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Turismo. La vacanza (è) in Italia

Tourists visit the Colosseum, in Rome, Saturday, March 7, 2020. With the coronavirus emergency deepening in Europe, Italy, a focal point in the contagion, risks falling back into recession as foreign tourists are spooked from visiting its cultural treasures and the global market shrinks for prized artisanal products, from fashion to design. (AP Photo/Andrew Medichini)

«L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima … era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati, la macchia dei noccioli sparita …». Anguilla, il protagonista de La luna e i falò, all’indomani della Liberazione, torna al suo paese delle Langhe, dopo molti anni trascorsi in America. L’Italia alla fine degli anni Quaranta è anche questa. Una serie infinita di città e paesi, che dopo la devastazione della guerra, torna a rianimarsi. Non esiste il turismo nell’accezione attuale. Perché nella gran parte dei casi non esistono risorse sufficienti per le vacanze. Ma è forte il desiderio di ri-appropriarsi dei luoghi. Tanto più se noti.

Il post-pandemia, che ancora rimane incerto nei tempi e nelle forme, offre almeno due punti fermi. «Ci vorrà del tempo prima che il turismo internazionale torni in Italia, ma difficilmente questa estate i turisti italiani andranno in giro per il mondo, dobbiamo quindi lavorare sul turismo interno, italiano, di prossimità». Il ministro Franceschini, dopo un lunghissimo silenzio, ha annunciato quel che in molti temevano. Almeno nei prossimi mesi l’Italia non sarà metà del turismo internazionale e le vacanze degli italiani, i più fortunati, non saranno all’estero. Delle due circostanze, quella più nefasta per la nostra esangue economia è certamente la prima. Perché le frontiere chiuse significano meno introiti. Spalmati un po’ ovunque. Dai luoghi della cultura a quelli turistici, passando per la ristorazione, ovviamente. È indubitabile. Ma per fortuna, rimaniamo noi. Gli italiani. Restiamo noi “con” l’Italia. Non solo con i suoi Musei ed aree archeologiche, i suoi Palazzi e ville storiche. Con le sue biblioteche ed archivi. Con i suoi mari e i monti. Ma con moltissimo altro. A partire dagli alberi, spessissimo unici, come dai boschi di un’infinità di essenze e dagli altopiani ricoperti di erbe aromatiche. Passando alle spianate che si colorano del verde dell’erba medica e del giallo dei girasoli. E ancora alle piazze nelle quali ci si ritrova, e ai bar nei quali non si prende lo spritz, ma un liquore e si gioca a carte.

Le nuove regole costringeranno a fare quel che le politiche nazionali avrebbero dovuto suggerire. Con forza. Per questo motivo ritenere che viaggiare in Italia sia una sorta di ripiego, è sbagliato. Concettualmente e praticamente. Prima di tutto perché si mortificano le nostre particolarità. Invece di reclamizzarle, come si dovrebbe. In maniera concreta. Senza contare che puntare davvero sul turismo di prossimità consentirebbe anche a gran parte degli italiani di conoscere meglio storia e soprattutto geografia del loro Paese. Insomma, visitare un centro storico oppure inerpicarsi su una delle cime di una qualche catena montuosa può non essere solo uno svago. Può regalare anche conoscenza. Insomma perché mai “il dilettevole” non può accompagnarsi con “l’utile”? In fondo, il bello del visitare un luogo dovrebbe contemplare soprattutto questo. L’immersione completa attraverso colori e sapori, odori e tradizioni, cultura materiale e immateriale. Altrimenti che gusto c’è?

Ma l’errore è anche pratico. Perché alla fine dell’estate il rischio è che le cifre “dei movimenti” siano inferiori alle potenzialità. Non solo a causa della recessione.

Ognuna delle regioni italiane offre un’infinità di occasioni. Quindi anche rimanendo all’interno della propria si potrebbe fare molto. Visitando luoghi straordinari, ma ignoti. Forse perché vicini. perché ormai nell’immaginario di molti fortunati non è vacanza se non è lontano. Non c’è divertimento se non si possono fare cose eccezionali. Tutta colpa delle Persone? Certo che no! D’altra parte per andare da qualche parte bisogna conoscere e per farlogli strumenti non sono moltissimi. Ci sono i portali delle regioni e poi da questi si può passare, come in una matrioska, a quelli dei comuni. Inutile dire che si tratta di un lavoro impegnativo. perché costringe a diversi passagi. Poi, ci sono i siti delle diverse Soprintendenze archeologiche, belle arti e paesaggio che restituiscono informazioni sui differenti luoghi della cultura. Poi ci sono siti di ambito più locale, ma a quelli si arriva solo se si ha una minima conoscenza della zona che si intende visitare. Una summa di tutte le conoscenze la dovrebbe offrire Italia.it, “il sito ufficiale del turismo in Italia”. Il portale dell’Agenzia Nazionale del Turismo. Una summa a dire il vero abbastanza “povera”. Tra le ricerche possibili, se si sceglie di indirizzarsi su “Scopri l’italia” si accede alla divisione regionale. E qui prescelta la destinazione si entra nella “Descrizione”. Nella quale ci sono alcuni campi attivi che rimandano generalmente ai capoluoghi di provincia. Ma si può decidere anche di entrare nel “Cosa vedere”, oppure nel “Cosa fare” ed infine nel “Cosa assaggiare”. Le maggiori delusioni in ogni caso si hanno quasi sempre se si scorre la lista dei luoghi che sarebbero meritevoli di essere visti. Si tratta di una sorta di bignami che piuttosto che invogliare, risulta respingente. E poi vengono troppo spesso ignorate quelle piccole realtà che meriterebbero ben altra considerazione. Un esempio? Nelle Marche nessun accenno alla Galleria di Vespasiano nelle Gole del Furlo e al Muro di terrazzamento a Pontericcioli di Cantiano. E neppure alla Chiesa dei SS. Ruffino e Vitale ad Amandola e al Castello della Rancia a Tolentino. Così come all’Abbazia di S. Salvatore a Valdicastro, alla Collegiata di S. Marco a Servigliano e al Giardino Buonaccorsi a Potenza Picena.

Una lista incompleta, ma sufficiente a documentare la vacuità del Portale. Che in sostanza si dimostra uno strumento sostanzialmente inadeguato a guidare il turista di turno. Incapace di valorizzare realtà importanti ma che continuano a rimanere meta di un ristretto numero di visitatori. Ed è un peccato. perché il turismo è ovunque. Ben inteso, ovunque si dia la possibilità di andare, facendone conoscere l’esistenza. Luoghi mai visti, ma anche nei quali tornare. «Una volta all’anno salgo a salutare l’albero, mi porto da scrivere e mi siedo al suo piede. A due metri da lui, ovest preciso, spuntano quattro stelle alpine, un principio di costellazione. Ancora un paio di metri a ovest un mugo accovacciato al suolo sparge i suoi rami in cerchio». Erri De Luca descrive la sua Visita a un albero su una delle cime delle Dolomiti bellunesi, a 2200 metri. Una visita, che diventa consuetudine. Un modo come un altro per riappropriarsi di una parte di sé. Un appuntamento con una sorta di amico. Come si trattasse di uno degli alberi magici de il Boschio vecchio di Buzzati. perché i Luoghi possano far parte di Noi. Ed é questo che li rende speciali. Anzi, unici.

