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Generazione povertà

Human inequality as global social issue. Stop discrimination on grounds of race, sex or religion as hand holding a paper sheet with injustice, unfairness symbol over crowded street background.

Il lockdown volge al termine. Nella sua versione più stringente. È al via la fase due. Ma i due mesi appena trascorsi lasceranno un’eredità pesante sul nostro sistema socioeconomico. Oggi è ancora molto difficile quantificare quali saranno le conseguenze di medio e lungo periodo della crisi sanitaria e delle restrizioni imposte dal governo per contenerla. Ma un aspetto che comincia a delinearsi chiaramente è la marcata differenziazione degli effetti negativi fra generazioni: con i più giovani che risultano molto più duramente colpiti rispetto agli anziani.

L’Italia non è un Paese per giovani, non si tratta di una percezione soggettiva dell’opinione pubblica, lo confermano le statistiche. Il livello di disuguaglianza intergenerazionale è forte nel nostro Paese. Come suggerito dalla Banca d’Italia, i giovani guadagnano meno ed hanno minori tutele rispetto ai più anziani, più di quanto non accada in altri Paesi. Purtroppo anche questo shock appare peggiorare ulteriormente questo quadro. Mentre la popolazione inattiva, anziana, mantiene invariate le disponibilità di reddito, quella attiva, giovane ed adulta, vede ridursi le occasioni di lavoro ed il proprio reddito.

Attraverso un modello di microsimulazione (secondo il modello Microreg sviluppato dall’Irpet, Istituto regionale programmazione economica Toscana) è possibile misurare esattamente gli effetti delle misure sui redditi delle famiglie italiane. L’analisi mostra che in conseguenza del lockdown diseguaglianza e povertà crescono. Ma l’impatto negativo è sopportato in maniera prevalente dalle famiglie più giovani e le misure di stimolo non sono in grado di controbilanciare completamente questo effetto…

 

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Salvatore Settis: Manifesto per una ripartenza solidale

A view of deserted Canal Grande, in Venice, Monday, April 6, 2019. The government is demanding Italians stay home and not take the leveling off of new coronavirus infections as a sign the emergency is over, following evidence that more and more Italians are relaxing restrictions the west's first and most extreme nationwide lockdown and production shutdown. The new coronavirus causes mild or moderate symptoms for most people, but for some, especially older adults and people with existing health problems, it can cause more severe illness or death. (AP Photo/Andrew Medichini)

La città come teatro della democrazia, come luogo di socialità, di conoscenza, di realizzazione di se stessi nel rapporto con gli altri e con il patrimonio artistico. Questa concezione alta della “polis” traspare in filigrana dai libri dell’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis, che in volumi come Architettura e democrazia e Se Venezia muore ha analizzato e criticato severamente i processi di gentrificazione, di speculazione urbanistica e di privatizzazione degli spazi pubblici che da decenni stanno asfissiando le città, con effetti di ostracizzazione delle fasce di popolazione più disagiate, costruzione di periferie dormitorio come enclave separate e gated communities d’élite. La pandemia non ha certo cancellato tutto questo, anche se per alcune settimane, per effetto del lockdown abbiamo visto dalla finestra città meno intasate e intossicate di traffico. Un nuovo e più diffuso apartheid urbano ha preso forma silenziosamente nei giorni di quarantena, necessari per contenere il contagio. Anche su questo tema invita a riflettere Settis nel suo saggio contenuto nel volume La città per l’uomo ai tempi del Covid-19 (La Nave di Teseo), puntando il dito contro politiche discriminatorie e il si salvi chi può.

Professor Settis la pandemia ha acuito e reso più evidenti le disuguaglianze?

Io credo di sì ed è più evidente nei Paesi dove le disuguaglianze sono più marcate. Penso in particolare agli Usa dove la mancanza di un sistema sanitario nazionale ha reso molto chiaro il fatto che si muore più facilmente nei quartieri periferici di New York che in quelli di Manhattan. Contano molto le distinzioni per reddito, per censo, lì le disuguaglianze sono subito evidenti. Ma penso anche che la stessa cosa,  per quanto non in modo così estremo, accada in Paesi europei, Italia compresa. Per non dire dei Paesi africani. In questo caso non abbiamo neanche dati certi sulla diffusione della pandemia che non può che accentuare le disuguaglianze colpendo i più poveri, i più svantaggiati.

