Home Blog Pagina 500

L’arte di riconquistare le città

A protester from the communist party-affiliated PAME union wearing a mask to protect against coronavirus, holds a carnation during a May Day rally outside the Greek Parliament, in Athens, Friday, May 1, 2020. Hundreds of protesters took part in traditional May Day march, despite authorities' pleas to unions to move their demonstrations to next week, after lockdown measures begin easing. (AP Photo/Petros Giannakouris)

È tutta nostra la città. È tempo di tornare dall’io al noi, è venuto finalmente il momento di riprendersi la polis, di esercitare la democrazia, in tutte le sue forme, avendo bene a mente che non siamo ancora fuori dalla pandemia e che dobbiamo muoverci nel massimo rispetto delle misure di sicurezza.

Fare della città un teatro vivo di democrazia, tornare ad essere anche concretamente una collettività è un’esigenza irrinunciabile come dice lo storico dell’arte, archeologo e accademico dei Lincei Salvatore Settis in questo sfoglio, perché è nel sociale, è nel rapporto con gli altri, che si realizza il pieno sviluppo della persona umana, come recita il bellissimo articolo 3 della nostra Costituzione. Dopo un periodo protetto, necessario per fermare il contagio, ora si tratta di affrontare una fase nuova di “svezzamento”: con fiducia torniamo a muoverci all’esterno e con grande senso di responsabilità. Tenendo gli occhi ben aperti perché i diritti di chi è tornato al lavoro siano tutelati in sicurezza. Perché siano rispettati i protocolli, i contratti collettivi, perché la riapertura non avvenga in deroga del codice degli appalti e delle garanzie costituzionali.

Se il 25 aprile – la festa più bella di tutte perché ricorda la liberazione partigiana dal nazifascismo – ci passavamo papaveri di terrazzo in terrazzo, come abbiamo raccontato con una fresca luminosa copertina di Left, ora ripensando al primo maggio ci torna in mente la bella immagine di una ragazza che impugna un garofano rosso con un guanto, manifestando in piazza ad Atene, insieme a tanti compagni, distanti ma idealmente vicini. Un’immagine potente quella che ci è arrivata dalla Grecia, tanto più pensando a come fu strangolata dalla Troika durante una crisi economica non troppo diversa da quella che purtroppo si prospetta ora. Non ci saranno le stesse condizionalità del Mes promette il ministro Gualteri; ormai lasciati alle spalle gli Eurobond, il presidente del Consiglio Conte insiste sul Recovery fund, di cui ancora non sono chiari i contorni. Ma è certo che su questa strada bisogna insistere, perché senza un’Europa solidale nessuno ne esce vivo.

Certo ci saremmo aspettati che la Unione europea, sulla via aperta da Danimarca, Polonia e Francia, vietasse aiuti alle aziende con sede in paradisi fiscali (come accade per la Fca, per le aziende di Berlusconi ecc.) ma così non è stato. Non smettiamo tuttavia di lottare per un’Europa dal volto più umano, non ci arrendiamo. Così come non smettiamo di vigilare sull’operato del governo.

È stata decisa una ripartenza più sulla base di motivazioni economiche che sulla base di evidenze scientifiche. Aspettiamo che i dati sull’andamento della pandemia affluiscano dalle Regioni, che siano diffusi più ampiamente alla cittadinanza che chiede una comunicazione chiara, trasparente, coerente. Mentre continuiamo a documentare e monitorare quel che avviene sui territori (a cominciare dall’area più colpita della Lombardia), in copertina torniamo ad occuparci di un tema a noi molto caro: la città come organismo vivente, come pubblica agorà. Un tema a cui abbiamo dedicato qualche mese fa un agile libro che ha ricevuto molta attenzione da parte dei lettori e splendide presentazioni, che – per chi volesse – si possono rivedere sulla nostra pagina Facebook. Frutto di anni di lavoro di Left il libro Le mani sulle città documenta la crescita delle disuguaglianze, l’esclusione di intere fasce sociali dai centri storici, anche attraverso l’istituzione di zone rosse – quando non ce n’era alcun bisogno – e un perverso armamentario di architettura ostile.

Abbiamo denunciato questa deriva in nome del diritto di tutte le persone all’abitare e ad avere accesso al patrimonio d’arte. Con la pandemia purtroppo le disuguaglianze sono aumentate, come documentano gli economisti Salvatore Monni e Paolo Brunori insieme a un gruppo di studiosi dell’Irpet. Con tutta evidenza, una cosa è stato vivere il lockdown in 70 metri quadri ai Parioli, ben altra è stata farlo in quattro persone chiuse dentro 30 metri quadri in periferia non avendo nessuna altra casa dove riparare. Le mappe di Roma di Monni lo mostrano in modo inconfutabile.

Ripensare la città in modo più umano e sostenibile è la grande sfida che oggi hanno davanti architetti, urbanisti e politici. La dura lezione che ci ha inferto la pandemia ci obbliga a scelte non più rinviabili. Tutti ci siamo meravigliati dei cigni nei navigli, dei delfini nei porti, di spicchi di natura che hanno ripreso vita nei centri urbani. Perché non trarne una lezione duratura, provando a ripensare le città abbattendo le barriere architettoniche, disegnando più piste ciclabili, per evitare di tornare ad affollare i mezzi pubblici e ad intasare le strade con i mezzi privati? Perché approfittando del crudele distanziamento fisico a cui ci obbliga il rischio di contagio non ne approfittiamo per restituire musei, gallerie, palazzi centri storici al piacere della conoscenza e al tempo lento e interiore della fruizione dell’arte? Perché non immaginare maggior spazi verdi e una buona architettura sostenibile, tornando a recuperare e a rigenerare l’antico (quando necessario) e a costruire ex novo, rilanciando la sfida di un progresso a dimensione umana?

In questo momento così duro per tutti sono fondamentali investimenti pubblici a fondo perduto, misure di sostegno come l’estensione del reddito di cittadinanza (ma senza condizionalità), come il varo di un reddito di resistenza, sono utili anche i bonus spesa, ma in prospettiva più che misure assistenziali serve creare nuovi posti di lavoro.

Allora perché non sfruttare questa situazione di crisi per cercare di mettere in atto quella rigenerazione urbana in senso green di cui tanto si è parlato? Perché non investire nel cablaggio di città e paesi per consentire a tutti pari accesso alla rete e alle possibilità di didattica a distanza che, necessariamente, dovremo sviluppare ancora fino a quando non sarà trovato un vaccino efficace per il Covid-19?

Qui c’è in gioco il futuro dell’Italia che non si risolve vagheggiando il ritorno al piccolo mondo antico e agreste, ma puntando sulla modernizzazione della città, sulla qualità e sicurezza degli spazi di vita e di lavoro, sulla ricerca, sulla formazione e su un nuovo modello di sviluppo a dimensione umana. La sfida è aperta.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dall’8 maggio

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Ma gli stranieri non ci avevano rubato il lavoro?

«Oggi il primo problema che abbiamo in agricoltura è quello di reperire la manodopera. Ci mancano, come sostengono tutte le associazioni agricole, tra i 270mila e i 350mila lavoratori e lavoratrici per le prossime campagne di raccolta. Non possiamo permettere che un litro di latte o un chilo di frutta o di ortaggi vengano distrutti perché non abbiamo trovato le persone che si fanno carico della raccolta di questi prodotti. Se non siamo in grado di reperirle dobbiamo dare l’opportunità di lavorare in modo regolare, e non attraverso lo schiavismo dei caporali, anche ai cittadini immigrati che sono bloccati nei ghetti e che negli anni passati hanno lavorato in agricoltura in nero».

La ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova, incalzata da Roberto Vicaretti nella trasmissione Studio24 su RaiNews, è stata chiara. Il suo settore ha un grave problema. Mancano braccia disposte a raccogliere fragole, pomodori e prodotti di stagione. E presto i reparti frutta e verdura di supermercati ed alimentari potrebbero restare sguarniti. Per questo motivo si è riaperta in Italia la possibilità di una sanatoria, per regolarizzare i migranti senza documenti presenti nel Paese e disposti a lavorare in campagna. Una proposta per alcuni aspetti senza dubbio positiva, con cui si riconosce finalmente l’esistenza di decine di migliaia di “invisibili” impegnati in agricoltura, che spesso vivono e lavorano in condizioni indicibili. Ma il modo in cui il governo sembra intenzionato a procedere risponde principalmente ad esigenze economiche, mentre il benessere e i diritti del lavoratore finiscono in secondo piano. Senza considerare, inoltre, che restano del tutto aperte le criticità relative alle condizioni igienico-sanitarie a cui sarebbero esposti coloro che andrebbero a lavorare nei campi, ai loro alloggi, ai trasporti, alle loro tutele contrattuali. Temi rispetto ai quali perdura un consueto e preoccupante silenzio.