«Il paesaggio non gli dava alcuna sorpresa: se ne era rammentato nei minimi particolari. Di là dal villaggio vedeva biancheggiare la punta del colle di sassi, una cupola regolare senza case e senza vegetazione, alla sua destra un piccolo bosco di pini giovani piantato per lottare con una plaga di sassi. Ma dacché egli era partito il boschetto aveva fatto pochi progressi». Alfonso, il protagonista de Una Vita” di Svevo, torna a casa e ritrova anche il suo paese. Con le sue linee geometriche che si trasformano in ricordi. Restituendogli un senso di appartenenza che quasi aveva dimenticato. Insomma Alfonso non è un turista. Ma, come se lo fosse, torna in un Luogo del cuore. perché anche questo può essere un motivo per spostarsi. Per fare del turismo. Tornare da dove siamo partiti, oppure siamo stati.

Quest’anno, iniziando una consuetudine che farebbe un gran bene a tanti “turisti”, contribuendo a far lievitare anche le cifre degli spostamenti e quindi il Pil nazionale, l’Italia deve essere l’inesauribile depliant nel quale scegliere. Dove andare. Per conoscere, ma anche per ri-vedere. Un modo, tutt’altro che ingiustificato, per rafforzare il senso di appartenenza delle singole Persone per il Paese, nella sua interezza. Uno strumento per riaffermare quell’identità nazionale, della quale la totalità delle forze politiche sostengono la rilevanza. Salvo non perseguirla in maniera concreta. Il turismo é indubitabilmente uno dei settori che produce risorse. Ma se si continuerà a privarlo dei necessari contenuti, é destinato a languire nella recessione. Se le politiche nazionali ne esalteranno ancora le potenzialità senza però valorizzarne realmente le infinite particolarità, il rischio è che il futuro sia davvero incerto.

«Capii lì per li che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue … tanto che un cambiamento di colture non importi». L’Anguilla de La Luna e i falò, ha piena consapevolezza che noi apparteniamo ai Luoghi. Fino al punto di esserne parte. Riscopriremo anche noi tutti questa appartenenza?

Affitti, tasse e libri: l’emergenza dimenticata degli studenti universitari

La pandemia che ha travolto e sconvolto il mondo intero ha fatto emergere prepotentemente e senza mezzi termini tutte le contraddizioni del nostro tempo. Disparità e disuguaglianze sociali, quando non vere e proprie situazioni di indigenza, emergono quotidianamente e in quantità preoccupanti. Tutto un pregresso decennale di violazioni di diritti umani, civili e sociali sono il terreno su cui gli uomini delle istituzioni devono muovere i propri passi, correndo il rischio di mettere un piede su mine pronte ad esplodere. Dagli ospedali – ed in generale in tutto il sistema sanitario -, dalle carceri – come per tutto il sistema giustizia, in tutte le sue componenti e diramazioni – per finire alla scuola e all’università; da tutti quei luoghi e istituzioni, insomma, in cui le cittadine e i cittadini sono letteralmente nelle mani dello Stato (paradossalmente, dovrebbero essere i luoghi più sicuri, con le dovute ed inevitabili differenze) emergono criticità vecchie quanto la nostra Repubblica, le cui soluzioni sono state continuamente rimandate, quando non sacrificate sull’altarino elettorale. V’è una di queste anomalie che riguarda il mondo dell’Università e che chiama in causa addirittura l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani, il quale ci dice che l’istruzione superiore dovrebbe essere accessibile in base al merito. Già, merito, non reddito.

Sono più di mezzo milione gli studenti che – chi per un motivo, chi per un altro – ogni anno scelgono atenei lontani dalla propria terra d’origine. La maggior parte di essi, secondo i dati ISTAT proviene da Puglia, Sicilia e Calabria (regioni che sono di per sé in uno stato perpetuo di emergenza almeno dal 1861). Sono ancora impresse nella memoria collettiva degli italiani le immagini degli studenti che hanno inondato le stazioni di treni, bus e gli aeroporti per far ritorno dalle loro famiglie prima che i confini delle città venissero “blindati”, i movimenti personali limitati alle necessità indispensabili. Altri, più saggiamente, sono rimasti dov’erano per non mettere in pericolo la salute delle persone loro più care. Ma in tutto questo v’è un problema nel problema, un’emergenza nell’emergenza, un ordigno che non tarderà ad esplodere se non vi sarà una risposta celere, tempestiva ed efficace da parte del Governo e del Parlamento. Il lockdown sancito a colpi di Dpcm fino ad ora non ha tenuto alcun conto di questa categoria di studenti.

Se tutto è fermo, se le attività economiche sono chiuse – per altro, con una prospettiva di ripresa nella migliore delle ipotesi incerta – come si può pretendere che i pagamenti degli affitti, delle tasse universitarie, delle bollette, ma anche dei libri indispensabili per poter preparare gli esami, continuino come se nulla fosse? Può essere considerato moroso chi non può permettersi di onorare contratti e far fronte alle spese correnti? Il mondo dell’associazionismo si è tempestivamente mosso per denunciare questa assurdità, sono diverse le iniziative organizzate sui social (l’unico mezzo attualmente praticabile per manifestare). La sola possibilità ad oggi per gli studenti fuorisede resta quella di tentare un accordo con i rispettivi proprietari, i quali – sia chiaro! – hanno tutto il diritto di salvaguardare i propri interessi e che, comunque, non possono sostenere sulle proprie spalle quelle che sono le gravi responsabilità, carenze e ritardi delle Stato. È urgente e necessario un intervento concreto da parte del Governo e del Parlamento, non solo per limitare e ridurre quanto più possibile i danni, ma che scongiuri situazioni di estrema difficoltà e gravità, oltre che profondamente ingiuste. Governare un Paese come l’Italia, va detto, è impresa ardua anche nel migliori dei momenti. Questo è chiaro a chi abbia la minima contezza di come vanno le cose. Ma a pagare le conseguenze e il prezzo non possono essere gli studenti che, lungi da ogni romanticismo, sono il futuro dell’Italia e dell’Europa tutta: un futuro che si prospetta cupo e pieno di incertezze.

*

Giovanni Zezza è membro del consiglio generale del Partito Radicale

Scomparse le madri e i bambini

16 April 2020, Lower Saxony, Hanover: Jonte and Frida go for a walk with their mother. Parents reach their stress limit in the Corona pandemic after five weeks without school and daycare as crisis managers. How can we prevent the quarantine fever within families? Photo by: Julian Stratenschulte/picture-alliance/dpa/AP Images

Può un’emergenza sanitaria burocratizzare i sentimenti? Sì, forse deve anche farlo ma inevitabilmente le decisioni sulle libertà dei cittadini sono la cartina di tornasole del modello di società che si ha in testa. Ci si avvicina alla Fase 2 con tutti i dubbi e con tutte le discussioni del caso, favorevoli e contrari troppo spesso accesi e sordi come tifosi delle curve contrapposte, e balza all’occhio quello che siamo: ci si occupa di garantire a tutti i produttivi e a tutti i consumatori di poter produrre e consumare agghindati con i dispositivi di sicurezza che servono, ci si occupa di di garantire che non vengano falcidiati i fatturati e ci si occupa che il Paese riparta. Ma al Paese, a quel Paese di cui si tratta nelle interviste e nelle conferenza stampa, manca un pezzo. Gli improduttivi, appunto. I bambini e gli anziani.