Anche in Italia abbiamo visto delinearsi mappe di disuguaglianza. Per una famiglia passare la quarantena in una casa con giardino o in un nini appartamento non è la stessa cosa, per non dire dei tantissimi homeless…

Non c’è il minimo dubbio e questo induce a riflettere su quale politica delle case è stata fatta nei decenni. Tutta la progettazione si è indirizzata verso appartamenti sempre più piccoli, con i soffitti sempre più bassi, porte sempre più strette, quasi che le case non fossero luoghi dove vivere ma fossero segmenti di un dormitorio. Si è pensato agli esseri umani come ingranaggio di un meccanismo produttivo che devono avere poi un posto dove dormire; dunque più piccolo è, meno ci restano. Fino ad estremi come quelli giapponesi dove sono stati progettati dormitori in cui ci si infila come se fosse il loculo della tomba. La possibilità di altre pandemie ci induce a riflettere sulle caratteristiche della progettazione.  Di questo ha scritto anche Massimiliano Fuksas inviando una lettera al presidente della Repubblica con riflessioni simili a quella che sto facendo.

«Le città sono come un regno sconosciuto dopo il Covid» lei scrive. Paradossalmente il Covid-19, obbligandoci al distanziamento, potrebbe anche ispirarci una fruizione diversa delle città e dei musei: meno consumistica, con meno assembramenti per farsi selfie e più tempo per stare davanti all’opera. È in cantiere un suo nuovo libro su questo tema?

Sto scrivendo per Einaudi un libro sui musei, pensato un anno fa e che in questa situazione assume anche un significato diverso. Certamente la pandemia dovrebbe insegnarci che è molto più importante la collezione di un museo del delirio di mostre, mostriciattole e mostrine che si sono fatte ultimamente. Ora che la speranza di ripagare i costi di una mostra con la biglietteria non c’è più, sarebbe bene che almeno per un po’ di tempo ci si concentrasse sulle collezioni permanenti.

Durante il lockdown ci siamo esaltati perché la natura tornava a riguadagnare spazi. Ma la bellezza di città completamente deserte appare disumana, osserva Tomaso Montanari. Quale lezione ci impartisce il virus?

Ci impartisce due lezioni diverse; una è addirittura positiva se fossimo capaci di imparare dalla storia, cosa che non è detto che accada. Abbiamo visto il cielo più pulito e più stelle. Si è avuta questa sensazione anche in una città piccola e tutto sommato poco industrializzata come Pisa. Se potessi mi farei paracadutare a Venezia in questi giorni. Amici mi dicono di questa meraviglia della città semi deserta, il Canal grande che sembra pulito, senza traffico. Con questa temporanea diminuzione dell’inquinamento atmosferico, del rumore, di tutto, ci accorgiamo di quanto noi stiamo violando l’ambiente intorno a noi. Riconosciamo la bellezza e la vivibilità di tutto questo. Dovremmo trarne un insegnamento. Naturalmente non c’è nessuna speranza che degli sciagurati come Trump, per nominare il peggiore di tutti, capiscano da un giorno all’altro e si “convertano”. Loro non hanno alcuna sensibilità di questo tipo. Dall’altra parte però le città svuotate hanno qualcosa di disumano perché le città, per dirla con facile metafora, sono fatte di anima e di corpo. Il corpo sono le strade, le mura, gli edifici, i monumenti, i musei, ma l’anima siamo noi, se non ci sono le persone che animano la città tutto cambia. Questo ci dice anche perché ci sia tanto desiderio di uscire di casa. Con mascherina e tenendo la distanza in tanti sono andati fuori per sentirsi di nuovo parte di una comunità.

C’è un’esigenza forte di riconquistare spazi di democrazia, seppur tenendosi a debita distanza fisica per evitare il contagio. Sono impressionanti le foto dall’alto della manifestazione contro Netanyahu in Israele e quella il Primo maggio in Grecia.

