abbiamo dovuto imparare tante cose nuove. La normalità della vita quotidiana come la conoscevamo prima, la consuetudine delle giornate accompagnate dalla cacofonia delle informazioni, sempre eccessive e quasi surreali, per attirare la nostra attenzione attraverso il frastuono provocato dall’eccesso di informazioni, si è improvvisamente interrotta. Ci siamo ritrovati nel giro di pochi giorni in una realtà del tutto nuova e la quasi totalità delle informazioni che abbiamo iniziato a ricevere è diventata monotematica: la realtà invisibile e (per ora) sconosciuta del virus è comparsa ed ha manifestato la sua pericolosità.

Il virus è una realtà inanimata. Non è vivo. È una struttura biochimica molto complessa del tutto inerte che sfrutta la “vitalità” delle cellule con cui viene in contatto per attivarsi. In realtà non fa proprio nulla di suo. È la cellula bersaglio che fa entrare il virus al suo interno ed è il nucleo della cellula che produce le proteine virali seguendo le istruzioni del Rna del virus. Il virus è di fatto un sistema di riscrittura, di hacking, del normale sistema operativo della cellula.

Il virus la riprogramma ed è la cellula stessa che riproduce il virus.

Quella che si svolge nell’organismo è quindi una battaglia tra “programmi” differenti. Quello dell’organismo che viene “attaccato” e quello del virus, che riprogramma le cellule per creare copie di sé stesso.

Abbiamo imparato che il virus Covid-19 è molto insidioso. Ha un tempo di incubazione in cui non manifesta i propri sintomi che può durare fino a 14 giorni e si trasmette per via aerea. Infetta le alte e le basse vie respiratorie, e può provocare, come ormai sappiamo bene, una pericolosa polmonite interstiziale.

La decisione di chiudere tutte le attività e obbligarci tutti a casa è senza precedenti per il nostro Paese. Ma è servita per ridurre drasticamente e rapidamente il contagio.

È servita soprattutto per guadagnare tempo, per riuscire a capire di più del virus, per cercare di avere il tempo di organizzare una difesa che sia più agile del lockdown e che ci permetta di tornare ad uscire di casa e ad incontrare gli altri.

Il lockdown è infatti la soluzione estrema. Quello che è necessario fare quando non ci sono altre possibilità.

Ora sappiamo tante cose in più di questo virus. Iniziano ad esserci studi a doppio cieco (ossia verificati scientificamente) che ci dicono che combinazioni particolari di farmaci, possibilmente somministrati nelle fasi iniziali della malattia, conducono a una fortissima riduzione della mortalità.

Sappiamo che esistono contagiati che rimangono asintomatici per tantissimo tempo e che hanno una carica virale assolutamente equivalente a quella dei malati (questo è un dato che proviene dallo studio epidemiologico di Vò Euganeo a cura del prof. Andrea Crisanti).

Sappiamo anche che, in questo periodo di lockdown, la gran parte delle infezioni avviene in famiglia e negli ospedali, pochissime sul lavoro.

Sappiamo che in tutti quei Paesi in cui si è proceduto ad effettuare un tracciamento all’indietro dei contatti di ogni positivo che viene individuato (contact tracing), si sono ottenuti risultati eccezionali in termini di contenimento dell’epidemia. Se questo poi viene associato con una presa in carico dei pazienti da parte dei medici sul territorio conduce anche ad una riduzione significativa della mortalità. Sto pensando in particolare a Corea del Sud, Germania e Portogallo.

Per migliorare l’efficacia del contact tracing si è anche molto parlato, tra le altre cose di un’applicazione da installare sui nostri smartphones che aiuti a memorizzare vicino a chi ci siamo venuti a trovare negli ultimi 20-30 giorni. Applicazione utilissima per avvisarci nel momento in cui una di quelle persone si dovesse ammalare oppure venisse trovata positiva al virus.

L’app di per sé è soltanto uno strumento. È una macchina della memoria che ci permette di sapere se siamo entrati in contatto con un positivo.