Il 4 maggio i genitori torneranno a lavoro ma l’essere genitori da queste parti è una caratteristica secondaria che non merita di entrare nella discussione. Si tornerà al lavoro e non ci è dato sapere cosa sarà dei figli in età scolare e prescolare. Niente, nulla, boh. Si ripete che le scuole devono restare chiuse per evitare il contagio e la frase suona anche credibile se non fosse che la filosofia della Fase 2, quella apertamente dichiarata, è di riaprire “tutti i servizi essenziali”. E quindi diciamocelo, facciamoci coraggio, che la scuola non viene considerata un servizio essenziale, semplicemente. Diciamo chiaramente che i soldi che stanno arrivando dall’Europa e che sono stati messi nel comparto industriale non verranno investiti sulla scuola, ancora una volta. Bisognerebbe avere il coraggio di dirlo apertamente, sinceramente.

Diciamo che la task force sulla scuola non sta nel palazzo delle task force che contano ma rimane relegata al ministero dell’Istruzione. Diciamo che questo dibattito solo sugli esami di fine anno riduce la funzione della scuola al giudizio finale, come se fosse un target aziendale, tralasciandone il ruolo chiave nella socializzazione, nella crescita della propria consapevolezza, nella costruzione di una visione del mondo. Niente. I ragazzi sono quel voto che sarà la loro patente di immunità per poi bussare al mondo del lavoro. Numeri, cose, risultati e spariscono le persone.

Spariscono i bambini e i ragazzi e spariscono le madri, ancora una volta, inevitabilmente. Essere madre in Italia, oggi, significa essersi sovraccaricata di un costosissimo e faticosissimo hobby sentimentale che non interessa alla politica. In Germania i servizi educativi per i figli dei lavoratori essenziali (quelli che non si sono mai fermati) sono sempre rimasti aperti. In Olanda le scuole primarie riapriranno a fine aprile. In Francia le scuole riapriranno l’11 maggio. In Danimarca le scuole hanno già riaperto e in Svezia e Islanda non hanno mai chiuso.

Qui tra poco si arriva al 4 maggio e alle madri si dice (senza dirla) la stessa frase di sempre: care, organizzatevi. E ai bambini e ai ragazzi devono bastare gli editoriali in cui vengono accusati di avere la fortuna di essere bambini. In attesa di diventare finalmente produttivi.

Buon lunedì.

 

PS.

(Fermi tutti. Molti degli affezionati lettori che seguono il “buongiorno” mi fanno notare che il titolo che ho scelto risulta particolarmente fastidioso perché esclude i padri dal ruolo genitoriale. Nelle mie intenzioni il senso era altro: alle donne, lo dicono le statistiche, viene troppo spesso demandato il peso del welfare famigliare, alle donne viene richiesto troppo spesso di farsi carico di famiglia e lavoro come se fosse un loro dovere storicizzato. Ma non sono riuscito a farmi capire. Penso che ogni volta che un articolo abbia bisogno di una puntualizzazione evidentemente non è stato un buon articolo. E allora prometto che farò meglio, con ancora più attenzione.)

L’uomo che conosce il segreto di Chernobyl

In this photo taken on Tuesday, April 5, 2016, Yuri Bandazhevsky, a pediatrician who has been studying the effect of small doses of radiation on the human body, stands outside a hospital in Ivankiv, Ukraine. Bandazhevsky, whose work is widely cited abroad, was imprisoned in his native Belarus for four years. Supporters alleged it was due to his work on studying Chernobyl’s consequences; he now works in Ukraine. (AP Photo/Mstyslav Chernov)

Sono passati 34 anni da quello che è stato definito il più grande incidente nucleare della storia: Chernobyl. Erano le prime ore del 26 aprile 1986 quando esplose uno dei quattro reattori in funzione (a poco più di tre chilometri dalla città di Prypiat) in Ucraina settentrionale. L’incidente rilasciò nell’ambiente un’elevata quantità di radiazioni il cui “spettro” aleggia ancora in alcune zone dell’Ucraina e Bielorussia. Ne ha assoluta certezza il professore 63enne Yuri Bandazhevsky, massimo esperto mondiale delle conseguenze del fall-out nucleare di Chernobyl. Lo scienziato che Left ha avuto modo di intervistare nella sua casa in Ucraina dove da tempo è relegato – libero – ma in esilio dal suo Paese d’origine, la Bielorussia. Qui, come lui stesso racconta, ancora oggi si registrano pesanti ricadute sulla salute delle persone. Anche per questo è doveroso continuare a parlare di Chernobyl «I danni di questo disastro sono oggi più che mai presenti», denuncia Bandazhevsky. «Per esempio a Minsk, in Bielorussia, dove vivono mia moglie Galina e mia figlia Olga si eseguono almeno 20 operazioni al giorno per patologie alla tiroide. La lista d’attesa inoltre è sempre più lunga anche per altre patologie. Si continua a dire che va tutto bene ma la realtà è ben diversa». E questo perché, spiega lo scienziato, «la radioattività è presente nelle piante e nella legna dove i radionuclidi sono ormai incorporati. Con la stessa legna si scaldano le abitazioni o si cuociono gli alimenti sprigionando particelle radioattive che vengono di fatto inalate».

Drammaticamente neanche i bambini della seconda “generazione di Chernobyl” si salvano. «Si portano dietro il difetto genetico di “regolazione” ereditato dai genitori. In tanti sia in Ucraina che Bielorussia soffrono di diverse malformazioni congenite». Esistono ricerche scientifiche al riguardo, chiediamo a Yuri Bandazhevsky. «Le faccio un esempio. Alcuni bambini vengono operati già in tenera età per malformazioni congenite cardiache. Mio nipote di 5 anni ha problemi cardiaci. Tutto a causa di malformazioni del metabolismo che possono “attaccare” gli arti, gli organi e le cellule appunto. Per quello che so non esistono studi ufficiali su queste patologie». Come è possibile? «Le “lobby atomiche”, chiamiamole così per brevità, hanno silenziato ogni cosa», dichiara Bandazhevsky. «Sarebbe una catastrofe politica (ed economica, per loro) ammettere un problema che, da oltre 34 anni, si cerca in tutti i modi di negare». Negli anni Ottanta, quando Bandazhevsky era un giovane scienziato e rettore della facoltà di Medicina di Gomel in Bielorussia avviò i suoi studi aiutando le popolazioni colpite dal fall-out di Chernobyl. «Anche mia moglie Galina, durante la sua attività di pediatria nel policlinico, aveva rilevato la presenza di diverse anomalie del ritmo cardiaco nei bambini e negli adolescenti e, in alcuni casi, la comparsa addirittura di episodi infartuali». Quando saltò in aria il reattore di Chernobyl Yuri Bandazhevsky intuì subito quali fossero le dimensioni della tragedia. «Non mi sono fermato davanti ai diktat e alle immutabili verità ufficiali – rimarca -. Con le mie ricerche, negli anni, sono riuscito a dimostrare gli effetti nel tempo dell’esposizione continua