È un’esigenza che si può soddisfare solo in minima parte con esercizi di democrazia virtuale. Io stesso ho partecipato a una bella piazza virtuale per il 25 aprile, ma questo non basta. Era necessario ma non vediamo l’ora che tutto questo finisca. Questo vale anche e soprattutto per la scuola, che non può essere ridotta a una scuola virtuale. Gli insegnanti fanno sforzi notevoli, con gli allievi lontani, fanno più fatica, fanno lezione con Skype e altre piattaforme avanzate ma non è la stessa cosa che essere presenti. La storia umana e la nostra stessa conformazione psico-fisica implicano che la compresenza fisica (anche stando a un metro e ottanta l’uno dall’altro) sia molto diversa dal vedersi in uno schermo. Certo adesso dobbiamo assolutamente evitare rischi per la salute ma non dobbiamo pensare che diventi una normalità, questa è una eccezione innescata da un virus.

La Costituzione dice che la Repubblica tutela il diritto di tutti i cittadini alle cure e deve rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. In questi mesi di pandemia però i più penalizzati sono stati i bambini e gli anziani. Due fasce d’età accomunate dall’essere improduttive dal punto di vista del profitto.

Abbiamo cominciato parlando di disuguaglianze, se vogliamo radicalizzare il discorso potremmo leggerle osservando la diffusione di una certa ideologia incentrata sul darwinismo sociale: la società deve esser fatta in modo tale che chi non produce possa essere eliminato. Il bambino non può essere eliminato perché è un produttore potenziale, mentre chi non produce più, ovvero l’anziano, specialmente se malato sarebbe meglio che fosse eliminato. Sexagenarios de ponte, dicevano i latini, nei fatti non gettavano i sessantenni dal ponte, ma era un modo di dire significativo. Il darwinismo sociale è assolutamente contrario rispetto a ciò dice la Costituzione, per questo io trovo sbagliatissimo che qualcuno abbia pensato di porre un limite di età riguardo alle terapie intensive dicendo che al pronto soccorso bisogna dare priorità ai più giovani, piuttosto che agli anziani. Per fortuna questa linea non è mai veramente passata anche se certi giornali americani hanno scritto che in Italia questa cosa è successa. Che qualcuno abbia potuto dire che può diventare un principio non mi ha per niente rallegrato perché indica un indurimento del cuore, per così dire.

Lo stesso premier inglese Boris Johnson, parlando di immunità di gregge come obiettivo, aveva detto “preparatevi a perdere i vostri cari”. Certi politici hanno dimostrato in questa pandemia di essere totalmente privi di empatia.

Completamente privo di empatia finché non si è ammalato lui stesso – e me ne dispiace moltissimo -. Solo a quel punto ha cominciato a capire, l’ha dovuto sperimentare sul proprio corpo e poi ha dovuto ringraziare i medici e gli infermieri che lo hanno curato. Se qualcuno gli avesse detto che aveva la precedenza qualcuno più giovane e che lui veniva escluso io non so cosa avrebbe risposto. Bisogna ricordare che questa idea di dare priorità a chi sta già meglio è tipica dell’eugenetica, che ha una lunga storia e fra i suoi sbocchi ci sono stati i campi di sterminio, dove sono stati uccisi ebrei, zingari e altre persone considerate indegne di vivere, persone con grandi disabilità fisiche, malati mentali e omosessuali perché anche la loro era considerata una disabilità per cui era meglio che la società se ne disfacesse. La cultura eugenetica che dice “scegliamo i migliori, lasciamo perdere i più deboli” può portare a degenerazioni di questo tipo, occorre tenerlo bene a mente.