Ma, per analizzare il problema e le sue possibili soluzioni, partiamo dall’inizio. La penuria di braccianti si è manifestata principalmente per due motivi. Il primo è il blocco delle frontiere, che ha impedito l’accesso in Italia a decine di migliaia di lavoratori stagionali, provenienti perlopiù dall’Est Europa, Bulgaria e Romania in primis. Il secondo è la difficoltà per i lavoratori sans papier che abitano i vari ghetti del Sud (e non solo) di spostarsi e recarsi nei campi, con l’intensificarsi dei controlli di polizia durante il lockdown. Anche coloro che hanno i documenti in regola, in assenza di un contratto non possono muoversi con l’autocertificazione. Mentre i caporali, per paura, hanno fermato i furgoni. A Terracina, solo per fare un esempio, il 19 marzo la polizia ne ha fermati tre che viaggiavano stipati di braccianti: 25 lavoratori di origine bengalese e due italiani che li accompagnavano sono stati denunciati per il mancato rispetto delle disposizioni anti-contagio.

Così, le campagne italiane sono rimaste senza forza-lavoro. Una circostanza che, se consideriamo la disoccupazione al 9,7% di febbraio certificata dall’Istat, sconfessa in un colpo solo due dei luoghi comuni più amati dai fascioleghisti: “Gli stranieri ci rubano il lavoro” (poiché la loro assenza non è stata affatto rimpiazzata agilmente da braccia italiche) e “l’immigrazione irregolare spinge verso il basso tutele e salari” (visto che, anche con la temporanea assenza di un presunto dumping salariale, non si è registrato alcun balzo in avanti di retribuzioni e garanzie per i lavoratori agricoli).

Ora, per assicurare le raccolte in campagna, il governo sta lavorando ad una sanatoria. L’ultima si era avuta nel 2012, col governo Monti, ed era dedicata a colf e badanti. Nelle bozze di decreto che sono circolate negli ultimi giorni si spiega che «al fine di sopperire alla carenza di lavoratori nei settori di agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura», i datori di lavoro che intendano mettere sotto contratto di lavoro subordinato a tempo determinato «cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale in condizioni di irregolarità» possono presentare istanza allo sportello unico per l’immigrazione. Il contratto «non superiore a un anno» genera, dopo una serie di verifiche burocratiche, un permesso di soggiorno, che «può essere rinnovato in caso di nuova opportunità di lavoro offerta dallo stesso o da altro datore di lavoro, fino alla scadenza del nuovo rapporto di lavoro». La misura dovrebbe coinvolgere circa 200 mila migranti. (La ministra Bellanova ha successivamente parlato di «un permesso di soggiorno temporaneo per sei mesi, rinnovabile per altri sei», a cui potrebbero accedere 600mila lavoratori, ma ha anche aggiunto di non «essere in grado di dirlo con certezza», ndr)

«Ciò che serve è una sanatoria per tutti gli stranieri privi di documenti, non solo in agricoltura, e deve essere svincolata dalla necessità di un rapporto di lavoro già esistente. Affidare la richiesta di regolarizzazione al datore di lavoro, come vorrebbe fare il governo, innesta una dinamica di possibile ricatto rispetto alle condizioni lavorative. Senza poi considerare che è difficile, in queste condizioni, un incontro immediato tra domanda ed offerta di lavoro», spiega a Left Sergio Bontempelli, operatore legale ed esperto di questioni legate allo status giuridico dei cittadini, che con l’Associazione Diritti e frontiere (Adif) ha curato una proposta di riforma fondata sulla regolarizzazione di chi è qui senza documenti tramite il rilascio di un permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, sull’abrogazione dei decreti Salvini e sulla reintroduzione della protezione umanitaria. La proposta è stata tradotta pure in un testo di legge.

Anche l’Associazione per gli studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) ha curato una controproposta simile, che ha raccolto centinaia di adesioni. «Se vogliamo sottrarre le persone prive di documenti al ricatto dei datori di lavoro dobbiamo concedere loro un permesso di ricerca lavoro di almeno un anno – ci dice Nazzarena Zorzella, avvocata e socia Asgi – durante il quale sia possibile trovare un’occupazione. Il nostro obiettivo principale deve essere quello di far emergere le persone da una condizione di invisibilità giuridica. Occorre riconoscere il diritto all’esistenza di uomini e donne che vivono già qui, in Italia, e bisogna farlo a prescindere dal settore in cui sono occupati. Ciò consentirebbe anche una più adeguata tutela della salute collettiva». Un’altra ipotesi è poi quella proposta da Emilio Santoro, docente universitario a Firenze e presidente del centro “L’Altro Diritto”. Egli suggerisce di utilizzare il decreto flussi, cioè il provvedimento con cui ogni anno il governo stabilisce il numero massimo di lavoratori stranieri autorizzati ad entrare in Italia. «Il decreto flussi anche in passato è stato usato per assumere chi già si trovava nel nostro Paese», spiega a Left il docente, «oggi la legge prevede che il visto di ingresso sia rilasciato nel Paese di origine del lavoratore, ma con la pandemia in corso e l’impossibilità di viaggiare si potrebbe prevedere di rilasciare direttamente il permesso di soggiorno in Italia a chi rientra nella quota prefissata. Prevedendo una quota sufficientemente ampia si potrebbero mettere in regola molti lavoratori stranieri, con una piccola modifica alla normativa vigente».

Regolarizzazione a parte, infine, restano inascoltate le richieste dei lavoratori agricoli circa la possibilità di trovare agilmente un impiego e di recarsi nei campi e trovare un alloggio in sicurezza. «L’articolo 8 della legge 199 (anticaporalato, ndr) istituisce le “sezioni territoriali” che hanno il compito di attuare il collocamento, il trasporto e l’accoglienza. Come mai non ci sono ancora in tutta Italia? – ha dichiarato Giovanni Mininni, segretario generale Flai, in un intervento sul Manifesto -. Quelle operative si contano sulle dita di due mani. Perché nel nostro Paese si consente il lusso di non applicare una legge se questa non piace ad alcune Istituzioni e ad una parte del mondo agricolo? Dov’è lo Stato?».

L’articolo è stato pubblicato su Left del Primo maggio

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

È la storia di una donna come tante: Maria Rosa, mamma e nonna

A doctor watches a coronavirus patient under treatment in the intensive care unit of the Brescia hospital, Italy, Monday, March 16, 2020. For most people, the new coronavirus causes only mild or moderate symptoms. For some, it can cause more severe illness, especially in older adults and people with existing health problems. (AP Photo/Luca Bruno)

Gentilissimi, mi scuso in anticipo se ruberò un po’ del vostro prezioso tempo.
Voglio raccontarvi una storia. Non è una storia a lieto fine però, è una storia triste… Mi spiace, ma desidero condividerla.
Anche voi potrete, se vorrete, condividerla.

È la storia di una donna come tante: Maria Rosa, mamma e nonna.

Un giorno, è l’11marzo del 2020, Maria Rosa si ammala, un po’ di tosse, un po’ di febbre, è ancora inverno dopotutto, sarà un po’ di influenza, pensa. Chiama il medico curante, riferisce i sintomi, il medico le prescrive un antibiotico. Nello stesso periodo in Cina non se la passano bene, c’è uno strano virus che miete vittime. Provoca una malattia sconosciuta: Covid-19.
Anche in Italia comincia a farsi sentire… Si dice che attacchi prevalentemente gli anziani, insomma persone in età avanzata, con diverse patologie croniche. Per prudenza è meglio chiudersi in casa, lasciare fabbriche uffici e scuole…però per i più giovani, per chi è sano, potrebbe essere poco più che un’influenza.

Maria Rosa è a casa, convalescente, prende il suo antibiotico, la tachipirina per fare scendere la febbre, ma è proprio spossata. Strano, non si ammala quasi mai. Telefona alle sorelle per distrarsi, anche loro hanno la febbre, sì una febbre un po’ subdola, non passa.
Ormai sono 6 giorni che è ammalata, è proprio sfinita, ma che accidenti di influenza, pensa, davvero tosta.
Il medico le ha raccomandato di continuare con l’antibiotico, la tachipirina all’occorrenza, ne sta seguendo molti di casi così in questi giorni.

Intanto i figli la aiutano un poco a mangiare, ha trascurato i pasti e ha perso le forze, non riesce più ad alzarsi dal divano, la notte non riesce a dormire. Ha bisogno di bere l’acqua a piccoli sorsi con il cucchiaino. “Ma che sapore! È amara, come si fa a berla?” Pensa Maria Rosa.
I figli le misurano la pressione: nella norma, la febbre: sempre tra i 37.5 e i 38.5.
“Mamma ma, respiri bene?” Le chiedono. “Sì, mi sembra di sì perché?” “Non è meglio telefonare al n. verde, quello regionale?” “Quello per il Covid?” Risponde lei, il tono preoccupato.
L’operatore dice di continuare così. Maria Rosa deve stare a casa, seguire scrupolosamente le indicazioni del medico. Se non c’è affanno va bene così. “Anche se sviene?” Chiedono i figli. “Anche se non riesce a bere da sola? E va imboccata, e accompagnata al bagno, perché se fa due passi, stramazza a terra.” “Sì, accuditela come state facendo, misurate la febbre ecc… ecc…”

I figli sono perplessi, ma si fidano delle indicazioni ricevute. Se non c’è affanno…però meglio mettersi mascherina e guanti quando la accudiscono. Nessuno lo ha detto… ma potrebbe essere Covid, no?
Passano due giorni, i polpastrelli di Maria Rosa sono blu, il viso paonazzo. La febbre però non è alta, tosse non ce n’è quasi più.