a piccole quantità e basse dosi di radionuclidi, soprattutto a livello cardiovascolare». Lo scienziato capì anche che uno dei veicoli di questo lento assorbimento era sicuramente il cibo, di cui aveva segnalato la pericolosità sin da subito, sollecitato dalle informazioni e dai dati clinici di sua moglie Galina. «Avviai subito una ricerca – racconta – e le verifiche su cavie confermarono la tendenza delle fibre cardiache a incorporare, soprattutto il Cesio radioattivo Cs 137 (radionuclide instabile che decade emettendo energia sotto forma di radiazioni). Nelle persone colpite da radiazioni – spiega Bandazhevsky -. c’era un aumento di omocisteina (simile ad un alto livello di leucociti nel sangue), capace di causare infarti del miocardio, ictus, tromboembolie, arteriosclerosi, malformazioni feto-placentari, aborti spontanei e patologie oncologiche». Colpisce anche che sia riuscito a scoprire tutto questo senza avere a disposizione finanziamenti pubblici. Come è stato possibile, gli chiediamo.

«Il denaro e le apparecchiature ricevute per proseguire gli studi sono arrivati  da tanti donatori, mai dalle istituzioni. Ogni aiuto economico è stato sfruttato al 100% per portare avanti un lavoro molto serio e duro. Con pochi soldi siamo riusciti a dimostrare che la contaminazione dell’ambiente e le sue conseguenze sono reali». Intanto le sue ricerche ben presto oltrepassavano i confini. «Sì ma più scoprivo come stavano le cose – alzando il velo d’omertà – e più ricevevo intimidazioni e minacce. Tuttavia – precisa lo scienziato – ho proseguito gli studi anche nelle zone più contaminate. Per questo soffro di diverse patologie che in alcuni giorni mi sfiancano molto».

Vorremmo un suo parere sul coronavirus. C’è chi parla di “guerra batteriologica” o addirittura chi ipotizza che il virus sia stato creato appositamente in laboratorio. «Non voglio neanche pensare a una cosa del genere – commenta Bandazhevsky -. Manipolare un virus per osservare come può reagire il corpo umano è sempre molto pericoloso. Per affrontare pandemie come questa il virus va studiato a fondo. Anche perché può aiutare a difendersi da altri patogeni in futuro».

Se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto? «Certo, senza alcun dubbio. Sono nato per fare ricerca. A 16 anni ho iniziato a fare esperimenti e i miei studi sono sempre stati indipendenti. Mi dissero: “Elimina la parola radiazioni e avrai tutto”. Risposi di no. Il mio unico obiettivo è aiutare le persone».

*

Il 18 giugno 2001, Yuri Bandazhevsky fu condannato da un tribunale militare bielorusso a 8 anni di lavori forzati con la possibilità di vedere una volta, ogni tre mesi, la moglie Galina. L’accusa, non supportata da alcun testimone, era di avere chiesto denaro per ammettere uno studente all’università. Un vasto movimento di opinione internazionale intervenne a suo sostegno: già nel 2001 ottenne il passaporto della libertà dalla Comunità europea, mentre, nel 2005, Amnesty International gli ha riconosciuto lo status di “prigioniero di coscienza”. In seguito alla mobilitazione diplomatica di diversi Paesi Ue, Bandazhevsky è stato liberato il 15 agosto 2005, dopo 6 anni e 1 mese di carcere. Negli anni ha pubblicato oltre 240 tra articoli e libri sul “caso Chernobyl” in ambito anatomo-patologico, ottenendo diversi riconoscimenti, fra cui la Medaglia d’oro Albert Schweitzer e la Stella d’oro dell’accademia di Medicina della Polonia. Nel 2010 è uscito in Italia  per Carlo Spera editore Chernobyl 25 anni dopo. Bandazhevsky, dopo aver soggiornato in Francia e Lituania, oggi vive in Ucraina.

L’intervista è stata pubblicata su Left del 20 marzo 2020 

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Fuori dall’isolamento, dentro la cura

A Honduran migrant boy deported from Mexico, gestures from the bus window, before being quarantined to prevent the spread of the COVID-19 coronavirus, upon arrival at Toncontin international airport in Tegucigalpa, on April 14, 2020. (Photo by ORLANDO SIERRA / AFP) (Photo by ORLANDO SIERRA/AFP via Getty Images)

«Migranti e rifugiati sono vulnerabili in modo sproporzionato rispetto al rischio di esclusione, stigma e discriminazione, in particolare quando privi di documenti. I governi adottino un approccio inclusivo capace di proteggere i diritti alla vita e alla salute di ogni singolo individuo, per scongiurare una catastrofe e contenere la diffusione del virus». Con un intervento congiunto che ha pochi precedenti, le Nazioni Unite (tramite l’Agenzia per i rifugiati Unhcr), l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Organizzazione mondiale della sanità hanno richiamato in questo modo la comunità internazionale al rispetto dei diritti delle persone che in tempo di pandemia si trovano costrette ad abbandonare il proprio Paese e a intraprendere un viaggio verso nuove terre, nuovi continenti. «È di vitale importanza assicurare che tutti, migranti e rifugiati compresi, possano accedere in modo paritario ai servizi sanitari e – proseguono le tre organizzazioni – siano inclusi efficacemente nei piani nazionali di risposta all’emergenza Covid-19, incluse le misure di prevenzione e la possibilità di sottoporsi a esami clinici e terapie. Tale inclusione permetterà non solo di proteggere i diritti di rifugiati e migranti, ma anche di tutelare la salute pubblica e contenere la diffusione globale di Covid-19».

Di fronte a queste raccomandazioni ci siamo chiesti se e in che modo in Italia, da quando è zona rossa, è garantita la tutela del diritto alla salute dei migranti forzati e abbiamo girato la domanda al dr. Giancarlo Santone, direttore Uosd del Centro Samifo della Asl Roma 1 – una delle aziende sanitarie più grandi del nostro Paese -, che da tempo è impegnato in diversi progetti pluriennali nell’accoglienza e nell’assistenza dei migranti forzati, e ad alcuni suoi collaboratori. Ecco cosa ci hanno raccontato.
«Sulla carta – racconta Santone – la tutela dei diritti è garantita, però abbiamo notizie di difficoltà nel rispetto del distanziamento in alcuni Centri di accoglienza (Ca) con un numero elevato di ospiti. I migranti con patologie croniche che hanno bisogno di continuità assistenziale (prescrizione di farmaci, accertamenti, percorsi riabilitativi) hanno difficoltà nella fruibilità di tali diritti. La chiusura temporanea o la riduzione di orario e personale nei servizi – prosegue il direttore del Samifo -, le barriere di accesso (es. chi ha sintomi attribuibili al Covid-19 non viene visitato e rischia un aggravamento), le difficoltà di collegamento tra i Ca e i medici di base, il fatto che molti migranti hanno perso il diritto all’esenzione del ticket, la disomogeneità nel rinnovo automatico dell’iscrizione al Servizio sanitario regionale (Ssr) nelle diverse Asl, la ridotta disponibilità economica (molti hanno perso il lavoro), sono solo alcuni esempi delle difficoltà del momento».