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O l’affitto o la vita

Alle spalle dalla Stazione centrale del capoluogo emiliano, sorge il rione della Bolognina. Nato con una vocazione operaia, proprio a causa della sua vicinanza con la ferrovia, ha mantenuto un forte tratto popolare. I tanti studenti, giovani lavoratori e stranieri che lo abitano vedono oggi coinvolto il loro quartiere in un processo di gentrificazione che lo ha portato ad essere il centro di un enorme progetto di riqualificazione, denominato Trilogia Navile. In queste settimane però è un palazzo del secondo dopoguerra ad aver guadagnato notorietà. I suoi cinquanta inquilini, quasi tutti trentenni e perlopiù precari, hanno aderito al Rent strike, una campagna attuata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1839 come forma di protesta degli affittuari contro i grandi proprietari. L’immobile di cinque piani conta 15 appartamenti, 13 dei quali ospitano inquilini che hanno deciso di smettere di pagare l’affitto, almeno fino alla fine della crisi sanitaria.

Al primo piano c’è Maria Elena, un’avvocatessa che si è trasferita da poco nell’edificio e che oggi guida la protesta degli affitti del numero 6 di via Serlio. Racconta le motivazioni che li hanno spinti a far nascere il Rent strike Bolognina: «Abbiamo chiesto la sospensione o una riduzione dei canoni di locazione, legandole all’oggettiva impossibilità di assolvere alla prestazione lavorativa, determinata da cause a noi non imputabili, ossia alla chiusura delle attività produttive, la perdita di lavoro per alcuni e la riduzione degli orari per altri. La società di import export con sede a Roma proprietaria del fabbricato, che risulta inattiva dal 1998, non ci è mai venuta incontro. Ci hanno detto che sarebbe potuta esserci una riduzione del canone, ma avremmo comunque dovuto restituire la quota abbuonata a settembre. È una presa in giro perché non sappiamo ancora se sarà possibile lavorare per molti di noi entro quella data».«La composizione della maggior parte degli inquilini – aggiunge Maria Elena – è di giovani immersi in un mercato del lavoro iper flessibile senza garanzie di alcun tipo. Noi ci aspettavamo, data la situazione straordinaria che stiamo vivendo, una presa di responsabilità collettiva. Nel nostro caso era chiaro che si parlava della nostra sopravvivenza da una parte e dei loro profitti dall’altra. È per questo che abbiamo deciso di proclamare lo sciopero dell’affitto. Purtroppo quando ti trovi davanti a una grande proprietà hai molte più difficoltà di quando ti confronti con un piccolo proprietario. È tutta una questione di umanità, la gestione di un’azienda, il cui unico obiettivo è il profitto, è disumanizzata»…

L’inchiesta è stata realizzata in collaborazione con il progetto Un gioco di società

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La capitale della disuguaglianza

Sì, sembra davvero in questi giorni che tutti si siano, finalmente, accorti che a Roma esistono anche i poveri e che la città è profondamente diseguale. Eppure, se almeno il comunismo nella vecchia Europa prerivoluzionaria del 1848 era qualcosa che somigliava davvero a uno spettro in quanto sconosciuto ai più, difficile immaginare la stessa cosa delle disuguaglianze a Roma. Perché sia chiaro Roma non è certo una città diseguale da oggi e non lo è solo per la diversa disponibilità di reddito ma lo è soprattutto per le diverse opportunità offerte ai suoi cittadini, tra chi riesce ad «ampliare le proprie scelte» e a realizzare se stesso e chi per mancanza di opportunità non ci riesce. I numeri come sempre meglio di tante parole sintetizzano bene questa differenza in termini di opportunità.

Un numero per tutti: ai Parioli quartiere benestante della città i laureati sono il 42% della popolazione, ben otto volte il dato di Tor Cervara dove i laureati sono appena il 5%. In periferie come Tor Cervara, Torre Maura, Alessandrina, Tor Sapienza, Giardinetti-Tor Vergata e Tiburtino Nord il 27-30% dispone solo della licenza elementare o di nessun titolo di studio. Numeri da Paese povero più che da membro dell’Unione Europea. In quartieri come Tor Fiscale, Quadraro, Torre Angela, San Basilio, tra il 4 e il 6% della popolazione tra 15 e 52 anni non completa le scuole medie inferiori. Un dato che incide profondamente con…

* Salvatore Monni insegna Economia dello sviluppo all’Università Roma Tre. È coautore de Le mappe della disuguaglianza (Donzelli)