Nel momento in cui lo scopriamo dobbiamo poter accedere al tampone, per verificare il contagio, ed in caso di malattia avere il supporto necessario.

Ci vuole in altre parole un’organizzazione che rintracci, isoli e testi tutte le persone che l’applicazione ci indicherà.

Più questo processo è veloce e più riusciamo a isolare e controllare la diffusione del virus.

Basterebbe capire questo ad eliminare ogni tipo di polemica sull’applicazione.

Va detto che anche in Italia, che noi stessi consideriamo troppo spesso con sufficienza, ci sono state realtà che hanno gestito l’epidemia in modo straordinariamente virtuoso.

Penso al Veneto, dove Crisanti ha dato delle linee guida molto stringenti (molto più stringenti di quelle dell’Oms seguite nel resto del Paese) che hanno permesso di ridurre molto rapidamente i contagi e di salvare gli ospedali dal diventare dei focolai di contagio, cosa purtroppo successa per esempio in Lombardia.

E anche di aumentare il numero di tamponi effettuati potendo così più facilmente tracciare i positivi e isolarli.

Penso anche ai “Medici di frontiera” della Lombardia, un gruppo di medici di base che hanno applicato in “scienza e coscienza” protocolli sperimentali sui loro pazienti senza aspettare che arrivassero in ospedale, quindi prima che si aggravassero. Protocolli che gli hanno permesso di avere una riduzione significativa della percentuale di pazienti deceduti.

Insomma, questi due mesi di tempo che abbiamo strappato al virus con enormi sacrifici ci hanno permesso di comprendere moltissime cose. Soprattutto ci hanno permesso di comprendere quali armi potremo usare nei prossimi mesi estivi e soprattutto in quelli invernali, in cui gli esperti già prevedono una possibile riacutizzazione dell’epidemia.

Il governo deve però essere molto più coraggioso di quanto è stato finora.

Le tante task force che partoriscono topolini («Andate in giro in bici, chiudete gli anziani in casa»), le assurde discussioni su aspetti del tutto irrilevanti e soprattutto superabili per legge in una situazione di emergenza estrema come questa (la questione privacy dell’applicazione Immuni), l’ignorare completamente Scuola e Università, due cardini fondamentali su cui far leva per la ripartenza del Paese (nemmeno un accenno nel discorso di Conte del 26 aprile), dilungarsi su questioni che interessano il Vaticano (i funerali, le cerimonie religiose), non riuscire a elaborare un piano strategico che permetta di uscire da questa situazione senza il rischio di ricascarci… ecco tutto questo dà la netta sensazione di un governo che è guidato dalla paura e non dal coraggio.

Paura di prendere qualunque decisione che non sia prima validata e contro validata da una qualche commissione di super esperti per non volersi mai assumere una responsabilità diretta.

Ecco questo non va bene e può essere più distruttivo dell’epidemia in sé.

La politica deve assumersi responsabilità. Deve prendere decisioni che inevitabilmente, in questa situazione di emergenza, comportano dei rischi non solo politici.

Se la politica ha una visione del futuro deciderà, sapendo che quei rischi porteranno nel medio-lungo termine un vantaggio e un’uscita della crisi.

Non subiremo più l’epidemia ma la gestiremo.

È questo quello che dovrebbe fare un piano. Decidere cosa serve per abbattere il contagio e far lavorare tutti gli apparati dello stato e della società civile nella stessa direzione.

Spiegando chiaramente e fino in fondo quali sono le scelte che si fanno e perché. Allora anche il singolo cittadino, responsabilizzato, farà quello che è necessario dato che saprà il perché le sue azioni sono importanti.

Se si trattano i cittadini da persone intelligenti la reazione sarà intelligente. Poi ci potrà essere qualcuno che reagirà male, ma saranno una minuscola minoranza.