Come si è organizzato il Samifo per favorire il loro accesso ai servizi? «Il nostro centro – spiega Santone – nel rispetto delle disposizioni, evitando copresenze non indispensabili, ha mantenuto lo stesso orario di apertura garantendo i servizi di medicina generale, psichiatria per le urgenze, ginecologia per le gravidanze, mediazione linguistico-culturale, ortopedia per i casi post-chirurgici. È stato attivato un servizio di consulenza o mediazione linguistico-culturale telefonica, via mail o in videochiamata per pazienti già in carico, nuovi utenti, anche temporaneamente non iscritti al Ssr, e operatori dei Ca. Nell’ambito del progetto Fari2, il servizio dedicato ai minori con equipe multidisciplinare attua una modalità di valutazione e follow-up a distanza, utilizzando adeguate piattaforme digitali». Tra le criticità maggiori da quando l’Italia è in lockdown c’è la carenza di Dispositivi individuali di protezione (Dpi – guanti, mascherine, camici o occhiali) per gli operatori sanitari durante l’assistenza ai pazienti. Come è noto questo…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 24 aprile 

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Il sistema sanitario o è nazionale o non è

NEWS : Covid 19 Coronavirus en Spagne - Barcelone- 14/04/2020 Applaudissements personnel de sante Paco Largo / Panoramic lapresse-onlyitaly Applausi del personale sanitario a Barcellona

Sinistre, coronavirus e sistema sanitario per il futuro.
Sembrano argomenti distinti ma in realtà hanno un rapporto molto stretto.
La pandemia ha impresso una velocità impressionante ai cambiamenti. Non siamo fuori dalla pandemia. I dati tuttora dimostrano che il numero dei morti e dei contagiati è ancora impressionante. Pesa un’incertezza di fondo. Non si tratta di una pausa e dopo non si tornerà alla vita precedente.
È incerto se verranno trovati sistemi di cura in grado di combattere efficacemente l’infezione e vaccini in grado di prevenirne la diffusione. Sperimentazioni sono in corso, tuttavia per ora sono lodevoli iniziative, che accendono speranze.
Nei rivolgimenti di fondo si mettono in moto meccanismi prima inesistenti, cambiano orientamenti, comportamenti, valutazioni. Si delineano pericoli e si aprono opportunità prima impensabili.
In altre parole è in corso un cambiamento epocale.

La sinistra alla ricerca di sé stessa finora non ha offerto grandi risultati. Confederare in qualche modo i vertici (l’elenco dei tentativi falliti è senza fine)? O partire dal basso? Anche questa via non ha dato grandi risultati, non a caso si accompagna alla convinzione che qualcuno sia l’interprete autentico del percorso.
La pandemia, con i suoi problemi irrisolti, lancia una sfida di fondo alla sinistra e pretende risposte radicali, sulla vita, sulla sua salvaguardia. Da una iattura umana e sociale come la pandemia viene una spinta poderosa e occorre dare risposte, ad esempio su quale sistema di cura sia indispensabile per garantire a tutti la cura della salute, un diritto costituzionale centrale. Dietro la formula dell’immunità di gregge, di ascendenza malthusiana, si intravede una differenza di classe e di reddito tra chi verrà curato e chi no, tendenzialmente condannato a soccombere.

Al contrario, la risposta alla pandemia, grazie agli operatori sanitari, si è rifatta alle migliori tradizioni di solidarietà e di umanità cristallizzate nella riforma del 1978 che istituì il Servizio sanitario nazionale, dove erano centrali i termini nazionale e sanitario, prevedendo che nel territorio italiano hanno tutti diritto ad essere curati. In parallelo al diritto costituzionale all’istruzione. Il termine sanitario, riferito al Ssn, ha il compito di garantire a tutti la salvaguardia della salute, qualcosa di più della cura, aprendo la strada alla prevenzione e alla costruzione di un rapporto equilibrato tra il presidio ospedaliero e il territorio…

Alfiero Grandi, vice presidente Comitato per il No al taglio dei parlamentari promosso dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, è autore del libro di Left La democrazia non è scontata. No al taglio dei parlamentari pubblicato nel mese di marzo 2020

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L’Italia riscopre se stessa rispettando il paesaggio

A seabird swims across clearer waters by a gondola in a Venice canal on March 17, 2020 as a result of the stoppage of motorboat traffic, following the country's lockdown within the new coronavirus crisis. (Photo by ANDREA PATTARO / AFP) (Photo by ANDREA PATTARO/AFP via Getty Images)

Delfini nei porti di Cagliari e Trieste, cigni nei canali di Burano e vicino alle paratie dei navigli, a Milano. A Venezia, i germani reali fanno il nido all’attracco dei vaporetti, a piazzale Roma. A Sassari, cinghiali fra piazza Italia e Corso Umberto, in pieno centro storico. A Pula, nel sud ovest della Sardegna, cervi e daini fanno capolino sui campi da golf e si rinfrescano nelle piscine delle ville del resort di Is Molas. L’erba spunta indisturbata tra la pavimentazione a piazza del Plebiscito, a Napoli, e a piazza del Campo, a Siena. Si sono riaffacciati anche fiori e piante selvatiche. Spiagge e strade centrali, località turistiche e parchi urbani, sempre affollati, improvvisamente deserti. Con la natura che è tornata protagonista, anche in città.

«Uscì a camminare per il centro, la mattina. S’aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte, le facciate delle case, … erano chiuse come spalti … Marcovaldo capì che il piacere non era fare cose insolite, quanto il vedere tutto in un altro modo: le vie come fondovalli, o letti di fiumi in secca, le case come blocchi di montagne scoscese, o pareti di scogliera». Anche il Marcovaldo di Calvino per un periodo dell’anno riesce ad appropriarsi della città nella quale vive. Immaginandola diversa. Ma terminato quel tempo la città tornerà come “prima”.

Accadrà lo stesso, ora. È più che probabile. L’allentamento progressivo delle misure imposte dalla pandemia suggeriranno il ritorno alla consueta “normalità”. Anzi provocheranno un’accelerazione, repentina. In nome della ripresa economica. Che tutti vogliamo. Ma che non dovrebbe sacrificare i nostri paesaggi. Né i luoghi della cultura, né quelli naturali.

Con questa preoccupazione il Forum “Salviamo il paesaggio”, una rete civica nazionale di oltre mille tra associazioni e comitati, e di decine di migliaia di singoli aderenti, alla fine di marzo ha inviato una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Chiedendo una ripresa che non cannibalizzi le nostre reclamizzate specificità. Suggerendo finalmente una visione, «per collegare economia, occupazione, benessere sociale e tutela ambientale». Per evitare che i molti progetti per i quali erano state avviate le procedure di Valutazione di impatto ambientale prima che si scatenasse la pandemia, nelle prossime settimane vengano approvati. Dalle montagne al mare l’Italia sarà sotto assedio. Di nuovi impianti eolici e fotovoltaici, di nuove centrali geotermiche, ma anche di nuove discariche e nuovi termodistruttori e, nelle aree montane, di nuove strutture sciistiche. In nome della rincorsa alle energie rinnovabili. Perché il turismo non prevede deroghe. Mai. Naturalmente con l’urbanistica peggiore ancora protagonista.