È il 20 marzo. Nove giorni dai primi sintomi. Sono le 12.00. I figli capiscono che non si può andare oltre. Bisogna chiamare il 112. Mamma non riesce più a mangiare, bere, stare in piedi e ora nemmeno a parlare. “Ma se non c’è affanno…” Dice l’operatore del 112.
“Quindi non si può ricoverare?” “Accuditela come state facendo”. “Ma sviene di continuo. Senta, noi non siamo medici. Almeno diteci che parametri dobbiamo valutare. La febbre non è molto alta: 37.5 massimo 38.00. La pressione è nella norma… Cos’altro dobbiamo controllare?” Chiedono i figli.
“Ok, adesso vi faccio richiamare da un’infermiera che vi potrà aiutare…”

Sono le 17.00, nessuna infermiera ha chiamato. Nel frattempo i figli hanno richiamato loro altre due volte il 112.
Alla fine c’è l’affanno.
Sono circa le 19.00 quando arriva l’ambulanza. Il display del saturimetro indica 45.
L’operatore della SOS scuote la testa. Forse il saturimetro non è tarato bene: 45 non è un valore compatibile con la vita.
Rimisura: 45.
Ora Maria Rosa ha tutte le carte in regola, può essere ricoverata.

I figli non la rivedranno più.
Seguiranno 25 giorni di tortura.

“Tampone positivo: è Covid” “Ricoverata già in condizioni critiche” “Polmonite severa” “È con il casco, ma non ossigena bene”.
“Gli esami clinici non sono buoni…purtroppo.” “La spostiamo in terapia intensiva. Non possiamo garantire nulla. Parenchima già cicatrizzato” I figli osano chiedere quello che non voglio credere: “La accompagnate alla morte, ora?” ” Mmmhhh, no, cioè vediamo… può succedere tutto”.
“Il fisico sì, era sano prima. In ottime condizioni ma ha avuto una risposta immunitaria violenta” “Ci sono complicazioni. Embolia coronarica” “In queste condizioni…trapianto di polmoni non possiamo permettercelo”.
“Ci spiace… Non possiamo fare nulla di terapeutico, non abbiamo farmaci specifici. Non risponde agli antivirali, è tutta scoagulata.” “Ma non molliamo, facciamo una trasfusione.”

È il 14 aprile. Ore 9.00 circa, l’ultima telefonata.
“Ecco, volevamo prepararvi. Sul volto della mamma si notano i segni dell’agonia”.
“Capisco…” Risponde la figlia. “Siete stati gentili e coraggiosi, so che avete fatto tutto il possibile. Non possiamo venire a vederla, vero?” “No, ci spiace moltissimo…non è possibile” Sospira la dottoressa, la voce incrinata.
La figlia: “Avrei un ultimo desiderio” “Sì, certo”. La dottoressa accosta il telefono all’orecchio di Maria Rosa, è sedata ed incosciente da 12 giorni.
La figlia sussurra nella cornetta: “Ti voglio bene mamma. Ti vogliamo bene, riposa in pace.”

Maria Rosa muore il 14 aprile, nel primo pomeriggio, aveva 61 anni, era in salute.

Maria Rosa era mia madre.
Io e miei fratelli attendiamo un tampone da 40 giorni. Forse ora potremo fare un test sierologico. Ma siamo asintomatici.
Se non c’è sintomo… (“Se non c’è affanno…”) Aspettiamo il sintomo… presto o tardi…

Vi ringrazio per aver condiviso il mio dolore.

Cordialmente, Isabella (dalla Provincia di Como)

Alla conquista del tempo perduto

DUESSELDORF, GERMANY - MARCH 29: The "Zeitfeld" (Time Field) clock installation by Klaus Rinke is seen at the entrance of the Suedpark, on March 29, in Dusseldorf Germany. On Sunday, March 31, most European countries will move into daylight saving time. This could be one of the last such changes, since the European Parliament supported a proposal this week to end the practice after 2021. (Photo by Maja Hitij/Getty Images)

La questione del rapporto tra orario di lavoro e tempo libero è di difficile trattazione. La tendenza storica, indubbiamente, vede la riduzione del tempo della vita dedicato al lavoro. Dagli anni in cui Marx ed Engels denunciavano il lavoro notturno delle donne e dei bambini, leggi e lotte operaie hanno aumentato la protezione dei lavoratori e posto limiti alla giornata lavorativa. Nei principali Paesi industrializzati si lavorava circa 65-70 ore settimanali attorno al 1870, 45-50 negli anni cinquanta del secolo scorso, per arrivare a 38-42 trent’anni dopo; inoltre, con l’aumento dell’età scolare e del periodo pensionistico, la vita lavorativa delle persone si è anch’essa contratta. Sebbene questa sembri una tendenza di lungo periodo, negli ultimi decenni essa sembra essersi arrestata, se non invertita. Al contempo sono cresciute quelle forme di sfruttamento esterne alla fabbrica, dove i lavoratori sono spinti a rendersi autonomi, quasi fossero ditte individuali, e nei fatti sono sottoposti a pressioni che li spingono a dilatare il tempo prestato al lavoro.

Ne fornisce una drammatica rappresentazione l’ultimo film di Ken Loach, Sorry we missed you: schiavi di anonimi algoritmi e dell’ordine neoliberale, autisti, tassisti, addetti alle consegne a domicilio, vivono in condizioni di sfruttamento insostenibili. Per non parlare poi della nuova categoria del “lavoro gratuito” – se non talvolta prestato sotto pagamento dello stesso lavoratore – dove si lavora in cambio della promessa di un’occupazione retribuita, oppure per costruirsi un curriculum spendibile in un futuro indefinito.

La discussione sul tempo di lavoro va pertanto inserita in un contesto in continua evoluzione, dove un ruolo decisivo hanno i valori dominanti, la forza contrattuale dei lavoratori e il progresso tecnologico. Sotto quest’ultimo aspetto, una delle ragioni che giustifica la riduzione del tempo di lavoro è l’espulsione della forza lavoro dai processi produttivi causata dalle nuove tecnologie. Queste tendono anche a rendere incerta la divisione tra tempo libero e tempo di lavoro: in molte occupazioni è possibile svolgere mansioni fuori dal luogo e dai tempi di lavoro, con effetti non necessariamente negativi, ma che rendono difficile calcolare quante ore effettivamente l’individuo lavori e quante ne dedichi alla vita privata. L’introduzione nei processi produttivi delle tecnologie dell’informazione, peraltro, non ha ancora dispiegato tutti i suoi effetti. È prevedibile che queste tendenze possano accentuarsi; in particolare, è prevedibile che crescano le persone che rischiano di restare fuori dal mondo del lavoro, oppure che, non protette perché isolate, finiscano per subirne solo gli effetti negativi. La risposta a queste preoccupazioni sembra semplice: lavoriamo tutti un po’ meno, dedichiamo più tempo agli affetti, alle amicizie, allo svago e alla cultura, creando così anche maggiori opportunità per gli altri.

Eppure le cose non sono così semplici, né sul piano tecnico né su quello culturale. Anzitutto l’idea che esista una quantità fissa di lavoro da svolgere, e che questa possa essere divisa a piacimento, è troppo semplicistica. Nelle fabbriche la riduzione dell’orario di lavoro richiede la riorganizzazione della produzione, una diversa divisione delle mansioni e un maggior scambio di comunicazioni tra gli occupati. Se poi l’obiettivo è quello di migliorare la vita delle persone, questa riduzione andrebbe ottenuta senza penalizzare il salario. Si pone in sostanza il problema di come dividere i costi di questa scelta tra i lavoratori, le imprese e la collettività. Sappiamo benissimo quale massiccia opera di redistribuzione del reddito a favore delle classi più ricche abbiano generato le politiche neoliberiste. La polarizzazione della ricchezza è anche legata a questi sviluppi tecnologici, che lasciano il potere di produrre ricchezza e di controllare i processi sociali nelle mani di gruppi ristrettissimi di persone. L’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro, in sostanza, non può essere slegato da interventi radicali a vasto spettro volti a contrastare l’arricchimento ingiustificato dei più ricchi, che invece sembra essere ormai una caratteristica strutturale delle nostre economie.

Nonostante tutto questo, anche per l’incalzare della crisi, molti Paesi e molte realtà industriali si muovono in questa direzione. Belgio, Olanda, Francia, Germania, Svezia e altri Paesi hanno sperimentato a vari livelli la riduzione dell’orario di lavoro. I casi sono numerosi e andrebbero studiati uno ad uno, eppure sembra proprio che smentiscano i profeti di sventura: i problemi organizzativi non si sono mostrati insormontabili, gli effetti negativi sui salari sono stati assorbiti, la produttività dei lavoratori è aumentata spesso in maniera inaspettata, insomma i casi di successo non mancano.