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Un commissario per salvare la Lombardia

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 24-04-2020 Roma Politica Coronavirus - Nicola Zingaretti e Roberto Speranza visitano l'edificio Alto Isolamento dell'ospedale Spallanzani Nella foto Roberto Speranza Photo Roberto Monaldo / LaPresse 24-04-2020 Rome (Italy) President of the Lazio region Nicola Zingaretti and the Minister of Health Roberto Speranza visit the High Isolation building of the Spallanzani hospital In the pic Roberto Speranza

Commissariare la Regione Lombardia per come è stata gestita l’emergenza sanitaria provocata dalla pandemia da Covid-19 sin dai primi casi di contagio. È quanto chiedono il Forum per il Diritto alla salute (Fds), Milano 2030 e altre associazioni al ministro della Salute, Roberto Speranza, portando a sostegno della propria istanza un dossier in cui sono indicati i provvedimenti ritenuti necessari. Abbiamo chiesto ad alcuni attivisti di illustrarci i dettagli e le motivazioni dell’iniziativa. «Per prima cosa – spiega E. Comelli (Milano 2030) – associazioni, forze sociali e politiche si sono unite lanciando una petizione che ha raccolto 77mila firme, con lo scopo di fermare l’ecatombe che ha colpito soprattutto i cittadini più fragili, anche a causa di distorsioni del Servizio sanitario lombardo».

Perché chiedete il Commissariamento? «Bastano alcuni numeri» dice A. Barbato, medico psichiatra, presidente Fds: «Dal 21 febbraio all’1 maggio i contagi sono stati 77.002 (cioè il 36,8% del totale nazionale) e i morti 14.189 (56%). In Lombardia ci sono stati inoltre 141,4 morti ogni 100mila abitanti mentre in Emilia Romagna sono 81,4; in Liguria 77,1; Piemonte 71,8 e Veneto 30,4». Secondo A. Gazzetti, associato Fds, dietro questi dati ci sono due tipi di difficoltà: «Contingenti e storiche. Il 90% dei decessi riguarda persone con più di 60 anni, malati cronici, non autosufficienti, senza possibilità d’essere assistiti a domicilio. La mortalità è concentrata nelle Residenze sanitarie assistenziali, ove i decessi sono stati il 50%. Nei luoghi di cura e assistenza non erano disponibili mascherine, visiere, guanti, a ospiti, personale e visitatori. Non sono stati effettuati i tamponi dall’inizio, su contatti dei contagiati».

Chiediamo a S. Marsicano, associato Fds, quali sono i fattori storici: «Nel 1992 le Unità socio sanitarie locali sono diventate Aziende sanitarie locali. Oltre all’eliminazione del termine “sociale” hanno iniziato a prevalere gli aspetti contabili (pareggio di bilancio). Nel 2003, una nuova riforma ha spostato parte dell’investimento della sanità pubblica verso il privato convenzionato, in particolare in Lombardia, più orientato a investire e occuparsi delle cure più remunerative, rispetto a un servizio utile per tutti gli assistiti in sintonia con l’art. 32 della Costituzione». Quindi, da un lato…

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L’arte di uscire dalla crisi: Pietro Gaglianò

Cosa succederà al mondo dell’arte nel momento in cui sarà passata l’emergenza Covid-19 e riapriranno gli studi degli Artisti, i Musei, le Fondazioni, gli spazi no-profit, le gallerie private, le fiere d’arte?

Ci sarà stato un cambiamento della fruizione dell’arte, soprattutto di quella contemporanea? Si riuscirà a sostenere anche gli Artisti visivi e performativi che creano la bellezza, ma che nonostante questo sono senza Albo professionale e senza Associazioni di categoria e con difficoltà troveranno accesso alle misure governative di sostentamento?

Gli artisti si ritroveranno ad affrontare senza strumenti un’economia globale malmessa che difficilmente li considererà degni di tutela, questione con cui anche le gallerie private, curatori e direttori di Musei dovranno fare i conti. Si può sperare, come è successo in passato, che dopo una mostruosa crisi segua una grande ripresa economica, ma le riprese economiche non avvengono da sole. Gli addetti ai lavori dell’arte stanno cercando una “cura” che oltre alla guarigione possa strutturare anticorpi?