Nuove costruzioni invaderanno le coste più celebri. A partire dalla Sardegna, dove il nuovo Piano casa, che la maggioranza di centrodestra ha fortissimamente voluto, mette a rischio le norme di tutela delle coste, contenute nel Piano paesaggistico regionale approvato nel 2006. L’hotel “Le Dune Piscinas”, un albergo da poche camere, affacciato sulla spiaggia di Piscinas, ad Arbus, nel Sud Sardegna? Da riqualificare con servizi implementati. Gli oltre 70mila mq., dei quali più di 12mila in prossimità della costa, a Monte Turnu, nel Comune di Castiadas? Da “valorizzare” con un hotel stellare. Due interventi per un unico programma immobiliare. Al quale la giunta Solinas ha riconosciuto ad aprile «il preminente interesse generale e la rilevanza regionale». Nonostante l’esistenza di vincoli paesaggistici, di conservazione integrale e culturale. Salvo poi fare marcia indietro, almeno riguardo al progetto di Monte Turnu, dopo le proteste di opposizione e associazioni ambientaliste. Ora a decidere sull’hotel stellare sarà l’ufficio Tutela del paesaggio della Regione, che dovrà comunque attenersi al parere vincolante della Soprintendenza per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio. Insomma la partita è tutta da giocare.

Altrove nuovi impianti geotermici stravolgeranno pezzi di territori. A partire dalla Toscana. Alle porte del sito Unesco della Val d’Orcia, nel comune di Abbadia San Salvatore, la società Sorgenia Geothermal srl ha presentato alla Regione il progetto della centrale geotermica “Le Cascinelle”. Le strutture si estenderanno su 53.400 mq, il corrispondente di undici campi di calcio. Senza contare che l’area d’intervento ha una forte valenza archeologica, per la presenza diffusa di ritrovamenti di età romana e medievale, oltre che di un tratto della via Francigena. Il coordinamento Ecosistema val d’Orcia, che da mesi ne denuncia le diverse criticità, ha richiesto a Sorgenia un’inchiesta pubblica, rimasta finora senza risposta. Intanto ci sono i pareri negativi della Soprintendenza, della Commissione paesaggistica dell’Unione dei comuni e dell’ufficio tecnico del Comune di Abbadia San Salvatore. Dal 9 marzo l’istruttoria è stata sospesa.

Sul fronte del fotovoltaico, che già conta tanti impianti, l’allarme si è acceso sul Lazio, nel quale sono stati presentati diversi progetti. Come quelli previsti tra Montalto, Arlena, Tuscania, Tessennano e Viterbo. In tutto ventiquattro tra impianti e centrali fotovoltaiche, estesi su oltre 2.100 ettari. In pericolo c’è la sopravvivenza di ambiti archeologici, tra l’età etrusca e quella medievale, ma anche l’agricoltura locale. Per questo il Mibact sta provando ad opporsi in ogni modo. «Non siamo in Arizona», ha tuonato Margherita Eichberg, soprintendente per l’area metropolitana, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. 

Possono mancare nuovi impianti eolici? Certo che no! In Basilicata che già guida la classifica delle regioni, si continuano a presentare progetti. Come quello della società Inergia Lucana srl per la realizzazione del parco eolico “Piani di Piedina”, costituito da dieci aerogeneratori nel territorio di Venosa.

Pendono giudizi anche su diversi elettrodotti. Il caso più eclatante? Il “Ciminna”, che coinvolge ventiquattro comuni e sei province siciliane. Regione, Cassa depositi e prestiti e Terna hanno firmato un accordo di programma che prevede anche la realizzazione di questa infrastruttura. Peccato che i 171 km di tracciato siano stati già bocciati sia dal Tar che dal Consiglio di Stato. Ma Terna non demorde.

I rifiuti da smaltire sono un problema. Così diverse regioni e comuni cercano una soluzione. A Morgongiori, nell’oristanese, l’amministrazione comunale ha avuto l’idea di realizzare una discarica per rifiuti non pericolosi, provvista di cella per quelli contenenti amianto, in una cava dismessa. Un impianto con una volumetria utile di 175mila mc. Sul monte Arci, un’area di grande valore ambientale. Senza contare che gran parte dei terreni nei quali si vorrebbe realizzare il progetto non sono nella disponibiltà del Comune che ne ha solo la gestione. In attesa della Via il Comune ha affidato il progetto alla società A&T Project Srl.

Nel territorio di Tarquinia, in località Pian d’Organo, la Società 2A2 Ambiente si propone di realizzare un termodistruttore di rifiuti con recupero energetico. Un impianto che dovrebbe trattare 481mila tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi all’anno. Centinaia di migliaia di trasporti di rifiuti e di ceneri a due passi da una delle più importanti necropoli etrusche. In un territorio a vocazione agricola. Per questo diverse associazioni ambientaliste tra cui il Gruppo di intervento giuridico hanno manifestato le loro contrarietà.

Spostandosi nelle regioni settentrionali cambiano le criticità, ma non le preoccupazioni. Un esempio? Il collegamento sciistico fra il Comelico, nel Bellunese, e la Val Pusteria, in Alto Adige. Un progetto che prevede due nuovi impianti di risalita e tre nuove piste, oltre ad un ampio bacino per l’innevamento artificiale, nei pressi di Bagni di Valgrande, in prossimità delle sorgenti sulfuree. A dicembre il Mibact ha posto un vincolo sull’area in gran parte interessata dal progetto. Ma le popolazioni locali e tutti gli amministratori, da Fdi al M5s, passando per la Lega, non demordono. Il turismo prima di tutto.

Sono molti i progetti che incombono su tanti territori. Basta scorrere le liste dei procedimenti autorizzativi regionali in corso, per averne una piena consapevolezza. Per rendersi conto del rischio che corre il paesaggio e con esso le persone che lo abitano. In pericolo ci sono l’ambiente naturale e le testimonianze del passato. Insieme alla salute di intere comunità.

«Non si può mica continuare ad accettare tutto quello che sta succedendo adesso, questi imbrogli … Ci si può battere … Si può fare molto», dice Masera, il vecchio falegname che in gioventù era stato comunista, a Quinto Anfossi, il protagonista de La speculazione edilizia di Calvino.

Nel caso in cui la ripresa non terrà nel giusto conto il nostro patrimonio ambientale come quello artistico-storico-archeologico sarà necessario farsi sentire. Cercando di indirizzare le politiche, piuttosto che subirle, ancora. In fondo, come il Marcovaldo di Calvino si tratta solo di «vedere tutto in un altro modo».