Certo, in molte circostanze la scelta del tempo da dedicare al lavoro è individuale, eppure anche qui conta il contesto. In una fase segnata dall’incertezza e dalla riduzione delle protezioni sociali, il singolo è spinto a dedicare più sforzi al guadagno individuale. La rivendicazione del “lavorare meno lavorare tutti” va pertanto accompagnata alla difesa del settore pubblico, dei servizi sociali e dei diritti. Il lavoratore, come recita la nostra Costituzione, ha diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa», libera anzitutto dalla necessità di accettare tempi di lavoro che assorbono tutte le energie della vita.

Più a fondo – e questo è un punto decisivo -, le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro devono accompagnarsi a cambiamenti radicali che investano il senso della vita. L’impegno sul lavoro per secoli è stato un collante sociale fondamentale. Infatti, mentre nella società feudale le classi dominanti si distinguevano da quelle oppresse per non aver bisogno di lavorare, il capitalismo si è affermato con l’idea protestante che tutti debbano lavorare. Imprenditori e lavoratori, uguali in quanto figli di Dio, si sacrificano insieme nel lavoro di fabbrica: non però per il proprio benessere, ma per scontare il peccato originale e servire il Signore. L’ozio è un peccato, mentre il lavoro purifica l’anima. Questa concezione del lavoro oggi è ormai dimenticata, ma l’attività lavorativa troppo spesso serve a coprire un vuoto interiore, vuoto che forse è proprio l’avvelenato retaggio di questa concezione religiosa dell’esistenza.

Il lavoro non serve né per servire Dio, né per scontare il peccato, coprire un vuoto esistenziale o raggiungere la felicità. Piuttosto, esso deve consentire di vivere comodamente, favorendo la partecipazione alla vita sociale del lavoratore invece che ostacolarla. La realizzazione individuale non dipende dall’arricchimento economico, ma dalla qualità dei rapporti interumani. Vale qui la distinzione tra bisogni ed esigenze proposta da Massimo Fagioli. Queste intuizioni erano presenti in una parte della sinistra italiana degli anni sessanta e settanta del secolo scorso: le troviamo, ad esempio, sia nella proposta di Riccardo Lombardi, esponente socialista di primissimo piano, della società “diversamente ricca”, sia in alcune rivendicazioni operaie di quegli anni, come le 150 ore retribuite per il diritto allo studio. Lo stesso Berlinguer, segretario del Partito comunista, affermò che a suo avviso l’austerità era semplicemente la scelta dell’operaio di stare con la sua ragazza piuttosto che fare degli straordinari per comprarsi una cosa inutile. Oggi la parola austerità ha assunto il sinistro significato della compressione dei salari e dei diritti: dunque non una scelta di vita, ma la costrizione ad una vita di stenti e di incertezza materiale. Affinché possa riprendere quella tendenza storica alla riduzione del tempo del lavoro, sono necessarie una nuova cultura e una nuova fase di lotte: va ripensata l’organizzazione economica della società, va posta al centro la questione della qualità della vita in tutti i suoi aspetti.

L’articolo di Andrea Ventura è stato pubblicato su Left del 17 gennaio 2020

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Domenico De Masi: Rendiamo il lavoro più bello e più creativo

PARIS, FRANCE - APRIL 19: A picture shows a clock taken from inside of the Orsay museum on April 19, 2016 in Paris, France. The clock of the Orsay museum is one of the few remnants of the days when the museum was a station. (Photo by Thierry Chesnot/Getty Images)

Lavorare meno lavorare tutti, un’idea che torna a farsi strada nelle socialdemocrazie del Nord Europa. La giovane premier finlandese Sanna Marin ne aveva parlato in un convegno. Salita ai vertici del governo, intanto, si sta adoperando per difendere e rilanciare il welfare nel suo Paese e chissà che in futuro non tematizzi più concretamente la questione. In Italia di riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio ha parlato il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico e il tema è stato evocato in un documento congressuale dal segretario generale Cgil Landini. Certo passare ai fatti non è così facile, ma auspichiamo che il dibattito possa finalmente decollare anche da noi, nonostante la feroce levata di scudi di conservatori e neoliberisti, dislocati anche nel centrosinistra.

Chi ha scritto molto sulla necessità di un giusto riequilibrio fra tempi di lavoro e di vita, sfruttando gli aspetti migliori dello sviluppo tecnologico, è il sociologo Domenico De Masi, già autore del monumentale Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi, 2018), un volume di oltre 800 pagine che offre una ricca disamina delle diverse concezioni del lavoro e del «tempo liberato» nelle varie epoche, dall’otium letterario dei latini e prima ancora dei cittadini greci (in una società basata però sullo sfruttamento e sulla discriminazione degli schiavi e delle donne) per arrivare al lavoro concepito come condanna per il peccato originale nel medioevo cristiano e a mezzo di elevazione nell’ideologia protestante consustanziale alla nascita del capitalismo, come rilevava già Max Weber. Ma non solo. Interessantissimo è anche il quadro sinottico tratteggiato da De Masi che, fuori da un orizzonte eurocentrico, propone di approfondire il senso che il lavoro ha assunto nelle differenti concezioni orientali, per esempio nella visione confuciana o in quella taoista, attenta all’equilibrio uomo e natura, fuori dall’ossessione produttivistica di cui è affetto anche il capitalismo di Stato cinese. Una ossessione che domina anche l’attuale discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro sui giornali mainstream in Italia.

Professor De Masi, davvero ridurre l’orario di lavoro a parità di salario sarebbe una débâcle  comportando un crollo vertiginoso della produttività?
Non è così. Torno a segnalare un trend accertato dai fatti. Ecco qualche dato: nel 1891 gli italiani erano circa 40 milioni, allora si lavorava in media 6 ore al giorno per 6 giorni alla settimana; in un anno 70 miliardi di ore lavorate. Cento anni dopo, nel 1991, gli italiani arrivano a 57 milioni. Entrate in vigore le prime leggi di riduzione dell’orario, si parla di 60 miliardi di ore. Eravamo 17 milioni in più e lavoravamo 10 miliardi di ore in meno, non so se è chiaro. Eppure producevamo 13 volte di più rispetto a 100 anni prima. Passano trent’anni e arriviamo a noi oggi. È aumentato il progresso tecnologico ma anche la globalizzazione. Siamo 60 milioni e abbiamo lavorato 40 miliardi di ore. E abbiamo prodotto 600 miliardi di dollari in più. Come vede, in 130 anni è un trend inarrestabile. Di fatto noi stiamo imparando a produrre più beni e più servizi lavorando meno ore.

A fronte di questo però in Italia ci sono immigrati che lavorano 12 ore al giorno per 2 euro all’ora. Ancora pochi giorni fa un’operazione anti caporalato a Reggio Calabria ha riportato alla luce questa quotidianità inaccettabile.
Abbiamo due anomalie fortissime che contrastano con il trend generale. La prima riguarda questi lavoratori quasi sempre immigrati, senza nessuna garanzia, per i quali non c’è ancora nessuna tutela, nessun contratto che stabilisca un minimo salariale; persone che a costi infimi sono costrette a lavorare per molte più ore. E l’Italia in media ha già un monte ore di lavoro molto più alto della media dei Paesi Ocse.

In concreto?
Un italiano in media lavora 1.723 ore all’anno, un tedesco in media lavora 1.356 ore, c’è una bella differenza. Questo è anche uno dei motivi per cui i tedeschi hanno il 79 per cento di occupazione e noi invece abbiamo il 58 per cento. Ma abbiamo un’altra anomalia rispetto alla Germania e ad altri Paesi, che viene messa poco in luce. Manager e quadri del pubblico e del privato lavorano più ore rispetto a quanto ne comporti il contratto, ma questo vale per i giornalisti, per i consulenti ecc. I dirigenti sono 260mila e facendo in media 2 ore di overtime al giorno, 5 giorni alla settimana, sono 114 milioni di ore, praticamente tolgono lavoro a 66 milioni di disoccupati. E non si è mai capito perché un manager tedesco esca alle 17, mentre un manager italiano, se è donna torna a casa perché deve accudire i figli, se è maschio resta una, due, tre ore in più e se ne vanta mentre è un killer seriale di lavoro. In Germania lavorano il 20 per cento in meno ma producono il 20 per cento in più. Questo è uno scandalo di cui non si parla mai, perché la produttività non dipende dai lavoratori ma dipende dai datori di lavoro e dai manager. Qui non si parla del fatto che se in Italia c’è il 20 per cento in meno di produttività è per colpa della incapacità dei dirigenti.