Se invece si trattano i cittadini da persone stupide, la reazione sarà negativa. Molto negativa. Perché pensare che gli altri siano stupidi è una violenza orrenda e soprattutto molto stupida.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dall’1 maggio

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L’arte di uscire dalla crisi: Marcello Smarrelli

Cosa succederà al mondo dell’arte nel momento in cui sarà passata l’emergenza Covid-19 e riapriranno gli studi degli Artisti, i Musei, le Fondazioni, gli spazi no-profit, le gallerie private, le fiere d’arte?

Ci sarà stato un cambiamento della fruizione dell’arte, soprattutto di quella contemporanea? Si riuscirà a sostenere anche gli Artisti visivi e performativi che creano la bellezza, ma che nonostante questo sono senza Albo professionale e senza Associazioni di categoria e con difficoltà troveranno accesso alle misure governative di sostentamento?

Gli artisti si ritroveranno ad affrontare senza strumenti un’economia globale malmessa che difficilmente li considererà degni di tutela, questione con cui anche le gallerie private, curatori e direttori di Musei dovranno fare i conti. Si può sperare, come è successo in passato, che dopo una mostruosa crisi segua una grande ripresa economica, ma le riprese economiche non avvengono da sole. Gli addetti ai lavori dell’arte stanno cercando una “cura” che oltre alla guarigione possa strutturare anticorpi?

Marcello Smarrelli, consigliere artistico della Fondazione Pescheria – Centro Arti Visive di Pesaro, risponde ai quesiti di Alessio Ancillai

Il Centro Arti Visive Pescheria nasce come uno spazio di creazione, quello che tecnicamente nei manuali dei corsi per curatori si definisce con il temine tedesco di Kunsthalle, o Kunsthaus, un edificio nel quale vengono realizzate mostre, conferenze, convegni e workshop. Una Kunsthalle è spesso diretta da un Kunstverein (società artistica) e si riferisce ad una galleria o ad un museo al quale collaborano diversi artisti, modalità ripresa dagli artists space, organizzazioni non-profit, che ebbero origine a Manhattan nel 1972, con uno spazio chiamato proprio Artist Space.

La Pescheria, come la chiamiamo tutti confidenzialmente, fu fondata dall’artista Loreno Sguanci, che ne fu anche il primo direttore dal 1996 al 2000 e che, durante il suo mandato, presentò mostre realizzate in stretta collaborazione con gli artisti, ad iniziare dalla personale di Eliseo Mattiacci, con cui si inaugurò l’istituzione pesarese nell’estate del 1996. Una Kunsthalle è simile ad un Kunstmuseum (museo d’arte), pur non essendo equivalenti, infatti se il quest’ultimo ha una sua collezione permanente, una Kunsthalle ne è priva, mentre l’artist space è completamente indipendente e non istituzionale, anche se ormai i confini sono talmente labili da rendere completamente superate queste definizioni.

Questo breve excursus etimologico è solo una premessa per dire che il Centro Arti Visive Pescheria fu un progetto anticipatore, nato dalla visione lungimirante di un artista come luogo di creazione e di produzione d’arte e cultura contemporanea, in linea con le esperienze internazionali più all’avanguardia, sia rispetto alle nuove modalità di creazione e fruizione delle opere d’arte che delle pratiche curatoriali. Una realtà che definirei, ancora oggi, unica sia nelle Marche che al di fuori dei confini della regione. Ovviamente a causa dell’emergenza Covid-19 abbiamo dovuto cancellare molti eventi in calendario; non sappiamo bene come e quando riprogrammarli perché, come tutti sanno, non abbiamo ancora previsioni certe sulla riapertura degli spazi museali da parte del Governo. L’unica fortuna è che i prodotti culturali realizzati dalla Fondazione Pescheria, a differenza di quelli dell’ex mercato ittico da cui prende il nome, non hanno scadenza e potremo riproporli appena sarà possibile farlo.