Foto di Mouhamed Yaye

Pietro Gaglianò, critico d’arte e curatore indipendente, risponde ai quesiti di Alessio Ancillai

La questione più importante, quando la collettività ricomincerà a incontrarsi dal vivo, quando torneremo a frequentare i luoghi della condivisione sociale, ancor prima di quelli della produzione culturale, riguarderà la percezione della libertà e della comunità. Abbiamo sperimentato quanto sia facile abituarsi al giogo di una limitazione drastica delle libertà individuali nel nome di un’emergenza che solo in apparenza non poteva essere gestita diversamente. È triste ammettere che in larga parte non sono stati il coraggio, l’amore per una causa condivisa o il senso civico a farci rinunciare al lavoro, agli amici, al vivere in comune; è stata la paura, quella di ammalarci e quella di incorrere in sanzioni. Questo atteggiamento restituisce il quadro di una società tragicamente egoista e passiva, incapace di organizzarsi se non sotto il peso della minaccia e gli argomenti dell’obbligo, audace solo nelle piccole violazioni commesse per miserabili tornaconto personali: una società che già da tempo ha praticato una malsana sottomissione agli imperativi del consumo contrabbandati per libertà di scelta.

Dovremo quindi apprendere di nuovo a conoscere la libertà e a praticare la solidarietà, che sono entrambe così facili da disimparare. L’arte, in tutte le sue declinazioni, grazie alla capacità di coniugare forme simboliche e funzioni sociali può giocare un ruolo centrale. Tuttavia è vano pensare che questo possa avvenire in un sistema simile a quello che governa o, per essere precisi, che tralascia di governare la produzione culturale oggi in Italia. La materia da disciplinare è vasta e complessa, e il nostro Paese in questi termini è indietro di decenni rispetto a quanto accade nella maggior parte delle nazioni europee. In queste settimane da molte aree del mondo delle arti visive e della cultura in generale, con movimenti dal basso, all’interno di gruppi informali, o in quelli tradizionalmente più corporativi del teatro, vengono articolate proposte e richieste. Ma queste, per lo più, sono afflitte da un peccato originale limitando le proprie istanze a una normalizzazione che non tiene conto dello stato di eccezione costituito dall’arte.

Come ho scritto altrove «l’arte è proprio l’anticorpo che mette in crisi il sistema: costituisce una garanzia di libertà, riuscendo a innescare cortocircuiti in un campo in cui il costrutto autoritario non è preparato a sostenere il confronto» (La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia, Gli Ori 2020). La sfida quindi è quella di edificare una rete di garanzie e riconoscimenti per gli artisti che però non li trasformi in innocui impiegati. Si tratta di mettere in opera una sorta di paradosso che spingerebbe il sistema statale a nutrire, senza neutralizzarla, la critica ai propri costrutti; ma «l’arte è anche una misura, sia pure inesatta, parziale e sfuggente, del grado di libertà in uno Stato, e ogni sua vittoria in tale direzione potenzia la sua portata e rende un po’ più sottile, un po’ più porosa la cappa del controllo». Questa tensione può potenziare anche il valore delle comunità civiche (chiamiamole anche Stati, in questo caso), può bonificare il sentimento di appartenenza dai miasmi del populismo e dalla miopia dell’individualismo, può aprire spazi per imparare a pensarci parte di un insieme di persone, mantenendo intatta ogni soggettività ma difendendo le più deboli, come ogni società sana dovrebbe fare.