In questi giorni si discute molto di pensioni. In Francia gli scioperi dei lavoratori hanno costretto Macron a ritirare in parte il suo progetto di riforma delle pensioni, con cui intendeva spostare l’età pensionabile da 62 a 64 anni. I sindacati  in Italia hanno lanciato la proposta della pensione a 62 anni, cosa ne pensa?
In generale, fatta eccezione per i lavori usuranti, io sono dell’avviso che si dovrebbe ridurre l’orario di lavoro ma non gli anni di lavoro. Se sono 40 miliardi di ore quelle che lavoriamo oggi vanno portate a 30, ma queste 30 vanno distribuite per più anni, per un fatto semplicissimo: un tempo la pensione era a 55 anni per le donne e 60 anni per i maschi. Ma all’epoca si moriva a 50 anni. Era  una truffa perché l’Inps si prendeva i contributi tutta la vita e poi doveva erogare la pensione ma il pensionato era morto. Oggi la vita media degli uomini è di 80 anni, 86 per le donne, e si va in pensione a 65 anni. Questo cosa comporta? Ci sono 20 anni di inerzia. Io trovo che il lavoro vada reso bello, perché sia sempre migliore, ma quando è reso bello lo si svolga il più possibile. Grazie alla tecnologia, la parte negativa del lavoro, quella noiosa, ripetitiva, pericolosa potrebbe essere delegata sempre più alle macchine. Il lavoro ora può essere più creativo. Oggi un 65enne è come era un 40enne un tempo, è uno con una vita attiva, l’amore, lo sport; lo vogliamo mandare a portare il cane ai giardinetti?

Politica e sindacati dovrebbero contribuire ad elaborare una visione nuova della società e ripensare il lavoro perché sia sempre più una realizzazione sociale e umana?
È compito anche degli intellettuali, che purtroppo oggi hanno rinunciato a  ripensare la società. Lo avevano fatto gli intellettuali della rivoluzione francese. Lo aveva fatto Marx e con lui quei pensatori che si sono messi a studiare aprendo orizzonti di liberazione dall’oppressione. Nel contesto attuale, in cui pochi ricchi sono sempre più ricchi e aumentano le disuguaglianze, compito prioritario è pensare a come creare opportunità per tutti e tutele, è prioritario studiare i modi per redistribuire lavoro, ricchezza, potere e sapere.

L’intervista di Simona Maggiorelli a Domenico De Masi è stata pubblicata su Left del 17 gennaio 2020

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Spremono anche i malati

Foto Claudio Furlan - LaPresse 24 Febbraio 2020 Milano (Italia) News Conferenza stampa in regione Lombardia per fare il punto sulla emergenza Coronavirus Nella foto: Giulio Gallera, Attilio Fontana

In Lombardia il duo Gallera-Fontana, la fantastica coppia che rifarebbe tutto allo stesso modo e che ha da ridire sulle decisioni di tutti gli altri, effettua l’ennesima giravolta e torna sui suoi passi: dopo avere negato per settimane la possibilità di effettuare privatamente test sierologici ora decide di dare il via libera a tutti gli istituti riconosciuti e accreditati dal Regione.

Quindi, che accade? Accade che privatamente, quindi a pagamento, ognuno potrà sottoporsi al test ematico per scoprire la propria eventuale positività. Ci si aspetterebbe, ovviamente, che la Regione metta in campo tutto ciò che serve per garantire l’accesso al test a tutti, per non farlo diventare un lusso che possono permettersi solo alcuni e invece sembra che rimarremo delusi. Niente. Nemmeno un prezzo massimo imposto dalla Regione. Sarà il mercato a stabilire il prezzo: scoprire se si è malati sarà quindi un servizio riservato solo ad alcuni. Una decisione perfettamente in linea, del resto, con l’interpretazione privatistica e escludente della sanità in Lombardia.

Ma non è finita qui: nel caso in cui un cittadino scopra (a sue spese) di essere malato non godrà di nessuna corsia preferenziale: dovrà mettersi in isolamento volontario e per avere un tampone (quindi per essere ufficialmente malato) dovrà rivolgersi al suo medico di base che dovrà rivolgersi all’Ats di riferimento che inserirà il paziente (badate bene, già ufficialmente positivo) nella lunga lista d’attesa per ottenere un tampone. Per darvi un’idea del punto in cui siamo in Regione Lombardia con i tamponi vi basti sapere che, lo dice lo stesso Gallera, al momento stanno verificando gli operatori sanitari e gli ospiti delle Rsa, roba che andava fatta mesi fa.

Non si tratta solo di una questione sanitaria, questo è un chiaro modo di come si vede il mondo e di come si ha intenzione di governarlo. Eccolo il modello lombardo: anche scoprire di essere malati costa e non garantisce di avere diritto alla cura.

(A proposito: la mozione di sfiducia a Gallera nel Consiglio Regionale ha goduto del non voto Italia Viva. Segnatevelo)

Buon mercoledì.

Le incognite che dovremo affrontare nella fase 2

In this April 28, 2020 photo, Eusebio Soria poses for a photo behind a glass door at the entrance of his home as he recovers from the new coronavirus in Cabrejas del Pinar, Spain, in the province of Soria. Soria said that at first his doctor diagnosed him with the flu until his fever wouldn't go away and he was sent to the hospital where he spent 11 days after being tested positive for the coronavirus. Many in Spain's small and shrinking villages thought their low populations would protect them from the coronavirus pandemic. The opposite appears to have proved true. Soria, a north-central province that's one of the least densely peopled places in Europe, has recorded a shocking death rate. Provincial authorities calculate that at least 500 people have died since the start of the outbreak in April. (AP Photo/Felipe Dana)

Il decreto del 26 aprile 2020 per la riapertura nella Fase 2 è stato stilato anche tenendo conto le indicazioni contenute nel Documento del comitato tecnico scientifico del ministero della Salute “sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione“. In queste settimane il governo Conte è stato più volte  accusato di essere succube degli scienziati e contro le esigenze di cittadini e industria. In realtà è accaduto esattamente contrario. Vediamo perché.

Oggetto di critiche legittime e di sciacallaggio politico è stato la ricerca di un nuovo equilibrio di lockdown che conciliasse l’inconciliabile. È normale prassi ricorrere al parere di tecnici e scienziati quasi sempre pochissimo ascoltati. Questa volta invece sono stati scelti anche bene e hanno fornito una solida base scientifica alle decisioni. Ascoltati sì ma non completamente (a loro avviso sarebbe stato opportuno aspettare almeno un altro paio di settimane), il governo ha giustamente tenuto conto anche di altri legittimi fattori non tecnici. Compromessi difficili ma necessari; il più arduo è stato su quale fosse il livello di rischio da considerare “accettabile” ovvero quanto, quando, come e dove ridurre le restrizioni. Aprire tutto come pretendono le opposizioni avrebbe significato (come Bergamo insegna) esporsi ad un rischio prossimo alla certezza di una seconda e più devastante ondata epidemica. La scelta più sicura era lasciare il Paese già stremato in lockdown per altre due settimane ma soffocando ancora di più l’economia e tutti. È proprio in queste scelte che si inserisce il contributo della scienza basato su dati oggettivi e non su opinioni, sentito dire, opportunismi ed emozioni variamente pericolose. Le scelte più facili e la ricerca del consenso agiscono a favore del virus.

C’è poi la questione molto criticata di non tener conto delle molto diverse situazioni delle regioni; un nord ancora in lentissimo miglioramento e con valori numerici ancora preoccupanti in Piemonte e Liguria e le restanti regioni che vanno, al momento, variamente meglio ma non al sicuro. Ovvia sarebbe stata una apertura differenziata per regioni; ci devono quindi essere stati validi motivi per ritardare una cosa ovvia ma che comunque si farà. Verosimilmente i motivi sono due; il primo di ordine politico di non cadere nella trappola delle provocazioni delle regioni leghiste (più Emilia-Romagna e Marche) di innescare uno scontro istituzionale devastante in questo delicatissimo momento. Il secondo motivo è sanitario; le regioni con meno casi, come dice chiaramente Ranieri Guerra dell’Oms, sono quelle nella cui popolazione il virus ha circolato pochissimo rendendole in tal modo più vulnerabili (un po’ come all’inizio Codogno e la bergamasca). La nota e diffusa debolezza strutturale di non pochi sistemi sanitari regionali avrebbe portato il profilo di rischio a livelli molto preoccupanti. I test sierologici a breve ci diranno quanto e se il ragionamento è corretto. Ogni regione dice che sta potenziando il territorio; ma rigorosamente a modo suo perché lo Stato non può intromettersi.