Come fanno tutte le altre istituzioni culturali, stiamo cercando dei nuovi canali di comunicazione per rimanere in contatto con il nostro pubblico e tentare di dare il nostro piccolo contributo per rendere meno pesante il tempo che si trascorre in casa durante l’isolamento. Ma siamo un’istituzione che non ha una collezione su cui poter costruire un’attività online di visite guidate o di racconti delle singole opere, quindi la nostra unica risorsa sono gli artisti. Per questo abbiamo dato vita ad una iniziativa che ha come titolo un hashtag, #LaCreativitàNonSiFerma, ispirato a un celebre aforisma di Albert Einstein “La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura”. Così abbiamo chiesto agli artisti vicini alla Fondazione Pescheria di raccontarci attraverso storie, immagini, video e suoni, come riempiono questo tempo così speciale, cosa stanno creando in questi giorni strani ed eccezionali, per condividerlo con i tanti amici che ci seguono sulle pagine Instagram e Facebook prendendo come punto di partenza proprio una figura emblematica per noi, come quella di Eliseo Mattiacci. Ma non voglio aggiungere altro, sperando di solleticare la curiosità dei lettori e indurli a seguirci sui nostri social.

Con amici e colleghi continuamente ci poniamo molte domande: Cosa ci riserva il futuro? Cambierà il modo di fruire la cultura? E il rapporto con il pubblico come si configurerà? Ma sono uno storico dell’arte, non un’opinionista, quindi mi risulta complicato darmi e dare delle risposte, perché avrei bisogno di molto studio e molto ragionamento per arrivare a formulare teorie che potrebbero rivelarsi completamente sbagliate alla prima verifica dei fatti, quando tutto, speriamo, ripartirà. L’influenza spagnola, che dilagò tra il 1918 e il 1920, uccise decine di milioni di persone nel mondo, tra cui artisti e intellettuali del calibro di Egon Schiele e Guillaume Apollinaire. L’altissimo livello di letalità le valse la definizione di “più grave forma di pandemia dell’umanità”, avendo causato più vittime della terribile peste nera del XVI secolo.

Ma già prima del ’20 le grandi rivoluzioni artistiche erano state avviate con le Avanguardie e se penso alle epidemie di peste del XVI secolo, la cosa che mi viene subito in mente è il cantiere grandioso della chiesa votiva di Santa Maria della Salute di Baldassarre Longhena a Venezia, ma anche le rutilanti tele di Luca Giordano.
Ho come l’impressione che all’improvviso il mondo abbia preso nuova coscienza del fatto che la morte esiste e che in certi momenti della storia è difficile relegarla nei luoghi deputati, come le camere mortuarie e i cimiteri. In definitiva, non so dire se le cose cambieranno e, semmai, cosa cambierà, cosa riserva il futuro ai musei, alle fondazioni, alle gallerie, agli artisti, ai curatori. In una visione storica a volo d’uccello mi pare che poco o niente sia mutato a seguito delle grandi epidemie appena ricordate. Certamente le conseguenze economiche saranno serissime e probabilmente avremo ancora meno soldi da destinare e investire nella cultura.
Non so dire che cosa cambierà, in cuor mio spero vivamente che tutto cambi, anche solo per la curiosità di vedere cosa succederà dopo.

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L’arte di uscire dalla crisi – Leggi le altre interviste

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Storico dell’arte, critico e curatore, Marcello Smarrelli è nato nel 1962 a Roma, dove vive e lavora. Dopo aver conseguito la laurea in Storia dell’Arte all’Università di Roma “La Sapienza” e la Specializzazione in Archeologia e Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea all’Università di Siena, si è dedicato allo studio dei rapporti tra estetica e pedagogia.
Dal 2016 è Consigliere artistico della Fondazione Pescheria Centro Arti Visive Pescheria – Pesaro. Dal 2014 è Curator at large presso la Fondazione Memmo Arte Contemporanea – Roma. Dal 2011 è Direttore artistico della Fondazione Pastificio Cerere – Roma. Dal 2007 è Direttore artistico della Fondazione Ermanno Casoli – Fabriano (An).