Il modo in cui le arti e la cultura vengono considerate accessorie o assimilabili alla macchina dell’intrattenimento (il ministro Franceschini ha sciaguratamente auspicato una «Netflix della cultura») è indicativo dell’arretratezza della situazione in Italia e ci mette in allarme spingendoci ad agire. In altri paesi esistono alcuni modelli, sia pure imperfetti, e ci sono realtà che si stanno impegnando ad analizzarli per rilanciarli in un confronto aperto su molti piani. Questa crisi apre lo spazio per l’occasione di ripensare i ruoli e le posizioni di tutti gli attori coinvolti. La tutela statale degli artisti e dei lavoratori della cultura, che non abbia come prezzo la loro autonomia, la loro libertà, può essere il cardine di una relazione che dovrà essere rinegoziata costantemente ma che dobbiamo iniziare a progettare adesso. «Non sarà la paura della pazzia a farci lasciare a mezz’asta la bandiera dell’immaginazione» (André Breton, Manifeste du Surréalisme, 1924).

*

L’arte di uscire dalla crisi – Leggi le altre interviste

Al via le celebrazioni religiose: solita corsia preferenziale per la Chiesa

«Ancora una volta la politica si mostra debole nei confronti delle richieste di corsie preferenziali che pervengono dalla Chiesa. Così il governo ha dato priorità alle riunioni di tipo religioso mentre altri tipi di riunioni continuano a essere vietate (teatro, presentazioni di libri, incontri in centri socio culturali, cinema, lo stesso diritto all’istruzione nella scuola pubblica)». Il segretario dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar), Roberto Grendene, commenta così il protocollo firmato da Palazzo Chigi, approvato dal Parlamento, che dà il via libera alle messe coi fedeli a partire dal 18 maggio. «Di fatto – prosegue Grendene – su pressione dei vescovi, il governo ha attuato un regime speciale per le riunioni a carattere religioso, regime speciale proibito dalla sentenza n. 45/1957 della Corte costituzionale. La libertà di riunione non deve consentire privilegi per qualcuno e divieti per altri. Nemmeno se questo qualcuno si ritiene il rappresentante di Dio in terra».

La Uaar, osserva Grendene, ha una biblioteca che non può essere aperta e una sala riunioni inaccessibile: «Le nostre assemblee non si possono tenere: non è discriminazione questa? Suona poi quantomeno forte parlare di norme ferree per la ripresa delle celebrazioni religiose: le regole stabilite dal Protocollo sono in realtà spesso approssimative, un’applicazione di principi affidata a parroci o volontari. E considerato che le inadempienze religiose in fase 1 sono state già tante, le abbiamo documentate, le ha riprese la stampa, chi ci dice che in fase 2 andrà meglio? Insomma – conclude Grendene – ci stupisce che quello stesso comitato tecnico-scientifico che pochi giorni fa sosteneva che le messe presentassero “criticità ineliminabili” ora abbia dato parere favorevole al protocollo. Che fine hanno fatto quelle criticità? Sparite per intervento divino?».

 

 

Immigrati, le basi di una sanatoria in un Paese civile (video a cura di Adif)

La sanatoria. Le pillole di Adif, Associazione Diritti e Frontiere

 

Per approfondire:

Ma gli stranieri non ci avevano rubato il lavoro? di Leonardo Filippi

Patrioti! Ai campi!

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 04 aprile 2020 Roma (Italia) Cronaca Emergenza Covid 19, all’interno dell’azienda agricola della famiglia Della Porta vicino Roma si lavorano le colture stagionali, molte aziende sono state penalizzate dal blocco degli spostamenti per arginare la diffusione del coronavirus e la maggior parte dei braccianti agricoli che vengono dall’Asia non hanno avuto la possibilità di raggiungere i terreni per le raccolte stagionali Nella Foto : braccianti agricoli al lavoro nelle serre con le mascherine , per mantenere le distanze di sicurezza le file di raccolta vengono alternate Photo Cecilia Fabiano/LaPresse April 04 , 2020 Rome (Italy) News Covid 19 Emergency , seasonal agricultural harvest in Della Porta Family farm near Rome , many farms have been penalized by the lockdown imposed to stem the spread of coronavirus and most of the agricultural workers who come from Asia have not had the chance to reach the land for seasonal harvesting In the pic : agricultural workers in the greenhouses with safety facial masks, to keep the safety distances they work in alternated rows

«Ci rubano il lavoro!» gridano da anni con le vene del collo ingrossate. «Ci rubano il lavoro!» scrivono sui manifesti elettorali. E così il giochetto del pensiamo prima a noi viene facile facile, non c’è nemmeno bisogno di spingerlo troppo.