Nessuno oggi può far finta di non sapere che il virus, ugualmente aggressivo, è ancora tra noi e che andare un po’ meglio non significa minimamente averlo sconfitto. Ipocrita e pericoloso dire che tutto si può fare mantenendo le norme di sicurezza quando è palese che, anche volendolo, sarà impossibile rispettarle diffusamente. Superficialità con il virus significa sempre nuovi focolai che devono essere sigillati immediatamente in zone rosse e gestiti con una rete sanitaria territoriale veramente rapida ed efficace (situazione che sappiamo non è essere così frequente in Italia) basata sulla regola ferrea di: testare, tracciare e trattare. Eventi quindi previsti perché quasi inevitabili mettendo in mobilità più di 4 milioni di persone nella fase 2. La Lombardia ci ha drammaticamente insegnato che fare affidamento solo sull’ospedale è perdente. La sanità territoriale è organizzativamente molto complessa e non lo si realizza in pochi giorni; quindi non c’è alternativa reale e fattibile alla prudenza. Realtà oggettive note ai tecnici e al governo (e a tutti volendo) ma che sembra non importino a chi vuole, anche pretestuosamente, il contrario. Probabilità ovviamente; ma molto alte e quasi certezze. Stupisce, si fa per dire, il rischio aggiuntivo e inutile cui sottopongono la popolazione le aperture anticipate, strumentali e provocatorie, come quelle della Calabria a fronte di una situazione strutturale sanitaria notoriamente critica già senza virus. I numeri non vanno letti superficialmente e di comodo ma contestualizzati e interpretati da chi ne è capace. Questo il rischio reale delle aperture “politiche” anticipate del lockdown. È come camminare in tanti in un campo minato dove si intravedono le mine e si procede stanchi ma cercando con estrema attenzione di non calpestarle sapendo che non scoppierebbe solo la nostra ma tante coinvolgendo gli altri; se poi per insani motivi uno si mette una benda sugli occhi, incrocia le dita e si mette a correre non è libertà; è un’altra cosa.

Non c’è quindi un regime tecnocratico ma un governo politico che ha fatto scelte politiche basate non su opinioni personali ma su dati scientifici metodologicamente corretti anche se inevitabilmente probabilistici. Criticare è ovviamente legittimo ma deve essere sempre nell’ambito della dialettica politica anche molto dura ma sempre costruttiva. È inaccettabile invece quando quelle che in realtà non sono neppure critiche mirino a cambiare i comportamenti collettivi mettendo a rischio la salute non solo degli sprovveduti che le mettono in atto ma di tutti. Sicuramente si poteva fare meglio, quantomeno a livello di comunicazione, di tempistica e di dettagli ma c’è da considerare anche l’eccezionalità, la novità, l’urgenza, le pressioni, l’enormità dei dettagli dei decreti, i retroscena che non conosciamo.

Il documento è classicamente strutturato in scenari ipotizzati in base al modificarsi di alcune variabili. Per tarare il lockdown sono stati scelti come principali elementi di riferimento il numero di posti letto di terapia intensiva (Ti) quale ormai quasi immodificabile collo di bottiglia del sistema sanitario e le possibilità/probabilità di contatto interpersonale di ogni attività e persona. Questi elementi sono stati messi in relazione con altre variabili che influiscono sulla contagiosità e quindi sulla necessità di letti di Ti. Le principali sono: Età (suddivisa in 20 fasce da 0 a 95 anni ognuna con la probabilità calcolata di contagio). Tipo di lavoro (7 settori e varie sottocategorie ognuna con il rischio di ogni lavoratore). Numero medio di possibili contatti delle persone per fascia di età che possono avvenire a casa, lavoro, scuola, mezzi di trasporto pubblici, tempo libero e frequentazione di negozi e affini. Ruolo importante ha il famoso R0 ovvero il numero di persone che un malato può contagiare (che dopo due mesi è sceso da circa 3 a meno di 1; valore questo preso come livello di allerta per creare zone rosse). Ma non basta; queste variabili sono a loro volta state messe in relazione con altre ancora: la popolazione stimata immune e il numero di infezioni al momento della riapertura. Combinando matematicamente in vario modo e misura queste ed ancora altre variabili (una quantità enorme di dati) sono state individuati un centinaio di scenari possibili tra cui scegliere.

Lo scenario più drammatico si ha con la riapertura completa (come in epoca pre-Covid-19) di tutte le attività che porterebbe all’inizio di giugno ad una necessità di ben 151mila posti di TI quando ne abbiamo circa 9mila! È questo il limite tra il reggere ed il crollare! Il limite delle riaperture! Ovvero aprire quel tanto che se andasse proprio male non si supererebbe il tetto di 9000. Altre combinazioni ci dicono che è molto rischioso tornare a scuola e non fare il telelavoro (più contatti uguale più infezioni). Meno rischioso, sempre per gli stessi motivi, è il settore manifatturiero ed edilizio. Il settore commerciale e della ristorazione lo sono di più perché implicano il movimento di molte persone. Il tutto sempre che tutti, ma proprio tutti, rispetteranno le norme di sicurezza (distanza, mascherine, guanti, igiene, ecc.); altrimenti inevitabile la crescita dei contagi e delle zone rosse. Elemento di alta vulnerabilità è il trasporto pubblico; ovvero di coloro che per necessità non possono farne a meno. Altre variabili riguardano la forza e la risposta dei sistemi sanitari regionali.

Dalle elaborazioni matematiche del modello emerge inoltre che i presupposti ineliminabili alla riapertura in questa fase 2 è che vengano mantenute almeno la metà delle attività di smart working, le scuole chiuse, le attività di aggregazione interdette e tutte le consuete misure di sicurezza. La chiave di tutto è sempre quella purtroppo: ridurre i contatti! Ovvero la cosa ora ancor più difficile e dolorosa.


La diffusione del virus nella popolazione si controlla dal 4 maggio con il monitorare a campione con la sierologia (che tecnicamente non può dare impossibili patenti di libertà) e supportati per il tracciamento dall’app Immuni ancora criminalmente impantanata nelle inutili sabbie mobili di una finta e, letteralmente, mortale privacy. Per chi non lo avesse ancora capito l’app è uno strumento a tempo che serve a proteggere la gente, cioè noi, e che la privacy è molto più stracciata per lucro dai social e da internet. L’app serve ora; anche se tracciare senza un territorio che funziona e agisce lascia “perplessi”.

La fase 2 si gioca tutta o quasi su un territorio diffusamente fragile ed a volte insufficiente. Altro elemento cruciale è quindi il monitoraggio e il controllo strettissimo, ferreo e veloce di tutto ciò che accade nel territorio per dare allarmi immediati; ciò avviene tramite una raccolta dati ad hoc da parte delle regioni. Altrimenti ogni decisione, senza informazioni precise, sarà presa male e tardi. Da ricordare che la gestione operativa della sanità e della raccolta dati è di esclusiva pertinenza delle regioni; come la responsabilità.

Il ministero della Salute ha appena emanato un set di 21 indicatori specificamente dedicati i cui dati per calcolarli dovrebbero essere forniti settimanalmente da tutte le regioni. Sono di vitale importanza per gli alert precoci e per questo sono un “debito informativo” ovvero sono obbligatori per le regioni. Senza dati attendibili e immediati si è letteralmente ciechi. Se però le regioni, per un qualsiasi motivo e con un palese autolesionismo, non li mandano o li mandano di qualità inutilizzabile (come accaduto in passato per altri dati) il ministero non ha di fatto alcuno strumento per imporsi e a rimetterci sarà la popolazione di quella regione. Anche questo è l’autonomia regionale! È questa una delle molte, sconosciute, profonde e micidiali contraddizioni del sistema attuale.

Stante questa situazione è evidente che la fretta anche legittima è uno dei rischi maggiori. Nella fase 1 c’era la novità e la paura; ora la stanchezza, l’assuefazione alla paura e la voglia legittima di tornare a vivere più normalmente. Ci aspetta un’altra insidiosa e dura prova e serve uno sforzo ulteriore e diverso, una diversa caparbietà, altre motivazioni, altre energie. Da soli è più difficile ma collettivamente si può sconfiggere questo e ben altri virus.

Emerge, da approfondire, un sottile pensiero su certe resistenze a Conte. Il governo sta rafforzando lo stato centrale, addirittura il senso stesso dello stato, sta dando finanziamenti pubblici, sta rafforzando la sanità pubblica, ha messo in evidenza cosa realmente fa un certo privato, sta potenziando il territorio e addirittura il welfare sostenendo come può i deboli ed i fragili, larga parte della popolazione capisce e collabora. Stanno cambiando equilibri consolidati e sta timidamente tornando al centro della scena sociale e politica una concezione ed una prassi solidaristica della collettività a scapito dell’individualismo esasperato e cinico. Tutto quello che il neoliberismo avversa e che sicuramente cercherà di stroncare (tramite i finanziamenti di una certa Europa e governi diversamente tecnici?). Stimolante ipotesi di ricerca. Che il virus abbia anche liberato una tenue brezza di sinistra?
Ogni crisi è, volendo, un’occasione di riflessione poi di cambiamento; usiamo quindi le informazioni corrette e le nostre idee, per trasformare le occasioni teoriche in realtà concrete.

Quinto Tozzi è cardiologo; già responsabile di terapia intensivista cardiologica e direttore ufficio Qualità e rischio clinico dell’Agenzia sanitaria nazionale (Agenas)

 

Multare il buono

Homless man is begging on the street

La giunta leghista del comune di Sassuolo aveva deciso di multare (56 euro di ammenda) chi commetteva il gravissimo reato di lasciare una moneta alle persone che chiedono l’elemosina in città. Nel Comune in provincia di Modena guidato dal leghista Gian Francesco Menani da lunedì scorso è “fatto divieto a chiunque di offrire denaro, generi alimentari, vestiario e altre simili utilità” a chi chiede l’elemosina sul suolo pubblico. In sostanza si multa il buono, perfettamente in linea con la caccia ai buonisti che i leghisti hanno iniziato già da tempo.