 

L’articolo è stato pubblicato su Left del 24 aprile 2020

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SOMMARIO

La Resistenza, ovvero come ridiventare umani. La grande lezione di Bobbio

Consiglio di rileggere in questi giorni le testimonianze e i discorsi raccolti nel libro di Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza in Italia, Einaudi, Torino 2015 (a cura di Pina Impagliazzo e di chi scrive). Da Bobbio ci viene un suggerimento utile per (ri)pensare la Resistenza in questo passaggio decisivo (epocale?) della storia d’Italia e d’Europa, e più in generale dell’umanità e del Pianeta. Seguendo le “istruzioni” del filosofo si può interpretare la Resistenza dal punto di vista della storia, della filosofia della storia e della storia personale dei suoi protagonisti. Se si adotta come chiave di lettura il rapporto tra Resistenza e Storia, quegli avvenimenti possono essere considerati sotto tre aspetti diversi:

1. una svolta, sul piano della storia d’Italia e d’Europa;

2. un cambio di paradigma, sul piano della filosofia della storia;

3. una scelta, sul piano della storia personale.

Una svolta
La Resistenza è stata “una mediazione”, un “anello di congiunzione” tra l’Italia prefascista e l’Italia repubblicana: «Rispetto al fascismo è stata una svolta, rispetto all’Italia prefascista, un ricominciamento su un piano più alto: insieme frattura e continuazione». Infatti, i venti mesi della guerra partigiana hanno impresso un nuovo corso alla nostra storia: «Se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa». In questo senso essa è «il punto di partenza della nuova storia d’Italia». Non si potrebbe esprimere meglio il senso della novità radicale introdotta dalla guerra partigiana meglio che con queste parole di Bobbio che risalgono al 1972: «Resistenza e Repubblica democratica fanno tutt’uno, altrettanto fanno tutt’uno fascismo e negazione radicale di ogni principio di democrazia». Si tratta di un punto fermo che all’inizio degli anni Novanta, ribadendo l’antitesi integrale tra fascismo e antifascismo, Bobbio ripete ancora una volta, perché erano in tanti allora, e sono in tanti ancora, a non voler sentire: «La Resistenza ha segnato la grande frattura tra l’Italia di ieri e l’Italia di oggi».

Un cambio di paradigma
La Resistenza nella lettura di Bobbio è un grande tema di filosofia della storia, intesa la storia non come «un parco ordinato in cui ciascuno possa scegliere comodamente la strada che più gli conviene» ma come «una selva intricata, dove non vi è libero che un piccolo sentiero che conduce all’aperto. Nei momenti cruciali ci pone di fronte a dure alternative. O di qua o di là». Bobbio ascolta la lezione di Benedetto Croce: la storia è storia della libertà e, se ha un senso, questo sta nello sviluppo sempre più ampio di tutte le libertà, e civili e politiche. Ma egli si allontana dalla lezione del maestro, aggiungendo che il senso ultimo della storia è da ritrovare «nella progressiva diminuzione delle diseguaglianze, nella rottura delle barriere tra le nazioni, nella formazione graduale di un ordine internazionale nella pace, nella solidarietà, nella fratellanza».
Qual è il principale insegnamento della Resistenza? Alla domanda egli dà in primo luogo una risposta esistenziale: «L’aver partecipato alle ansie e alle speranze della resistenza mi ha insegnato a vedere la storia dalla parte degli umili, dei poveri, degli oppressi a vedere in loro la forza di domani». Alla stessa domanda dà in secondo luogo la risposta del filosofo: «Nella storia dei rapporti tra governanti e governati si è sempre contrapposto il dovere di obbedienza invocato dai sovrani al diritto di resistenza invocato dai popoli. Ebbene, la Resistenza è stato un gigantesco fenomeno di disobbedienza civile in nome di ideali superiori come libertà, eguaglianza, giustizia, fratellanza dei popoli. Richiamarsi alla Resistenza oggi vuol dire richiamarsi al valore perenne di questi ideali, rispetto ai quali si giudica la vitalità, la nobiltà, la dignità di un popolo».

Una scelta
Sul piano della storia individuale la Resistenza è stata «l’avvenimento straordinario della nostra vita, quello che ci ha consentito di sentirci di nuovo uomini in un mondo di uomini, di aprire il nostro animo alla speranza di un’Italia più civile»; come fatto personale, «la partecipazione alla Resistenza è stato un evento decisivo: un atto di rinnovamento, di rigenerazione, di rottura col passato, che ha spaccato la nostra vita in due parti: dalla soggezione alla libertà, dall’inerzia all’azione, dal silenzio alla parola»; quei giorni «hanno diviso in due parti contrapposte non più destinate a ricongiungersi e, sia detto una volta per sempre, storicamente irreconciliabili, non solo la nostra vita, ma la storia di questo secolo».
La Resistenza è stata «un atto di libera scelta» da parte di chi, «accettando la responsabilità e il rischio di una lotta senza quartiere, si era trovato solo di fronte alla propria scelta»; la scelta «fatta allora da molti che non avevano avuto molti lumi ma hanno saputo accendere la scintilla del grande incendio». Una scelta decisiva per l’avvenire del Paese compiuta da coloro che «seppero fare la scelta storicamente giusta»; una scelta che «vive nel cuore, nel ricordo e nelle speranze, dei compagni che l’hanno combattuta sul serio, e che sono pronti a ricombatterla qualora il fascismo dovesse impadronirsi ancora una volta del potere»; una scelta che col passare del tempo continua ad apparire «non meno necessaria» e «non meno giusta».

Pietro Polito è direttore del Centro studi Piero Gobetti

«Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso». La Resistenza continua

A person holds up a carnation as people gather at the nightclub, the scene of the New Year's Day attack, in Istanbul, Tuesday, Jan. 3, 2017. The Islamic State group claimed responsibility for the attack killing 39 people saying a “soldier of the caliphate” had carried out the mass shooting to avenge Turkish military operations against IS in northern Syria. (AP Photo/Emrah Gurel)

Per comprendere il grande valore di questa ricorrenza i più giovani dovrebbero fare qualche chiacchierata con i loro nonni o, meglio ancora, con quei bisnonni che nel 1943, durante la seconda guerra mondiale, imbracciarono le armi per liberare l’Italia da fascisti e nazisti, dando vita alla Resistenza. L’Italia si trovò spaccata in due: al Sud le truppe anglo-americane che liberavano dai fascisti e dalle milizie tedesche l’Italia meridionale; al Nord, la Repubblica Sociale, fondata da Benito Mussolini, per governare i territori ancora sotto il dominio tedesco. Durante questo grande sacrificio di vite umane, molti italiani decisero di contrapporsi agli orrori nazisti diventando partigiani. Si trattava per lo più di gente comune: giovani studenti, operai, contadini, preti, persone che si organizzarono nel movimento di Resistenza per la Liberazione dagli “invasori”. Nel 1945, a metà aprile, i partigiani proclamarono l’insurrezione generale e cominciarono una serie di attacchi per liberare le maggiori città italiane. I combattimenti proseguirono fino ai primi giorni di maggio, la festa della Liberazione si celebra tuttavia il 25 aprile, in memoria del giorno in cui partì l’appello per l’insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano, che poi portò proprio alla liberazione delle due città più grandi del Nord, Milano e Torino.