Solo che senza i lavoratori stranieri accade che nell’edilizia in alcune zone non si sia nemmeno in grado di costruire una cuccia per il cane, accade che il prosecco rimanga negli acini e accade, come sta accadendo, che la frutta e la verdura non riescano nemmeno ad arrivare agli scaffali del supermercato.

Così eccoci qui, nel bel mezzo di un dibattito assurdo in cui non si vuole regolarizzare chi sarebbe disponibile a lavorare ma allo stesso tempo non si trovano italiani che vogliano farlo e chi decide di non decidere (come al solito con la Lega in testa) semplicemente non sta proponendo nessuna soluzione: se si riuscisse a spostare la discussione dallo straniero al più generico lavoratore ci si accorgerebbe che della nazionalità agli imprenditori del settore agricolo (quelli onesti) interessa ben poco, servono le braccia.

Il dibattito sull’eventuale regolarizzazione però nasconde tutta l’etica imprenditoriale italiana quando dà il peggio di se stessa: le persone servono solo per il momento che servono, i diritti sono solo una gentile concessione che serve a regolarizzare la fatica, le persone esistono solo quando producono. E forse qualcuno dovrebbe avere il coraggio di riconoscere che l’agricoltura in Italia (come la logistica, i servizi, l’edilizia e altro) si sostiene sul caporalato e sul lavoro nero, quello che schiavizza le persone e che ruba soldi agli ospedali, ai servizi, allo Stato.

C’è anche un altro aspetto interessante, per tutti i nostri patrioti che vogliono difendere il lavoro dalla sostituzione etnica e dai lavoratori stranieri: potete andare a lavorare, eccolo qui il lavoro. O forse bisognerebbe avere il coraggio di dirsi che ci sono mestieri (anzi: condizioni lavorative) indegni di un Paese civile.

Che aspettate, fatevi sotto.

Buon venerdì.

La città ideale

Lo scenario delle nostre città d’arte rappresentate spettacolarmente dalle sole architetture è spiazzante. Palazzi e piazze, monumenti e tessuti minori, scorci inediti e luminosità nuova ci si parano innanzi e non sappiamo come guardarli.  Vediamo i luoghi in cui abitiamo nella stessa prospettiva con cui visitiamo, se si è fortunati, siti archeologici e vestigia monumentali che ci parlano di civiltà scomparse, la cui identità e i cui valori deduciamo da quanto è rimasto in piedi, dalla forma solida dei templi, dalle mura massicce, dalle decorazioni, dalla composizione dei materiali.

Eppure quando abbiamo la fortuna di rimanere soli con queste testimonianze commoventi di tanto tempo fa – mi è capitato, una volta al tempio egizio di Dendera in pieno deserto con le rovine che fuoriuscivano ancora dalle dune di sabbia; ma più recentemente nel nord dell’Afghanistan a poca distanza dalle mura timuridi di Balkh nel sito prezioso di Noh Gonbad o, caso estremo, percorrendo le rocce e le grotte ricoperte dalle toccanti pitture rupestri del Tassili d’Ajjer negli altopiani disabitati del Sahara algerino – l’emozione che ci prende è fortissima; ci sembra di poter rivivere quel tempo e di intendere in profondità i pensieri che lo attraversavano. Il silenzio e la solitudine sono una condizione, forse lo scenario indispensabile, perché si avveri questa epifania, perché si stabilisca il contatto e si realizzi il miracolo della conoscenza.

Sembra evidente che quello che proviamo nell’osservare le nostre città d’arte più note ai tempi del coronavirus non ha niente a che fare con questo sentimento. È vero che in un primo momento la sorpresa è forte, quei luoghi familiari ci appaiono nuovi e anche impressionanti; nella sospensione del tempo è come li vedessimo per la prima volta… Ma presto lo stato d’animo trasmuta in una sorta di estraneità, di non riconoscimento: quella città non è la…

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