Secondo il sindaco e la sua valente giunta eliminare la gente che fa del bene è il modo migliore per evitare che ci sia troppa gente bisognosa in giro: se non li aiuti spariscono, scompaiono, non esistono più e così tutti ci si può felicemente convincere che non esista più la povertà. È la politica del fondotinta che intende la gestione della città come un’enorme rappresentazione scenica in cui la forma è ciò che conta, fottendosene della sostanza.

L’idea è talmente cretina che alla fine il sindaco è stato costretto a ritornare sui suoi passi per non essere inseguito dai suoi cittadini già sotto stress, come tutti, per i malefici effetti della pandemia. Ci si potrebbe aspettare che abbia detto «scusate, ho fatto una cavolata» invece le motivazioni sono altre: “c’è la disponibilità a modificare l’articolo 61 del regolamento di polizia urbana perché l’obiettivo è colpire la malavita che sta dietro il racket, oltre l’accattonaggio molesto, non chi aiuta gli altri – ha detto Menani con un video messaggio – è stato strumentalizzato l’articolo in questione, il nostro scopo non è colpire la vecchietta che fa l’elemosina o chi ha davvero bisogno. Abbiamo sbagliato? Non lo so. So che come sindaco mi dico pronto anche a modificare l’articolo, adesso. Noi, di sicuro, aiutiamo le persone in difficoltà”.

Seguendo lo stesso ragionamento si potrebbe vietare alle vecchiette di uscire di casa per fare crollare la statistica degli scippi oppure si potrebbero eliminare i politici per combattere il fenomeno delle tangenti. Sono apparentemente quelli che prendono il problema sempre dalla parte sbagliata ma in realtà si curano soltanto di affrontare un tema complesso con soluzioni banali finendo sempre per rimediare pessime figure.

È una storia piccola ma è un paradigma: punisci gli effetti fingendo di occuparti delle cause.

Buon martedì.

Death fast: morire per la libertà

Purtroppo è in fin di vita anche Ibrahim Gökçek. In sciopero della fame, come Helin Bölek e Mustafa Kocak, che si sono lasciati morire (lei il 3 aprile, lui 20 giorni dopo) nel digiuno a oltranza perché il governo turco non accetta la loro richiesta di giusti processi.

Gökçek è il bassista del Grup Yorum, popolare gruppo musicale turco – noto in Italia soprattutto per una splendida esecuzione di Bella Ciao – accusato in blocco di terrorismo. Ha trovato la forza di scrivere una lettera a l’Humanite (quotidiano francese) che è stata tradotta in italiano da www.comuneinfo.net.

In solidarietà con la lotta disperata di Grup Yorum vi sono molte iniziative dal basso e da due sabati un «digiuno simbolico europeo» di 24 ore che ha aggregato migliaia di persone. Ma i più importanti media italiani tacciono, come le istituzioni europee. Raccontare la vicenda di Helin Bölek, Mustafa Kocak e Ibrahim Gökcek significherebbe rompere il muro di silenzio su quel che sta accadendo in Turchia e questo è impossibile finché l’Unione Europea sarà in buoni rapporti (armi e soldi in cambio delle frontiere bloccate) con il tiranno Erdogan.

Cos’è il Grup Yorum

Scrive Filippo Cicciù su rollingstone.it: «Lontano anni luce dal glamour del mondo dello spettacolo, il Grup Yorum non ha mai cercato di scalare le classifiche strizzando l’occhio alle tendenze del momento. Ispirati dal leggendario cantore popolare turco Ruhi Su, le loro canzoni parlano di guerriglia, descrivono romanticamente le gesta di ribelli e lavoratori oppressi o fanno riferimento alla causa palestinese. L’antifascismo è uno dei loro valori fondanti cantati in una loro famosissima versione, in turco, di Bella Ciao. Anche la causa della minoranza curda di Turchia ha trovato spesso spazio tra i testi del Grup Yorum mentre molti membri del gruppo sono alevi, una comunità musulmana sciita minoritaria presente in Turchia e storicamente vista con sospetto dalle autorità. Alcuni dei musicisti del gruppo provengono da quartieri di Istanbul roccaforte della sinistra, come Küçük Armutlu o Okmeydanı, luoghi strettamente sorvegliati dalla polizia e nel recente passato talvolta anche teatro di aspre battaglie a colpi di arma da fuoco tra forze dell’ordine e popolazione locale. […] La loro popolarità in Turchia è straordinaria. Con più di 20 album prodotti e oltre 2 milioni di copie vendute, il Grup Yorum è una delle realtà musicali di maggiore successo in Turchia, capace di riempire stadi con concerti dove hanno partecipato decine di migliaia di spettatori. Più che di un gruppo musicale, sarebbe corretto parlare di un collettivo. Sui poster dei loro concerti appaiono sagome senza nome, raccontano di una band che in 35 anni di carriera ha contato decine e decine di membri, interscambiabili tra loro. Helin Bölek, una delle loro cantanti, era entrata nel gruppo di recente, nel 2015».

Death fast: morire per la libertà

Il 3 aprile è morta Helin Bölek, il 23 aprile Mustafa Kocak. Erano in sciopero della fame da 288 giorni lei e da 297 giorni lui. Avevano entrambi solo 28 anni. Lei era una delle cantanti di Yorum Grup, lui non era membro di Yorum – che in turco vuol dire «commento» – ma un prigioniero politico (condannato “provvisoriamente” all’ergastolo) con le stesse idee politiche e dunque ha deciso di unirsi a questa estrema protesta.

Il regime di Erdogan ha accusato Yorum Grup di fiancheggiare il terrorismo e ha vietato loro di suonare. Processi farsa, testimoni segreti, i loro avvocati arrestati con le stesse inverosimili accuse.

Di fronte all’impossibilità di difendersi, nel maggio 2019 Helin Bölek, Ibrahim Gökcek e Mustafa Kocak iniziano uno sciopero della fame a oltranza, in nome della libertà di pensiero. Chiedono di essere processati secondo le regole dei Paesi democratici.

Con loro altri prigionieri politici sono in «death fast», cioè preferiscono una morte veloce alla prigione e all’ingiustizia. Fra loro Didem Akman e Özgür Karakaya, in carcere per motivi politici, e due avvocati – Ebru Timtik e Aytaç Ünsal (anche loro detenuti) che chiedono giudici indipendenti e di poter continuare a difendere i loro clienti.

La loro protesta finora è stata censurata in Turchia ma anche nei Paesi europei è stata resa invisibile sui “grandi” media. In Italia la Banda Bassotti è sempre stata vicina a Yorum Grup: i primi a pubblicare un video di solidarietà (a dicembre) hanno poi preso parte a un concerto internazionale.

Partiti, sindacati, istituzioni politiche e massmedia italiani resteranno in silenzio?

 

*AGGIORNAMENTO 7 MAGGIO ORE 14* Sul profilo twitter di Grup Yorum è purtroppo comparsa la notizia della morte di Ibrahim Gökçek (https://twitter.com/GrupYorum85)

 

Info su www.facebook.com/freegrupyorum/

Si fa presto a dire vaccino

A fronte di pochi esperti e scienziati veri, quasi tutti e non a caso istituzionali, che sul vaccino per il Covid-19 invitano realisticamente sempre alla prudenza si susseguono, sempre più frequenti e dal tono trionfalistico, su testate di ogni genere da parte di esperti spesso solo presunti, le notizie sulla sua imminente uscita. Pubblicare per vere notizie che non lo sono o lo sono solo parzialmente non è informazione ma è in suo contrario: disinformazione. Non conta se per superficialità o altro; gli effetti sono gli stessi. Che fine ha fatto la parola deontologia? Vediamo un po’ di fatti.

Non si tratta delle solite e innumerevoli notizie che dicono tutto e il contrario di tutto cui di questi tempi ci siamo ormai assuefatti. È più grave; perché il vaccino è l’arma risolutiva della pandemia. Perché si tratta, e questo è basilare, di cosa queste informazioni provocano in una popolazione spesso stremata per essere ancora sottoposta ad una pressione fortissima e prolungata; come tutti ben sappiamo. Il legittimo desiderio di milioni di persone di uscire finalmente e definitivamente da quel tunnel che ha cambiato le nostre vite viene utilizzato per catturare l’attenzione e generare speranze e aspettative che, non essendo reali, verranno dolorosamente e inevitabilmente deluse. E la delusione delle aspettative, per molti motivi, non è un problema di questi tempi da sottovalutare; soprattutto se nel frattempo qualche politico, per tornaconto elettorale, butta benzina sul fuoco.