Le rappresaglie tedesche furono brutali e spietate: 335 civili (tra cui donne e bambini) furono massacrati a Roma nella strage delle Fosse Ardeatine e 1.830 vittime (tra cui donne e bambini) si contarono nella strage di Marzabotto, nei pressi di Bologna. Alla fine le vittime della rappresaglia nazista furono più di 23mila in circa 5.550 episodi criminali, compresi nell’arco cronologico che va dal luglio del 1943 al maggio del 1945. Fu una lunga e cruenta lotta: da un lato, la dittatura nazi-fascista, cioè il potere, con violenza e arbitrio come unica legge; dall’altro, i movimenti antifascisti che agognavano un’Italia libera e democratica.

Nel settantacinquesimo anniversario della Liberazione credo abbiamo bisogno, più che mai, di rimarcare l’importanza delle nostre libertà e di tornare a guardare al futuro con fiducia e spirito di unità e solidarietà. È il giorno in cui l’Italia celebra il ritorno alla democrazia. Sono convinto – a proposito dell’ultima polemica sul celebrare questa data come quella che ricordi tutte le vittime del coronavirus – che il 25 aprile sia già da quest’anno la data in cui ricorderemo anche i caduti di questa terribile epidemia. Dirò di più. Quando usciremo da questa terribile pandemia, dedicare una giornata di ricordo per queste vittime sarà un ottimo proposito. Non sarà e non potrà mai essere il 25 aprile perché in questa data si ricorderà per sempre la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista e dalla guerra. Il 25 aprile, “Bella Ciao” risuonerà ancora nell’aria, e così come si contrappose al virus del fascismo e del nazismo si contrapporrà idealmente anche a quello del Covid-19.

Mi piacerebbe molto che assieme al mio pensiero i giovani riflettessero anche su ciò che disse molti anni fa Piero Calamandrei. «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, oh giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione». Sbaglia ed è in malafede chi afferma che la Resistenza sia stata una lotta sanguinaria di tipo militare. Fu, al contrario, un moto di riconquista civile e di speranza. Oggi più che mai sono convinto che la Resistenza non sia ancora finita. Occorre che essa continui e cammini con le gambe dei più giovani. Non è così difficile determinarne i suoi nuovi obiettivi.

Primo fra tutti, quello di tramandare proprio ai più giovani la memoria. Quanti di loro sanno chi furono i fratelli Cervi? Quanti sanno chi erano Felicetto Dominici, Ubaldo Marchioni, Livio Sandini o Ughetto Forno? Quanti sanno il nome di quel ragazzo che prima di essere fucilato dai tedeschi va verso un soldato che formava il plotone d’esecuzione e lo abbraccia dicendogli: “Muoio anche per la tua libertà”. Temo siano in pochi a saperlo! Non per colpa loro, ma probabilmente perché studiano quella parte di storia che esclude gli avvenimenti del fascismo e dimentica completamente la Resistenza. Di conseguenza affermo con forza che devono essere proprio i docenti, i nuovi divulgatori della Resistenza e devono aiutare i giovani, che saranno i governanti di domani, a diventare una nuova classe dirigente, consapevole del passato e custode dei valori che questa ha lasciato alle future generazioni. La Resistenza non appartiene a nessuno è di tutti gli italiani ed è un invito al dialogo e al confronto costruttivo per parlarsi e rispettarsi. C’è ancora molto da fare ma come diceva qualcuno più importante di me: “Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso”.

Vincenzo Musacchio, giurista, docente di diritto penale, dal 2018 associato della School of Public Affairs and Administration (Spaa) presso la Rutgers University di Newark (USA), Presidente dell’ Osservatorio Antimafia del Molise e Direttore Scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise.

«Racconto storie per un Paese di smemorati»

Roma, Museo ferroviario di Colonna Ascanio Celestini - Barzellette ©Musacchio, Ianniello & Pasqualini ******************* NB la presente foto puo' essere utilizzata esclusivamente per l'avvenimento in oggetto o per pubblicazioni riguardanti Ascanio Celestini *******************

Ascanio Celestini, attore, regista, drammaturgo, uno dei massimi interpreti del teatro di narrazione, è da sempre anche un artista militante che ha legato la propria attività all’impegno civile. Tra i suoi spettacoli ricordiamo Radio Clandestina, Fabbrica, Scemo di guerra, La pecora nera, Il razzismo è una brutta storia, Laika, il film Viva la sposa.
Paolo Volponi alla fine degli anni 80 scrive che è come se si fosse «annullata la profondità del mondo». Tu che fai teatro politico, militante, come pensi si possa tornare a creare senso, senso critico, in un mondo dominato dalle merci, dove anche la cultura si consuma e si esibisce?
Facciamo un incontro a Casetta Rossa, uno spazio autogestito a Roma, si parla di immigrazione e io partecipo perché racconto storie. Fino a qualche anno fa ero convinto che ci fosse il bisogno di far conoscere la condizione degli ultimi, raccontare lo scandalo della Storia passata e presente. Ma oggi, fuori dagli spazi frequentati da chi ha coscienza e conoscenza, ho il dubbio che sia meglio raccontare meno. Non possiamo rischiare di raccontare a chi non ha gli strumenti per capire. Ho paura che il mio vicino di casa mi dica semplicemente che non gliene frega niente dei migranti, di chi muore sotto le bombe. Prima di comunicare dobbiamo ritrovare una lingua comune altrimenti ci parliamo addosso come turisti che spiegandosi a gesti riescono a farsi indicare dove sta la spiaggia o la stazione del treno. Non penso che il mio vicino se ne frega del migrante, penso che abbia perso degli strumenti, allora dobbiamo fare manutenzione. È la nostra maniera di essere umani tra gli umani che funziona male. Gli ultimi subiscono più di altri questo vuoto, ma il problema riguarda tutti. E quando mi chiedi come si possa fare per “tornare a creare senso” ti rispondo che dobbiamo partire dagli strumenti che sappiamo usare, da quelli che ci funzionano ancora. Al mio ipotetico vicino di casa non posso parlare di cose che non conosce con una lingua che non conosce. Devo parlargli di me e di lui, della nostra vicinanza. Questo può essere un punto di partenza. Con la speranza che ci faccia arrivare da qualche parte.

Le televisoni berlusconiane, commerciali, i giornali di destra (Il giornale, Libero, La verità) hanno cannibalizzato il modo di pensare degli italiani con il loro linguaggio? Un linguaggio rozzo, aggressivo, spesso violento.
Ti racconto un fatto. Mi chiamano all’Asinara per un incontro e ci vado volentieri. Fortunatamente quel posto non è più una galera infame. La natura se l’è ripreso. E durante un giro turistico, annesso alla parte più intellettuale, la guida ci parla degli asinelli albini che stanno sull’isola. Sono abbastanza malconci, così ci dice, perché vedono male. Normalmente gli animali si studiano da lontano prima di arrivare allo scontro e spesso si fermano prima di darsele, ma loro non possono per un difetto di vista. Così si avvicinano e quando cominciano a studiarsi è troppo tardi: si attaccano fisicamente. Ecco. Io penso che in questi ultimi anni, forse dagli anni 80, la comunicazione ci abbia abituato a un’errata visione del mondo e delle relazioni. Oggi abbiamo difficoltà a misurare le distanze. Quando cominciamo a usare un linguaggio violento, non abbiamo più il tempo per tornare indietro…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 24 aprile 

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