Il vaccino è una cosa estremamente seria. Non basta scoprirlo; deve essere prima di tutto sicuro! Non come ogni altro farmaco; molto di più. Perché si va a stuzzicare una cosa di una complessità estrema, di vitale importanza, che conosciamo poco e dalle reazioni a volte imprevedibili che si chiama: sistema immunitario.
A scanso di equivoci voglio premettere che non sono assolutamente un no vax. Tantissimi anni di clinica cardiologica intensivistica e di progettazione, conduzione e valutazione istituzionale di sperimentazioni cliniche ed organizzative, di rigoroso metodo scientifico mi hanno sempre insegnato che la sicurezza delle cose che introduciamo nel nostro corpo a scopo terapeutico sono sempre da prendere con estrema cautela, con calma e scevre da interessi sempre presenti e quasi mai palesi. Ogni banalizzazione, come in tutti i campi altamente complessi, è pericolosa e fuorviante.

Vige comunque e sempre il concetto invalicabile della massima precauzione; sbagliare significa spessissimo morti evitabili (e spesso invisibili). Anche se, visto l’eccezionale periodo pandemico, le regole delle sperimentazioni (vedi le autorizzazioni dell’Aifa) si sono giustamente un po’ allentate ma mai oltre il limite scientifico di minima sicurezza.
Questo se vogliamo essere aderenti al metodo scientifico quale attuale e indiscussa maggiore garanzia possibile di sicurezza e qualità. Se si decide di ragionare sulla base delle sole opinioni ovvero senza i fatti e le evidenze della scienza è un altro e ben diverso discorso. Ma lo si deve sapere prima; e tutti. Per i vaccini le regole sono ovviamente sempre le stese, senza deroghe e con la differenza che ci si muove con contenuti e in contesti molto più scivolosi e friabili.

La sicurezza di un vaccino si vede poco (a meno che non sia macroscopica) con gli studi preliminari di fase 1-2-3 e poco anche con qualche migliaio di pazienti. Servono numeri grandi, molto grandi di casi monitorati in modo ferreo e con dati accessibili e pubblicati (non sul giornale della parrocchietta) per valutazioni ripetibili da parte di altri ricercatori (è uno dei requisiti base del metodo scientifico: giocare a carte scoperte e senza rete). Per fare questo serve un tempo imprevedibile e tanti, tantissimi soldi. Al mondo i soldi per una ricerca di questa entità li hanno (oltre Bill Gates che qualche cosa fa, e quello di Amazon che è tirchio) solo due soggetti. I governi, sempre parsimoniosi, e che in Italia, ritenendo la ricerca un optional, preferiscono tagliarli e quel poco che resta è anche polverizzato in mille rivoli inefficaci per produrre risultati ma efficace elettoralmente. E le multinazionali farmaceutiche, ricche da far schifo, anche se piangono miseria, che li spendono, o meglio li investono, ben volentieri ma mettendoci sopra una parolina magica e insuperabile: brevetto. È giusto, visto che ci mettono i soldi, ma, in tempi di pandemia, sino ad un certo punto.

La sicurezza vera si vede soprattutto nella sorveglianza cosiddetta “post marketing” quella dopo la commercializzazione, nel mondo reale e raccogliendo (bene!) dati ad hoc. Anche se ci fosse una complicanza seria dello 0,01% o molto meno su miliardi di persone (tale sarà il numero di vaccinati potenziali nel mondo), conti alla mano, e senza esagerare è un problema enorme. Anche perché il vaccino non si somministra a malati in condizioni disperate ma a soggetti sani o fragili per altre condizioni sanitarie e non; il che qualche differenza, quantomeno a livello etico e come invito alla precauzione, la fa. Ben altro e triste discorso quello della reale accessibilità al vaccino, a costi commerciali, per quei miliardi di persone che per reddito non se lo potranno permettere (il costo dei farmaci anti Hiv ed i vaccini per i bambini in Africa ci insegnano qualcosa).

Cosa significa e quali conseguenze nell’avere troppa fretta con un vaccino? Cosa significa dare false speranze alla popolazione? Si sa o no che gli interessi commerciali su questo vaccino sono immensi? Sa la gente (tutti noi) che è ora in atto nel mondo una guerra commerciale sotterranea tra 20-25 industrie con risorse spaventose che stanno, ognuna per conto suo, facendo e scommettendo sulla ricerca; e che il vincitore darà dividendi da favola agli azionisti? Si sa o no che pubblicare un articolo che preannuncia l’uscita del vaccino da parte di una certa industria ne aumenta il valore delle azioni anche se è una gigantesca balla? Si sa che con quelle cifre il concetto di ritirarlo, se risultasse efficace ma non sicuro, non è forse neppure considerato? Si sa che la storia decennale di un certo marketing di alcune grandi case farmaceutiche mondiali ha fatto molte ma molte migliaia di morti per interessi di minore entità? È storia e giurisprudenza internazionale questa e non chiacchiere da bar.

Per l’industria è una ormai classica, collaudatissima, efficace e precisa strategia (questa sì perfettamente scientifica) di marketing il creare aspettative nella popolazione e nei medici stessi in modo da forzare le autorizzazioni dei governi per la messa in commercio. Anche a questo servono certi articoli. Quelli che da anni o decenni si rompono la testa cercando un vaccino sicuro ed efficace per Ebola e l’Hiv sono incapaci, sfigati o sprovveduti? Oppure è oggettivamente difficilissimo? Oppure c’è meno interesse commerciale e quindi finanziario?
Molta prudenza necessita anche nell’interpretazione della letteratura scientifica (il vaccino dell’Hpv sembra che qualche problema lo abbia dato); la storia recente dimostra che con dei bravi statistici si riesce a mascherare anche l’evidenza (vedi ad esempio i suicidi camuffati e invisibili in alcune sperimentazioni sull’uso degli antidepressivi in età pediatrica).

Sa la gente che i costi enormi delle class action sono per certe industrie costi previsti e coperti ampiamente dai guadagni della commercializzazione prima dell’eventuale imposizione al ritiro del commercio una volta scoperti? E che certi magheggi statistici non li scopri se non hai accesso alla fonte primaria dei dati che non sono divulgati perché, guarda caso, coperti da segreto industriale. Stiamo parlando principalmente degli Usa; in Italia siamo indietro anche su queste cose di parecchi anni. Ovviamente non sono tutti così ma sono dinamiche di sistema che non spariscono magicamente; soprattutto con interessi simili in gioco. Non si può vigilare su una cosa che riguarda la nostra stessa salute ignorandone l’esistenza. Per questo è doveroso essere informati ed informati bene.

Non basta scoprirlo il vaccino ma serve produrlo e se le aspettative salgono anche artificiosamente sale ancora di più il prezzo. Serve tempo; anche se i tempi della ricerca sono spesso direttamente proporzionali agli investimenti; più investi prima scopri è la regola generale. Tempo per scoprirlo, tempo per testarlo bene in tutte le varie fasi, tempo per produrlo (non è come produrre caramelle) e produrlo bene (come molti farmaci a volte li fanno in India a costi stracciati e con controlli di qualità quantomeno da verificare molto bene). Tempo per distribuirlo; perché tutti i Paesi del mondo vorranno accaparrarselo per primi; ovvio che scatterà la legge della domanda e dell’offerta (come oggi le mascherine; ma su ben altra scala).

Una volta disponibile serviranno dei criteri di priorità e chi deciderà sarà giustamente la politica ma si spera ascoltando gli scienziati per farlo a chi serve veramente di più. Tempo per somministrarlo a livello di massa; sessanta milioni di italiani giustamente lo vorranno fare immediatamente perché in ballo ci sarà sia la salute sia la libertà di movimento e di relazioni; un mix micidiale se non correttamente gestito. Tempo per la verifica di sicurezza. Accorciare il tempo si può e lo si sta già facendo al massimo grado; accorciare i tempi oltre un certo limite significa ridurre anche la sicurezza. È inevitabile.
Sono pertanto irreali e sospette le dichiarazioni di quelli che prevedono il vaccino entro pochi mesi. Viene malizioso e pungente il concetto di pubblicità occulta (prassi comunissima e consolidata di una certa industria farmaceutica). A questi veri o presunti ricercatori affetti da sospetto ottimismo bisognerebbe chiedere dei loro conflitti di interessi.

Questo ed altro c’è dietro la parola vaccino. Non è complottismo; non è terrorismo; è cruda realtà; su tutto questo c’è una notevolissima letteratura scientifica e divulgativa. Da qui la necessità e l’importanza di sapere che esiste anche questo mondo e queste dinamiche dietro certi articoli. Non per disperarsi, deprimersi o rassegnarsi ma per stare con i piedi per terra e vedere oltre certe notizie e pensare con la propria testa senza credere ciecamente a tutto. Soprattutto su queste cose e di questi tempi. Un lavoro che dovrebbe essere fatto a monte da qualsiasi giornalista scientifico prima di divulgare un’informazione di questo tipo; ma questo è un altro discorso. Anche in questi casi le informazioni più sicure provengono da fonti istituzionali; perché non hanno interessi.
Non basta quindi dire vaccino. Si deve dire: vaccino veramente sicuro.

*

Quinto Tozzi è cardiologo; già responsabile di terapia intensivista cardiologica e direttore ufficio Qualità e rischio clinico dell’Agenzia sanitaria nazionale (Agenas).